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Ottobre 2008

Federalismo ed unità nazionale nel 90° di Vittorio Veneto. Un bel gesto del Governo: portare a Redipuglia le spoglie del Re Vittorio Emanuele III
di Salvatore Sfrecola

Quest’anno l’annuale festa delle Forze Armate, il 4 novembre, giorno della vittoria nella Prima Guerra mondiale, è destinata a rivestire un significato particolare. Perché gli anni sono 90, tondi tondi, e perché quella ricorrenza, giustamente individuata come fatto conclusivo dell’unità nazionale, con il raggiungimento dei confini naturali della Patria, viene celebrata mentre la politica è impegnata nel dibattito sul federalismo fiscale.
Anche in questo caso si ha un completamento. Nel senso che l’assetto federale della Repubblica, dopo la riforma del 2001, si avvia ad essere reso effettivo dalla definizione del profilo fiscale. Infatti, come è detto nella relazione al disegno di legge governativo, il federalismo o è fiscale o non è, nel senso che se mancano le risorse per l’esercizio delle funzioni quelle attribuzioni è come se non fossero state conferite alle regioni.
Il dibattito è importante e, come abbiamo scritto più volte, la definizione delle regole essenziale al buon funzionamento delle istituzioni, al centro ed in periferia.
Il federalismo fiscale, infatti, non potrà essere solo la rozza espressione, che tante volte si sente ripetere, di un egoistico “tengo a casa le tasse e le imposte che maturano sul territorio”. Il federalismo costruttivo prevede sempre ed ovunque forme di solidarietà tra le popolazioni, in modo che lo sviluppo delle varie aree territoriali sia armonioso e ciascuna regione, nella specificità delle singole vocazioni, come si usa dire, turistiche, industriali, marinare, ecc., renda il meglio di se. Una solidarietà che non deve essere assistenza, ma potenziamento equilibrato, in un patto comune di sviluppo, perché i fondi “aggiuntivi” siano diretti a perseguire e mantenere obiettivi di crescita.
Il dibattito è in corso e forte, nel senso che ancora non sono all’orizzonte espressioni tranquillizzanti di ipotesi di definizione delle regole, al di là delle indicazioni, generali e generiche, della legge delega. Il vero federalismo fiscale lo troveremo nei decreti delegati e là si vedrà della nobilitate della classe politica nazionale e locale.
Perché, dunque, evocare il 4 novembre 1918 nel novantesimo anniversario? Perché c’è bisogno di un rinnovato spirito nazionale che assorba il federalismo in un concetto di unità della Nazione come consacrato dall’art. 5 della Costituzione. E per fare questo credo occorra riandare alla memoria storica di quegli anni cruenti della Grande Guerra nella quale, con enfasi che non guasta, la gioventù italiana si sacrificò e l’unità d’Italia la si vide nelle trincee e nei camminamenti sulle montagne del Trentino, nelle quali operai e contadini, intellettuali e impiegati di tutte le regioni, esprimendosi in tutti possibili dialetti, dialogavano tra loro, scambiandosi sentimenti, nostalgie e paure, nella speranza di sopravvivere e rivedere la propria casa.
In quelle brume corrusche fu presente sempre il Re Vittorio Emanuele III, personalità complessa, da molti non compresa, compressa dalla storia e da quanti lo hanno voluto condannare senza che ne fosse consentita la difesa, per la nascita del Fascismo e per aver lasciato Roma dopo l’8 settembre. Ha fatto comodo a tanti questa dannazione. A quanti lo hanno abbandonato alla vigilia della marcia su Roma rifiutando l’assunzione delle responsabilità del governo, da Sturzo a De Gasperi a Giolitti. Poi l’infamante accusa della “fuga” di un sovrano che non poteva compiere il “bel gesto” di farsi ammazzare dai tedeschi o peggio di divenirne ostaggio, per essere l’unica autorità legittima di uno Stato in sfacelo.
Nel novantesimo di Vittorio Veneto sarebbe gesto, importante per la storia e per la politica, che la salma del Re “soldato” fosse inumata a Redipuglia tra quanti persero la vita per completare il Risorgimento. Lì, più che al Pantheon è giusto sia sepolto Vittorio Emanuele III, tra i suoi soldati che sempre difese, rivendicandone l’onore a Peschiera, difronte ai generali italiani ed alleati che dopo Caporetto volevano che l’esercito si ritirasse al Po, incuranti del fatto che le armate austro tedesche avrebbero dilagato nella pianura padana, tra l’altro avvicinandosi ai confini francesi, ormai indifendibili.
Berlusconi è l’unico che ha la forza, oggi, di prendere una simile iniziativa, subito, per chiudere una pagina di storia ed aprirne un’altra, che consenta all’Italia di avviarsi verso un federalismo più moderno con la consapevolezza del valore dell’unità del Paese.
30 ottobre 2008

