Il Silvio furioso
di Senator
Pare che abbia sferrato un pugno sul tavolo al colmo dell’indignazione. “Ma come, deve aver pensato Berlusconi, io li porto in Parlamento, gente modesta, senza arte né parte, solo per votare quando lo dico io e come dico io e loro si allontanano dall’aula di Montecitorio proprio al momento della votazione e mandano il governo a picco”. Ira potenzialmente funesta, avrebbe detto Omero, ma lui cantava eroi ed eroine, non ragazzetti e ragazzette spesso dalle poche letture, perché, a sentire Feltri, che si è assunto il compito di portavoce, anzi portascritto del Cavaliere, il Silvio nazionale mediterebbe misure severe, prima tra tutte la divisione tra le carriere, stavolta non dei Pubblici Ministeri e dei Giudici, ma dei ministri e dei parlamentari, per impedire che, distratti dalle cure di governo, marinino le sedute a Montecitorio e Palazzo Madama. Ma perché si preoccupa e s’adira il Cavaliere? In fin dei conti chi è causa del suo mal… . Perchè è lui che li ha scelti, uno ad uno, una ad una, preoccupandosi se sono giovani, di bell’aspetto, elegantemente vestiti, non che fossero anche idonei alla bisogna. Non è stato forse lui a dire, ed a ripetere, alla vigilia delle elezioni, che gli sarebbero bastati trenta deputati in gamba perché gli altri avrebbero votato allineati. Singolare modo di valutare i propri collaboratori, disprezzandoli prima di metterli in campo. Per cui in campo non ci vanno. Li punirà certamente, senza pietà. Ma otterrà poco. Forse una cieca obbedienza, un modo di fare che offende chi la pratica e chi se ne serve. E che non ha mai funzionato molto bene a nessuna latitudine. Cambiare necesse est! Quo usque tandem… direbbe un novello Catone, difronte ad un’Italia la cui classe dirigente ha toccato certamente il livello più basso della sua storia. Tirando a campare, ha detto qualcuno, si rischia di tirare le cuoia.
31 luglio 2008
Intanto anticipa Pantalone
Se il giudice tarda a scrivere la sentenza rischia di pagare
di Iudex
“Sulla legge Pinto TAR Lazio batte Corte dei conti”. L’articolo di Antonello Cherchi su Il Sole 24 Ore di oggi (a pagina 28) deve aver fatto saltare qualcuno sulla sedia. Come mai questa “vertenza” si saranno chiesti a viale Mazzini, sede della Corte dei conti, e perché è finita così? In realtà il titolo tradisce in parte il contenuto dell’articolo, come spesso accade quando i giornali corrono dietro all’esigenza di colpire l’attenzione dei lettori. Si è trattato, più esattamente, di un avvertimento della Procura regionale della Corte dei conti ai colleghi del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. Una sorta di “ultimo avviso”. I fatti. In occasione dell’esame dei decreti con i quali la Corte d’appello di Roma decide sui ricorsi proposti dai cittadini che lamentano la eccessiva durata del processo, i magistrati della Procura regionale contabile avevano fermato l’attenzione su alcuni provvedimenti con i quali la Presidenza del Consiglio dei ministri era stata condanna al pagamento di somme per il mancato rispetto del termine della ragionevole durata del processo da parte del Tribunale Amministrativo del Lazio, Sede di Roma. L’attenzione dei magistrati contabili, come riferisce Il Sole 24 Ore, si era soffermata, in particolare su alcuni casi nei quali il risarcimento previsto dalla legge n. 89 del 24 marzo 2001 (c.d. “legge Pinto”) aveva riguardato procedimenti che, secondo la Procura, potevano essere definiti molto prima. Si trattava, infatti, di ricorsi del 1993, aventi ad oggetto l’accertamento del diritto all’adeguamento triennale dell’indennità giudiziaria prevista dalla legge n. 221/1988. Sul punto il TAR aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della l. 537/1993, che aveva interpretato autenticamente la l. 221/1988. La Corte costituzionale aveva respinto la questione per manifesta infondatezza, restituendo nel 1996 gli atti al Tribunale. Riassunto dalle parti il giudizio le cause sono state decise nel 2003. Alla Corte dei conti è parso che il tempo fosse troppo, considerato che, intervenuta l’interpretazione della Corte costituzionale, la decisione poteva essere assunta in una stessa udienza o comunque con una formula unica. Il periodo eccedente è stato, invece, calcolato in sette anni. Di qui l’ipotesi di danno erariale in conseguenza del pagamento dell’indennizzo per l’eccessiva durata del processo. Sennonché i chiarimenti forniti dal Presidente del TAR, Pasquale de Lise, che di recente ha assunto le funzioni di Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato hanno convinto la Procura che, ancorché siano stati irragionevolmente dilatati i tempi del processo, il danno erariale, rappresentato dal risarcimento ottenuto dai ricorrenti, non possa essere addebitato ai magistrati del TAR a titolo di colpa grave. de Lise ha, infatti, fatto presente il grave arretrato che si trascina da anni per effetto di un carico rilevante di ricorsi, in presenza di un numero di magistrati assolutamente insufficiente, come inadeguato è il numero dei collaboratori. Nell’archiviare il procedimento la Procura ha espresso “perplessità” sul comportamento dei colleghi del TAR . In sostanza ha ritenuto che vi fosse una qualche negligenza che, tuttavia, per effetto dell’ingente carico di lavoro non raggiunga il grado di colpa (grave) richiesto dalla legge. Come dire, uomo avvisato… Al romano TAR di via Flaminia avranno anche pensato a quell’aureo detto capitolino per il quale “alla prima si perdona, alla seconda si condona, alla terza si bastona”. Ed avranno tirato un sospiro di sollievo. Forse c’è ancora l’ipotesi del condono. Poi sarà meglio correre!
25 luglio 2008
Il “gestaccio” di Bossi e i Prof. del Sud
Senso dello Stato zero
di Senator
Caro Direttore, ricordo di aver letto nel tuo libro (Un’occasione mancata, Editore Nuove Idee) che Gianfranco Fini, all’epoca Vicepresidente del Consiglio, tornando da una riunione di maggioranza tenutasi a Palazzo Chigi, se ne uscì con un commento durissimo: “Senso dello Stato zero”. Non so, e tu non lo dici, a chi si riferisse il leader di AN, che’ più d’uno poteva suggerire quel commento, ma è certo che oggi se lo merita Umberto Bossi, il sanguigno tribuno del Nord Est, che ha costruito la sua fortuna politica cavalcando la protesta di lombardi e veneti verso Roma, per loro “ladrona” eppure, come ebbe a dimostrare qualche anno fa la Ragionerie Gen4rale dello Stato, generosa, molto generosa se riversa su quelle terre molto più di quanto preleva con tasse e tributi. Non è questo, tuttavia, il tema all’ordine del giorno, ma il “gestaccio” del Senatur all’Inno di Mameli e la polemica con i professori “stranieri”, cioè quelli che vengono dal Sud. Parlava in Veneto, la regione con la più alta dispersione scolastica, dove, cioè, i giovani lasciano l’istruzione obbligatoria prima della conclusione del ciclo di studi. Un problema che evidentemente non lo preoccupa. Ci ha messo molto in imbarazzo, ancora una volta, il Ministro “delle riforme per il federalismo”, come maggioranza e singolarmente, come cittadini eletti (so, caro Direttore, che tu preferisci dire “nominati”) in un Parlamento che rappresenta la Nazione, dalle Alpi al Lilibeo. La frase che ha scatenato Bossi, “che schiava di Roma Iddio la creò” in realtà è la fotografia esatta della storia, come ebbe a dire Camillo Benso di Cavour il 25 marzo 1861, nel proclamare solennemente che “Roma, Roma sola deve essere la Capitale d’Italia”. Storia a parte, passando alla cronaca, il Senatur continua ad essere la spina nel fianco della maggioranza e lo sarà ancora di più quando metteremo mano al federalismo fiscale, quando passeremo dalle parole ai fatti e dovremo stabilire una serie di norme di garanzia che non sempre gli piaceranno. Ricorrerà ancora alla demagogia becera di “Roma ladrona” o si ricorderà che lo Stato e gli enti pubblici sono i migliori clienti delle imprese del Nord Est, molte delle quali lavorano solo per il pubblico?
21 luglio 2008
Storie di ordinaria indifferenza
Nessuna pietà per le piccole rom annegate nel mare di Napoli
di Salvatore Sfrecola
La foto a pagina 18 del Corriere della Sera di oggi è terrificante. Due corpi, i corpi di due bambine rom di 13 e 15 anni, giacciono parzialmente coperte sulla spiaggia, a pochi metri da due bagnanti che prendono il sole, mentre un altro conversa al cellulare. Vendevano piccoli oggetti sulla spiaggia lì dove il mare bagna la sabbia. Un’onda più forte delle altre le ha prima risucchiate e poi sbattute con violenza su un gruppo di scogli. C’è stato, per la verità, un tentativo di soccorso di un giovane che poi ha riportato a riva i corpi e tentato di rianimarle. Un gesto di coraggiosa solidarietà rimasto alle cronache anonimo. Come anonimi sono i bagnanti che, disciolto il solito capannello intorno alle vittime, quasi per morbosa curiosità, sono tornati a spalmarsi di crema ed a prendere il sole. La morte a due passi da loro li ha lasciati indifferenti. Certo non avrebbero potuto far nulla per le piccole rom, due bambine di quelle che, nelle nostre famiglie, sono ancora coccolate da genitori e parenti e che, invece, nei campi nomadi sono addestrate all’accattonaggio o al borseggio, con onere di riportare a casa un tot di euro se non vogliono subire sanzioni. Queste vendevano cianfrusaglie ai bagnanti, in riva a quel mare che le ha tradite. Non potevano fare più nulla i bagnati, ma è difficile accettare che la morte lasci tanta indifferenza. Il cuore dei napoletani? Sta solo nelle canzonette! Neppure una preghiera per le piccole rom. Cuori indifferenti alla sofferenza altrui, senza carità, senza quel minimo di carità che dovrebbe caratterizzare l’uomo. E distinguerlo, mi viene da dire, dalle bestie. Poi mi vengono alla mente le immagini di piccoli animali domestici che assistono il padrone, che vegliano sulla sua tomba. E allora l’uomo che ha perso umanità, che non sa esercitare la carità, ha un cuore più arido di quelle che, con un pizzico di disprezzo, continuiamo a chiamare “bestie”.
