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Dicembre 2007

Il Cardinale ed il partito democratico: sbagliato l’appello in favore dei teodem
di Salvatore Sfrecola

“Bertone e il Pd: i cattolici non vengano mortificati”, così titola il Corriere della Sera oggi a pagina 13, per dire dell’intervento del Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità presso Walter Veltroni. Lo ha rivelato lo stesso Cardinale in un’intervista a Famiglia Cristiana.
Istintivamente l’iniziativa non mi è piaciuta. Per il ruolo del Cardinale, innanzitutto, al vertice del Governo temporale della Chiesa, espressione immediata del Santo Padre che, in qualche modo, viene coinvolto in una vicenda che riguarda un partito politico. Anche il confronto con il vecchio Partito Comunista Italiano, vero nella sostanza (basti pensare alla posizione presa da Togliatti sui Patti Lateranensi e sulle norme costituzionali riguardanti la funzione della famiglia nella società), appare poco opportuno.
Ad essere poco opportuno, comunque, è l’intervento del Cardinale nel suo complesso. Perché non si limita ad esprimere la preoccupazione della Chiesa per la considerazione riservata ai cattolici nella società e nei partiti, certamente legittima, ma interviene in un singolo partito, che vive un passaggio difficile, quello della sua strutturazione come forza politica nella società, considerate le varie anime che lo compongono. Tra cui l’anima cattolica evidentemente compressa dall’integralismo neocomunista, in particolare dopo lo “strappo” della Binetti che non ha voluto votare il decreto che conteneva la norma sull’omofobia, frutto di un emendamento dell’ala sinistra del Partito e dello schieramento governativo.
Il Segretario di Stato che interviene a difendere i cattolici in un partito fa, a mio sommesso giudizio, come si usa dire, un doppio errore. Perché dialoga con un singolo partito e perché dà l’impressione, considerata l’autorevolezza della sua carica, di essere stato costretto ad un intervento per le difficoltà che i cattolici trovano nel Partito Democratico, così sottolineandole, facendone quasi una componente “protetta” dalla Chiesa che viene esposta a presumibili attacchi o ritorsioni. Una difficoltà certamente reale che, in tal modo, viene accentuata. È come quando il bimbo corre a chiedere aiuto alla mamma che, se è saggia, gli dice “impara a camminare con le tue gambe ed a farti rispettare”. Binetti e compagni cosiddetti teodem (dobbiamo dire così ormai!) non ci fanno una bella figura. E se sono stati loro a chiedere l’intervento del Cardinale hanno dimostrato scarsa sensibilità politica coinvolgendo la Chiesa in una questione di partito, alla ricerca di una “visibilità” che nessuno può dar loro se non se la conquistano.
Non mi è mai piaciuto, ma stavolta devo dire il classico “l’avevo detto”, quando sottolineavo che il PD non è altro che un nuovo nome del partito comunista, con meno classe di quello d’un tempo, come ha sottolineato il Cardinal Bertone. E anche questo è certamente vero, ma è un po’ una gaffe, per un diplomatico!
30 dicembre 2007

L’insopportabile costo dell’inefficienza
di Salvatore Sfrecola

“Il settore pubblico deve ridurre il peso della spesa corrente e migliorarne la qualità”. Così, a fine settembre, il Ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa. Tempo tre mesi e la finanziaria 2008, secondo valutazioni della Fondazione Civicum, ci presenta una pubblica amministrazione più costosa di 94 miliardi rispetto al 2006.
Eppure, ripeto da anni, non è solo questione di costi. La P.A. è il motore del Paese, la più grande azienda italiana di servizi. Il fatto è che la qualità di questi servizi non è all’altezza del compito grande di un’amministrazione moderna.
Costi e inefficienza che si sommano ai “costi della casta”, come è stato detto. Ancora miliardi per centinaia di migliaia di pubblici amministratori, eletti o nominati, loro consulenti, segretari, famigli e guardaspalle. E ancora inefficienza, incapacità di percepire l’interesse pubblico. Mentre altrove il pubblico è sinonimo di efficienza, di orgogliosa efficienza, del potere politico proteso al perseguimento del bene comune, in Italia la P.A. continua ad essere un peso per l’economia. Non che l’imprenditoria privata sia particolarmente efficiente. Anzi, spesso è assistita dalla P.A., se non altro perché ai privati stato ed enti pubblici si rivolgono per ingenti acquisti di beni e servizi che condizionano i conti delle imprese. Per molte delle quali, soprattutto del Nord, gli enti pubblici sono il migliore cliente, anche se pagano in ritardo.
L’inefficienza della P.A. non è ulteriormente sopportabile.
Troveremo nel 2008 qualche forza politica che si dia carico di questo problema prioritario per qualunque governo che voglia effettivamente governare? A questo appuntamento è mancato paurosamente il centrodestra nei suoi cinque anni di governo con la maggioranza parlamentare maggiore della storia. Manca il centrosinistra oggi.
Il “Trattato di Lisbona” sul funzionamento dell’Unione Europea, sottoscritto il 13 dicembre 2007, dà valore cogente alla “Carta dei diritti fondamentali”, proclamata solennemente il 7 dicembre 2000 a Nizza, che all’art. 41 afferma il “diritto ad una buona amministrazione”. Riuscirà l’Europa ad imporci un cambio di rotta?
30 dicembre 2007