Che siano selettivi e puntino allo sviluppo
Tagli alle spese e investimenti

di Oeconomicus

La polemica sui tagli alle spese dei Ministeri e degli enti non è di oggi, anche se in questi giorni infuria la polemica sulla riduzione degli stanziamenti alla scuola e qualcuno mormora che siano stati i tagli alle manutenzioni a rendere precaria l’efficienza dell’elicottero italiano caduto in Francia. In passato il Ministro dell’interno Amato aveva invitato i Vigili del fuoco, a corto di fondi, a non pagare l’affitto delle sedi se fosse stato indispensabile per comprare la benzina. Lo Stato e gli enti pubblici sono a corto di fondi, dunque. I tagli sono necessari. Ma quali tagli, di che dimensione? È questo il problema vero dei ministri di settore e del Ministro dell’economia. Che lo risolve da sempre nel modo classico di chi non ha la capacità o la forza di scegliere: tot di meno a tutti, senza pensare che la riduzione degli stanziamenti non ha gli stessi effetti su tutti i bilanci e che ci sono delle spese che sono “produttive”, nel senso che promuovono situazioni che determinano entrate. È il caso della cultura e dei beni culturali. Lo ha sottolineato Gabriella Carlucci su E Polis di ieri ricordando, ad esempio, che il cinema “è industria, crea cultura e dà lavoro. Va rafforzata, sostenuta, difesa. Non è questione di sinistra o destra”. È un tema che questo giornale ha presente dalla sua uscita. La cultura rende, i beni culturali sono il motivo principale del nostro turismo. Che, appunto, è prevalentemente un turismo culturale. Non si viene in Italia per il sole o il mare che hanno anche altri paesi nostri concorrenti. Più splendente, il sole, per un’atmosfera meno inquinata, e più pulito, il mare, perché sono stati limitati i fenomeni di antropizzazione delle coste. C’è, però, qualcosa che abbiamo solo noi, i beni artistici in un contesto ambientale eccezionale. L’Italia è un vero e proprio museo all’aperto nel quale risiedono non solo il maggior numero di opere d’arte del mondo intero, ma le più belle e le più famose. Basti visitare il Louvre per rendersene conto. Gli spazi più importanti del famoso museo parigino sono rappresentanti dalle opere pittoriche italiane dei vari periodi. Così come le opere scultoree più importanti provengono dall’antica Roma. Ebbene, cosa facciamo per i beni culturali, quale l’impegno del Governo per rilanciare il turismo che del patrimonio artistico si giova e che potrebbe essere una riserva di posti di lavoro in un momento difficile per l’economia italiana. Quali infrastrutture sono allo studio, quali musei si pensa di ristrutturare, quali aree archeologiche si sta programmando di sistemare per renderle maggiormente fruibili? Quali direttive e quali controlli sono allo studio perché il turista non venga rapinato da ristoratori, barman e tassisti, perché l’Italia ovunque assuma un atteggiamento di apertura a questa che è la vera industria leader del Paese, quella che non teme la clonazione di cinesi ed indiani? Nulla all’orizzonte. C’è da rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare perché l’Italia possa assumere in tempi brevi la capacità di rinnovarsi in quella che è la sua prima vocazione. Considerato che il turismo porta con se lo sviluppo dell’artigianato e dell’industria alimentare. Della quale i nostri ospiti, tornati a casa, saranno convinti propagandisti. Ci vuole tanto, Onorevole Presidente del Consiglio, per immaginare uno straordinario impegno per dare agli italiani occasioni proficue e durature di lavoro ed all’economia un respiro veramente internazionale?
28 ottobre 2008