20 luglio 2008
Qualche suggerimento, non richiesto, al Sindaco Alemanno
Napoli pulita (o quasi), Roma zozza!
di Marco Aurelio
Sono lieto per l’annuncio del Presidente del Consiglio! “Napoli torna in Occidente”. Alle falde del Vesuvio rimangono da smaltire “solo” duemila tonnellate di rifiuti, di quelli tossici, ma saranno avviati nei siti appositi anche questi, presto. A Roma, invece, è tutt’altra musica. La Città è sporca, maleodorante, ovunque, ma soprattutto nelle strade del centro storico, quelle dei turisti, quelle che sono l’immagine dell’Urbe in tutto il mondo. Per non parlare dei cassonetti che, con il caldo, emanano un fetore nauseabondo. In una parola la Città è romanamente zozza, terribilmente zozza. Tutto questo, caro Sindaco Alemanno, non fa onore a Roma. Hai perduto un’occasione, quella di una grande pulizia della Città, pratica ed un po’ anche simbolica, visto che sei stato eletto anche perché i nostri concittadini hanno giudicato fallimentare la precedente gestione. Fallimentare e dispendiosa, come affermi ogni giorno rinviando alle rilevazioni sui conti che i tuoi collaboratori ed il Ministero dell’economia hanno condotto all’indomani dell’insediamento della nuova Giunta. Invece, niente pulizia straordinaria che avrebbe dato ai romani il senso del cambiamento che al momento hanno percepito solo con il traffico impazzito e la sosta selvaggia, effetto evidentemente non immaginato della sospensione del parcheggio a pagamento. Chi non ha mai amministrato ed evidentemente non ha imparato neppure facendo opposizione può fare errori che comunque con un po’ di prudenza e buon senso potevano essere evitati. L’importante è imparare la lezione. Per amministrare una città, in particolare una come Roma, non servono ideologia né demagogia (questa, in particolare, fa molto male) ma un’attenzione ai problemi concreti della gente, primo tra tutti il traffico che tutti desiderano sia celere, che significa minuti di vita recuperati e vivibilità della Città, e la pulizia delle strade e dei marciapiedi dove hanno diritto di camminare anziani, donne e bambini senza fare slalom tra cacche di cani i cui proprietari hanno il dovere di raccoglierle e depositarle a loro cura. Ricordati caro Sindaco che l’amministrazione di Sinistra, a Bologna, cadde, come scrissero molti giornali, sulle cacche dei cani, cioè sulla pulizia, che è igiene e civiltà.
19 luglio 2008
Il difficile equilibrio dei poteri
Politica e Magistratura
di Salvatore Sfrecola
Per Sergio Romano, che oggi interviene sul Corriere della Sera con un editoriale dal titolo rassicurante Il Vero Rimedio, “la guerra fra politica e giustizia non è un fenomeno esclusivamente italiano. Esiste sin dagli inizi degli anno Novanta, anche se in forme diverse, in quasi tutte le maggiori democrazie occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Spagna alla Germania”. Sono un attento lettore di Romano, politologo e storico, editorialista brillante, con le cui analisi spesso concordo, anche in materia istituzionale. Ma questa limitazione del “conflitto” ad un periodo recente è sbagliata e può confondere le idee di “qualche lettore” al quale l’articolo vorrebbe fornire una chiave di lettura della situazione attuale, della tensione che oppone il Premier e parti della sua maggioranza alla Magistratura con una critica al funzionamento della giustizia (penale) che non sembra originata da una spasmodica volontà di perseguire il bene comune, dacché, semmai, come ha osservato Senator che oltre a fare il parlamentare frequenta le aule di giustizia facendo onore alla toga di avvocato, il vero problema per gli italiani è la giustizia civile, lentissima e tale da scoraggiare il cittadino dal ricorrere ai giudici. E da dissuadere l’imprenditore straniero dall’operare in Italia, proprio per l’incertezza del diritto che questa situazione determina. Perché, dunque, sbaglia Romano, quando limita agli anni Novanta il dies a quo, del fenomeno? Perché, in realtà, il conflitto tra politici e giudici è coevo all’esistenza delle istituzioni della società civile e della giustizia. Ovunque nel mondo, e da sempre, il potere politico non tollera controlli di legalità. Si sente svincolato dalla verifica che possono fare i giudici del comportamento dei suoi esponenti. Non lo tollerava il potere assoluto, che pur assumendo in se l’esercizio della giustizia, nel senso che i giudici erano funzionari del sovrano, dallo stesso nominati, qualche dispiacere a re e principi le toghe hanno sempre dato. Non lo tollera a maggior ragione il potere politico assistito dal consenso democratico, perché assume che solo il popolo possa giudicarlo. Ma dimentica che una cosa è la valutazione “politica” dell’operato degli eletti che spetta agli elettori, altra cosa è la valutazione, sotto il profilo del rispetto delle leggi, di comportamenti che collidono con regole di comportamento che la stessa classe politica ha definito in leggi e codici, assumendo che quei comportamenti destino allarme sociale. Per rimanere ai reati contro la Pubblica Amministrazione, pensiamo alla concussione ed alla corruzione, tipici reati dei gestori del potere (per chi ne avesse voglia rinvio ad alcune recenti pubblicazioni: C.A. Brioschi, Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri, Tea, Milano, 2004; P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia, Laterza, Bari, 2007; B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà, Il Mulino, Bologna, 2007). Proprio di questa mentalità è il linguaggio di chi ripete che i giudici non hanno una legittimazione popolare, non sono eletti, sono solo degli impiegati dello Stato con laurea in giurisprudenza. Qui dobbiamo fare almeno un po’ di chiarezza. E senza divagare molto tra filosofi e politologi, in Italia e all’estero, possiamo ricordare alcune importanti affermazioni della nostra Costituzione: “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98, comma 1); “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2); “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104, comma 1); “I magistrati sono inamovibili” (art. 107, comma 1). Bastano queste poche norme, delle molte altre che potrebbero essere richiamate per delineare meglio il quadro se dovessimo scrivere un saggio e non fare qualche annotazione sul un piccolo giornale on-line, per dimostrare che il Costituente, che aveva presenti alcune limitazioni di indipendenza che in precedenza avevano rivestito la giustizia di una maglia stretta, abbia voluto affermare come l’esercizio di pubbliche funzioni sia un servizio “esclusivo” alla Nazione, non alla politica, che è espressione traseunte delle scelte dei cittadini. Lo ha affermato per i dipendenti tutti, dall’usciere (oggi si chiama commesso) al direttore generale (oggi si chiama dirigente di prima fascia). Ed a maggior ragione lo ha affermato della magistratura indicando nella legge l’unico dominus del giudice, che pure giudica “in nome del popolo italiano”, con la precisazione che la magistratura “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Un ordine costituito da giudici di varie giurisdizioni, come ha spiegato bene la Cassazione, funzionari pubblici assunti sulla base di rigide prove selettive che ne accertano la preparazione professionale in diritto. Naturalmente in questa materia c’è spazio per riflessioni sulla validità della tecnica del reclutamento e sul controllo del lavoro svolto ai fini della verifica dell’attitudine del giudice ad essere impiegato in un determinato settore o ad assumere funzioni direttive. Nel senso che chi è bravo a stendere una sentenza non è necessariamente e per ciò solo idoneo a ricoprire il ruolo di presidente di una sezione (presiedere una camera di consiglio che porti ad una determinazione corretta in diritto non è semplice) o di un tribunale, funzioni nelle quali occorrono altre capacità, organizzative, manageriali. E’ solo un’enunciazione di problemi non facili da risolvere. Anche la valutazione del lavoro dei giudici non è agevole. Le sentenze non si possono solamente contare. La sentenza sulle responsabilità per un incidente stradale non è la stessa cosa di una pronuncia su una vicenda di corruzione. La sentenza più breve impegna qualche ora, ma vi sono sentenze per stendere le quali è necessario un rilevante impegno, oltre a quello che ha preceduto l’udienza. Qualcuno ha pensato che queste attività potessero essere valutate da chi è abituato a fare il controllo di efficienza di un’impresa metalmeccanica o di un’impresa di pulizie! Tornando al tema dei rapporti tra politica e magistratura Romano ritiene che uno dei motivi del contrasto tra giudici e politici sia conseguenza della delega che questi avrebbero dato ai giudici nella lotta a terrorismo, mafia e corruzione che li avrebbe “implicitamente incoraggiati a uscire dal loro ruolo tradizionale”. Questa frase, che vorrebbe, chiarire le ragioni del conflitto non raggiunge l’obiettivo. Perché è vero certamente che nell’equilibrio dei poteri e, soprattutto, nella distinzione delle attribuzioni c’è stata un po’ di confusione, pericolosa, come quando i pretori facevano tagliare gli alberi lungo le strade ritenendo che costituissero un pericolo messo in risalto dall’incidente mortale del quale si erano occupati, con ciò invadendo una sfera di attribuzione propria dell’autorità di governo. Come in materia ambientale, dove alcuni giudici sono stati indotti a dettare di fatto con le loro sentenze norme sulla tutela al momento inesistenti. Ma questo è potuto avvenire per l’assenza dell’autorità politica, parlamentare e di governo, per cui ne sono venute certe invasioni di campo, peraltro spesso gradite all’opinione pubblica. Come alcune indagini riguardanti la salute e l’alimentazione, che hanno impegnato il Procuratore aggiunto di Torino, Guariniello. Tuttavia quando si hanno invasioni di campo o fughe in avanti, secondo il linguaggio giornalistico e le occasioni, c’è sempre la possibilità di rientrare rapidamente nelle regole del sistema, ammesso che siano state violate. Chi governa impugna le sentenze, chi ha il compito di fare le leggi, corregge quelle che ritiene sbagliate o insufficienti o ne scrive di altre. Il fatto è che in Italia spesso si cercano soluzioni di compromesso. Cosa che non va bene. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità prima di tutto nel ruolo che l’ordinamento gli assegna. Quindi nulla di nuovo sotto il sole. I politici sgomitano nell’intento di perseguire loro, legittimi, obiettivi politici. Ma questo deve avvenire nel rispetto delle leggi e delle regole della buona amministrazione. Faccio spesso un esempio ai politici che rivendicano il loro ruolo e la loro autonomia di “eletti dal popolo”. Se un amministratore locale costruisce un campo di bocce invece di un campo di calcio se la vedrà con i suoi elettori. Forse lo voteranno gli over sessanta, che sembra prediligano le bocce, ma non avrà il consenso dei giovani che amano il gioco del pallone. E’ una scelta politica e la valutazione è politica. Ma se l’impresa che ha realizzato il campo di bocce ha ottenuto l’appalto corrompendo, se l’opera non è realizzata a regola d’arte e ad un costo superiore al giusto qualcuno ne dovrà rispondete dinanzi al Tribunale penale ed alla Corte dei conti. In un ordinamento come il nostro, con rigide norme su attribuzioni e competenze tutto dovrebbe filare liscio e comunque vi sono gli strumenti per rientrare sempre nella normalità. Il conflitto che è sullo sfondo dell’articolo di Romano dà l’impressione di essere il prodotto di un tentativo di parti della classe politica di avere la possibilità di attuare una disinvolta gestione della res publica. Lo dimostra il richiamo costante, anzi l’esaltazione dell’imprenditoria privata, un esempio non sempre calzante, considerato che, tranne qualche piccolo imprenditore, molte delle nostre aziende di medie e grandi dimensioni godono di agevolazioni pubbliche ed un buon numero di esse hanno negli enti pubblici i principali clienti. Una situazione che certamente favorisce legami e intrecci di interessi che a volte possono essere illeciti. Ho scritto più di quanto avevo immaginato quando mi sono messo al computer. Me ne scuso con i lettori ai quali, comunque, spero di aver offerto qualche spunto di riflessione.