Mandiamo a casa i pasticcioni
di Salvatore Sfrecola

Dico da tempo, ed adesso più autorevolmente lo ribadisce Massimo Franco nell’editoriale del Corriere della Sera del 18 dicembre, che sono troppi ormai, e troppo frequenti, i “pasticci” che caratterizzano l’azione dei pubblici poteri in questa stagione politico-amministrativa nel nostro Paese. Gli esempi che vengono immediatamente alla mente sono quelli della bocciatura del Governo a seguito della vicenda Petroni, il Consigliere di amministrazione della RAI destituito da Padoa Schioppa e reintegrato dal Consiglio di Stato, e della vicenda Speciale, il Comandante generale della Guardia di finanza destituito e reintegrato dal Tribunale Amministrativo del Lazio, sia pure con sentenza ancora soggetta ad appello.
Due esempi, che casualmente coinvolgono lo stesso Ministro, quello dell’economia e delle finanze, ma che, in realtà, riguardano anche il Presidente del Consiglio, che di quegli atti era in qualche misura corresponsabile, in un caso (Petroni), perché a conoscenza della vicenda che aveva destato generale interesse e contrapposto i Poli, nell’altro(Speciale) perché il provvedimento portava anche la firma di Prodi.
Provvedimenti emessi, l’uno, in violazione del procedimento previsto dalla legge (Petroni), l’altro assolutamente immotivato (Speciale). Com’è possibile che sia avvenuto? Che siano stati commessi errori grossolani che avrebbe sicuramente evitato uno studentello di giurisprudenza poco più che matricola? Errori, invece, non rilevati dagli illustri giuristi che circondano il Presidente del Consiglio ed i ministri? Ho una teoria e la voglio esporre. Vi è una categoria di grand commis di grande preparazione ma di scarso coraggio, che non sono pronti a mettere in discussione il loro incarico per contrastare il politico potente che pretende illico et immediate il provvedimento che attua la sua scelta politica, la rimozione di Petroni o il defenestramento di Speciale. Questi consiglieri sono proni al volere del politico, sono yes men pronti a tutto pur di non entrare in conflitto, sia pure occasionale, col politico di turno. Per non mettere in forse l’“indennità di gabinetto”, quella somma, più o meno consistente, che compensa lunghe giornate in ufficio, spesso fino a tarda ora ed i tanti bocconi amari, fatti ingoiare, soprattutto dall’entourage dei politici, arrivisti con poca professionalità e tanta maleducazione. Quanti ne ho visti nelle mie peregrinazioni tra i palazzi del potere di questi illustri yes men! Servono al politico non servono al Paese. Sogno che tornino a casa.
Roma, 18 dicembre 2007