A proposito dei magistrati! Non sa di cosa parla!
E Brunetta scivolò sul tornello!

di Salvatore Sfrecola

Impegnato a lanciare le linee guida della sua strategia “ad alzo zero”, come scrive il Corriere della Sera di oggi, a pagina 20, che prevede tornelli in tutta la pubblica amministrazione, il Professor Brunetta, Ministro della funzione pubblica, dice di volere estendere questa forma di controllo a tutti, “magistratura compresa”. Evidentemente il Ministro non sa di cosa parla, non conosce l’attività degli uffici giudiziari, non sa che i magistrati “tengono udienza” solo alcuni giorni la settimana e negli altri scrivono sentenze. Non sa neppure, evidentemente, che la sentenza più semplice, diciamo quella che definisce una vertenza in materia di incidenti stradali, tra fatto e diritto impegna l’estensore per diverse ore, se vuole scrivere con l’attenzione che impone lo ius dicere “in nome del Popolo Italiano”. Questo non vuol dire che anche il lavoro dei magistrati non debba essere controllato. Ma va verificato in relazione al carico di lavoro, alle sentenze emesse, al loro numero ed alla loro difficoltà, alla qualità della pronuncia, vista in astratto ed in concreto in relazione agli ulteriori gradi di giudizio. Anche il più sprovveduto comprende che non tutte le sentenze sono uguali. Se non si tengono in considerazione questi elementi, se si ritiene che la sentenza, che prevede preventivamente l’approfondimento della fattispecie, lo studio degli atti, la discussione in udienza pubblica e la decisione in camera di consiglio, sia come un provvedimento di ammissione alla scuola o un’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico, allora vuol dire che un Ministro della Repubblica, che vanta un brillante cursus universitario ed una cattedra prestigiosa, affronta problemi che non conosce e che neppure si sforza di conoscere, direttamente o attraverso i suoi collaboratori, a cominciare dal suo primo collaboratore, il Capo di Gabinetto, che è un magistrato, ed anche di grande valore. E’ stata la classica buccia di banana, stavolta non gettata lì tra i piedi del Ministro da qualche avversario malevolo. Il Professore si è fatto male da solo ed è scivolato… sul tornello! Presunzione di chi insegna! Anche quando non sa!
27 ottobre 2008

Ma Brunetta lo sa?
di Marco Aurelio

Ore 8,10, tre ausiliari del traffico all’incrocio tra via Marcantonio Colonna e via dei Gracchi, discutono tra loro. Non ho dubbi che parlino di lavoro e di cose importanti. Ore 8,25, i medesimi tre ausiliari del traffico, sono sempre all’incrocio tra via Marcantonio Colonna e via dei Gracchi. Discutono ancora tra loro. Neanche adesso ho dubbi che parlino di lavoro e di cose importanti. Ma un dubbio mi viene. Forse tre ausiliari fermi nello stesso posto non sono impiegati al meglio. E’ anche questo un problema. Brunetta se l’è presa, giustamente, con gli assenteisti. Sarebbe il caso di verificare come dirigenti e responsabili dei reparti vari delle amministrazioni e degli enti impiegano i dipendenti. E come e se verificano come svolgono il loro lavoro. Il pesce, dice un detto popolare, puzza dalla testa. Ed i detti sono la saggezza dei popoli.
24 ottobre 2008

Le polemiche sul processo di beatificazione di Pio XII
Ragion di Stato, politica e santità

