sabato, Novembre 23, 2024
HomeAnno 2008Maggio 2008

Maggio 2008

Occorrono interventi urgenti
Emergenza inflazione

di Oeconomicus

Con il 3,6%, contro il 3,3% di aprile, l’inflazione torna ai livelli dell’agosto del 1996. I prezzi, su base mensile, secondo le rilevazioni Istat, sono aumentati dello 0,5%. L’indice armonizzato dei prezzi al consumo registra a maggio una variazione del +0,6% su aprile e del +3,7% su maggio 2007 (contro il +3,6% registrato ad aprile 2008). L’inflazione di fondo si porta al 2,6%, mentre il tasso di inflazione acquisito è del 3%. A maggio gli incrementi tendenziali più elevati si sono avuti per abitazioni, acqua, elettricità e combustibili (+6,8%), trasporti (+6,2%), prodotti alimentari e bevande analcoliche (+5,7%). In calo comunicazioni (-3,5%) e servizi sanitari e spese per la salute (-0,2%). Gli aumenti congiunturali più significativi hanno riguardato i trasporti (+1,8%), abitazione, acqua elettricità e combustibili (+0,6%) e servizi ricettivi e di ristorazione (+0,5%). In calo dello 0,7% il capitolo comunicazioni e dello 0,2% quello ricreazione spettacoli e cultura. Non è solo una situazione italiana. A maggio, infatti, secondo dato Eurostat, nell’insieme dei 15 Paesi dell’eurozona, l’inflazione è tornata a salire e secondo le prime stime si è attestata al 3,6%, lo stesso livello già toccato nel marzo scorso. Ad aprile il tasso d’inflazione nell’area dell’euro era invece sceso al 3,3%. Al di là delle cifre, drammaticamente eloquenti, vi è il dato sociale. Il peso, insopportabile che la situazione determina per le fasce più deboli della popolazione, quelle famiglie al di sotto della soglia della povertà che qualche giorno fa lo stesso Istat aveva indicato in aumento. L’incremento dei prezzi riguarda, infatti, i generi di prima necessità, gli alimentari, ad esempio, il pane, con un +12,9% su base annua, la pasta, con un +20,4%, il latte, con un +11,1%, la frutta, con un +6,8%. Forti aumenti tendenziali anche per la carne (+3,9%), soprattutto quella bovina (+4,7%). Rallenta solo il pollame (+4,9%). Ma nel settore alimentare l’accelerazione dei prezzi è generalizzata, con un incremento congiunturale dello 0,4%. Per gli alimentari lavorati l’incremento sul mese è dello 0,5% e quello sull’anno del 6,2%. Per quelli non lavorati i due dati sono rispettivamente +0,4% e +4,9%. Su tutti i prezzi incide, poi, l’aumento dei carburanti, con contraccolpi pesanti anche per i trasporti. In base alle rilevazioni Istat, a maggio la benzina ha registrato un balzo del 5,2% su aprile e del 10,9% sull’anno. Per il gasolio l’aumento è stato ancora più alto con un +6,7% congiunturale e un +26,2% tendenziale. Rialzi che hanno inciso sui trasporti che complessivamente fanno segnare un +1,8% sul mese e un +6,2% sull’anno. Più in dettaglio nei trasporti aerei si registra un aumento tendenziale del 14,2% i in quelli marittimi dell’8%. E’ allarme rosso, che richiede un intervento deciso. Prezzi in crescita e salari bassi costituiscono una miscela esplosiva che desta grande allarme sociale, “In una fase internazionale di alta inflazione – ha detto il Segretario generale della CGIL, Epifani – questo problema deve diventare una priorità per il governo molto più degli straordinari”. E’ una sfida che Governo e Parlamento devono raccogliere, con iniziative appropriate, prima di tutto sul fronte del fisco, lo strumento di elezione di una politica economica che abbia effetti a breve, sulle famiglie e le imprese. Non c’è tempo da perdere. E’ come l’emergenza rifiuti, lo Stato rischia che l’attuale, preoccupante malessere sociale, che ha accompagnato l’introduzione dell’euro e le speculazioni che lo hanno seguito, diventi fonte di una protesta incontenibile, che accomunerebbe vasti strati della popolazione, con effetti devastanti sulla società, anche con problemi di ordine pubblico. Occorre adottare misure urgenti che l’attuale clima politica fa prevedere possano essere condivise dall’intera classe politica. Misure significative dall’effetto immediato, ripristinando anche un monitoraggio dei prezzi che consenta di individuare le cause effettive e quelle speculative degli aumenti, in modo da individuare con consapevolezza le misure da adottare.
31 maggio 2008

Il giudice deve sempre applicare le leggi
ma è un tecnico del diritto e conviene ascoltarlo
quando si vuole modificarle

di Salvatore Sfrecola

Il tema è delicato, anzi delicatissimo, e, proprio per questo va affrontato sine ira ac studio, come dicevano i nostri antenati saggi e, visto che lo diciamo in latino, anche giuristi seri. Può un magistrato, in sostanza, esprimere valutazioni su una proposta di legge o su un decreto legge (norma da adottare, ai sensi dell’art. 77, comma 2, Cost., “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”)? Affrontiamo il tema con visione complessiva dei rapporti tra giudice, classe politica e sistema normativo, sgombrando innanzitutto il campo da un equivoco di fondo, frequente e comunque pericoloso, sia dovuto a ignoranza o malafede: “il giudice applica la legge”, titola oggi Libero, a pagina 9, per un articolo di Iuri Maria Prado. E fin qui nulla quaestio, come si dice. Compito del giudice è applicare la legge. Ma non è un fatto automatico. La legge spesso offre più possibilità di interpretazione in relazione al caso concreto, per cui sono possibili diverse e divergenti pronunce. Ovviamente parliamo di pronunce “possibili”, cioè di corrette interpretazioni della norma, in relazione alla lettera ed alla ratio del precetto che viene in rilievo. Interpretazioni diverse che potrebbero essere anche frutto dell’influenza che, nella decisione concreta possono avere taluni principi costituzionali. La legge fondamentale dello Stato, infatti, è sempre un parametro di riferimento delle leggi ordinarie. Tanto è vero che ove, nell’interpretazione della norma, il giudice ritenga che essa non possa applicarsi al caso concreto senza ledere un principio costituzionale, rimette la decisione sulla questione al giudice delle leggi. La Corte costituzionale, infatti, è stata introdotta nell’ordinamento repubblicano in conseguenza del sistema delle fonti normative che vede al vertice la Costituzione come riferimento intangibile e parametro, con i suoi principi, dell’intero ordinamento. La Corte costituzionale, infatti, non c’era nello Statuto Albertino, costituzione flessibile e, pertanto, modificabile anche da una legge ordinaria. Naturalmente quando parliamo di interpretazioni “possibili” vogliamo riconoscere piena dignità a quelle che trovano conforto nella norma e nelle regole dell’interpretazione delle leggi, con esclusione di quelle conseguenza di stravaganti od erratiche elucubrazioni mentali. Detto questo, ripeto, per evitare equivoci che potrebbero derivare da concezioni dell’applicazione della legge che la considerano quasi automatica conseguenza della richiesta dell’utente del servizio giustizia, una sorta di risposta predeterminata del tipo ticket ferroviario, vediamo l’altra questione, quella della possibilità o meno del cittadino, che fa la professione del magistrato, di manifestare una sua personale opinione in relazione ad una proposta di modifica normativa, sia il governo, un partito o un singolo parlamentare ad averla presentarla. Qui occorre ancora fare chiarezza. Prado, nell’articolo che ho già ricordato fa seguire a “il giudice applica la legge” un “non deve contestarla”. E qui c’è necessità di precisazioni. Infatti, il giudice, lo abbiamo detto, può “contestare” una legge solo sotto il profilo della sua costituzionalità. Diverso è il caso di un disegno o di una proposta di legge, in relazione alla quale non si può negare al magistrato, singolo o associato, di esprimere un’opinione dissenziente in quanto tecnico del diritto, come non si contesta ad un professore di liceo od universitario di dire la sua su un’iniziativa riformatrice che riguardi la sua istituzione. Negare questo diritto sarebbe una grave lesione della libertà di espressione del pensiero inammissibile in democrazia. Inoltre il dibattito sull’iniziativa si priverebbe dell’apporto di un tecnico, della sua esperienza e professionalità. Nel caso di specie, invece, che ha mosso il giornale, la contestazione riguarda un decreto-legge che, a giudizio dei magistrati di Napoli, “non sembra assecondare e sostenere lo sforzo profuso … per individuare gravi degenerazioni amministrative e di contenere e ridurre il danno arrecato all’ambiente e al territorio”. Il decreto-legge, lo sappiamo bene, è norma vigente a tutti gli effetti e, pertanto, i giudici “devono” applicarla, con i limiti già detti dell’eventuale sospetta incostituzionalità, da rimettere alla valutazione della Consulta. E’ norma vigente, ma con effetti temporanei, che sono stabilizzati esclusivamente dalla legge di conversione che potrebbe modificare l’impianto del decreto legge, anche sulla base delle osservazioni che provengono dall’opinione pubblica, giudici compresi. Vogliamo privarci dell’apporto di chi applica quotidianamente la legge e conosce a fondo le regole della sua interpretazione? E, nel caso specifico, opera sul territorio percependo le difficoltà dell’azione investigativa che la nuova normativa può facilitare o disturbare? Non è nell’interesse pubblico negare ai magistrati napoletani il diritto di parola. Rispetto alla quale, ovviamente, il Parlamento è sovrano. Fermo restando che la norma è applicabile fin da subito.
30 maggio 2008