19 luglio 2008
Verso una nuova “occasione mancata”?
Il premier cala nei sondaggi
gli italiani non ne condividono le “priorità”
di Senator
Caro Direttore, non sono un mago, non ho facoltà divinatorie, ma parlo con la gente, un po’ come il Federico II che hai ricordato qualche giorno fa. E ne percepisco il polso, sento che non è interessata alla giustizia penale, quella che assilla il premier. Semmai è la giustizia civile che interessa gli italiani. Ognuno di noi, infatti, ha almeno un ricorso al Giudice di pace per una multa sbagliata o una causa condominiale! Ma soprattutto preoccupa il caro prezzi e mutui e la pressione fiscale, che forse non aumenterà nominalmente ma certamente per effetto dell’aumento del costo della vita. Così non mi hanno stupito i sondaggi Gfk-Eurisko, con il 63% delle famiglie italiane il quale pensa che la propria situazione finanziaria sia peggiore rispetto a un anno fa, il livello più basso da sei anni e mezzo, con un saldo, tra ottimisti e pessimisti, negativo anche guardando al futuro. Secondo quel sondaggio, il 29% degli italiani pensa che il comportamento degli ultimi mesi tenuto da Silvio Berlusconi abbia migliorato l’economia del Paese, il 33% che non l’abbia mutata e il 16% che l’abbia peggiorata. Anche se è un risultato molto migliore di quello ottenuto da Prodi a marzo, quando il 72% degli italiani pensava che l’allora presidente del Consiglio avesse peggiorato le cose il dato non è confortante. Secondo il sondaggio Gfk-Eurisko la “luna di miele” tra il governo e i suoi elettori è finita: nell’aprile scorso l’indice globale di fiducia (Ics) tra coloro che hanno votato centrodestra era di 79 punti su una scala di 100, il risultato più elevato degli ultimi tre anni. Ora si trova a 52 punti, praticamente lo stesso di quanto registrato tra gli elettori di centrosinistra (49 punti). Confermato il maggior interesse degli italiani per i temi economici: il 61% pensa che la priorità del governo sia questa (il 19% si concentra su lavoro e occupazione, il 17% salari e pensioni, il 15% sull’economia generale e il sulle 10% tasse), contro il 23% che indica l’ordine pubblico quale massima priorità: il 13% chiede soprattutto lotta alla criminalità, il 9% un freno all’immigrazione e solo l’1% misure contro il terrorismo. Anche a fare prudenziali sconti sui sondaggi il dato deve preoccupare perché il Paese ha bisogno di essere governato. Ci avviamo verso una nuova “occasione mancata”, come hai titolato il tuo ultimo libro, caro Direttore? Mi auguro di no. Noi, consentimi per l’idem sentire de re publica, che percepisco dalle nostre frequentazioni, siamo uomini delle istituzioni, liberali alla Luigi Einaudi, ispirati dal pensiero dei grandi filosofi del diritto e dello Stato mediato dalla dottrina sociale della Chiesa. Non siamo per questa o quella coalizione né per questo o quel partito, anche se io milito in un partito, ma per gli uomini che con onestà d’intenti, ovunque siedano in Parlamento, perseguono il bene comune con rigore ed onestà. Non siamo fuori tempo, come potrebbe apparire. Siamo anche molti, più di quanti le cronache giornalistiche e televisive facciano ritenere. E non ci arrendiamo all’andazzo!
18 luglio 2008
Gli italiani ad un passo dalla felicità!
Le priorità sono l’immunità parlamentare, la separazione di P.M. e giudici, non come arrivare alla quarta settimana del mese, sopravvivere al carovita, alla pressione fiscale, ai mutui impazziti, alla malasanità
di Senator
Il premier ha stabilito la graduatoria delle priorità per gli italiani e, quindi, anche la misura della loro soddisfazione, in una parola della felicità. E così, nonostante quel che scrivono i giornali sulle difficoltà delle famiglie, sul peso della pressione fiscale, sui dati Istat che registrano l’aumento dei prezzi soprattutto nei generi di grande consumo, mentre il Governatore della Banca d’Italia dimezza le previsioni della crescita per l’anno in corso ed il prossimo, Silvio Berlusconi ridisegna la scala delle priorità e mette al primo posto l’emergenza giustizia. Sono l’immunità parlamentare, all’indomani di un grosso scandalo che ha come imputato i vertici della Regione Abruzzo, la separazione delle carriere di Giudici e Pubblici Ministeri, la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, le priorità per gli italiani, che potranno ancora stringere la cinghia e sperare di sopravvivere alla quarta settimana del mese, ancora tartassati dal fisco (Tremonti ha detto che non ci sono soldi, quindi niente alleggerimento della pressione fiscale), angosciati dai tassi “variabili” (all’insù, ovviamente) per i mutui di quanti hanno comprato casa dalle società di “intermediazione” che hanno acquisito gli immobili degli enti pubblici per rivendere le case a prezzi doppi. Cominciamo ad essere preoccupati, noi della maggioranza. Ci rendiamo conto ogni giorno di più di essere su un vulcano che brontola e minaccia fuoco e fiamme. La gente non ne può più e la capacità propagandistica del premier e dei suoi “consiglieri” ha una forza di persuasione evidentemente limitata nel tempo. I problemi reali per l’italiano onesto non sono l’immunità dei parlamentari per reati commessi prima e durante il mandato parlamentare. Perché il cittadino medio li vorrebbe al di sopra di ogni sospetto, non coinvolti in bustarelle o abusi vari, un po’ simili a lui che non ha velleità concussorie e mazzettare, che lavora onestamente versando al fisco quanto è dovuto. Alcuni di noi stanno meditando di mettersi alla finestra, per poi distaccarsi dal Partito delle LIbertà, che un po’ usurpa il nome glorioso di Libertà che fu bandiera del Partito Liberale, piccola ma nobile formazione di integerrimi servitori dello Stato. E’ vero che siamo stati “nominati” e non eletti, ma molti di noi sono convinti di poter ugualmente tornare in Parlamento a rappresentare gli italiani onesti. E, comunque, la libertà individuale e gli ideali che professiamo non possono essere mercanteggiati con la medaglietta parlamentare. Ci consultiamo anche per meditare sul futuro, più o meno prossimo. I malori di Berlusconi in pubblico fanno ritenere, secondo un prudente calcolo probabilistico, che ne abbia avuti almeno altrettanti in privato. E poi la guerra alla Magistratura, oltre ad essere una pessima espressione dell’esercizio arrogante del potere esecutivo nei confronti del giudiziario, non è certamente gradita agli italiani, al di là delle scarsamente credibili rilevazioni di Mannheimer. Perché, ad esempio, non si parla mai della giustizia civile e dei suoi tempi biblici, che certamente interessa più gli italiani dell’impunità di alcuni mestieranti della politica?
17 luglio 2008
Eluana: una condanna a morte
in un Paese che l’ha abolita per Costituzione
di Paola Maria Zerman
Eluana dovrà morire, di fame e di sete, lentamente, giorno dopo giorno! Nonostante nella Costituzione della Repubblica Italiana sia solennemente affermato che “non è ammessa la pena di morte” (art, 27, comma 3) i giudici della Corte d’appello di Milano hanno stabilito che Eluana Englaro dovrà cessare di essere alimentata. Non, si badi bene, che debbano cessare cure per mantenerla in vita, che debba venir meno il cosiddetto “accanimento terapeutico”. Né si tratta di “staccare la spina”, perché non c’è nessuna spina da staccare. Eluana, infatti, respira da sola e per farla morire è necessario far cessare la sua alimentazione.
Una condanna a morte, orribile, incredibile nel Paese civilissimo, culla del diritto romano e della civiltà cristiana. Una morte lenta, due tre settimane, si dice, nella convinzione, tutta da dimostrare, che Eluana non percepisca questa sua condizione di lenta agonia per inedia e disidratazione. Un’ipocrisia senza limiti, anche perché i giudici hanno messo in bocca, si fa per dire, alla stessa condannata la sua sentenza, deducendo che quella che loro hanno assunto sarebbe stata la sua volontà, se avesse potuto esprimerla. Una “volontà” desunta dal suo “vissuto” e dai suoi “convincimenti etici”.
Siamo di fronte ad una gravissima lesione dei diritti della persona che vanno al di là del caso specifico, che registra la solita esultanza di quella che è stata chiamata “la compagnia della pessima morte”.