Gianfranco Fini e l’occasione perduta
di Salvatore Sfrecola

I segnali c’erano stati tutti, da tempo, ma evidentemente Gianfranco Fini non li ha colti. E neppure i suoi collaboratori politici, con i quali si confida e che lo consigliano, primo tra tutti Andrea Ronchi, il Portavoce. Aveva cominciato Bondi, in un’intervista a La Repubblica, sul finire della scorsa legislatura, passata evidentemente inosservata. Parlava di vocazione centrista di Forza Italia, di possibili intese con la Sinistra moderata, per governare con un’ampia maggioranza. Tagliando le ali, AN a destra, Rifondazione e Comunisti italiani a sinistra. Un programma che corrisponde alla logica politica di un leader che ambisce trasferirsi, al momento opportuno, al Quirinale. Un segnale non colto.
Ugualmente Gianfranco Fini non ha percepito che Berlusconi lo ha sempre contenuto, pur facendogli balenare nei giorni pari, per smentirlo nei giorni dispari, la successione alla guida della coalizione.
Un’ipotesi alla quale non avrebbe dovuto credere, perché illogica. Come avrebbe potuto Forza Italia cedere la leaderschip al capo di un partito che arriva ad un terzo della sua consistenza elettorale? Un’ipotesi che avrebbe dovuto vedere, sia pure cautamente, un’esposizione governativa del leader di AN. Niente di tutto questo. Berlusconi non ha voluto dare a Fini la minima soddisfazione governativa, neppure la famosa Cabina di regia, nonostante fosse evidente che si trattava di poco più di niente. Nessuna possibilità d’incidere sulle scelte di politica economica, di fronte al colosso dell’economia, con Tremonti al timone. Via XX Settembre ha tali e tanti poteri che Gianfranco Fini da Palazzo Chigi, anche con il reclutamento di qualche Premio Nobel, promesso da Baldassarri, avrebbe potuto fare ben poco. Anzi niente. Come voler fare sollecito ad un elefante con una piuma. Che Berlusconi non volesse dare spazio, visibilità concreta a Fini lo dimostra il ballon d’essai della sua candidatura a Ministro delle attività produttive e poi, con le dimissioni di Tremonti, dell’economia e delle finanze. Nessuna importante funzione di governo è stata mai proposta a Fini, neppure la Funzione pubblica, dopo il passaggio di Frattini agli esteri. Sarebbe stato importante avere in mano le riforme ed i contratti del pubblico impiego per motivare l’apparato ed offrire all’esterno un’immagine efficiente dell’Amministrazione. Niente da fare. Ad oltre metà della legislatura Fini è andato agli esteri, per caso, per la disavventura europea di Buttiglione e la sua sostituzione con Frattini. Ha avuto gli esteri per l’assoluta inconsistenza, rispetto alla politica interna, di quell’amministrazione, una vetrina internazionale che ha certamente soddisfatto la vanità di Fini e lo ha tenuto lontano dalla politica italiana. Con il risultato che non si è accorto che l’“occasione mancata”, come mi ha suggerito di intitolare il libro al quale avrei consegnato alcune riflessioni, di taglio rigidamente istituzionale, sui miei cinque anni a Palazzo Chigi, è stata in realtà per lui un’“occasione perduta”. Si è scoperto improvvisamente leader “laico”, dispiacendo la Chiesa, che pure aveva scommesso sul leader moderato dai valori nazionali e tradizionali, che avrebbe potuto convergere al centro. Ha perduto l’identità di destra per le piroette con le quali si è preoccupato soprattutto di stare sui giornali dicendo ogni giorno una cosa diversa e in contraddizione con la dichiarazione del giorno prima. Con la conseguenza di perdere l’ala democratico liberale e cattolica, da Fisichella a Fiori a Selva, e quella più legata alla storia del vecchio MSI. Adesso alza la voce contro Berlusconi che chiede ad AN di confluire nel nuovo partito. Troppo tardi. I giochi sono fatti. È l’ultima chiamata. Se avesse giocato d’anticipo facendo pesare la storia della Destra democratica al tavolo del governo Berlusconi oggi sarebbe stato tra i soci fondatori del nuovo Partito del popolo della libertà. Entrerà, non ha alternative. Ma dovrà farlo col cappello in mano, con truppe probabilmente dimezzate.
10 dicembre 2007

Veltroni e il dissenso di Dini: se gratti trovi il comunista gretto
di Senator

Si dice “democratico” ed è leader di un partito che quell’aggettivo qualifica, ma gratta gratta compare il comunista intollerante. Veltroni si chiede, infatti, “che democrazia è se 3 senatori contano più di milioni di voti”. Eppure il governo Prodi si è retto finora con altrettanti voti di senatori a vita, cioè di personaggi che siedono a Palazzo Madama senza essere stati eletti da nessuno. E, alterando le regole della democrazia, tengono in vita un governo senza maggioranza, sostituendo, loro, che non hanno neanche un voto popolare, i voti dell’opposizione nel bilanciamento del consenso. Fin qui una regola della democrazia impunemente violata. Ma Veltroni sbaglia anche quando minimizza il dissenso dei liberal democratici di Dini come dei cattolici alla Binetti. I primi sono rimasti coerentemente fuori del PD, convinti che sia, come dico da tempo, nient’altro che l’ultimo nome assunto dal P.C.I. dalla pelle cangiante. I cattolici democratici, ex sinistra cattolica il Sindaco di Roma riteneva di averli imbarcati a scatola chiusa, con un’operazione di vertice definita tête a tête con Rutelli. Ma che democrazia è questa, caro Veltroni, nella quale le decisioni su questioni importanti della finanza pubblica e della sfera personale, destinati ad avere ripercussioni gravi sulla società (con il clima che si è creato gli omosessuali ormai dilagano perfino nella pubblicità televisiva, fanno moda, con effetti negativi sull’educazione dei giovani ai quali si confondono le idee), si assumono nelle stanze anguste dei segretari di partito senza un dibattito, per non perdere un pugno di voti? Costringendo al silenzio gli eletti, ovvero i nominati, secondo la pessima legge Calderoni, definita dallo stesso “una porcata”, il porcellum, che tutti criticano ma che fa molto comodo a quanti detengono le leve del potere nei partiti. Ma in questo caso Veltroni non si chiede “che democrazia è”!
9 dicembre 2007