Il governo in minoranza alla Camera
Uno scenario già visto

di Senator

Modesto esordio del governo in Parlamento. Nonostante la consistenza della sua maggioranza è andato sotto in una votazione. Era già accaduto più volte nel quinquennio 2001 – 2006, quando al secondo ed al terzo governo Berlusconi l’elettorato aveva assicurato la più ampia maggioranza della storia parlamentare. In un’occasione, in Senato, più volte, se non ricordo male, cinque, alla richiesta di verifica del numero legale fu accertato che i colleghi si erano squagliati. Per ricomparire al successivo emendamento, dopo la sospensione dei lavori, e tornare a squagliarsi pochi minuti dopo. Non mi risulta che i capogruppo della maggioranza siano stati chiamati dai rispettivi segretari dei partiti per un semplice discorsetto: “ragazzi, avete sbagliato mestiere. Andate a casa”. Le cause sono molte e l’indignazione di Berlusconi e Fini per quanto è accaduto è fuori luogo. Questa è conseguenza delle scelte che hanno portato in Parlamento persone di scarsa professionalità che, per essere state nominate, non elette, non hanno cognizione del loro ruolo. Pensano che tutto sia facile, mentre il lavoro parlamentare è duro e comporta studio e presenza in tutte le sedi. In una coalizione seria, dopo l’episodio di ieri, il capogruppo, che non ha saputo organizzare il lavoro in aula, va a casa. Ma è chiaro che se il leader di un partito afferma che a lui servono trenta deputati, perché gli altri votano come quelli decidono, è evidente che questo svilire il senso della squadra non porta da nessuna parte. E ne subisce le conseguenze. Lo stesso può dirsi per la modestissima squadra di governo che vede ministri e sottosegretari privi di esperienza nello specifico settore agli stessi affidato. E’ il senso di onnipotenza che affligge del Presidente del Consiglio il quale, poiché ha indiscussa capacità, si condividano o meno le sue idee, dovrebbe circondarsi di persone di valore non di yes men. Napoleone, che non riscuote particolari mie simpatie, non si circondava di cortigiani ma di persone capaci nei vari settori, dall’Amministrazione, della quale aveva massima cura, alla gestione delle forze armate, al governo di Parigi. Tanto nessuno poteva fargli ombra. Era sempre lui a dirigere e coordinare, avendo altissime capacità. Se, invece, si scelgono i collaboratori tra i più modesti della corte si corrono rischi. Ed è inutile, poi, indignarsi. Naturalmente questa mia è una riflessione istituzionale che avrei fatto qualunque fosse stato il governo in carica e che consegno alla cronaca nella speranza che non diventi occasione di riflessione storica! Chi ha a cuore il bene comune, a mio modo di vedere, deve preoccuparsi che il governo governi e l’opposizione faccia il suo. Perché questo è nell’interesse generale del Paese e perché l’elettorato valuti come si comporta la maggioranza e come la minoranza, per giudicare e scegliere, alla prima occasione.
28 maggio 2008

Impietosa analisi di Gherardo Colombo
Se mancano le regole…

di Salvatore Sfrecola

“All’angolo di una via c’è una salumeria. Entra in negozio un vigile urbano, ha il compito, tra l’altro, di verificare la bilancia. Dopo alcune allusioni, mezze frasi, e occhiatine, il vigile esce con un paio di borse della spesa ricolme. Le ha avute gratis e in cambio non ha controllato nulla. Il negoziante può continuare a vendere la carta della confezione allo stesso prezzo del prosciutto. Due piani sopra, nello stesso edificio, una signora sta pagando l’idraulico che le ha appena aggiustato il rubinetto. “Se vuole la fattura sono centoventi euro, se non la vuole novanta, un piccolo sconto.” “Faccia senza fattura, non mi serve, grazie per lo sconto.” A due passi c’è l’ufficio delle imposte. Un distinto signore sta parlando con il funzionario a proposito di una presunta evasione. Dopo un po’, quando ha capito che non rifiuterà, gli fa scivolare tra le mani una busta piena di denaro. Ancora qualche scambio di battute, si stringono la mano e si salutano: l’evasione è scomparsa. Poco più in là c’è una banca. Entra un cliente, titolare di conto corrente. Saluta il cassiere, apre la valigetta che porta con sé e pone sul banco una serie di mazzette di banconote. Il cassiere, allertato dal direttore, gli suggerisce il sistema per depositarle sfuggendo ai controlli antiriciclaggio. Intanto nella stessa banca, negli uffici della dirigenza, si approva l’idea di suggerire ai clienti meno importanti l’acquisto di bond che diverranno presto carta straccia.
Due isolati più in là c’è il palazzo di giustizia (i lavori di sopraelevazione sono stati assegnati all’impresa che ha versato una cospicua tangente). Un avvocato e un giudice stanno mercanteggiando l’esito di un processo che riguarda persone potenti. Nelle prigioni vicine un altro avvocato millanta al cliente le sue entrature con il gip che segue il processo: “Sei messo male, ma la libertà è cosa fatta con un adeguato regalo al giudice”. Nel suo studio, un altro avvocato, riceve un nutrito “fondo spese” senza fattura, esentasse. Un paio di chilometri più in là, allo stadio, c’è la partita. L’arbitro fischia un rigore assai dubbio a favore della squadra di casa, dai cui dirigenti aveva ricevuto qualche giorno prima in riconoscimento della sua competenza un bell’orologio di marca. La sera, in un luogo appartato, l’esponente di un grande partito riceve una borsa dal dirigente dell’impresa capofila nella costruzione della metropolitana. Sono le tangenti meticolosamente raccolte fra tutte le società che partecipano ai lavori. Chi le riceve chiama al telefono i colleghi degli altri partiti che contano: “Ci vediamo domani”, e l’indomani il denaro viene spartito secondo tariffe prestabilite, un tanto ciascuno, a percentuale variata a seconda del peso politico. La sera tardi, in una strada di periferia, un distinto signore contratta le grazie di una ragazzina “importata” da un paese più povero con l’inganno e ridotta tramite violenza e minacce in condizioni non lontane dalla schiavitù.
La mattina seguente nell’ospedale civile vengono impiantate valvole cardiache che si dimostreranno difettose, il cui acquisto era stato accompagnato (anche quello) da tangenti. Frattanto alcuni medici di base prescrivono ai loro clienti esami dei quali non hanno bisogno, da effettuare in cliniche private con spese a carico della regione, o specialità di industrie farmaceutiche che già li hanno invitati al convegno – weekend tutto compreso per medico e famiglia – in una rinomata località balneare. In una caserma vicina il maresciallo della fureria si porta a casa, ben confezionato per essere conservato in freezer, un quarto di bue destinato alla mensa sottoufficiali, e nei locali del comando si perfezionano contratti d’acquisto per forniture di dubbia utilità, in cambio, anche qui, di un po’ di denaro contante. Tre strade più in là c’è un cantiere edile: bussa agli uffici l’ispettore del lavoro, dovrebbe controllare presenza e adeguatezza delle misure antinfortunistiche. Gli mettono in mano un elenco di oggetti (elmetti, cinture di sicurezza, scarpe antiscivolo) e una busta (di soldi), compila la sua certificazione di regolarità del cantiere e se ne va. All’istituto delle pensioni c’è qualcuno che falsifica i dati al computer di chi l’ha pregato (con obolo) di farlo apparire professionalmente più anziano di quello che è. Senza neanche chiedere un compenso, il medico di base rilascia su richiesta telefonica un certificato di malattia al dipendente pubblico che si è allungato un po’ le vacanze. Il titolare delle pompe funebri ha stabilito un accordo con gli infermieri dell’ospedale: un tot per la notizia in esclusiva di ogni decesso. Intanto il benzinaio ha apportato qualche modifica agli erogatori di carburante, per lucrare quasi impercettibili differenze di prezzo per litro, che diventeranno sommette alla fine della settimana; i sottoufficiali della polizia tributaria sono addolciti dalla solita busta e il loro controllo dei conti della grande compagnia darà risultati del tutto regolari. La marca del cibo alla mensa scolastica è scelta in cambio di soldi; sempre per soldi qualcuno consente che in carcere entri qualche stupefacente; agenzie di pubblicità e di consulenza aiutano i loro clienti a creare fondi occulti, restituendo in nero parte del prezzo delle prestazioni. Irreprensibili imprenditori si rivolgono al crimine organizzato per far sparire i rifiuti tossici e pericolosi prodotti dalle loro aziende. Un giornalista decanta sul proprio giornale pregi e virtù del tale oggetto, dopo essere stato adeguatamente invogliato; si costruiscono e ricostruiscono alcune autostrade perché è stato lesinato il cemento; si truccano i concorsi per essere ammessi all’università; si rendono edificabili terreni che dovrebbero essere destinati a parco (ancora in cambio di soldi); si paga per farsi assegnare la costruzione della pista del nuovo aeroporto, per essere preferiti nella fornitura di materiale ferroviario, per ottenere un posto al cimitero.
Poi, c’è la mafia. C’è chi una volta al mese (là dove la mafia è più forte) passa tra i vari negozi e le imprese per raccogliere il “premio dell’assicurazione contro gli atti vandalici”, la tariffa della “protezione” garantita a chi non si oppone alla riscossione. C’è chi si infiltra nelle istituzioni, chi chiede e ottiene per la mafia la propria parte negli appalti. C’è chi traffica droga, e chi esseri umani. C’è anche (talvolta, ma c’è) chi fa degli accordi anche a bassi livelli: il poliziotto che tira a campare, e riceve favori (denaro, coca, ragazze compiacenti) in cambio di chiudere un occhio.
Trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l’apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto per ogni diritto di base. Coloro si attengono alle leggi formali (che non è detto siano pochi) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva”.
Un pugno nello stomaco, da leggere tutto d’un fiato, questo primo capitolo – il titolo “Un paese immaginario” – dell’ultimo lavoro di Gherardo Colombo “Sulle regole” (Feltrinelli, Milano, 2008), 156 pagine, ricche di analisi impietose che vogliono favorire un dibattito sui modelli di società, sulle regole, appunto. Con riflessioni approfondire su giustizia, valori, diritti e doveri, opportunità ed obblighi, in sostanza sui modelli di società a cui le regole si ispirano, modelli verticali, basati su gerarchia e competizione e modelli orizzontali, orientati al rispetto della persona, in un percorso tracciato sessant’anni fa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Costituzione italiana. Magistrato per 33 anni, Colombo ha condotto in proprio o con il colleghi del pool di Milano le inchieste più importanti di quegli anni, dal processo Ambrosoli a Tangentopoli, acquisendo una conoscenza dei meccanismi dell’illecito che si sviluppano attraverso i buchi neri di leggi e regolamenti, con complicità varie, che a volte sono omissioni dolose o gravemente colpose di pubblici amministratori e funzionari. La lettura di questo volumetto apre orizzonti di riflessione importanti, per quanti sono impegnati nelle istituzioni e nelle attività private, che concorrono a fare di questo Paese alternativamente una società civile o quel “Paese immaginario” che Colombo ha delineato in apertura del suo lavoro. Immaginario, ma non troppo!
26 maggio 2008