I giudici si sono assunta una grossa responsabilità, terribile! Hanno detto, in sostanza, che a colui il quale non è in grado di mangiare e bere autonomamente è possibile interrompere l’alimentazione, certo in presenza di uno stato di incoscienza. Che nessuno è in condizione di dire se temporanea o meno.
Aldo Loiodice, costituzionalista, docente all’Università di Bari, ha detto al Foglio che la sentenza di Milano “è abnorme, perché nega il principio primario del diritto alla vita. Non siamo di fronte al diritto di rifiutare le terapie e anche la nutrizione, attraverso una volontà liberamente espressa. In questo caso non c’è nessuna volontà, se non quella dei tutori della Englaro. E’ un fatto moralmente e giuridicamente inaccettabile. Viene invocato il diritto a uccidere una persona attraverso la negazione dei supporti minimi per la sua sopravvivenza. Quello di Eluana non è un corpo privo di valore, ‘è’ Eluana. E il suo tutore non può intervenire su diritti personalissimi, che non ammettono rappresentanza”.
Secondo Eugenia Roccella, parlamentare e Sottosegretario al Ministero del lavoro, “la decisione di porre fine a una vita umana non richiede dunque nemmeno quelle cautele che riguardano le normali volontà testamentarie su beni materiali”.
Monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia accademia pro-vita, si è chiesto “come sia possibile che il giudice si sostituisca in una decisione come questa alla persona coinvolta, al legislatore”. Mentre sottolinea che “Eluana è ancora una ragazza in vita. Il coma è una forma di vita e nessuno può permettersi di porre fine a una vita personale”.
Sullo sfondo, una concezione della vita dal forte sapore economicista, che considerando troppo costosi sul piano assistenziale questi pazienti, escluda la tutela della loro salute, assicurata a tutti.
È bene pensare agli effetti di siffatta impostazione, che può arrivare ad affermazioni che già hanno fatto inorridire il mondo intero in un recente passato. Va curato un disabile? Ed un pazzo? Per Adolfo Hitler erano elementi da eliminare. Quando entrano nell’ordinamento certi “principi”, la deriva è assicurata, come un fiume in piena che non si ferma più.
Il riferimento al Nazismo ed alle sue leggi sulla razza e sui diversi (i malati gravi, soprattutto) faranno pensare ad un’esagerazione, ma anche in quel caso si cominciò da affermazioni generiche, che poi sono state alla base di successive più pesanti statuizioni.
Scardinare il principio della non disponibilità della vita umana e del dovere, proprio di ogni società civile, di non legittimare forme di abbandono nei confronti dei propri cittadini, che non sono in grado di provvedere a loro stessi, è gravissimo. Con un grave problema deontologico per la classe medica che si trova a confrontarsi con il dovere fondamentale del prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere.
Per non dire dei problemi giuridici posti da espressioni di volontà sostitutive del paziente incapace di esprimerle, affidato a tutori o giudici, quando la morte può costituire diritti in capo ad altre persone.
Un groviglio di problemi, etici e giuridici troppo frettolosamente risolti. Che rimangono aperti e drammatici per tutti coloro che credono nella vita, nella sua sacralità e nel diritto delle persone, che tali rimangono anche in coma.
16 luglio 2008
Ancora un’occasione mancata
Parigi e non Roma al centro del Mediterraneo
di Salvatore Sfrecola
Un tempo il mare Mediterraneo era “nostrum”, in latino, come si deve in omaggio alla storia e alla verità, come dimostra il paesaggio dei paesi rivieraschi ricco di memorie romane, dalla Libia alla Tunisia. Memorie di una civiltà altissima, che ha fatto per secoli della tolleranza, nel rispetto delle leggi, il motivo dell’incontro di popoli diversi, con culture diverse, civili e religiose. Oggi l’Europa, fragile nella sua struttura politica, che non ha convinto gli irlandesi, come non aveva convinto nel 2006 francesi ed olandesi in sede di ratifica del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, ha bisogno di aprirsi a Sud, di divenire l’interlocutore privilegiato dei paesi del Medio Oriente per i quali spesso l’Occidente ha soprattutto il volto arcigno dello Zio Tom, del quale hanno imparato a diffidare. C’è più feeling naturale tra i figli del Mediterraneo rispetto a quelli nati sulle sponte dell’Hudson o del Missippipi. L’Europa ha bisogno di questa apertura, politica ed economica. Ed è presente a Parigi, al vertice dei quaratasette Capi di Stato e di governo, i ventisette dell’UE più venti dei paesi rivieraschi. L’idea del Presidente Sarkozy è quella di varare un patto di collaborazione tra tutti i paesi presenti sulle rive della Senna, in gran parte ancora da definire, per difficoltà obiettive, prima tra tutte la presenza di Israele e il malessere di alcuni stati arabi. Tanti gli argomenti all’ordine del giorno, espliciti o sullo sfondo. Come «i benefici economici della creazione di una Zona di libero scambio nella regione Euromed dal 2010» o la «volontà di promuove flussi di migrazione legali». Più semplice accordarsi su ambiente, trasporti, energia alternativa, educazione, commerci. “Il Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo”. Il Presidente francese mette tutto il suo prestigio nel Summit parigino. Insegue da sempre il sogno di un grande palcoscenico sul quale far confluire le discussioni politiche e le decisioni finanziarie, di un Club Med nuovo e senza precedenti, un nuovo Impero Romano, come qualcuno ha detto. Sarkozy ne parla da prima di essere eletto e adesso, alla guida semestrale dell’Europa comunitaria, s’impegna a fondo, incurante della freddezza della Germania o di altri paesi dell’Est, timorosi di vedere spostare il baricentro degli interessi e dei fondi UE. E l’Italia? Ancora una volta la vocazione naturale del nostro Paese è mortificata dalle distrazioni della politica. L’Italia, che vive sul Mediterraneo e che ha da sempre un rapporto privilegiato, soprattutto culturale, con i Paesi con i quali la Roma repubblicana e imperiale aveva stretto rapporti che sono durati nel tempo, se Sant’Agostino si diceva romano e Terulliano, ad impero dissolto, parlava in nome della civiltà di Roma. Eppure quella Roma, “onde Cristo è romano” a Parigi è sul margine. L’Unione, si dice, avrà una co-presidenza biennale (Francia e Egitto per cominciare) e un segretariato. La sede? Si parla di Bruxelles, un compromesso. Ci siamo persi in chiacchiere. Abbiamo rincorso problemi enfatizzati dai mass media per seguire le elucubrazioni ideologiche di questo o quel leader politico. E così ci sediamo in seconda fila ad assistere ad uno spettacolo del quale avremmo dovuto avere la regia. Per vocazione. Se seguissimo le vocazioni autentiche!
13 luglio 2008
Satira e volgarità
Sempre attuale scherza coi fanti e lascia stare i santi
di Salvatore Sfrecola
La satira stimola l’intelletto, in politica e nella vita, smitizza chi “si crede”. Ma perché sia satira vera è necessario il tratto garbato e tagliente, la frusta che cala veloce e impercettibile. La satira non può essere mai volgarità gratuita, cioè non necessaria. D’altra parte quando mai la volgarità potrebbe essere necessaria se si vuol mettere qualcuno alla berlina. Gli insulti a Papa Benedetto XVI non sono satira, non hanno niente a che vedere con la satira. E’ esibizionismo allo stato puro, ricerca del fatto sensazionale per stare in cronaca a tutti i costi. Peccato! Di satira vera in questo Paese ci sarebbe bisogno per far capire a chi detiene il potere che i cittadini vigilano sulla classe politica, che non è formata da intoccabili, non all’indiana, ma come intendiamo noi, la casta, anzi le caste che ritengono di non dover rendere conto a nessuno, non al popolo e nemmeno alla magistratura. Ma se si cade “così in basso”, come ha scritto oggi l’Avvenire, non si fa un buon servizio all’intelligenza degli italiani. Quanto al Papa, premesso che non si comprende cosa c’entrasse con i temi della manifestazione, il vecchio adagio, consolidato dalla saggezza dei secoli, ci ricorda che è bene scherzare con i fanti e lasciar stare i santi.
9 luglio 2008
Uto Ughi esegue Schubert
in un concerto di beneficenza per un’iniziativa
del Lions Club Roma Amicitia in favore dei giovani
di Salvatore Sfrecola
Splendida esecuzione ieri sera a Roma del Quartetto per archi n. 14 D.810 “La morte e la fanciulla” di Franz Schubert. Con il Maestro Uto Ughi, Maryse Regard, violino, Raffaele Mallozzi, viola e Gianluca Giganti, violoncello. Nella sala Casella di Villa Vagnuzzi, in via Flaminia 118, sede dell’Accademia Filarmonica Romana, presente un pubblico di amanti della musica cameristica, l’iniziativa è stata presentata dall’Ing. Pier Mauro Tocchi, che ha presieduto il Club Roma Amicitia, il quale ha illustrato il Progetto Internazionale Adolescenza Lions Quest che si propone di aiutare i giovani nei rapporti con la scuola. Il Quartetto n. 14, ha spiegato il Maestro Ughi prima di imbracciare il suo splendido Stradivari, nasce da un breve Lied su una lirica di Mathias Claudius riguardate un dialogo tra la Morte ed una fanciulla. Il testo aveva molto impressionato il compositore viennese perché presentava la morte come una dolce consolatrice, rifuggendo dalle più consuete raffigurazioni lugubri e spettrali. La musica segue il dialogo tra la Morte che vuole ghermire la giovane e questa che la respinge, rifiuta la stessa idea di abbandonare la vita. Poi la Morte la rassicura ed invita la giovane ad rifugiarsi tra le sue braccia. La musica di Schubert segue questo percorso, dall’iniziale agitazione della fanciulla all’abbandono fiducioso nell’aldilà. La musica è forte, beethoveniana come ha spiegato il Maestro nella prima parte, quando si sente l’inquietudine resa mirabilmente da un incessante ritmo a terzine che conferisce al brano una notevole dinamicità. Poi il tratto si rasserena in un abbandono dolcissimo, rassicurante. Applausi scroscianti e una richiesta di bis che il Maestro ha soddisfatto dimostrando le sue capacità professionali con l’esecuzione di un capriccio di Paganini, di quelli più noti e più difficili . A conclusione Alessandro Casali, Presidente del Gruppo Meeet, che organizza le attività musicali del Maestro Ughi, ha preannunciato una serie di concerti che si terranno dopo le ferie per far conoscere la musica ai giovani e richiamare l’attenzione delle politica su un tema essenziale della cultura italiana eppure trascurato. L’Italia, aveva ricordato il Maestro nella sua introduzione, ha solo 15 orchestre mentre la Germania ne ha più di 150. E’ un segnale della disattenzione della classe politica per un settore nel quale il nostro Paese eccelle, come dimostra la presenza crescente di studenti stranieri nel nostri conservatori. Al termine del concerto i presenti si sono trattenuti per un coctail di saluto negli splendidi giardini di villa Vagnuzzi offerto dal Club Amicitia.