di Salvatore Sfrecola

Oggi la liturgia cattolica propone un brano famoso del Vangelo secondo Matteo, quello in cui Gesù, richiesto se sia “lecito o no pagare il tributo a Cesare”, fattosi mostrare un denaro con impressa l’effige dell’Imperatore,risponde ai farisei “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Frase “politica”, dalla quale si è fatto sempre discendere il riconoscimento di una reale consistenza del potere politico a cui non si contesta una sfera di autonomia, pur nell’unicità dell’uomo fatto “a immagine di Dio”. Prendo lo spunto da questo passo evangelico perché invasioni di campo sono ricorrenti in alcuni momenti storici e non fanno bene alla politica né alla religione. Un tema sul quale si è soffermato negli anni scorsi il Prof. Oscar Cullman in un saggio divenuto presto celebre sull’argomento (Dio e Cesare, Editrice AVE). Stavolta è la politica e la storia, si direbbe con enfasi certo eccessiva, che invadono il campo della religione, di quella cattolica in specie, interferendo pesantemente sul processo di beatificazione del Papa Pio XII al quale taluni rimproverano un presunto “silenzio” sulle persecuzioni antisemite nell’Europa alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale. Persecuzioni sfociate nel più grande olocausto del Novecento che, pure, di massacri di massa ne ha conosciuti più d’uno, da quelli attuati da Stalin a quelli, con meno morti ma non meno tragici, dei bombardamenti “a tappeto” sulle città indifese, senza nessun obiettivo militare se non quello di fiaccare il morale delle popolazioni. Da ultimo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, quando la guerra con il Giappone era sostanzialmente vinta. Non è il caso di dare giudizi. La guerra è sempre una tragedia, non solo per chi perde. In questo contesto, un vero cimitero delle popolazioni d’Europa e non solo, mentre soldati che professavano la stessa fede, si scontravano sui campi di battaglia, nei cieli e sul mare, si è consumato l’Olocausto degli ebrei in nome della folle teoria della razza “pura”, per cui sono stati messi a morte non solo quanti professavano la religione di Mosè, ma anche malati e minorati di ogni genere, oppositori politici. In questo quadro c’è chi rimprovera al Papa Pio XII di non aver condannato apertamente l’antisemitismo e quanto di terribile ha portato con se. Non è vero. Il Papa, con una forte cultura diplomatica, ha fatto seguire alla condanna degli eccidi, quando e come ha potuto, un’azione concreta nel tentativo di salvare quante più vite umane possibile, ad esempio aprendo chiese e conventi a quanti erano perseguitati ed in pericolo di vita. Non solo ebrei, ma antifascisti ricercati, come hanno testimoniato in migliaia, compresi famosi “mangiapreti” comunisti e socialisti. Tutto questo tuttavia spetta agli storici valutare sine ira ac studio, quando saranno passate le passioni della polemica politica. Perché di questo si tratta. Da parte di chi vuole condizionare la libera valutazione da parte della Chiesa delle virtù eroiche di Eugenio Pacelli, un Papa che ha vissuto uno dei momenti più drammatici della storia dell’umanità e della Chiesa che non è consentito giudicare con la mentalità di chi, ex post, comodamente assiso a casa sua, legge atti formali, consulta archivi non con la serenità dello studioso di storia, che colloca i fatti nel contesto in cui si sono svolti e alla luce delle conoscenze e dei mezzi operativi a disposizione di chi ha operato in trincea, ma con l’animosità di chi ha fatto della fazione il modello della sua esistenza. E’ questo un periodo storico nel quale molti hanno agito senza formalizzare comportamenti affidati ad incontri ed a sollecitazioni fuori dell’ufficialità, con la preoccupazione di essere sul problema più che di apparire come fautori di un’iniziativa. Sotto questo profilo appaiono certamente forzate le interpretazioni, di cui dà oggi conto La Repubblica a pagina 2, richiamando un rapporto a Londra dell’Inviato straordinario inglese Osborne il quale, avendo invitato il Papa a mantenere l’indipendenza della Santa Sede, si sarebbe sentito rispondere che i tedeschi “si sono sempre comportati correttamente”. Può essere un sintomo di filo nazismo una frase del genere nel contesto di un incontro diplomatico che sarebbe stato conosciuto anche al nemico? Se questa è la valutazione di uno “storico” siamo messi veramente male! E che dire del rapporto segreto dell’ambasciatore tedesco von Weiszaecker, il quale riferisce che il Papa avrebbe auspicato il mantenimento delle posizioni tedesche sul fronte russo. E’ questa una prova? Ma vogliamo scherzare? In ogni caso non è corretto intervenire nelle faccende interne della Chiesa, che ha i suoi parametri di riferimento per valutare la santità di un uomo, con argomentazioni politiche o presunte storiche che certamente l’autorità ecclesiastica avrà tenuto in considerazione per quanto di rilievo nel procedimento canonico. Questa pretesa della politica, perché di questo si tratta, parlino singoli o le comunità, di stabilire ciò che la Chiesa deve dire o fare in materia di fede è una inammissibile intromissione che costituisce negazione di quella libertà di manifestazione del pensiero della quale, a parole, i critici di Pio XII si riempiono la bocca. Il problema non è storico o religioso. È semplicemente da ricercare nella volontà di parte del mondo politico, italiano e internazionale, di tenere sotto scacco la Chiesa, particolarmente negli anni nei quali due grandi Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno risvegliato nel mondo squassato dalle ingiustizie e dalle guerre, prima fra tutte il terrorismo, una forte spiritualità che è espressione massima della libertà dell’uomo. E che ha conquistato legioni di giovani in tutto il mondo. La libertà, da sempre invisa ai manipolatori delle menti, politici e pubblicitari. E poi lasciamo ad ognuno fare il proprio mestiere.
19 ottobre 2008