Un film che minimizza la Camorra
Gomorra: una bufala campana

di Salvatore Sfrecola

Una delusione, al di là delle immagini di intensa drammaticità, questo film del quale si è scritto molto, e che Giovanna Grassi sul Corriere della Sera annovera tra quelli “veri e riusciti” che “conquistano critica e platea”. Infatti, premiato oggi a Cannes con il Gran premio della Giuria. La critica va alla trama, che vorrebbe essere una denuncia del potere di quella criminalità che a Napoli ed in Campania si chiama Camorra, che soffoca città e regione rendendo amaro il tradizionale sorriso che pur continua ad albergare sulle labbra della gente di lì. Il segno triste della rassegnazione. A mio giudizio, infatti, il film è una autentica bufala, campana, ovviamente, una deludente ricostruzione della microcriminalità partenopea, tra violenze piccole e grandi nel degradato comprensorio di Scampia, dove si spaccia soprattutto droga, dove si fanno i conti delle riscossioni del “pizzo”, dove si gestisce una discarica ed il lavoro nero dei nuovi schiavi cinesi che lavorano per i grandi stilisti. Se la Camorra fosse solamente questo sarebbe stata debellata da tempo. Certo, la malavita che si serve dei ragazzini incensurati e non imputabili, che li addestra ad uccidere, che rappresenta per tanti diseredati l’unico “lavoro”, è un fenomeno gravissimo che dimostra l’assenza dello Stato, delle sue istituzioni, la scuola, innanzitutto. Che trascura le politiche dell’occupazione in un’area che potrebbe offrire abbondanti posti di lavoro nel settore del turismo, dell’artigianato e dell’industria conserviera, e nella quale, invece, l’unica possibilità pe’ faticà la offre la Camorra . Le immagini del film si fermano alla microcriminalità, mentre il fenomeno Camorra, come le altre forme di criminalità che affliggono tante aree del Mezzogiorno e non solo, prospera per una serie facilmente immaginabile di coperture politiche e di collegamenti con potentati economici. Anche quella che presenta il film di Matteo Garrone è Camorra. Ma non c’è un cenno, neppure sullo sfondo, che vada a scrutare sui finanziamenti, nazionali ed europei, dei quali la malavita tenta, spesso riuscendoci, di impossessarsi. Non c’è un cenno agli appalti pubblici, alle imprese in odore di mafia che si aggiudicano i subappalti, che gestiscono varianti ed atti aggiuntivi a contratti milionari, con il solo scopo di lucrare ingenti somme dalla realizzazione di opere pubbliche. E’ per questo motivo che Striscia la Notizia denuncia, con cadenza quasi quotidiana, segnala opere imcompiute, male eseguite, sprechi di denaro pubblico che mortificano la politica ed il cittadino contribuente. Di tutto questo non c’è traccia nel film. Non so se è fedele al libro, che ho comprato ma non ancora letto, ma se è così anche il romanzo, di fatti autobiografici, “giornalismo d’inchiesta e analisi sociale per raccontare la realtà della camorra nelle sue dimensioni economiche, imprenditoriali, sociali ed ambientali”, come si legge su Wilkipedia, non sono indotto a leggerlo. “Il romanzo – scrive l’enciclopedia internet – si propone di raccontare i meccanismi del mondo camorrista che dalla Campania e dalla periferia napoletana ha esteso i suoi orizzonti affaristici ad un livello sempre più internazionale, con la complicità di altre organizzazioni criminali e delle classi politiche ed imprenditoriali. Compaiono i nomi dei componenti delle famiglie camorriste più famose e potenti della Campania, quali i Di Lauro, i Nuvoletta, i Casalesi e molti altri”. Provo a fidarmi. Ma se non delinea il “terzo livello”, quello delle relazioni con politici corrotti e disonesti, l’analisi è insufficiente, e l’aspettativa che ha circondato prima il libro e poi il film rimane delusa. Leggo, dunque, rifletto e torno a dire la mia.
25 maggio 2008

Preoccupano i dati sull’evoluzione della Famiglia in Europa
di Paola Maria Zerman

Desolante, davvero desolante, il quadro che si ricava dalla Relazione 2008 sulla Evoluzione della Famiglia in Europa, che si basa su dati raccolti dalla Rete Europea dell’Istituto di Politica Familiare (IPF) e che confermano le difficoltà che già avevamo segnalato in più occasioni nel sito La Famiglia nella Società (www.lafamiglianellasocieta.org).
Della relazione dell’IPF ha dato conto Antonio Gaspari, giornalista esperto di questioni ambientali e familiari, in un interessante documento uscito su “Zenit” (15 maggio 2008) del quale riassume i dati principali Corrispondenza Romana, l’Agenzia settimanale diretta da Roberto de Mattei: un aborto ogni 27 secondi, la principale causa di mortalità in Europa, insieme al cancro, un divorzio ogni 30 secondi, quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1980. Una crisi profonda che pesa sullo sviluppo dell’Europa in un momento delicati dell’evoluzione delle istituzioni comunitarie, in un’Unione a ventisette, che deve dimostrare di rappresentare un’occasione di sviluppo non solo economico e commerciale, ma anche sociale. Due aspetti strettamente connessi dacché il ruolo delle famiglie è centrale nell’economia del Continente e degli Stato che ne fanno parte. Presentato il 7 maggio scorso al Parlamento Europeo, in concomitanza con le celebrazioni della Giornata dell’Europa e della Giornata Internazionale della Famiglia il documento dà conto dell’evoluzione demografica dell’Europa, che registra una crescita di 14,2 milioni di persone tra il 2000 ed il 2007, di questi 12 milioni, l’84%, sono immigrati. In Italia ha crescita naturale è negativa: -0,2 milioni, con un’immigrazione di 2,9 milioni di persone. Tre nuovi immigrati su cinque che arrivano in Europa, vanno in Spagna o in Italia ma le previsioni sono che, nonostante questa immissione di immigrati, dal 2025 la popolazione europea comincerà a scendere. Naturalmente cala in misura preoccupante la percentuale di giovani. I minori di 14 anni, che erano 94 milioni nel 1980, sono 74 milioni nel 2007. Con una perdita netta di 20 milioni di giovani. Al contrario la popolazione di età superiore ai 65 anni, che era di 57 milioni nel 1980, sono 80 milioni nel 2007. L’Italia, insieme a Bulgaria, Germania e Slovenia forma un Club con il minor numero di giovani. Allo stesso tempo, Italia, Germania e Grecia sono i Paesi con il maggior numero di anziani. Drammatica la situazione delle nuove nascite: nel 2007 sono inferiori di circa un milione (920.089) a quelle del 1982. In Europa, la fecondità media è di 1,56 figli per donna, inferiore a quello di crescita zero che è di 2,1 figli per donna. Negli Stati Uniti la fecondità è di 2,09 bimbi per donna. La Francia con 2, l’Irlanda con 1,93, la Svezia con 1,85 e il Regno Unito con 1,84 sono i Paesi a più alta fertilità. Le spagnole (30,88 anni), le italiane (30,8) e le olandesi (30,58) sono le donne che mettono al mondo il primo figlio in età più tarda. A causa dell’aborto, pensate, l’Europa perde ogni anno un numero di cittadini pari alla popolazione del Lussemburgo, di Malta, Slovenia e Cipro. Ogni cinque bambini concepiti, uno, cioè il 20%, non vede la luce. Delle 6.390.014 gravidanze del 2006, 1.167.683 sono terminate in un aborto. Gli aborti di Francia, Regno Unito, Romania, Italia, Germania e Spagna rappresentano il 77% del totale. La Spagna da sola ha raddoppiato il numero di aborti tra il 1996 ed il 2006. Contemporaneamente i matrimoni sono in caduta libera: tra il 1980 ed il 2006 sono stati 737.752 in meno. Gli europei si sposano poco e sempre più tardi. La media è di 31 anni per l’uomo e 29 per la donna. Ogni 3 bambini uno nasce fuori del matrimonio: dei 5.209.942 nati nel 2006, 1.766.733 sono nati fuori dal matrimonio (33,9%). A fronte di questo quadro desolante, che dovrebbe sollecitare iniziative delle autorità pubbliche, il rapporto dell’IPF rileva una scarsa attenzione alla famiglia delle istituzioni europee. Infatti, nell’ambito della Commissione Europea, delle cinque Vicepresidenze e delle ventuno Commissari, nessuno si occupa specificamente di famiglia. L’Osservatorio per le Politiche Familiari, creato nel 1989, venne dimesso nel 2004 e rimpiazzato dall’Osservatorio per la Demografia e la Situazione sociale. Dei 95 Libri Verdi scritti dal 1984 dalla Unione Europea, nessuno è stato dedicato alla famiglia. Per questi motivi l’IPF chiede iniziative di sviluppo delle politiche pubbliche in sostegno delle famiglie, facendo della famiglia una priorità politica, al centro delle politiche e dei programmi dell’Unione Europea, riconoscendo e sostenendo il diritto della famiglia in tutti gli ambiti, specialmente nella procreazione, nel mantenimento e nell’educazione dei figli. Nel rapporto dell’IPF si chiede inoltre: di creare un Istituto per la Famiglia nella Commissione Europea; di invitare i Paesi membri a istituire un Ministero per la Famiglia; di elaborare un Libro Verde sulla famiglia; di promuovere un Patto europeo per la famiglia, come raccomanda il Comitato Economie Sociale Europeo.
24 maggio 2008

Il ritorno dello Stato?
di Salvatore Sfrecola

Incrociamo le dita, come vuole la prudenza napoletana, ma le misure che il Governo ha adottato nel consiglio dei Ministri di ieri, a Napoli (appunto!), danno globalmente il senso di un ritorno dello Stato. Ieri avevamo parlato di “forza del diritto”. Siamo lì. Stato e diritto sono inscindibilmente collegati, in quanto il diritto è capace di affermarsi come espressione di pacifica convivenza di una comunità organizzata solamente se lo Stato sa predisporre un sistema normativo giusto, in quanto conforme alle regole della civiltà del diritto, ed assicurargli effettività. Le misure adottate per superare l’emergenza rifiuti, un’immagine negativa per il Paese, che si accompagna a gravi problemi di ordine pubblico e di salute, e quelle per contrastare l’immigrazione clandestina, fonte di illeciti e di criminalità, fanno intravedere una nuova stagione nella quale lo Stato s’impegna a svolgere il suo ruolo, a fare il proprio dovere. E’ presto per dire se i programmi e le norme approvate a Napoli avranno successo ed in quali tempi. Se siamo veramente di fronte ad una svolta, come hanno scritto un po’ tutti i quotidiani oggi, se l’Amministrazione sarà all’altezza del compito che le nuove misure necessariamente presuppongono. Abbiamo, tuttavia, il “dovere” di sperare che il messaggio che viene da Napoli, come ha scritto Stefano Folli nel fondo di oggi su Il Sole 24 Ore, costituisce “un segnale politico molto forte… quello che ci si attendeva. Un messaggio facile da decifrare e quindi comprensibile per tutti: a Napoli e altrove lo Stato è tornato”. Sono fondamentalmente un ottimista, un uomo che, di fronte ad un bicchiere riempito a metà, dice: “è mezzo pieno”. Il ritorno dello Stato per me è fonte di fiducia. Attendiamo che la medesima determinazione venga messa dal Governo nelle politiche sociali e fiscali, perché la giustizia sia effettiva ed estesa a tutti, a cominciare dalle famiglie, che sono al centro del sistema economico.
22 maggio 2008