9 luglio 2008
Politici, sentite la gente, imitate Federico II di Svevia
di Salvatore Sfrecola
Spesso si ha la sensazione che i politici nostrani siano scollegati dalla realtà di tutti i giorni, dalle esigenze e dalle preoccupazioni della gente. Si è detto più volte, commentando i risultati elettorali a livello nazionale e locale. Questa o quella forza politica sembra composta da gente che non va al mercato, non gira per la città, non prende l’autobus o un treno, non ha bisogno di una prenotazione ospedaliera e via dicendo delle esigenze quotidiane della popolazione. Per cui non si accorgono che i prezzi aumentano, che le strade sono piene di buche, che i marciapiedi, sono ingombri di moto che impediscono la deambulazione agli anziani, a chi ha difficoltà, alle mamme con carrozzina, oltre ad essere maleodoranti per la sporcizia che solo l’intervento di Giove pluvio può eliminare (eppure nella mia infanzia ricordo autobotte che percorrevano la città d’estate per pulire quanto meno l’area riservata ai veicoli). C’è da chiedersi se qualcuno della giunta comunale si sia mai accostato ad un cassonetto. C’è da svenire per il cattivo odore. E venendo a parlare della sanità, un tema di generale interesse, sanno i nostri politici che certe prenotazioni di visite e di interventi chirurgici rischiano di essere fissati quando il paziente non c’è più? E’ successo, non dico niente di nuovo. A questi politici “di professione” vorrei suggerire di imitare Federico II di Svevia, non a caso definito Stupor Mundi, il quale, tra le altre iniziative che lo hanno reso famoso quale sovrano saggio e preveggente, aveva l’abitudine di sentire le opinioni della gente. Usciva dal suo palazzo, si vestiva in modo da non essere riconosciuto e si recava al porto ed al mercato, la famosa Vucciria, resa celebre dallo splendido quadro di Guttuso. Confuso tra i suoi sudditi, parlando con tutti (Federico conosceva il greco e l’arabo) s’informava soprattutto del gradimento del suo governo, dell’accoglienza che il popolo riservava alle sue iniziative. Cercava di capire anche se i suoi funzionari erano capaci ed onesti e se veniva a sapere di qualche dipendente corrotto, lo chiamava e platealmente lo puniva. Dei politici nostrani non ho mai incontrato nessuno al mercato, se non alla vigilia delle elezioni, quando è necessario fare la passerella per cercare consensi. Il solo Raffaele Costa, da Ministro della sanità, si mise in coda allo sportello delle prenotazioni ospedaliere per avere il polso della situazione. Lontani dalla gente, presidenti, ministri, sindaci e assessori vivono una realtà virtuale che non consente loro di percepire le effettive esigenze degli amministrati, che spesso potrebbero soddisfare con poche iniziative intelligenti.
.9 luglio 2008
Meglio ministri tecnici o politici?
di Salvatore Sfrecola
Botta e risposta tra il Ministro dell’istruzione ed il Senatur. Bossi aveva criticato la scelta della Gelmini alla guida del Ministero di viale Trastevere, perché “non ha mai insegnato”. Pronta la replica: “neanche Bossi è un eminente costituzionalista ma sono felice che sia ministro”. Sono gli argomenti di un dibattito permanente nella vita politica italiana, soprattutto con riferimento ad alcuni settori. La sanità, in particolare, ma anche l’economia, la giustizia. E’ meglio li guidi un tecnico o un politico? Una regola valida per tutti i ministeri e per tutti i ministri non c’è. I ministri “tecnici” sono stati presenti prevalentemente in governi che un tempo si chiamavano “balneari”, perché destinati a durare quanto il periodo delle vacanze estive. Tutta brava gente, ma nessuno li ricorda perché non hanno fatto quasi mai buona riuscita. Il tecnico, il docente universitario o il professionista della materia sono frenati dall’impostazione teorica propria della cultura accademica, hanno difficoltà nel dialogare con i funzionari, anch’essi tecnici, ma con esperienza sul campo, non sempre riescono a farsi capire delle categorie interessate. Il fatto è che raramente i tecnici hanno la sensibilità politica occorrente a svolgere un ruolo politico, quello del governo. Negli anni scorsi hanno fatto buona prova di se alla sanità Elio Guzzanti, medico illustre con vasta esperienza di gestione di strutture ospedaliere, ed Umberto Veronesi, manager della sanità privata. La sanità, tuttavia, costituisce un terreno dove la gestione quotidiana delle strutture ha un peso rilevante e, più di altri settori, giustifica la presenza di un tecnico con sensibilità sociale. Per trovare un tecnico con visione ampia della realtà politica ed amministrativa, che abbia illustrato l’Italia ed il governo, dobbiamo tornare indietro negli anni, a fine ‘800 e nel primo decennio del ‘900, per incontrare Giovanni Giolitti, grand commis dello Stato, che ricordava sempre quanto avesse giovato alla sua attività politica di ministro delle finanze e dell’interno e poi Presidente del Consiglio la lunga esperienza di Consigliere della Corte dei conti con funzione di Segretario generale e quindi responsabile del controllo sugli atti del governo. Poi Gaetano Stammati, altro dirigente dello Stato (diresse le direzioni generali delle tasse e delle partecipazioni statali) passato a guidare il Ministero del tesoro, sua la riforma del bilancio dello Stato del 1978, e poi i ministeri del commercio con l’estero e dei trasporti. Tecnici di elevata preparazione con grande sensibilità politica. Rari casi nell’esperienza italiana, frequentissimi nella vicina Francia, che ha avuto ministri, primi ministri e presidenti della Repubblica provenienti dall’Amministrazione pubblica, allievi dell’ENA, l’Ecole Nationale d’administration. Un ministro, dunque, non deve essere un tecnico. Deve, invece, avere vasta sensibilità ed esperienza politica che gli consenta, con l’aiuto dei tecnici dell’Amministrazione e con gli esperti ai quali ritiene di dover chiedere consigli, di interpretare le esigenze della comunità. Del resto anche Napoleone Bonaparte non era un giurista, ma la sua partecipazione alla Commissione che curava la riforma del codice civile e gli interventi che sono annotati a verbale dimostrano che quel generale vittorioso sui campi di battaglia di mezza Europa aveva anche una grande capacità politica e molto equilibrio, sicché ha offerto ai giuristi di professione un apporto significativo in una materia, la disciplina dei rapporti privati, che interessa la gente. Tornando alla disputa che ha mosso queste nostre considerazioni, la Gelmini non ha insegnato ma ha studiato e certamente si sarà fatta un’idea di quel che va e non va nella scuola. E magari avrà qualche amica che insegna o ha insegnato. Forse, inoltre, ha letto di scuola e si è fatta un’idea di come le cose vanno o non vanno in Italia e in qualche altro paese. Ugualmente il Senatur, come Napoleone non è un giurista, ma con la sua esperienza si rende conto di come guidare la navigazione della barca della Costituzione, tenendo conto di esigenze pratiche di funzionamento delle istituzioni e della necessità di realizzare di un federalismo fiscale che garantisca una equa distribuzione delle risorse dalle Alpi al Lilibeo. Entrambi i ministri hanno tecnici di valore nelle loro strutture, li sollecitino a dare il meglio di se per mettere a punto le riforme che il Paese attende e, soprattutto, li invitino sempre a dire come la pensano veramente per approfondire seriamente le questioni. Non si fidino di quanti pensano solo a compiacerli. Con il parere degli yes men non si va lontano.