Sul tema “Chiesa Cattolica: l’eredità di Pio XII riportiamo un intervento di Corrispondenza Romana

Cinquant’anni sono trascorsi dalla morte del Servo di Dio Pio XII, avvenuta a Roma il 9 ottobre 1958, dopo diciannove anni di pontificato. Benedetto XVI ha presieduto, il 9 ottobre, nella Basilica Vaticana, la celebrazione eucaristica in occasione dell’anniversario, rievocando la “grata memoria” di Papa Pacelli per la sua coraggiosa testimonianza nell’epoca dei totalitarismi. Il Pontefice ha sottolineato come il dibattito storico sulla figura di Papa Pacelli ha tralasciato di porre in luce un aspetto fondamentale del suo pontificato. «Tantissimi furono i discorsi, le allocuzioni e i messaggi che tenne a scienziati, medici, esponenti delle categorie lavorative più diverse, alcuni dei quali conservano ancora oggi una straordinaria attualità e continuano ad essere punto di riferimento sicuro». Tutto il Magistero di Pio XII (encicliche, discorsi, radiomessaggi) è contenuto nella sua Opera omnia, in venti volumi, più uno dedicato agli indici, che costituiscono una inesorabile miniera dottrinale. Tra le grandi encicliche di Pio XII vanno ricordate la Summi pontificatus, del 20 ottobre 1939 che delinea il suo programma di pontificato, la Mystici Corporis, del 29 giugno 1943, sulla Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, la Mediator Dei, del 20 novembre 1947 sulla liturgia, la Humani generis, del 18 agosto 1950, che condanna gli errori della “Nouvelle Theologie”. Di questa enciclica, che ha segnato la storia della teologia, «colpisce – come ha sottolineato mons. Rino Fisichella – la condanna del relativismo teologico e filosofico; alla luce della situazione presente la rilettura di quelle pagine mostra la lungimiranza e la verità sottesa all’analisi compiuta» (L’insegnamento teologico di Pio XII, “L’Osservatore Romano”, 8 ottobre 2008). Non va dimenticata, inoltre, la Munificentissimus Deus del 1 novembre 1950, con la quale Pio XII proclamò il dogma dell’Assunzione. Un compendio dell’opera dottrinale di Pio XII viene offerto da un libro del prof. Vitaliano Mattioli, L’eredità di Pio XII, pubblicato da Fede e Cultura (Verona 2008). L’autore vi ripercorre le linee portanti dell’insegnamento pacelliano attraverso l’analisi delle principali Encicliche, di alcuni Radiomessaggi natalizi e dei numerosi Discorsi ai medici. Un’opera fondamentale che andrebbe riletta è anche il volume del prof. Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed elites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà Romana (Marzorati, Milano 1993) in cui l’autore commenta le quattordici allocuzioni che Pio XII venne tenendo periodicamente al Patriziato e alla Nobiltà Romana dal 1940 al 1958.
Questo corpus dottrinale è stato completamente accantonato dopo la morte di Pio XII, un Pontefice di cui si è parlato quasi esclusivamente a proposito del suo atteggiamento nei confronti degli ebrei, accusato di complicità con il nazismo anche da alcuni ambienti cattolici. In realtà, come ha ricordato Benedetto XVI il 18 settembre ricevendo i partecipanti al simposio su Pio XII della Pave the Way Foundation, Papa Pacelli «non risparmiò sforzi ovunque fosse possibile per intervenire direttamente oppure attraverso istruzioni impartite a singoli o ad istituzioni della Chiesa Cattolica in loro favore».
Fin dagli anni Sessanta, l’opera di Rolf Hochhut Il Vicario diffuse una “leggenda nera” su questo tema, alimentata dai libri di John Cornwell (Hitler’s Pope), Daniel Goldhagen (Hitlers Willige Vollstrecker) e da altri scritti, che hanno istigato una vera e propria campagna di odio contro Papa Pacelli. In un’intervista a “L’Osservatore Romano” del 19 settembre, Paolo Mieli ha affermato che la vera ragione dell’odio e dell’avversione contro Pio XII è il suo anticomunismo. «Tuttavia – ha aggiunto – la “leggenda nera” ha i tempi contati»: «Pio XII non sarà un Papa segnato da una damnatio memoriae». (CR1064/01 del 25 ottobre 2008)