La forza del diritto
di Salvatore Sfrecola

Trovo da sempre insulse le ricorrenti polemiche sulla tolleranza rispetto ai reati ed agli illeciti in genere. Tolleranza zero, tuona qualcuno, e viene subito impallinato da chi, invece,vorrebbe una flessibilità nell’applicazione della norma. Poi si scopre che, al di sopra ed al di sotto dello zero, ci sono uomini e partiti schierati su opposte sponde del fiume della politica i quali sono disposti a tollerare o meno a volte per motivi ideologici, in altri casi per convenienza politica. Il discorso è insulso e pericoloso. Le norme punitive, perché di questo si tratta, sono stabilite dallo Stato nell’esercizio della sua funzione di garante della legalità e della pacifica convivenza. Norme che stabiliscono sanzioni di vario genere e di varia intensità secondo l’allarme sociale, così abbiamo imparato nei libri di scuola, che certi comportamenti destano in un determinato momento storico. Norme penali, presidiate da un sistema giudiziario all’uopo predisposto, con graduazione della sanzione e norme amministrative, di carattere alternativo, che assegnano ad un determinato comportamento illecito una punizione in denaro ovvero altre misure interdittive di attività o diritti, come il ritiro della patente o del passaporto. Sta alla saggezza del legislatore stabilire quale sanzione sia più adatta a punire un determinato tipo di illecito, a ripristinare il diritto leso, a dissuadere chi è pronto a delinquere dal commettere l’illecito. In relazione alla frequenza di determinati comportamenti ed al ricordato allarme sociale. Se questa è la regola, da sempre nei paesi civili, essa non ammette tentennamenti o lassismi nell’applicazione della sanzione, di qualunque natura essa sia. La tolleranza determina ingiustizia, fa venir meno quella parità di trattamento che è principio fondamentale sul quale si basa l’ordinamento della Repubblica. Questo significa anche che non è sufficiente stabilire una sanzione ma è necessario rendere effettiva, sempre ed in ogni caso, la sua applicazione. Qui entrano in gioco l’Autorità di Pubblica Sicurezza la Magistratura le quali, ciascuno per la parte di propria competenza, devono dare attuazione alla disposizione normativa che impone di punire chi lo Stato nella sua sovranità ha ritenuto meritevole di una sanzione. Guai allo Stato che minaccia e non attua una sanzione. Lo sanno bene i genitori quando rimproverano i figli ed impongono loro una restrizione della libertà di divertimento, ad esempio, perché non hanno reso a scuola. Se alla minaccia di punizione non seguono fatti non sono più credibili. In casa è un fatto privato tra padri e figli. Nel Paese il discredito dello Stato porta con se la dissoluzione della società. Perché se non si applica la norma penale non è più necessario rispettare il segnale di stop al crocevia o l’orario d’ufficio. La forza del diritto sta nella forza dello Stato, che vuol dire autorevolezza, non autoritarietà. Troppi fanno finta di non capirlo.
21 maggio 2008
P.S. Riporto il commento di un solerte e assiduo lettore il quale scrive: “Si parla troppo ma i fatti non rispondono alle aspettative. Non si rispettano più le norme, gli italiani sono stanchi di “chiacchiere e promesse” che non arriveranno mai. La preoccupazione delle ronde sono una risposta a questo malcostume. Mi dispiace dirlo, ma all’estero siamo etichettati” pizza e mandolino”. Al palazzo della Civiltà del lavoro all’Eur sul cornicione c’è scritto : siamo un popolo di eroi, di poeti, di navigatori, di scopritori,……etc, forse è giusto dire siamo stati”.
Ecco, quel “siamo stati” mi disturba un po’, anche perché appare drammaticamente vero!

Quando l’Amministrazione non è all’altezza del ruolo
Se lo Stato è assente

di Salvatore Sfrecola

Negli Stati Uniti, quando si parla dell’azione di governo si dice “l’Amministrazione” fa, propone, attua. Amministrare come attività di cura concreta degli interessi pubblici, l’administratio di Cicerone, quella che chiamiamo anche attenzione per il bene comune e che indichiamo come finalità dei governi. Che la realizzano attraverso gli apparati burocratici, gli uffici, centrali e periferici, dei quali i governi si dotano e che applicano le leggi e danno esecuzione alle direttive che attuano l’indirizzo politico amministrativo approvato dal corpo elettorale. Per questo sono da sempre un difensore strenuo del ruolo dell’Amministrazione ed ho invitato i governi, di qualunque colore, a riservare prioritaria attenzione al funzionamento dell’apparato, verificando che le leggi che l’organizzano e quelle che ne disciplinano l’attività siano adeguate alla richiesta di servizi che proviene dalla stessa autorità politica e dalla comunità amministrata. Contestualmente va verificato che i pubblici dipendenti siano in numero e professionalità adeguati alla funzione. Se l’apparato amministrativo non funziona o non funziona a pieno i governi non riescono a perseguire i loro obiettivi, anche i più importanti, con la conseguenza che, agli occhi dei cittadini, lo Stato è assente. Lo dice, senza mezzi termini, oggi sul Corriere della Sera Michele Salvati in un editoriale che costituisce lucidissima denuncia dell’inefficienza dell’Amministrazione, delle istituzioni centrali e locali, degli organi rappresentativi, “nello svolgere compiti che in altri Paesi vengono svolti con maggiore competenza ed efficacia”. Non si tratta di singoli, limitati aspetti della vita delle istituzioni. Perché “si tratta di un problema generale, che si manifesta in molti altri campi (Salvati ha iniziato parlando della gestione della “questione Rom”, n.d.A.) in cui lo Stato svolge male compiti che dovrebbe svolgere bene: nella scuola, nelle infrastrutture, nel controllo del territorio”. Un tempo non era così. L’Amministrazione era una garanzia per i governi, i politici davano direttive, i funzionari le eseguivano, con generale soddisfazione. Poi l’Amministrazione è degradata paurosamente, in quasi tutti i settori. Colpa dell’azione dei sindacati e dell’interferenza dei politici, ma anche della perdita di consapevolezza del loro ruolo da parte di impiegati pubblici ai vari livelli, a cominciare dai vertici. Cos’è successo? Fino ad un certo punto l’Amministrazione rivelava la presenza generalizzata di funzionari di elevata professionalità. Lo attestano studi importanti, che analizzano l’organizzazione ed i risultati. Molti lavori in tal senso sono stati condotti dall’Istituto di Studi sull’Amministrazione Pubblica (ISAP) negli anni sessanta. Ne esce uno spaccato importante della evoluzione dell’Amministrazione dall’unità d’Italia ai nostri giorni. Il Fascismo, ad esempio, ha governato giovandosi della burocrazia che avevano costruito i governi liberali ed acuti conoscitori dello Stato. Giolitti, ad esempio, che ha dominato tra la fine dell”800 e gli anni più significativi all’inizio del XX secolo si vantava di una approfondita conoscenza dell’apparato che aveva acquisito nei lunghi anni nei quali aveva rivestito l’incarico di Segretario generale della Corte dei conti che all’epoca registrava gli “atti di governo”, cioè i maggiori provvedimenti nei quali si realizza l’organizzazione ed il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Caduto il Fascismo, i governi democratici hanno ereditato una buona amministrazione e per lunghi anni hanno favorito un elevato standard di efficienza. Poi il degrado, che al momento appare inarrestabile. Nessun tentativo serio è stato fatto per ripristinare un livello accettabile di efficienza, anzi si è fatto di tutto per aggravare la situazione, per iniziativa dei sindacati, complici partiti e governi. Un primo gravissimo errore è stato la disarticolazione della dirigenza. La riforma, avviata nel 1972, con il decreto legislativo n. 748, avrebbe dovuto determinare la riduzione dei posti di funzione dirigenziale. Così, almeno, la riforma fu presentata. E’ accaduto esattamente il contrario. Quasi ovunque si è avuta la moltiplicazione delle vecchie direzioni generali con l’escamotage di trasformare in “direzioni centrali” quelle che erano “divisioni”, rette da un capo divisione, poi da un primo dirigente. L’effetto negativo, in termini di efficienza, misura l’incapacità della classe politica e sindacale. Si moltiplicano le strutture parcellizzando le funzioni il cui esercizio diventa sempre più arduo. I dirigenti s’impennacchiano e sono contenti, anche se contano meno di prima. Per molti l’unica soddisfazione sta nella dicitura della funzione scritta sui biglietti da visita. Se, poi, quella funzione è svilita non se ne preoccupano. E’ un circuito perverso che è difficile interrompere. Occorrerebbe la scure e la rifondazione dell’Amministrazione, dal fondo. Infatti, non sono meno inefficienti i quadri intermedi illogicamente implementati a seguito dei cosiddetti percorsi formativi e passaggi di qualifica o di area che hanno fatto slittare in alto, spesso senza titolo di studio ed adeguata esperienza professionale, impiegati che soggiornavano nelle qualifiche inferiori. La conseguenza è un’ulteriore depotenziamento dell’apparato che scopre alcune aree funzionali immettendo nel corpo dei funzionari persone che, per numero e qualità, avrebbero dovuto permanere dove stavano. Con un ulteriore gravissimo danno, che ho più volte denunciato, quando ho scritto che “i padri hanno tolto il lavoro ai figli” (Un’occasione mancata”, Nuove Idee). Questi passaggi di livello e di area sono stati resi possibili dalla riduzione dei posti alla base (per mantenere il livello della spesa). In questo modo non sono entrati in servizio nuovi giovani, con l’effetto negativo che ben si comprende sull’occupazione e sull’amministrazione, che è paurosamente invecchiata. Professor Brunetta. Il suo incarico governativo ha difronte questo scenario. Saprà affrontarlo? Mi auguro di sì nell’interesse dell’Italia e dell’intera comunità.
19 maggio 2008