6 luglio 2008
Il falso problema della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri
di Salvatore Sfrecola
Ieri sera sulla prima rete televisiva, in una trasmissione che ho seguito solo in parte, per cui non ho ben compreso quale ne fosse la finalità, che aveva come protagonisti Ferruccio De Bortoli, direttore de Il Sole 24 Ore, ed il Professore Giovanni Sartori, condotta da un ridanciano Fabrizio Fizzi, ad un certo punto all’illustre studioso fiorentino trapiantato a New York è stato chiesto da Bruno Vespa un giudizio sulla giustizia in Italia. Naturalmente nell’intesa, che nell’interlocuzione del giornalista interrogante era implicita, che ci fosse un ennesima critica alla Magistratura. Il Vespa nazionale non è andato deluso e quel toscanaccio di Sartori si è subito diffuso sull'”anomalia italiana” dicendosi favorevole alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, aggiungendo che solo in Italia le cose vanno male. Lui che evidentemente è un esperto di giustizia e non ha avuto nulla a ridire su quella che a me sembra un’anomalia vera, l’elezione, negli Stati Uniti, di giudici e Procuratori distrettuali, con tutte le conseguenze negative di chi deve amministrare la giustizia dovendo rispondere a chi lo ha eletto e spera che lo rielegga. E’ triste, veramente triste che di un problema come quello dell’esercizio dell’azione punitiva dello Stato si senta parlare e straparlare senza nessuna cognizione dell’ordinamento e valutazione delle conseguenze che ne derivano o ne deriverebbero dalla riforma proposta che, dice Sartori, sarebbe voluta anche da ampi settori della Magistratura. Non risulta, ma non è detto che non ci sia qualcuno che desidera ardentemente farsi male e, soprattutto, fare male al Popolo Italiano, in nome del quale, come si legge nella Costituzione, le sentenze vengono emesse. Vediamo un po’ di riordinare le idee. Punto primo, in Italia la giustizia non funziona bene. I processi civili, quelli che interessano cittadini ed imprese ed incidono sulla qualità della vita di relazione e sulle attività produttive e commerciali, sono troppo lunghi. E’ una situazione che tiene lontani anche gli imprenditori stranieri, abituati, nei paesi d’origine, a tempi certi. Punto secondo, la giustizia penale, quella che ha il compito essenzialmente di punite i comportamenti che destano allarme sociale ha scarsa efficacia. Anche qui i processi sono lunghi. I più importanti, quelli dei grandi scandali della mafia e della corruzione si concludono spesso con una sentenza che accerta la prescrizione. L’unica efficacia deterrente sta nelle azioni cautelari adottate ad iniziativa del Pubblico Ministero nella fase delle indagini. Non va bene. E’ una distorsione del sistema che vuole che i processi si concludano con una sentenza del giudice, di assoluzione o di condanna. Qui si colloca la questione delle relazioni tra Pubblico Ministero, che esercita l’azione penale, nel nostro ordinamento obbligatoria (ne parleremo altra volta), ed il giudice. Sembra che tutto si risolva in questo rapporto, come se l’incertezza della giustizia penale dipenda dall’essere le due funzioni esercitate da soggetti appartenenti ad una stessa carriera ed assegnati all’una o all’altra funzione dal Consiglio Superiore della Magistratura, a domanda o d’ufficio, all’ingresso in carriera. Alla base della critica all’ordinamento italiano c’è il ricorrente riferimento alla circostanza che il P.M. è “parte” del processo, rispetto al giudice, con la conseguenza, ne deducono alcuni, che P.M. e giudici dovrebbe appartenere ad altro ordine, in quanto portatori di diversa professionalità. L’affermazione è frutto di una serie di equivoci che già in altra occasione ho segnalato. E così, su una rivista on-line, Amministrazione e Contabilità dello Stato e degli Enti Pubblici (www.contabilita-pubblica.it), ho affrontato il problema in termini che in parte ripropongo, con qualche ulteriore riflessione dovuta ad altri elementi inseriti nel dibattito. In un primo passaggio, a gennaio del 2007, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale che aveva bocciato la legge 20 febbraio 2006, n. 46 (c.d. “Pecorella”), che vietava l’appello ai Pubblici Ministeri in caso di assoluzione dell’imputato, mi ero rivolto all’On. Silvio Berlusconi che quella legge aveva sostenuto con una nota dal titolo “Cavaliere, mi consenta un consiglio. Licenzi i suoi consulenti in materia di giustizia”. Rivolgendomi non ad un politico qualunque, ma all’allora capo di un’opposizione che, secondo i sondaggi, stava recuperando consensi, come avrebbero dimostrato le elezioni dello scorso maggio, spiegavo le ragioni che mi convincono da sempre che sarebbe un errore separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. Ricevetti a giro di posta una telefonata da Gianni Letta, il “Direttore”, come lo chiamano tutti, anche a Palazzo Chigi, per la sua trascorsa direzione de Il Tempo. “Li abbiamo licenziati tutti!” Un gesto di cortese attenzione per me, una pietosa bugia. Non è stato licenziato nessuno perché quei consulenti, che poi sono gli avvocati del Premier, dicono quel che a lui piace sentire e da uomo della pubblicità ritiene che gli italiani in qualche modo lo guardino con maggiore attenzione considerandolo un perseguitato della giustizia, un effetto che non so quanto possa durare nel tempo. E’ una strategia difensiva che va, ovviamente rimessa alla libera determinazione dell’imputato e dei suoi avvocati i quali fanno il loro mestiere, che è quello di “coltivare” il processo. Cosa che si può fare, per la verità, in tanti modi. I Principi del Foro d’un tempo minimizzavano il ruolo del proprio cliente. Molti, oggi, nella civiltà mediatica, nella quale all’esposizione dell’avvocato in TV segue l’aumento della clientela, tende ad enfatizzare il ruolo di colui che “difende”, con la conseguenza che, mentre l’avvocato si fa notare, l’imputato finisce nel tritacarne della stampa e delle indagini giudiziarie. Così, il Cavaliere, il quale non aveva seguito il mio consiglio di licenziare i legulei che gli danno suggerimenti in tema di giustizia, avrebbe affermato, di lì a pochi giorni: “non lascerò la politica finché non riuscirò ad attuare la riforma giudiziaria con la separazione delle carriere tra giudici e pubblico ministero”. Aggiungendo che “dobbiamo arrivare a una situazione in cui ci sarà un avvocato dell’accusa e uno della difesa”. Questa concezione delle “parti” nel processo penale, che accomuna molti politici ad una buona parte dell’avvocatura italiana, procede da un equivoco indotto dalla riforma Vassalli, che già in altra occasione ho qualificato “maldestra scimmiottatura del processo penale “all’americana”, che è alla base delle disfunzioni che con la separazione delle carriere si vorrebbe sanare. E che, invece, sarebbero notevolmente aggravate. In sostanza, si dice, Giudici e Pubblici Ministeri svolgono nel processo due funzioni distinte. Ergo, anche le carriere devono essere separate. Semplificata così la cosa sembrerebbe improntata ad una logica struttura del processo “di parti”. Infatti, Berlusconi parla di “avvocato dell’accusa” e di “avvocato della difesa”. L’avvocato “dell’accusa” c’è negli Stati Uniti, dove il Procuratore Distrettuale rappresenta l’Amministrazione. È una sorta di avvocato dello Stato. Ha un interesse, anche “politico” (diciamo di “politica giudiziaria”) alla conclusione delle indagini e del processo. È eletto, inevitabile conclusione del percorso che alcuni immaginano di avviare con la separazione delle carriere (ed infatti in ambienti della Lega Nord è stata fatta più volte questa proposta), e quindi si propone all’elettorato con un determinato “programma giudiziario”, che indica quali azioni giudiziarie intende privilegiare per essere eletto o confermato nella carica, per soddisfare il “desiderio di giustizia” della maggioranza della popolazione, un imbarbarimento che ci riporta indietro nei secoli bui. Un pericolo, soprattutto per i politici, i più esposti a divenire oggetto privilegiato d’indagini che, stavolta, più a ragione, definiranno “politiche”. Ricordavo in quella nota che, quella di indagini “politiche”, è l’accusa, mossa al Procuratore della Contea di Travis, Ronnie Earle, da Tom DeLay, il potente capogruppo repubblicano alla Camera di Washington, dimessosi dopo essere stato incriminato da un Gran giurì del Texas per violazione della legge sui finanziamenti elettorali. DeLay era finito nell’inchiesta del Procuratore Earle (un democratico) per il “possibile uso illegale di fondi elettorali” e per aver accettato – nelle elezioni di medio termine del 2002 – finanziamenti politici da alcune corporation, violando la legge elettorale del Texas secondo cui le donazioni delle aziende non possono essere usati per “promuovere la vittoria o la sconfitta di candidati”, ma solo essere usati per fini amministrativi. DeLay si è dimesso dalla Camera ed ha accusato il procuratore Erle di averlo incriminato per motivi politici, dicendosi vittima della “vendetta di un democratico partigiano”. Commentavo: “Paese che vai, Procuratore che trovi!” Mi chiedevo allora se il Cavaliere, ed oggi il Professore Sartori preferiscano la giustizia made in USA. Per concludere che, a mio giudizio, è preferibile il sistema “all’italiana”, ovviamente opportunamente, e profondamente, riveduto e corretto, tornando ad alcune caratteristiche del nostro processo, prima che la “riforma Vassalli” trasformasse il Pubblico Ministero in un superpoliziotto, mestiere che non sa fare e che non deve fare. E’ mia opinione, infatti, che alcune differenze di fondo tra l’ordinamento italiano e quello degli States siano a tutto nostro vantaggio, esprimono una più elevata cultura giuridica, tanto che oltreoceano stanno studiando il nostro Codice “Rocco” di procedura penale, quello che prevedeva il Giudice Istruttore, istituto prezioso per la giustizia e le garanzie che deve assicurare anche all’indagato. Negli U.S.A., infatti, è lo Stato, come persona giuridica, come potere politico e amministrativo, che chiede conto al presunto colpevole del suo comportamento. Per questo Berlusconi parla di “avvocato dell’accusa”. Nel nostro sistema giudiziario l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione) è garanzia di imparzialità. Per questo è rimessa all’iniziativa di un organo pubblico e indipendente, il Pubblico Ministero, che la esercita non nell’interesse dello Stato-persona, cioè del potere politico-amministrativo, ma dello Stato-ordinamento, cioè della legge. Non è differenza di poco conto o formale. È importante che il Pubblico Ministero appartenga all’ordine giudiziario ed abbia la cultura della giurisdizione, della terzietà, e goda d’indipendenza. Nell’indipendenza del P.M. sta, infatti, l’equilibrio nell’esercizio dell’azione penale, un equilibrio che non può appartenere solo alla funzione giudicante. I magistrati, infatti, “si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, precisa il terzo comma dell’art. 107 della Costituzione. Per cui, se sono distinte le funzioni giudicanti da quelle requirenti, identica è la formazione professionale dei magistrati che possono passare dall’esercizio di una funzione all’altra, ovviamente con delle regole, perché non si verifichino situazioni di incompatibilità, non tanto giuridica (ben disciplinate), ma psicologica e di fatto che darebbero un’immagine negativa della giustizia agli occhi del cittadino. Un compito delicato, un impegno spesso arduo per il Consiglio Superiore della Magistratura. Il “Codice Vassalli” ha trasformato il P.M. in un superpoliziotto. Era saggio il vecchio codice che affidava le indagini alla polizia giudiziaria, le cui risultanze istruttorie il Pubblico Ministero esaminava con la serenità ed il distacco del magistrato. E poi c’era il Giudice Istruttore. Ebbene, riteniamo di risolvere questi problemi di sovraesposizione dei Pubblici Ministeri facendone una casta potentissima, distinta dai giudici? Questo ha una logica solo nella prospettiva di un asservimento del P.M. al potere politico, che è da sempre il desiderio di certi politici dalla vista corta. Che pensa ad una possibile imputazione a loro carico ma non della gran parte dei cittadini che non chiedono privilegi ma solo giustizia. Infine, ma non è questione di poco conto, spero che si smetta presto di considerare la giustizia ed il processo una questione di schieramenti, di Destra o di Sinistra. La individuazione dei reati può distinguere i partiti, per la loro visione dell’uomo e della società, come accade in questi giorni per il reato di ingresso clandestino nel territorio dello Stato. Sono distinzioni legittime e produttive di un approfondimento delle esigenze della comunità rispetto a fatti che destano allarme sociale, che possono essere affrontati in modi diversi. Ma il processo deve per tutti accertare la verità in tempi brevi, perché lo Stato e l’imputato hanno interesse ad una definizione rapida delle vicende penale. Lo Stato, la comunità per l’effetto punitivo e deterrente della pena, l’imputato perché vuole essere assolto e restituito alla società degli uomini onesti. Su questi profili di fondo non si devono creare schieramenti.