Ancora la Binetti: scopre che a destra “l’accettazione di certi valori” è “più chiara”
di Senator

Paola Binetti, senatrice PD teodem, continua a tenere la scena, dopo il voto contrario all’emendamento “antiomofobo” tanto cara alla sinistra radicale e non solo. Intervistata da Il Tempo di oggi, a pagina 3, mentre i prodiani scatenati ne chiedono la testa, alla domanda se si fosse resa conto che, per la sua posizione, “è diventata un’eroina del centrodestra” la Senatrice, che solo qualche mese fa aveva orgogliosamente detto a E-Polis “sono di sinistra” aggiungendo che lì sono i suoi valori, stavolta dice “c’è sicuramente un po’ di strumentalità, ma è indubbio che nel centrodestra l’accettazione di certi valori sia più chiara e meno discussa”. Forse ha ricordato di aver fatto parte a Palazzo Chigi della Commissione sulla famiglia voluta da Gianfranco Fini allora Vicepresidente del Consiglio. Aggiunge “la mia posizione è nel centrosinistra” non senza sottolineare che la manovra finanziaria per il 2008 ha grossi nei. “Sulla famiglia, precisa, siamo profondamente insoddisfatti”. Bene, senatrice Binetti, le difficoltà forgiano gli spiriti. Così si guadagna un po’ di simpatie, considerati i bocconi amari che deve aver ingoiato in questi mesi di militanza a sinistra e in previsione di quelli che l’attendono in casa PD, un partito di neocomunisti, ambigui compagni di viaggio per una cattolica doc. Almeno Togliatti, che aveva saputo mediare prima con la Monarchia poi con la Chiesa, schierava personaggi “ruspanti” alla Peppone. Duri e puri. Oggi di puri ce ne sono pochi e contano sempre meno. Restano i “duri”, le teste d’uovo tecnocratiche, professionisti abituati a calibrare la gestione del potere fra consigli di amministrazione e scalate alle finanziare protette dalle giunte rosse. Dai Binetti, vira a destra o, almeno, al centro.
8 dicembre 2007

La Binetti scopre “rigurgiti” comunisti nel Partito Democratico
di Senator

Caro direttore, consentimi due considerazioni sulla Senatrice Binetti, teodem, per la presa di posizione ieri al Senato, in occasione della votazione di un emendamento al decreto legge sulla sicurezza, in quanto contraria alla norma sulle discriminazioni sessuali e di genere. Il collega di Partito (democratico) Andrea Papini, deputato, la bacchetta e ne chiede l’espulsione. “È intollerabile, dice, che una senatrice PD voti contro il governo”. Lei replica “non mi aspettavo davvero che all’interno di un partito che si dice nuovo ci siano riflessi da vecchio Partito comunista italiano”. Povera Binetti, sprovveduta o finta ingenua? Forse finalmente si accorgerà che il Partito democratico non è altro che l’ultimo nome del Partito Comunista Italiano, nel quale i “cattolici di sinistra” faranno solo da alibi per i comunisti di sempre, perché possano dire di non essere più tali. Come quando inserivano nelle liste i cosiddetti “indipendenti”, che facevano pudicamente un gruppo parlamentare autonomo, ma erano sempre pronti a votare con il PCI. È la grande responsabilità che si sono assunti Rutelli e compagni (ormai si deve dire così) i quali hanno svenduto ai neocomunisti la tradizione, tutto sommato dignitosa, del cattolicesimo popolare di sinistra per un potere effimero, qualche poltrona di ministro, qualche consigliere di amministrazione. Teodem, ma in realtà comunisti anomali, come la Bindi!
7 dicembre 2007

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