I primi problemi del Sindaco Alemanno
Traffico urbano e interland – Metropolitane e vie a scorrimento veloce – E’ urgente intervenire, nel rispetto della Città

di Marco Aurelio

In un’intervista di qualche anno fa, nella quale gli si chiedeva come mai i romani fossero tanto disincantati di fronte alla presenza dei numerosissimi visitatori illustri che vi si recano per motivi politici, di studio o turistici, il Senatore Andreotti spiegava, cito a mente: “vede, caro signore, ogni anno vengono a Roma da ottanta a cento capi di stato, primi ministri, ministri degli esteri. Sono duemila anni che questi signori vengono ogni anno. Come vuole che la Città si emozioni ad un nuovo capo di stato, primo ministro, ministro degli esteri!”. La Città, Roma, al centro del mondo classico per la sua storia, per il diritto che è alla base delle legislazioni dei paesi civili, Roma al centro del Mediterraneo, unica finestra aperta sul mondo mediorientale che continua a conquistare senza negare la storia e la civiltà di quei popoli. Anzi rispettando l’una e l’altra. Qui è stata e può ancora essere la sua missione per la sicurezza e lo sviluppo dell’Europa e del mondo. Per svolgere questo ruolo Roma deve tornare ad essere vivibile. Pertanto il Sindaco Alemanno dovrà dedicare le sue prime attenzioni al traffico. Cominciando da un’esigenza elementare, quella di limitare l’ingresso in Città di quanti, a centinaia di migliaia, vengono a Roma in auto dalle città e dai paesi dell’interland, un tessuto sociale ricco e articolato che negli anni ha spinto molti romani a trasferirsi laddove la vita è meno cara e più “a misura d’uomo”, mantenendo tutti i confort richiesti, dalle scuole alle strutture sanitarie, a quelle culturali e sportive. Ebbene. di queste centinaia di migliaia che ogni giorno vengono a Roma per lavoro e studio, moltissimi, troppi, usano il mezzo privato. Si tratta di centinaia di migliaia di autovetture che non verrebbero ad intasare le strade e ad inquinare la Città se il trasporto pubblico fosse capace di soddisfare, con celerità e flessibilità, in condizioni civili, le esigenze della gente. Un tempo le città ed i paesi dell’interland romano erano collegati alla Capitale con i famosi “trenini”, improvvisamente quanto incautamente soppressi negli anni sessanta nell’orgia della motorizzazione da governi e giunte succubi dei produttori di automobili e distributori di carburante, incuranti della salute dei cittadini sottoposti allo stress del traffico ed agli effetti deleteri dell’inquinamento. Viaggiare in comode e veloci metropolitane di superficie (i trenini di oggi) restituirebbe ai pendolari del lavoro e dello studio una condizione di vita più confacente ai tempi che viviamo, con minori costi in termini di infortunistica stradale. Sindaco Alemanno, si impegni a ricostruire da subito, in tempi brevissimi, con Provincia e Regione, la rete ferroviaria dell’interland romano, le saranno grati i suoi concittadini che potranno vedere le strade restituite alla loro funzione originaria, quella del traffico e non della sosta, e gli abitanti delle città e dei paesi che fanno corona alla Capitale, che potranno raggiungerla leggendo il giornale o dialogando con il vicino, ovvero schiacciando un pisolino che compensi la levataccia per prendere il treno. Parliamo, dunque, di traffico in Città, cioè essenzialmente di metropolitane di superficie e interrate. Una prima distinzione importante. Le prime possono essere costruite rapidamente nelle aree periferiche in modo da collegare le borgate ed alcune concentrazioni urbane con gli attuali terminali delle linee esistenti. Le seconde scontano ritardi dovute a incultura della mobilità e delle tecniche più moderne nella loro realizzazione. Attenzione, Sindaco Alemanno, è una questione cruciale. Ho ascoltato, tra persone della politica, che si dicono a lei vicine, discorsi che non mi sono piaciuti, del tipo “non ci si può fermare dinanzi ad ogni coccio che scavando viene in superficie. Se troviamo un tratturo del neolitico andiamo avanti”. No, caro Sindaco, così non va. Questo modo di affrontare il problema è sbagliato, sul piano tecnico e su quello culturale. Un “pezzo” di muro che troviamo scavando, come il residuo di una insula non può essere distrutto solo perché non capiamo se autonomo o inserito in un più ampio contesto. In primo luogo va detto che la Città con la sua storia va rispettata in toto. L’archeologia è la ragione della sua vita e del suo richiamo turistico. Il rispetto della storia di Roma non consente deroga alcuna. L’esperienza di intelligenti assetti di aree ad alta densità archeologica dimostra che è possibile la convivenza della storia con l’attualità. Roma non può essere squartata come Parigi quando, a metà 800, la sua struttura medioevale, un labirinto di stradine che intralciava la circolazione, tra immobili che si ammassavano in condizioni di insalubrità, fu sconvolta dal Prefetto Georges Eugène Haussmann che ne fece la Ville lumiere che oggi tutti ammirano per i suoi parchi e boulevards. Eppure ci furono, e persistono, critiche per lo scempio della Parigi dei Re carolingi. A Roma è possibile costruire rapidamente metropolitane. E’ sufficiente assegnare gli appalti ad imprese che dispongano di elevata tecnologia. Oggi, infatti, è possibile andare molto in profondità dove non si trovano reperti archeologici e scavare rapidamente. Non costa di più, perché quel che si risparmia nella valutazione dell’impatto archeologico, limitato all’area di superficie delle stazioni si recupera con la velocità dello scavo nelle aree sottostanti. Valuti questo profilo Signor Sindaco e non si faccia fuorviare da mestieranti e imprenditori interessati a guadagnare sui lavori. Non passi per il Sindaco che dopo i Barbari e i Barberini ha manomesso la Città. Lei sta in Campidoglio per rispondere alla richiesta di servizi e di efficienza di quanti l’hanno votato, molti pensando anche che lei possa da quel colle decollare per un’altra piazza di Roma dove, nel portale di uno storico Palazzo, vicino a quello che ospita la Presidenza del Consiglio dei ministri, si stagliano, per l’ammirazione dei cittadini e dei turisti, sedici colonne ioniche del tempio di Veio. Nel segno della continuità della storia.
18 maggio 2008

Ministri, molti staff non vanno!
di Salvatore Sfrecola

Riconosco di essere stato presuntuoso. Molto, troppo. Per aver immaginato che i ministri del nuovo Governo Berlusconi, prima di nominare Capi di gabinetto, Capi degli Uffici legislativi e consiglieri giuridici avrebbero letto il mio “Ministri, occhio agli staff”, con il quale il 10 maggio facevo alcune considerazioni sul ruolo di queste figure di grand commis, aggiungendo suggerimenti vari. Spiegavo, ad esempio, che la “figura chiave” tra quelle di diretta collaborazione dei ministri è il “Capo di gabinetto. Un errore nella scelta pregiudica i risultati dell’azione di governo. E’ il Capo di gabinetto che fa da tramite tra il Ministro, le sue direttive e la struttura ministeriale, con o senza portafoglio, e ne coordina le iniziative”. Spiegavo perché è quasi sempre un “estraneo all’amministrazione, generalmente un magistrato amministrativo”. Concludevo “signori ministri, occhio alle scelte, senza fretta, ma con consapevolezza che i vostri più vicini collaboratori costituiscono parte essenziale della vostra immagine e dell’efficienza della vostra azione, verso l’esterno ed all’interno, nei confronti degli uffici e dei funzionari, che vanno rispettati nella loro professionalità, per cui devono poter dialogare con persone che abbiano esperienza adeguata e capacità di confrontarsi con i tecnici”.
Le scelte sono state, in molti casi di diverso taglio. Una mossa sbagliata, un primo passo falso che può avere pesanti effetti negativi e frenare l’azione politica dei ministri.
Ne parlo con una qualche difficoltà. Si tratta, infatti, quasi sempre di persone amiche, delle quali apprezzo la professionalità e l’onestà personale. Eppure molte scelte sono sbagliate. A cominciare dai ruoli. Un buon Capo di Gabinetto deve avere attitudini diverse da quelle di Capo dell’Ufficio legislativo. Il primo, più attento ai profili “politici” dell’azione dei ministri, dialoga con i parlamentari dell’opposizione, specie adesso con il “governo ombra”, con i presidenti dei grandi enti vigilati o delle società a capitale pubblico che operano nel settore di competenza del ministero. Servono doti “diplomatiche”, la capacità di saper ascoltare e mediare, sempre sulla base delle direttive del ministro, ricercando soluzioni ai problemi che vengono posti all’attenzione dell’autorità politica. Anche il Capo dell’Ufficio legislativo deve interpretare sul piano tecnico le direttive del ministro e l’indirizzo politico del quale è espressione. È suo compito monitorare la legislazione. Fondamentale la sua partecipazione alle riunioni preliminari del Consiglio dei ministri (il c.d. “preconsiglio”), non solo per ottenere l’assenso sui provvedimenti dell’amministrazione ma anche per intervenire su quelli delle altre. Il ministro è un politico (è questa un’importante differenza rispetto ad un ministro tecnico) e, pertanto, portatore di interessi generali, dei quali i suoi diretti collaboratori devono darsi carico.
È un lavoro impegnativo, quello di Capo dell’Ufficio legislativo, anche per la presenza costante che richiede in Parlamento, nei contatti con i relatori dei disegni di legge di interesse e con i capogruppo dei partiti.
Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo sono, dunque, due “mestieri” diversi. Ovviamente molti possono, per esperienza ed attitudine personale, ricoprire entrambi i ruoli. Molti, non tutti.
C’è, poi, il problema dell’immagine esterna ed interna, in conseguenza della collaborazione che un determinato personaggio può aver prestato a ministri di altra parte politica in altro governo.
È un tema delicato. Parliamo di personalità, spesso magistrati, che hanno nel loro DNA un senso altissimo di indipendenza e di servizio alle istituzioni. Possono, pertanto, servire lo Stato con ministri di diverso orientamento. È accaduto più volte, a riprova dell’elevato valore personale e professionale della persona.
C’è, però, un limite, evidente e logico quando la contrapposizione politica raggiunge determinati livelli. Si può scrivere una costituzione centralista o una federalista. Un buon giurista non ha difficoltà, ma un minimo di coerenza m’impedirebbe di scrivere una cosa nella quale non credo neppure un po’. È un problema morale. Un intellettuale, come dev’essere un grand commis dello Stato non è un uomo per tutte le stagioni. Neppure per guadagnarsi l’indennità di gabinetto.
Purtroppo spesso non è così. Magari per fruire del “fuori ruolo” e lasciare per un po’ sentenze e comparse.
C’è, per queste situazioni, un problema d’immagine del ministro nei confronti della struttura ed all’esterno. Se nulla cambia, se attribuisce un incarico delicatissimo ad un personaggio che con lui va a colazione ed a cena con il predecessore, l’amministrazione, e non solo, comincia dubitare che ci sia qualcosa di nuovo.
Veniamo ai capi di gabinetto scelti all’interno della struttura ministeriale, perché lo prevede la legge o per scelta autonoma del ministro. È necessario che l’incaricato non crei squilibrio all’interno dell’apparato. Il compito di coordinamento e di impulso dell’amministrazione sulla base delle direttive del ministro viene esercitato nei confronti di colleghi del Capo di Gabinetto. Ne può conseguire una gestione alla “volemose bene” o un esercizio del potere che crea disagio.
La scelta del ministro è delicatissima anche in questo caso. E può condizionare l’esito della sua azione in capo all’amministrazione.
17 maggio 2008