5 luglio 2008
Se noi politici pensassimo più all’Italia e agli italiani!
di Senator
Caro Direttore, mi prudono le mani, vorrei alzare la frusta e cacciare i mercanti dal tempio della politica. Poi mi dico che non posso neanche io scagliare la prima pietra. E giungo a più miti consigli. Ma qualche considerazione me la devi consentire. Innanzitutto, è bene che ognuno torni a fare il proprio mestiere e che quella leale collaborazione della quale parla Giorgio Napolitano nella lettera al Consiglio Superiore della Magistratura torni ad essere la regola nel rapporto tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato. La maggioranza voluta dal popolo deve governare, ha il dovere, non solo il diritto, di governare. Lo deve fare rispettando le prerogative del Parlamento, cioè anche dell’opposizione, dell’Amministrazione, che è “al servizio esclusivo della nazione” e non dei partiti che occasionalmente sono al governo, e della Magistratura, che la Costituzione ha voluto indipendente da ogni altro potere e soggetta soltanto alla legge. Giorni fa ho sentito Arditti, editorialista de Il Tempo, dire in televisione che è un’anomalia che il Presidente del Consiglio sia inquisito nel corso della sua gestione, che, anzi, l’anomalia dura da quindici anni. Ritengo male impostata la questione. In primo luogo perché, per smentire questa tesi, è sufficiente ricordare quel che è accaduto negli Stati Uniti al tempo della Presidenza Clinton, quando il Capo della Casa Bianca fu inquisito. Inoltre, se un imprenditore sceglie di fare politica, e può ben farlo, deve attendersi che qualche marachella, di quelle che fanno tutti gli imprenditori, possa essergli imputata da qualche Pubblico Ministero. La soluzione può essere anche quella di rinviare o bloccare i processi, come sappiamo è previsto in Francia. In ogni caso sarebbe necessario mettere la sordina alle vicende giudiziarie del Premier, ove naturalmente non riguardassero fatti collegati alla politica ed alla gestione del potere. Minimizzare, non enfatizzare lo scontro nell’illusione che, facendone un martire della giustizia “politicizzata”, ne sia aumentata la popolarità. Così come alle vicende boccaccesche di cui si mormora da giorni. Gli italiani forse possono apprezzare un politico “esuberante”. Ma, in ogni caso, est modus in rebus, altrimenti si passa all’anomalia che diventa debolezza dell’uomo, ricattabile da chi possiede le “prove”, dall’autrice “dei fatti”, prima di tutto, e da chi ha visto o ascoltato, considerato che in questo Paese, nel quale l’arma del ricatto ha sempre funzionato, dai tempi dei Borgia, a volte si distruggono fascicoli e prove, ma solo dopo aver accuratamente provveduto alla loro duplicazione. Ritengo che troppi politici abbiano cattivi consiglieri, anzi pessimi consiglieri, yes men preoccupati soprattutto di compiacere, per non perdere il “gradimento”. Gli italiani vogliono essere governati. L’inflazione sale, la produzione ha difficoltà, le famiglie arrancano. Non è possibile andare avanti così. Il Centrodestra ha una sua maggioranza consistente, governi. L’Opposizione faccia la sua parte con proposte e critiche e si presenti al Paese come alternativa o, se del caso, condividendo le scelte del Governo, facendo conoscere e pesare questa sua “responsabile” posizione. Lo sfascio non serve a nessuno, prima di tutto a chi ha ambizioni ulteriori. Un po’ di saggezza, suvvia!
4 luglio 2008
Mettiamo ordine alle idee
I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura
ed i rapporti tra partiti, governo e Parlamento
di Senator
La vicenda del decreto legge sulla sicurezza e dell’emendamento che sospende i processi ha impegnato e continua ad impegnare giornali, tra cronache e commenti degli opinionisti o presunti tali, che discettano spesso dei massimi sistemi, di potere politico e di magistratura, facendo molta confusione della quale la gente non sente proprio il bisogno.
Vediamo di mettere ordine alle idee. Cosa utile per tutti, anche se è difficile che certi “megafoni” di questo o quel leader, così si sono ridotti alcuni colleghi parlamentari e giornalisti, continueranno a inserire nel dibattito elementi di confusione solo per far piacere al “personaggio di riferimento”.
In primo luogo il Consiglio Superiore della Magistratura è legittimato ad esprimere pareri su questioni “concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”, facoltà attribuitagli espressamente dalla legge n. 194 del 1958, il cui esercizio si è consolidato in una costante prassi istituzionale, come ha ricordato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nella lettera al Vicepresidente del C.S.M. di ieri. Sarebbe strano che gli fosse impedito, considerato che, nell’era della concertazione e nello spirito della mediazione del quale tanti di noi politici si riempiono la bocca, partiti, governo e parlamento ascoltano tutti, dall’associazione dei bocciofili ai sindacati di maggiore peso, quando devono assumere una decisione.
Va aggiunto che un parere è un’opinione, sia pure autorevole, che mai condiziona chi decide. Cioè, come ha scritto il Capo dello Stato, “l’espressione di un parere del CSM non interferisce – altra mia preoccupazione già espressa nel passato – con le funzioni proprie ed esclusive del Parlamento: anche quando, come nel caso dei decreti-legge, per evidenti vincoli temporali, tale parere non abbia modo di esprimersi prima che il Parlamento abbia iniziato a discutere e deliberare”.
Se qualcuno nei partiti, nel governo e nel Parlamento si picca di queste opinioni fa pensare che abbia la classica “coda di paglia”, cioè ritenga di fare in questo memento qualcosa che, quantomeno, è criticabile.
Se, dunque, il Consiglio Superiore della Magistratura ha la titolarità di una funzione consultiva, non è corretto che governo e Parlamento, che evidentemente possono dissentire sul parere reso, contestino l’esercizio della funzione, introducendo nel dibattito elementi di confusione che danneggiano il dibattito democratico. Criticare si può, delegittimare no. È un’altra cosa, un esercizio diffuso da noi, ma non consueto alle democrazie occidentali nelle quali il rispetto delle regole istituzionali non conosce deroghe.
Per cui correttamente il Capo dello Stato scrive che “non può suscitare sorpresa o scandalo il fatto che il CSM formuli un parere – diretto al Ministro della Giustizia – su un progetto di legge di assai notevole incidenza su materie di diretto interesse del CSM stesso”. Aggiungendo che “in questo quadro, non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni”.
Su questo punto, con tutto il rispetto dovuto alla Prima Magistratura della Repubblica, non ritengo di dover convenire. Infatti, se il CSM è attributario di una funzione consultiva non si vede come essa sia limitata a profili di mera legislazione ordinaria e non possa toccare aspetti della normativa che si intende introdurre i quali siano suscettibili di provocare un’impasse nella sua applicazione per effetto del contrasto, che l’organo consultivo segnala, con disposizioni costituzionali.
L’espressione usata dal Capo dello Stato “vaglio di costituzionalità” è normalmente riferita all’organo giudiziario che solleva una questione rimettendola all’esame, al “vaglio” appunto, della Corte costituzionali quando sia questione rilevante nel giudizio e non manifestamente infondata.
Nel parere che prospetti una questione di costituzionalità c’è solo una segnalazione, autorevole e prudente, che il governo e noi parlamentari dovremmo gradire e prenderla in considerazione per non commettere errori o scartandola ove ritenuta infondata.
Siamo sempre nell’ottica del parere.
Pertanto, pur riconoscendo l’impegno del Presidente Napolitano, con l’evidente intento di stemperare taluni profili polemici emersi in questi giorni nel dibattito politico esasperato, mi sembra che questa sua indicazione limitativa non sia giuridicamente fondata.
E comunque il rilievo di costituzionalità sta nelle ripetute censure di ragionevolezza che si leggono nel parere.
Per la verità il parere, facendo astrazione dal merito che in questa sede non interessa, è rimasto nei limiti del suo ruolo costituzionale. Infatti precisa che “pareri resi dal Consiglio superiore… ai sensi dell’art. 10 della legge del 24 marzo 1958, n. 195, sulle proposte e sui disegni di legge, nonché sui decreti legge in vista della loro conversione si estendono – secondo il testo della legge e la costante prassi consiliare – ai profili riguardanti l’ordinamento giudiziario, l’organizzazione e il funzionamento della giustizia, la disciplina dei diritti fondamentali costituzionalmente previsti”. Conseguentemente – prosegue il documento – [il parere] non prenderà in esame le questioni concernenti altri profili, rilevanti solo in modo indiretto sulla giurisdizione (come quelli relativi alla definizione delle competenze della polizia municipale e del concorso delle Forze armate nel controllo del territorio)”.
Corrette anche le osservazioni “di carattere generale” sulla natura delle innovazioni che “incidono, in parte significativa, non solo su aspetti settoriali legati a situazioni specifiche ma sul sistema penale (sia sostanziale che processuale) e su quello dell’ordinamento giudiziario”. Con osservazioni critiche sull’uso dello “strumento del decreto legge, anche per ragioni pratiche e organizzative” per la possibilità del sovrapporsi di modifiche in sede di conversione, con il “susseguirsi, nell’arco di pochi mesi, di regimi diversi operanti addirittura sugli stessi processi, con effetti gravemente negativi per la certezza del sistema normativo e per la funzionalità del servizio giustizia”.