E’ la città più pericolosa d’Europa e tra le più inquinate
Roma, nel caos per il traffico

di Marco Aurelio

In tutt’altre faccende affaccendato, tra Fascismo e Antifascismo, Attalì “de noantri”, amore odio nei confronti di Fini, tentativo di assumere la leaderschip delle sbandate legioni di Alleanza Nazionale, Gianni Alemanno delude quanti hanno visto in lui l’astro nascente di una Destra moderna, con attenzione ai problemi della gente. Nella realtà non è così. La Città va amministrata nelle cose minime ma che la gente sente, il traffico innanzitutto e la pulizia (ricordo sempre che la Giunta di Bologna cadde, secondo Il Resto del Carlino, “sulle cacche dei cani”). Quanto al traffico la Città è stata gettata nel caos. La dissennata gestione della sosta a pagamento, prima abolita, poi ripristinata per il solo centro storico, a dimostrazione della sensibilità alle istanze dei commercianti, poi gradatamente in alcune strade (non nelle traverse) ha fatto irritare (eufemismo!) i residenti che non trovano più parcheggio ed ha messo nelle mani dei guardiamacchine o parcheggiatori abusivi la aree “libere” intorno agli ospedali. Con la conseguenza che, invece di uno o due euro per chi va a farsi visitare o a trovare un amico ricoverato, deve versarne tre o quattro ai taglieggiatori ai quali, involontariamente s’intende, il Comune ha offerto l’arma del ricatto. Ad un mio amico, giorni fa, un posteggiatore ha detto: “che bella macchina, non ha neppure un graffio!” Perché continuasse a non averne ha dovuto sborsare cinque euro. Bella trovata quella dell’Assessore Marchi. Ma che sia un nemico di Alemanno, perché intanto la città è oppressa dallo smog. Non ci vorrebbe neppure il controllo delle centraline. Se per trovare un parcheggio un cittadino deve girare dai 30 ai 40 minuti è evidente che l’aria si aggrava di residui tossici, le famigerate polveri sottili. C’è da chiedersi se Marchi ed Alemanno vanno mai nelle principali città d’Europa, quelle con le quali Roma deve confrontarsi, dove il parcheggio libero semplicemente non esiste nei centri storici, nei quali, tra l’altro, spesso si accede pagando l’ingresso. Ma veramente non riusciamo ad abbandonare quel provincialismo che mortifica la nostra storia? Intanto l’ANSA del 13 ottobre diffonde un’altra notizia che non fa onore alla Città Eterna: Roma è la città più pericolosa d’Europa sotto il profilo della sicurezza stradale e i centri italiani hanno un livello di rischio superiore a quello delle altre città d’Europa. Tre incidenti su quattro si verificano sulle strade cittadine. Un primato allarmante. Gli incidenti stradali appaiono sempre più come una vera e propria emergenza nazionale – con una media di 8-10 morti ogni giorno e costi attorno ai 34 miliardi I’anno – all’interno di una più ampia emergenza europea. Ogni anno, fa sapere I’Aci, nelle 27 capitali europee muoiono 24 mila persone sulle strade: la metà sono minorenni, 5.000 sono bambini. Pedoni, motociclisti e, appunto, bambini, le categorie più esposte: basti dire che in Europa il 40% dei bimbi viaggia in auto senza seggiolino e fra i pedoni si registra una media di due morti e 55 feriti al giorno. Proprio il tema della sicurezza sulle arterie dei centri urbani è stato scelto quest’anno come leit motiv della seconda Giornata europea per la sicurezza stradale, che ha avuto il suo epicentro a Parigi, ma ha coinvolto anche in Italia scolaresche, associazioni, istituzioni, enti locali in uno sforzo comune di sensibilizzazione al problema. Se il numero di incidenti stradali in Italia risulta in calo rispetto a qualche anno fa, ad aumentare notevolmente sono soprattutto le vittime nelle aree urbane. I dati diffusi dalla Fondazione Ania, che fa capo all’associazione delle compagnie assicurative italiane, indicano che ogni quattro incidenti con danni alle persone, tre si verificano in ambito urbano: un fenomeno che nel 2007 ha provocato con 2.600 morti e 210.000 feriti. Non solo. Stando alle statistiche Ue, su 27 capitali europee, Roma è risultata, nel corso dell’ultimo decennio, la città più pericolosa, battendo centri del calibro di Parigi, Londra, Barcellona o Stoccolma. A rischiare di più è soprattutto chi viaggia su scooter e motocicli: l’85% degli incidenti e il 50% dei decessi su due ruote – ricorda I’Aci – avvengono proprio in città. In generale, in Italia il numero delle vittime sulle strade, sebbene in discesa, resta molto alto. In base alle ultime rilevazioni di Polstrada e Carabinieri, tra gennaio e settembre 67.586 persone sono rimaste ferite, il 10% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Altre 2.294 hanno perso la vita, 174 in meno. Ma in media annua questo vuol dire che si sono avuti tra gli 8 e i 10 decessi ogni giorno. Un numero che va ridotto, “è una priorità politica”, ha detto oggi a Bruxelles il commissario Ue ai Trasporti, Antonio Tajani. Anche perché nelle pieghe di queste cifre, si nascondono specifiche casistiche che riguardano proprio i soggetti più esposti. II ministro dei Trasporti, Matteoli, ricordava pochi giorni fa
che in Italia ogni anno si contano mille morti e 25 mila feriti all’anno solo tra pedoni e ciclisti.
Caro Alemanno, è ora che cominci a fare il Sindaco, prendi in mano la situazione, manda Marchi in archivio. Sei ancora in tempo per recuperare consensi. La “botta” di demagogia della sospensione della sosta a pagamento… non paga!
17 ottobre 2008