Con la delega al Senatore Giovanardi
Il Governo mette la famiglia al centro delle politiche per la crescita del Paese

di Senator

La centralità della famiglia, nell’ambito delle politiche “per ridare fiducia e slancio all’Italia” emerge in modo chiarissimo nel discorso programmatico del Presidente del Consiglio, in coerenza, tra l’altro, con le prime iniziative del governo, che ha delegato il Senatore Carlo Giovanardi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, a svolgere funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di famiglia, droga e servizio civile, delle quali, in gran parte, Giovanardi si era occupato dal 2001 al 2006 da Ministro per i rapporti con il Parlamento. All’epoca delegato al coordinamento delle politiche di prevenzione dalle tossicodipendenze ed al Servizio civile.
La scelta del personaggio dà il senso dell’impegno del governo in un settore sensibile. Cattolico, impegnato nel campo dell’assistenza ai giovani e della loro presenza in servizi di interesse generale, il Senatore Giovanardi è sicuramente la persona adatta per mettere a punto ed attuare programmi idonei a rimettere al centro degli interessi del governo la famiglia. In questo senso il suo sarà un compito di stimolo per l’intero Esecutivo, con particolare riferimento ai Ministri che hanno specifiche competenze settoriali, incidenti sulla vita delle famiglie, dal fisco alle tariffe, all’istruzione, alla salute, alla conciliazione lavoro famiglia, alla politica della casa per le giovani coppie, ai ricongiungimenti familiari.
Si tratta di una sfida per il futuro dell’Italia. Lo ha detto a chiare lettere il Presidente Berlusconi, in un settore rigorosamente bipartisan. La famiglia, infatti, non è di destra o di sinistra, laica o cattolica, è il nucleo fondamentale della civile convivenza, dove gli affetti creano una sinergia virtuosa che “tiene” la società attraverso la procreazione, l’educazione e l’istruzione dei figli, futuri cittadini e professionisti.
Si tratta di un ruolo fondamentale eppure troppo a lungo ignorato. Lo ha detto benissimo il Senatore Andreotti, ricordando nel suo Diario 2000 che alle enunciazioni costituzionali, alle quali si era pervenuti con il concorso di cattolici e comunisti, non è seguita una politica familiare, prima nel timore di evocare l’esaltazione che ne aveva fatto il Fascismo, poi nella preoccupazione che si volesse indulgere a sollecitazioni della Chiesa.
Così si è perso tempo, si sono impoverite le famiglie, si è negato loro il ruolo di motore dello sviluppo della società.
Non si può attendere oltre. “La politica aiuti chi vuole una famiglia”. Forte si è levato nei giorni scorsi l’appello del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, su La Repubblica, di fronte al dramma di una madre e di una famiglia. Il Capo dello Stato ha preso carta e penna ed è intervenuto in risposta ad una lettrice del quotidiano romano che gli aveva scritto per spiegargli di aver deciso di abortire perché non si sentiva in grado di crescere un figlio con 1.300 euro al mese.
Sandra, una precaria, preoccupata per la sua situazione economica, aveva poi cambiato idea, convinta dalla solidarietà e dall’affetto che aveva sentito intorno al suo dolore.
Il lavoro ed il denaro che condizionano la nascita e lo sviluppo di una famiglia, in sostanza l’essere famiglia. È il dramma di tante famiglie italiane che vorrebbero avere più figli, ma che ne sono dissuase dal costo della vita, dal peso del fisco e delle tariffe, dall’assenza di servizi sociali che dovrebbero alleviare gli oneri di chi intende mettere al mondo figli.
Dopo la risposta di Napolitano sono scese in campo anche due giovani “ministre”. “Le parole del presidente rappresentano la bozza programmatica del mio impegno alla guida del ministero, ha detto Mara Carfagna. Elevare il tasso di occupazione femminile è un importante obiettivo, ma va necessariamente fatto coincidere con politiche che permettano alle donne lavoratrici di far figli e seguire la famiglia”. Secondo il ministro serve una legislazione sul modello francese “che permetta alla madre di non pregiudicare il suo percorso lavorativo” e un intervento sulle retribuzioni che elimini le disparità tra uomini e donne. Le ha fatto eco Giorgia Meloni, trentunenne Ministro per le politiche giovanili, che si è detta pronta a raccogliere l’appello di Napolitano “affinchè mettere al mondo un figlio torni ad essere una libera scelta e non un sacrificio”. Definisce quella di Sandra una storia che racconta “i reali valori e le aspirazioni di una generazione silenziosa, composta da piccoli grandi esempi di vita quotidiani, che rifiuta le etichette affibbiate dall’opinione pubblica e che ha voglia di emergere”.
Occorrono, dunque, politiche familiari serie e di impatto immediato. Non sarà possibile fare tutto subito, ma occorre dare agli italiani la prova che vi è un’inversione di tendenza significativa. Cominciando dal fisco che grava sulle famiglie con effetti sull’intera economia. Perché appare fin troppo ovvio che la famiglia che non arriva alla fine del mese non spende e non risparmia, cioè non costituisce elemento di sollecitazione del sistema economico, dalla produzione al commercio.
E’ il problema di questo Paese, che “deve rialzarsi” e “ricominciare a crescere dopo una lunga e deludente fase di riduzione delle prestazioni del nostro sistema economico e sociale”, ha detto il Presidente del Consiglio. Precisando che “la crescita non è solo un parametro economico, è un metro di misura del progresso civile di una nazione”, per “rilanciare il Paese e i suoi talenti … formare nuove generazioni di lavoratori altamente qualificati” dando “una «frustata» vitale alla ricerca e all’istruzione”.
“Crescere significa promuovere la famiglia come nucleo di spinta dell’intera organizzazione sociale, significa dare alle donne nel lavoro e negli altri ruoli sociali un sostegno per la loro autonomia, significa rimuovere le cause materiali dell’aborto e varare un grande piano nazionale per la vita e per la tutela dell’infanzia, destinando nuove e consistenti risorse al fine di incrementare lo sviluppo demografico”.
“Crescere, sono ancora le parole di Berlusconi, vuol dire contrastare la rassegnazione ad alcune forme di precariato particolarmente instabili e penalizzanti, ma senza ripararci nella logica del posto fisso e mal pagato, dell’immobilità sociale, della pigrizia educativa, della tolleranza verso forme abusive di mancato impegno nella realizzazione del lavoro come vocazione e come missione nella vita personale, particolarmente in alcuni settori della pubblica amministrazione”.
È il ruolo della famiglia. Che va messa al cento del modello di sviluppo del nostro Paese.
16 maggio 2008

Le dichiarazioni programmatiche del Presidente Berlusconi
Un discorso guardando al Colle