Meno condivisibili le considerazioni sulla circostanza che molti emendamenti introdotti in sede di conversione “ – tutti di grande rilievo e incidenti su delicati profili ordinamentali, processuali e sostanziali – sono in gran parte estranei all’oggetto originario del decreto legge (concernente, come noto, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»)”
La circostanza che gli emendamenti siano stati sottratti in concreto “non solo al confronto con la comunità dei giuristi ma anche ai controlli preventivi di costituzionalità del Capo dello Stato e della Commissione affari costituzionali del Senato” mi sembra formalistica e trascuri la prassi che non limita il potere emendativo del Parlamento in sede di conversione dei decreti-legge.
Anche la censura all’uso dello strumento della decretazione d’urgenza in considerazione della “delicatezza della materia ordinamentale” è considerazione che ha una sua validità in relazione all’esigenza di “consentire una opportuna consultazione preventiva con il CSM sulle materie interessate” ma può ben trovare dei limiti quando si tratta di questioni che attendono di essere definite da tempo.
Devo dire, in ogni caso che il parere contiene numerose espressioni di condivisione del testo governativo, anche se denuncia per quale aspetto un ulteriore aggravio al già difficilmente sostenibile carico della Corte di cassazione, per altri una crescita della carcerazione estremamente elevata,
“Il complesso degli interventi adottati in tema di misure di prevenzione antimafia – ad esempio, secondo il CSM – deve essere valutato positivamente in quanto potenzia gli strumenti preesistenti e risolve alcuni complessi problemi applicativi”.
Ci sono, poi, osservazioni in ordine all’effetto di norme che limiterebbero “in maniera significativa i poteri valutativi del giudice, introducendo così nel sistema rigidità e automatismi che possono determinare sanzioni non adeguate rispetto al caso concreto”.
Inoltre, la vicenda della previsione “astratta e vincolante per legge dell’ordine di trattazione degli affari”, ritenuta “incongrua essendo laborioso e difficilmente praticabile un intervento legislativo ogni volta in cui tale ordine debba essere modificato, anche per ragioni contingenti”. Considerato che “la soluzione adottata pone, dunque, delicati problemi di compatibilità con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, previsto dall’art. 112 Costituzione, che opera, secondo l’orientamento del giudice delle leggi, con riferimento non soltanto all’inizio dei procedimenti ma anche alla loro regolare prosecuzione”.
Con riferimento, infine, è opinione del CSM che la disciplina per essa prevista presenti “profili di grave irragionevolezza (che possono costituire uno dei parametri di valutazione della legittimità della norma)”, in particolare per lo spartiacque temporale tra processi che devono essere sospesi e processi che devono proseguire, ritenuto “casuale e arbitrario”, per la scelta dei reati per i quali va disposta la sospensione dei processi, ritenuta “”ugualmente non ragionevole, essendo tra tali reati compresi numerosi delitti che, secondo altre previsioni dello stesso decreto, determinano particolare allarme sociale”.
Quanto, invece, al problema della ulteriore dilatazione dei tempi della giustizia complessivamente intesa per il mancato rispetto del principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), ed alle “prevedibilmente crescenti richieste risarcitorie ai sensi della cd legge Pinto” non condivido questa ultima preoccupazione in quanto le Corti d’Appello terranno fuori del calcolo i tempi decisi con legge.
Non rinvengo, invece, preoccupazioni in tema di diritti della difesa violati per chi desidera quanto prima una sentenza di assoluzione. In sostanza sono gli “innocenti veri” ad essere danneggiati dal ritardo di una pronuncia che li restituisca “candidi” al consorzio civile, alla famiglia, agli amici. Ma di questi nessuno si preoccupa.
Intanto continuano le crociate degli uni contro gli altri. E l’Italia va a rotoli!
2 luglio 2008
A proposito di decreti legge
Abuso di potere e controllo di legalità
di Salvatore Sfrecola
La storia dei decreti legge è lunga almeno quanto l’esercizio del potere governativo, tra effettivi casi “straordinari di necessità e d’urgenza”, i requisiti che secondo l’art. 77, comma 2, della Costituzione giustificano l’esercizio della funzione legislativa da parte del governo, e tentativi di forzare la mano al Presidente della Repubblica ed al Parlamento. Un tempo i decreti legge, come i decreti legislativi, erano sottoposti al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti che, ai sensi dell’art. 100, comma 2, della Costituzione, esercita appunto quel controllo “sugli atti del governo”, tra i quali erano pacificamente annoverati i decreti governativi a contenuto normativo. Poi fu la legge 23 agosto 1988, n. 400, che, nel disciplinare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, ha eliminato questo controllo della Corte dei conti. Il potere non fa nulla a caso. Infatti subito dopo si aprì la stagione del decreti legge reiterati più volte, anche per un anno e più, con qualche piccola modifica, un modo per espropriare il parlamento della sua funzione primigenia che è, appunto, quella di fare le leggi. Le ragioni della soppressione del controllo della Corte dei conti furono spiegate da “insigni” giuristi. Il decreto legge è norma innovativa nell’ordinamento per cui l’unico possibile controllo è quello di costituzionalità e non è bene che venga svolto dalla Corte dei conti in sede preventiva. La storia insegna che c’è sempre un giurista, spesso più d’uno, prono alla volontà del potere. Fu l’osservazione, anche più colorita, di Vittorio Emanuele III alla lettura del parere che Santi Romano, Presidente del Consiglio di Stato, aveva reso in sede di applicazione della legge istitutiva del grado di Primo Maresciallo dell’Impero che il Re e Imperatore non avrebbe voluto condividere con il Duce del Fascismo. Flebili furono le voci contrarie al mantenimento della attribuzione della Corte dei conti che aveva il compito, di cui ha fatto uso sempre con molta cautela, di salvaguardare diritti fondamentali, che proprio la decretazione d’urgenza potrebbe violare, con effetto immediato e duraturo, almeno fino all’accoglimento di una eventuale questione di costituzionalità. In proposito soccorre ancora una volta la storia che dimostra come le nostre istituzioni abbiano illustri precedenti. Mi riferisco al decreto Pelloux (1899), quando si tentò di limitare i diritti costituzionali di libertà e contenere la stampa con un decreto reale. La Corte dei conti lo approvò “con riserva”, la Corte di cassazione ne dichiarò la nullità (la vicenda di questo tentativo di un governo debole di apparire forte è raccontata con considerazioni di straordinaria attualità da Giuseppe Maranini in uno straordinario volume che tutti dovrebbero leggere: Storia del potere in Italia, 1848 – 1967, Vallecchi, Firenze, 215). Come quando scrive: “a che serviva imbavagliare la stampa… dare ancor più vasti poteri alla polizia, se poi non si riusciva a ricostruire una volontà politica coerente, espressa da un organo costituzionale stabile, che operasse in base a una formula di legittimazione largamente, anzi generalmente accettata? Poteva aiutare al superamento di difficoltà momentanee, ma la difficoltà di fondo, la crisi del regime, restava del tutto insoluta. Questo errore funesto più volte tornerà ad affiorare nella vita costituzionale italiana, non solo prima del fascismo e durante il fascismo, ma anche dopo il fascismo: l’illusione cioè di poter surrogare la deficiente forza politica dell’esecutivo concedendogli un largo margine di azione arbitraria”. Ma ancora una volta la storia non insegnerà nulla ai prepotenti. Servirà solo a consolare i liberi e i giusti, che se fossero anche liberi e forti, come chiedeva Don Sturzo in un famoso appello del 1919, in piena crisi politico parlamentare, forse ci darebbero maggiori speranze per un futuro di legalità.
2 luglio 2008
A proposito dei “graffiti” sulle pareti della cupola del Brunelleschi
Una lezione dall’Oriente
di Salvatore Sfrecola
Da Kyoto un esempio di civiltà e di senso civico. Nove studenti ed il loro professore che, ospiti di Firenze, avevano imbrattato le pareti esterne della cupola del Brunelleschi sono stati puniti. Due settimane di sospensione e l’impegno a tornare sul luogo del delitto e rimuovere personalmente i graffiti. Alcuni potrebbero essere espulsi dall’Università. Al professore è stato revocato l’incarico di allenatore della squadra di baseball e rischia il licenziamento. Tutto questo mentre i maggiori quotidiani giapponesi e i telegiornali chiedono scusa all’Italia. Così riferisce oggi il Corriere della Sera, a pagina 23, dimostrando con la sua cronaca quanto siamo distanti noi, che viviamo in un meraviglioso, unico museo all’aperto, che non sappiamo tutelare, rispetto ai giapponesi, e non solo. Da noi i comuni spendono milioni per ripulire monumenti e facciate e mai che, identificato il responsabile, lo si condanni alla civilissima pena del risarcimento del danno, secondo l’aurea regola che chi rompe paga. Noi siamo vittime della cultura della sanzione penale, che se va benissimo in alcuni casi, in altri, dai danneggiamenti agli incendi boschivi, non produce effetti perché quei due o tre mesi di carcere con la condizionale non hanno alcuna capacità deterrente, soprattutto non hanno la stessa del risarcimento, che costringe il responsabile a mettere mano al portafogli e pagare. Una condanna che fa male. Speriamo di imparare dal lontano Oriente! In questa vicenda una nota stonata sta in un piccolo riquadro del Corriere incastonato nell’articolo di cui ho detto. Federico Moccia commenta “atti da teppisti, ma la pena è eccessiva”. Avrebbe fatto meglio a tacere! Il solito buonismo all’italiana che dai tempi dei tempi tollera che regole non siano rispettate, da “le leggi son, ma chi pon mano ad elle” alle grida manzoniane. E non c’è chi si vergogni, almeno un po’! Per fortuna, sempre il Corriere, pubblica un’intervista a Gian Carlo Calza, studioso di cultura ed arti orientali, che spiega con quell’atto vandalico l’insegnante “ha letteralmente disonorato il suo Paese”. E’ un fatto di civiltà, come ho scritto iniziando. E pensare che c’è ancora chi, in Italia, ritiene eccessivo che i pubblici amministratori e dipendenti, i quali, nell’esercizio delle loro funzioni, commettono reati che hanno una particolare risonanza negativa nell’opinione pubblica, possano essere condannati dalla Corte dei conti a risarcire il danno all’immagine ed al prestigio della Pubblica Amministrazione!
1 luglio 2008