E il Comune sta a guardare
Roma, automobilisti taglieggiati dai guardiamacchine

di Marco Aurelio

Assolutamente privo di percezione della realtà, l’Assessore alla mobilità, Sergio Marchi, ha previsto l’ampliamento delle aree dove è possibile parcheggiare senza pagare, per esempio intorno agli uffici pubblici ed agli ospedali. Il parcheggio è a tempo, al massimo tre ore. Parcheggio senza pagare, al Comune. Ma l'”esenzione” non riguarda i guardiamacchine o posteggiatori che dir si voglia, estorsori “autorizzati” che impunemente taglieggiano gli automobilisti sotto gli occhi dei vigili urbani impossibilitati ad intervenire. Alla protesta di un mio amico, in prossimità dell’Ospedale San Camillo, l’agente ha risposto, “lei non deve nulla al posteggiatore”. Ciò che vuol dire, tradotto in parole povere, “se vuol farsi graffiare la macchina si accomodi pure”. È un’autentica vergogna e conferma la mia valutazione di una classe politica incapace di percepire i problemi veri della gente. D’altra parte Marchi è quello che ha reso Prati ed altri quartieri invivibili, con una selezione delle aree a pagamento assurda. In viale Mazzini (Prati), ad esempio, il parcheggio si paga, mentre nelle strade adiacenti è libero. Ho sentito dire che è una scelta dei tecnici. Ma la scelta è politica e questa scelta è illogica. Anche per colpa di Marchi la Giunta Alemanno annaspa! E già si comincia a dire, anche da chi li ha votati, che questi personaggi sarebbe stato meglio fossero rimasti a vivacchiare all’opposizione, continuando nel piccolo cabotaggio, nella questua di piccoli favori, le briciole che la Giunta Veltroni donava a chi non disturbava la sua navigazione. Un posto da operatore ecologico all’AMA, un autista all’ATAC, un usciere alla soprintendenza. E così via! Amen.
12 ottobre 2008