di Senator

I discorsi con i quali i Presidenti del Consiglio consegnano alle Camere, per il voto di fiducia, il programma del governo hanno sempre qualcosa di solenne, specialmente da quando l’alternanza si è affermata come regola della democrazia nel nostro Paese. L’esecutivo, espressione della maggioranza decretata dalle urne elettorali, si presenta in Parlamento per riaffermare il programma espressione dell’indirizzo politico sul quale gli italiani hanno convenuto. C’è un po’ di orgoglio in quelle parole e la giusta soddisfazione di aver convinto l’elettorato della bontà delle scelte e della capacità di realizzarle.
C’è stato tutto questo nel discorso di Silvio Berlusconi, ieri alla Camera. E qualcosa di più, che certamente coglieranno i commentatori politici, un’apertura ai grandi temi istituzionali con un tono che potremmo definire quirinalizio, cioè di un leader che si candida fin da adesso a ricoprire la suprema carica dello Stato.
Infatti per Stefano Folli, su Il Sole 24 Ore di oggi, il discorso “va giudicato dal tono, più che dai singoli contenuti”. E’ anche la tesi dell’editoriale di Massimo Franco sul Corriere della Sera: “Sorpresa positiva”.
Nel richiamo all’impegnativo lavoro che attende il governo “per ridare fiducia e slancio all’Italia”, con “ottimismo e spirito di missione” il Premier ha sottolineato la scelta degli elettori i quali, ha detto, “hanno raccolto e premiato il nostro comune appello a rendere più chiaro, più efficiente e controllabile il Governo del Paese. Hanno ridotto drasticamente la frammentazione politica e hanno scelto, con nettezza, una maggioranza di Governo e una di opposizione, ciascuna con le proprie idee e passioni, ciascuna con una propria leadership”.
Ha messo, quindi, in bocca agli italiani un messaggio, contro “il pessimismo rumoroso” e “le insidiose campagne di sfiducia astensionista o di protesta qualunquista”. Con una indicazione del corpo elettorale di attenzione per i grandi problemi che la maggioranza dovrà affrontare per “risollevare il Paese” con il concorso dell’opposizione. È quanto Berlusconi ha voluto dire continuando nell’immaginaria perorazione degli italiani nei confronti della classe politica: “dividetevi ma non ostacolatevi slealmente. Combattetevi anche, ma non in nome di vecchie ideologie. Prendete democraticamente le decisioni necessarie a risalire la china, rispettate il dissenso e tutelate le minoranze che si esprimono dentro e fuori del Parlamento, ma dateci stabilità e impegno nell’azione di Governo, fate uno sforzo comune perché chi governa e chi esercita il controllo parlamentare sul Governo possano fare, ciascuno nel suo ambito, il proprio mestiere”.
Ancora, “fate funzionare le istituzioni della Repubblica. Riducete l’area della vanità e della cosiddetta visibilità politica dei partiti. Realizzate quanto avete promesso di realizzare e fatelo in fretta, perché una cosa è sicura: l’Italia non ha tempo da perdere. Nella società italiana è maturata una nuova consapevolezza dopo anni difficili e, per certi aspetti, tormentati. Si respira un nuovo clima, che si esprime nella nuova composizione delle Camere chiamate oggi qui a discutere della fiducia al Governo”.
Importante riconoscimento alla “parte maggiore dell’opposizione”, che “ha creato un suo strumento di osservazione e di interlocuzione con il Governo, il gabinetto ombra della tradizione anglosassone, che può essere di aiuto nel fissare i termini della discussione, del dissenso e delle eventuali convergenze parlamentari, in particolare sulle urgenti e ben note modifiche da apportare al funzionamento del sistema politico e costituzionale. L’aspirazione generale è che un confronto di idee e di interesse, anche severo, anche rigoroso, non generi nuove risse, ma una consultazione alla luce del sole, un dialogo concreto e trasparente e poi scelte e decisioni ferme che abbiano riguardo esclusivamente agli interessi del Paese”.
Si direbbe un’impostazione ovvia. Ma non lo è. Il richiamo al Capo dello Stato, che “ha definito in maniera impeccabile, citando l’opera e il pensiero di un grande liberale, Luigi Einaudi, i termini della dialettica tra le istituzioni, in particolare, tra la Presidenza della Repubblica e la guida del Governo” conferma il taglio “presidenziale” del discorso di chi, pur guidando la maggioranza ed il governo che la esprime, intende dialogare con l’opposizione nell’interesse delle grandi riforme che l’Italia attende presentandosi come un leader capace di andare al di là della sua stessa maggioranza per farsi interprete delle esigenze del Paese.
Un confronto senza “compromessi al ribasso, confabulazioni segrete o mercanteggiamenti”, perché ognuno, assumendosi la propria parte di responsabilità contribuisca a mettere al centro del dibattito “la bellezza della politica”, per cambiare le cose e migliorarle.
Il discorso contiene, poi, tutte le indicazioni programmatiche richieste ai fini del voto di fiducia, dall’intervento per sanare lo “scandalo dei rifiuti non smaltiti” alla politica della casa “bene primario intorno al quale prendono radici l’identità familiare, la capacità lavorativa e la stessa identità sociale stabile dei cittadini”, alla politica fiscale “in una fase in cui il divario tra prezzi e potere d’acquisto dei salari e degli stipendi si è fatto, in certi casi, intollerabile”. Poi la sicurezza della vita quotidiana, da ristabilire “con norme di diritto e comportamenti preventivi e repressivi delle forze dell’ordine che siano in grado di riaffermare la sovranità della legge sul territorio dello Stato”.
Berlusconi impegna il governo sui grandi temi passando “dal pessimismo paralizzante, che circola oggi, a quel vitale ottimismo e a quello spirito di missione comune”, di cui aveva parlato iniziando, per rimettere rapidamente in corsa il Paese il cui problema è quello di “ricominciare a crescere dopo una lunga e deludente fase di riduzione delle prestazioni del nostro sistema economico e sociale”. La crescita non solo come “parametro economico”, ma “metro di misura del progresso civile di una nazione”. Crescere, non soltanto produrre più ricchezza da ridistribuire “attraverso quel circolo virtuoso di responsabilità e di libertà che un mercato ben regolato può garantire”, crescere – ha detto il Presidente del Consiglio – per “rilanciare il Paese e i suoi talenti, … formare nuove generazioni di lavoratori altamente qualificati, … dare una frustata vitale alla ricerca e all’istruzione, … ricominciare a padroneggiare il proprio destino senza lasciare indietro nessuno”.
Ancora quirinalizio, anzi sabaudo, il riferimento al “grido di dolore” che “si leva dal Nord e dai suoi standard europei di lavoro e di produzione”. Ricorda un po’ il celebre discorso di Re Vittorio Emanuele II, del 10 gennaio 1859, in occasione dell’inaugurazione del Parlamento subalpino, a conferma dell’imminente avvio delle ostilità contro l’Austria che un allibito Barone Hubner, ambasciatore dell’Imperial Regio Governo alla Corte di Parigi, aveva percepito nelle parole di Napoleone III il 1° gennaio, nel corso del solenne ricevimento di capo d’anno del corpo diplomatico, quando l’Imperatore aveva detto: “Mi duole che le relazioni tra i nostri governi non siano più così buone com’erano tempo addietro; ma vi prego di dire al vostro imperatore che i miei sentimenti personali a suo riguardo non sono punto mutati”.
Stavolta il “grido di dolore” è all’esigenza di “incentivare forme di autogoverno federalista, indispensabili ad una evoluzione unitaria della Repubblica, a partire dal federalismo fiscale solidale”. Anche per “promuovere il sud del Paese, considerandolo come una formidabile risorsa per lo sviluppo e sradicare il peso delle cattive abitudini della criminalità organizzata – la vera nemica della libertà, della sicurezza e del futuro del Mezzogiorno italiano – a vantaggio della libera creatività e della voglia di fare di tante intelligenze e volontà di cui sono ricche le nostre regioni meridionali”.
Crescere – ha continuato – Berlusconi – “significa promuovere la famiglia come nucleo di spinta dell’intera organizzazione sociale, significa dare alle donne nel lavoro e negli altri ruoli sociali un sostegno per la loro autonomia, significa rimuovere le cause materiali dell’aborto e varare un grande piano nazionale per la vita e per la tutela dell’infanzia, destinando nuove e consistenti risorse al fine di incrementare lo sviluppo demografico”.
Per crescere – ha ricordato il Presidente del Consiglio – “dobbiamo tenere i conti in ordine e ridurre il peso del debito pubblico… contrastare l’evasione fiscale, ristabilendo però il principio liberale secondo il quale… le imposte sono il corrispettivo che i cittadini devono allo Stato per i servizi che ricevono, e sono quindi il presupposto e la garanzia del buon funzionamento dei servizi pubblici e la tutela di un equilibrio sociale responsabile”.
C’è, poi, il capitolo delle “modifiche istituzionali… sostanzialmente condivise da una larga maggioranza” del Parlamento, dal “rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo e della sua guida, contestuale ad un robusto incremento della capacità di controllo delle Assemblee elettive”, alla “diminuzione sensibile del numero degli eletti”, alla “definizione di compiti diversi per le due Camere” ad un “assetto federalista dello Stato che superi le difficoltà incontrate con la riforma del Titolo V della Costituzione”, ad una nuova legge elettorale, “anche nella prospettiva del referendum pendente per la prossima primavera”.
Torneremo su singoli punti del programma, anche sulla base di quanto emergerà nel corso del dibattito parlamentare.
In questo primo intervento mi premeva sottolineare il tono “presidenziale”, nel senso di candidato in pectore alla suprema carica dello Stato, del Presidente Berlusconi.
Faciliterà la sua azione di governo e l’attività legislativa questa sua apertura al dialogo costruttivo in termini che sono subito apparsi non formali?
C’è da augurarselo, nell’interesse del Paese, se l’opposizione, magari pressata dalla frangia non presente in Parlamento, che qualcuno del Partito Democratico intende rapidamente recuperare, non farà ostruzionismo preconcetto alle proposte che governo e maggioranza porteranno in Parlamento fin dai prossimi mesi.
14 maggio 2008

Si completano le strutture di governo
Ministri, occhio agli staff

di Salvatore Sfrecola

Dopo il giuramento dei Ministri, un passaggio importante e delicato è quello della formazione delle strutture degli uffici di staff, quelli che la legge chiama Uffici di diretta collaborazione, Capo di gabinetto e dell’ufficio legislativo, consulenti giuridici o ad altro titolo, per i profili diplomatici, sempre più rilevanti per la nostra appartenenza all’Unione Europea, per i problemi economici, dello sport, ecc. La figura chiave è il Capo di gabinetto. Un errore nella scelta pregiudica i risultati dell’azione di governo. E’ il Capo di gabinetto che fa da tramite tra il Ministro, le sue direttive e la struttura ministeriale, con o senza portafoglio, e ne coordina le iniziative. E’ quasi sempre un estraneo all’amministrazione, generalmente un magistrato amministrativo, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti o dei TAR, tranne nelle amministrazioni che prevedono sia un interno, Esteri (un diplomatico), Interni (un prefetto), Difesa (un generale). Si tratta di professionisti che conoscono l’Amministrazione a fondo, per averne seguito l’attività negli aspetti più diversi della gestione, nella patologia del contenzioso e delle responsabilità, come nell’esercizio normale delle attribuzioni, ad esempio attraverso l’esercizio del controllo sugli atti e sulla gestione. L’estraneità del Capo di gabinetto all’Amministrazione è essenziale. Nel bene e nel male i ministeri ed i loro dirigenti esprimono propri orientamenti ed interessi, spesso indotti dalla pressione di categorie o di singoli. Il dirigente si attende un gratificante sviluppo di carriera per cui può essere sensibile, anche in buona fede, anche onestamente, a sollecitazioni che provengono all’esterno da poteri più o meno “forti”, ma capaci di chiedere ed ottenere. Anche i Ministri ricevono sollecitazioni da ambienti interessati a finanziamenti ed agevolazioni varie. Molti sono legittimi, assolutamente legittimi provenendo da chi conosce le esigenze economiche sociali dei singoli e delle imprese e se ne fa portavoce. La valutazione che di questi interessi fa il Ministro con il suo Capo di gabinetto dev’essere obiettiva, ad evitare ciò che si è visto spesso, spreco di risorse, iniziative prive di significato o di seguito. Un insuccesso che politicamente si paga. Il Capo di gabinetto, con la sua professionalità e la sua obiettività, dovuta al fatto che non deve fare carriera nell’Amministrazione, in quella in cui al momento opera né in altra, è garante dell’autonomia di giudizio, nell’interesse del Ministro e dell’Amministrazione. Pertanto, signori ministri, occhio alle scelte, senza fretta, ma con consapevolezza che i vostri più vicini collaboratori costituiscono parte essenziale della vostra immagine e dell’efficienza della vostra azione, verso l’esterno ed all’interno, nei confronti degli uffici e dei funzionari, che vanno rispettati nella loro professionalità, per cui devono poter dialogare con persone che abbiano esperienza adeguata e capacità di confrontarsi con i tecnici.
10 maggio 2008

Il nuovo Governo
Un’occasione per l’Italia

di Salvatore Sfrecola

Come ogni italiano che abbia a cuore le sorti del suo Paese, di fronte ad un nuovo governo, che nasce con l’apporto di una maggioranza di grandi dimensioni, l’auspicio è quello che l’Esecutivo guidato da Silvio Berlusconi riesca nell’intento di risollevare l’Italia dalle attuali difficoltà economiche e dal diffuso disagio sociale. Dovrà essere, dopo l'”occasione mancata”, come Fini definì l’esperienza del 2001-2006, un’opportunità preziosa per l’Italia. Vi sono tutte le premesse, la forte maggioranza, la guida decisa del Premier che, come sottolineano i giornali oggi ha dato una nuova impronta al governo, le molte novità della squadra che fanno intravedere un desiderio di realizzare. Infine, importante, una intelligente disponibilità dell’opposizione a concorrere alle riforme istituzionali necessarie per rimettere in carreggiata il sistema Paese, se le proposte del governo saranno per lei condivisibili. E’ un auspicio che andrà verificato sulla base delle dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio che dovrà delineare un modello di sviluppo idoneo a dare una spinta all’economia ed un respiro europeo alle imprese ed alle famiglie. I settori sui quali intervenire sono tutti, nessuno escluso, come risultano delineati dal quadro delle competenze ministeriali, dal fisco alla sicurezza, dalla sanità all’istruzione, passando per le infrastrutture e l’ambiente. Un settore intendo ricordare, secondo una consuetudine che caratterizza il mio pensiero e le riflessioni che vado facendo su questo giornale. I beni culturali, il nostro patrimonio d’arte e di bellezze naturalistiche, devono essere al centro del modello di sviluppo, considerato l’apporto attuale, e quello che può derivare da una politica intelligente del settore, all’economia e all’occupazione se sarà sviluppata l’offerta che proviene dal settore. Il nostro turismo, è bene esserne consapevoli, è mosso essenzialmente dall’attrattiva che i nostri monumenti, i musei le zone archeologiche uniche al mondo rivestono per milioni di persone. Beni collocati in un ambiente naturalistico anch’esso capace di suscitare grandissimo interesse. Valorizzare la nostra offerta turistico-culturale con un’opera intelligente di gestione dei beni, di ampliamento della ricettività alberghiera, delle strutture dell’agriturismo, dei porti turistici, significa suscitare interessi privati che si trasformano in posti di lavoro ed entrate certe per il sistema economico e per l’Erario. Con effetti positivi anche sui settori collaterali, si pensi, ad esempio, all’artigianato ed alle primizie alimentari, che costituiscono altra preziosa tipicità per l’Italia. Aspettiamo il governo alla luce dei fatti.
8 maggio 2008

Il gusto della libertà, il rigore istituzionale
di Salvatore Sfrecola

Ho trascorso il 1° maggio al tavolo di lavoro, trascurando i miei amati studi di storia delle istituzioni, ai quali dedico il poco tempo libero. In essi rinvengo le ragioni del mio impegno professionale in una istituzione della Repubblica, la Corte dei conti, alla quale la Costituzione e le leggi sulla finanza pubblica riservano un ruolo essenziale nel buon funzionamento dello Stato e degli enti pubblici che gestiscono risorse della comunità, finanziarie e patrimoniali. Ho trascorso il 1° maggio al tavolo di lavoro, per approfondire una questione, urgente e delicata, con profili giuridici complessi che va definita in tempi brevi nell’interesse dell’istituzione e dei soggetti che vi operano in posizione di responsabilità. Non mi considero un “eroe del lavoro”. È normale che un magistrato impegnato quotidianamente in molteplici attività, dallo studio del fascicolo alle udienze, alla stesura delle sentenze lavori anche nei giorni di festa, nella tranquillità della sua casa, tra codici e commentari. Una pronuncia in diritto costituisce sempre un impegno delicato, involge diritti ed interessi, l’onore delle persone, la loro immagine dinanzi alla comunità, in famiglia, nel luogo di lavoro. Un’ingiustizia, anche in una causa di scarso valore economico, è sempre un’ingiustizia, è una sconfitta del “Popolo Italiano”, nel nome del quale sono emanate le sentenze, è un’immagine negativa dello Stato, che al “servizio giustizia” dedica risorse, prima di tutto umane. Infine una sentenza ingiusta è un insuccesso professionale di chi l’ha redatta, una macchia nella sua “carriera” di uomo delle istituzioni. Al momento, e da molti anni, esattamente dal 1986, svolgo funzioni di Pubblico Ministero. Il mio compito è quello di chiedere conto a chi, amministratore o dipendente, gestisce risorse della comunità, di condotte che abbiano prodotto un danno allo Stato o ad altro ente pubblico. In caso l’azione o l’omissione che ha prodotto il danno (una spesa non dovuta o una minore entrata, per semplificare) sia dovuta a dolo o colpa grave è mio compito chiedere al giudice Corte dei conti una pronuncia di risarcimento del danno in favore dello Stato o dell’ente pubblico. È un compito delicatissimo il mio, con risvolti non indifferenti sul piano umano per le persone oggetto degli accertamenti. Chiamare un amministratore o un funzionario a rispondere di un “danno erariale” non è decisione che si assume a cuor leggero. Occorre un’accurata istruttoria che consenta di giungere ad una ragionevole certezza in ordine all’esistenza di un danno ed alla sua addebitabilità ad un soggetto che opera nella struttura, a titolo professionale, sia un dipendente o un soggetto esterno ma inserito nell’attività dell’Amministrazione. Indicarlo come “presunto responsabile” significa dargli un’etichetta, provvisoria, in attesa della pronuncia del giudice che solo può certificare il fatto dannoso, ma per qualche verso infamante. Chi viene chiamato a rispondere di danno all’erario ha mancato al suo giuramento di fedeltà alle leggi e di impegno professionale adeguato al ruolo rivestito. Un’accusa non da poco, di fronte ai colleghi di lavoro, ai subordinati, alla famiglia. Naturalmente c’è chi non si scompone, consapevole dell’illecito che aveva posto in essere nella speranza di farla franca, magari contando su coperture politiche o dei superiori, ma c’è anche chi ha sbagliato per incapacità, che non ne esclude la responsabilità giuridica, ma attenua quella morale, nei confronti della società. Mi sono attardato in queste considerazioni sul mio lavoro, che sono quelle di qualunque magistrato, sia applicato a funzioni giudicanti o requirenti o si occupi, nel caso della Corte dei conti, del controllo, di legittimità o sulla gestione, sempre a tutela della legge e del “buon andamento” dell’Amministrazione, per farmi conoscere meglio dai lettori di Un Sogno Italiano, un giornale che è nato con l’intenzione di offrire al vasto pubblico di frequentatori del web alcune riflessioni su fatti di interesse generale, prevalentemente istituzionali, cercando di dare ai singoli pezzi dei collaboratori un taglio rigorosamente indipendente. Ci siamo riusciti? Mi auguro di sì. È compatibile la direzione di questo giornale con il mio ruolo di magistrato? Ne sono convinto, altrimenti non avrei preso l’iniziativa. È evidente, infatti, che se, ai sensi dell’art. 21 della Costituzione, “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, questo diritto non può essere limitato per nessun cittadino. A meno che la pubblicazione non configuri un illecito espressamente previsto dalla legge. Anche un magistrato, dunque, può manifestare il proprio pensiero, con i limiti propri del suo ruolo, cioè senza incrinare l’immagine di indipendenza che gli deriva dall’essere soggetto “soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.), un’espressione che non ha il significato di una formalità, ma è destinata ad incidere profondamente sul costume del magistrato, nel senso che egli deve, come viene detto nel fervorino con il quale ci accolgono i più anziani, “apparire”, non solo “essere”, indipendente. Nel senso che un’indipendenza effettiva che fosse accompagnata da un atteggiamento esteriore non conforme a questo essenziale canone deontologico lederebbe agli occhi della comunità l’immagine del magistrato ed il prestigio della Magistratura. Naturalmente nessun limite può derivare al magistrato dall’esercizio di attività pubblicistica relativa a questioni giuridiche quali l’interpretazione della legge o l’annotazione di una sentenza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di dar conto di valutazioni di stretto diritto o di politica legislativa, in ordine all’applicazione della legge nel caso concreto o degli effetti di una riforma normativa proposta o approvata, in rapporto alle finalità che la sorreggono o al sistema nel quale essa si colloca. Ovviamente nessuno può parlare del caso del quale si occupa o si è occupato. Non sarebbe “elegante” commentare una propria sentenza o intervenire in una discussione che l’abbia provocata. C’è, poi, uno spazio ampio, quello delle riflessioni e degli studi su questioni di politica istituzionale, tra cronaca, storia e sociologia, che possono essere interpretate come espressione di un’opzione “politica” se coincidenti con posizioni di un partito politico. Qui conta il tono e la forma, e non è facile. Perché criticare una legge ritenuta inidonea a perseguire le finalità enunciate non può essere vietato, dal momento che nel dibattito la voce di un “tecnico” è essenziale, anzi dovrebbe essere sempre richiesta, meglio se in via preventiva. Convinto che mi sia consentito questo spazio di libertà, sulla base delle riflessioni che mi derivano dai miei studi di diritto, storia e sociologia, cerco di individuare esigenze della società civile, di capire quale forma possono assumere in relazione agli orientamenti e alle tendenze che emergono soprattutto sulla grande stampa d’informazione. Dico, quindi, come la penso, con valutazioni motivate, quasi mai coincidenti con posizioni di parte. Se capita, ed è raro che siano totalmente coincidenti, è un caso e non significa opzione “politica”. Tengo molto a questa mia indipendenza e soprattutto ad essere ed apparire “istituzionale”, come nelle collaborazioni ministeriali che, nel corso degli ultimi venti anni, mi hanno portato a svolgere funzioni di consigliere giuridico di vari ministri nell’ambito di una serie di amministrazioni, dalla funzione pubblica alle politiche comunitarie, dalla ricerca scientifica alla marina mercantile, dai lavori pubblici ai trasporti, alla sanità. Infine, nel quinquennio 2001 – 2006, da Capo di gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dei ministri, al quale nell’occasione è stato dato atto di aver scelto come suo principale collaboratore un tecnico non di partito e neppure “di area”, ho tenuto molto a tenere un costante, elevato profilo istituzionale, che mi è stato riconosciuto anche dai lettori del libro con il quale ho svolto riflessioni su quell’esperienza (“Un’occasione mancata – o una speranza mal riposta?”, Edizioni Nuove Idee). Lo sottolinea in particolare il “mal di pancia” di alcuni personaggi minori del sottobosco politico che hanno avuto da ridire soprattutto su quella “speranza mal riposta”, che è il vero titolo del libro. Ai politici piacciono gli yes men, gli agiografi, quasi mai gli uomini liberi. Perché dico queste cose rivendicando il “gusto della libertà”, il diritto alla manifestazione del pensiero, con il necessario “rigore istituzionale”? Perché qualcuno si sta preparando alla “campagna d’autunno”, quando si renderà disponibile un posto di funzione, quello di Procuratore regionale del Lazio, al quale posso legittimamente aspirare, tenuto conto del lungo esercizio delle funzioni requirenti, anche in posizione direttiva in una Procura regionale che ha dato buona prova di se, contribuendo all’elaborazione giurisprudenziale di importanti fattispecie di danno, in particolare da disservizio e all’immagine ed al prestigio della Pubblica amministrazione. Sicché, chi vorrebbe ostacolare questa ipotesi professionale, trae lo spunto da “Un Sogno Italiano”, dagli articoli che vi si pubblicano, miei e di altri collaboratori, per mettere in dubbio la mia immagine d’indipendenza. Lo hanno definito un blog, ma non è un diario personale. È un giornale a tutti gli effetti, libero e quindi, distinto e distante, per usare un’espressione cara al Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, da partiti e uomini di partito. Scriviamo tutti quel che pensiamo, senza condizionamenti, neppure psicologici. Lo dimostrano le battaglie sulla magistratura, a cominciare dalla durissima critica alla ricorrente proposta di separazione delle carriere. In pratica, anche quando parliamo di fatti di cronaca istituzionale scriviamo per la storia. È una manovra ignobile. Ho costantemente ispirato il mio comportamento di uomo e di magistrato, in pubblico e in privato, ad un rigore istituzionale assoluto, sempre riconosciuto da tutti. Inoltre il tentativo d’intimidirmi è destinato a sicuro fallimento. Nella mia lunga carriera ho condotto inchieste scomode, nelle quali ricorrenti “consigli” a lasciar correre sono rimasti costantemente inascoltati. A volte non erano proprio consigli, ma ugualmente non me ne sono preoccupato. Non lo farò neppure adesso, chiunque sia l’autore della chiacchiera, che tale rimane agli occhi delle persone per bene. E, poi, c’è sempre un giudice a Roma!
1 maggio 2008

Articolo precedente
Articolo successivo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

Gianluigi Biagioni Gazzoli on Turiamoci il naso e andiamo a votare
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B