Una sconfitta per entrambi
Se il Capo di Gabinetto lascia il Sindaco

di Marco Aurelio

Comunque e da qualunque verso la si veda la decisione di Sergio Santoro, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, di lasciare l’incarico di Capo di Gabinetto del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha il sapore amaro di una sconfitta. Per entrambi. Per il magistrato, che deve aver sottovalutato l’impegno di primo collaboratore di un Sindaco che ha vinto le elezioni sulla base di un programma ambizioso di revisione della politica amministrativa che ha caratterizzato il Comune di Roma nei lunghi anni delle gestioni della Sinistra. Un impegno totale, non una consulenza, come si affannano a dire i giornali per edulcorare il senso di una crisi che, invece, è l’immagine della difficoltà della nuova Giunta capitolina. Secondo questa versione ci sarebbe una sorta di incomprensione dietro le dimissioni di Santoro. Lui avrebbe ritenuto l’incarico un’“alta consulenza giuridica”, Alemanno un effettivo ruolo di direzione del suo staff, con funzioni di coordinamento. Ma Sergio Santoro non è l’ultimo arrivato. Ha grande esperienza amministrativa, avendo collaborato con vari ministri. Sa bene che la funzione di Capo di Gabinetto non si realizza attraverso una mera consulenza, sia pure elevata e limitata alle questioni di maggiore spessore. Tuttavia è possibile che abbia sottovalutato l’impegno di collaborazione con un personaggio per il quale la sedia di primo cittadino della Capitale è una sfida che sa tanto di trampolino di lancio nel momento in cui Alleanza Nazionale chiude e si fonde con Forza Italia nel Partito del Popolo delle Libertà. Forse Santoro ha avuto presente il ruolo che nella Giunta Veltroni aveva Maurizio Meschino, anche lui del Consiglio di Stato, un garbato signore, ottimo giurista, il cui ruolo era in qualche misura meno esposto, a causa della composizione della Giunta e della maggioranza. Lavorare con Alemanno è diverso. Il personaggio vive consapevolmente un passaggio delicato della sua esperienza politica, mentre Gianfranco Fini, terza carica dello Stato, è costretto ad un meditato silenzio sulle grande questioni politiche che dividono gli schieramenti. Per il leader di AN il più alto seggio di Montecitorio è come una bacheca, una edicola votiva, che non ha il ruolo politico del “successore”, al quale, a volte, sembra che Fini abbia rinunciato quando ha scelto di fare il Presidente della Camera anziché il Ministro, dell’interno, della difesa o dell’economia, che gli avrebbero apertola strada della leaderschip del PdL del dopo Berlusconi. Nella prospettiva di Alemanno, dunque, la carica di Sindaco di Roma è l’ariete con il quale potrà dominare la scena politica. Per fare questo non deve sbagliare o non sbagliare molto, a cominciare dal suo staff, quel gruppo di suoi collaboratori che hanno il compito di coordinare le varie attività, e del quale il Capo di Gabinetto è la figura centrale. Anche lui, dunque, ha sottovalutato l’importanza del ruolo da attribuire al suo Capo di Gabinetto, in una struttura amministrativa che la nuova Giunta non domina facilmente. Sono anni che le Sinistre governano il Campidoglio e dintorni, hanno posto fedelissimi in tutti i settori, dal ruolo più modesto ai vertici dei vari dipartimenti. Alemanno ha bisogno di un Capo di Gabinetto che in qualche misura indirizzi la struttura con mano ferma, per capacità professionale e di lavoro. Un giurista che possa riscuotere per prestigio e competenza il rispetto che si deve a quella carica e che abbia il polso giusto. La struttura, i tecnici in ambienti fortemente politicizzati, come quello del Comune di Roma tendono a rispondere a chi li ha nominati, o quanto meno diffidano dei “nuovi” e sono pronti a farli scivolare sulla classica buccia di banana. Chi ha un po’ di esperienza delle amministrazioni comunali conquistate dal centrodestra dopo lunghe gestioni della sinistra lo sa bene. L’aveva imparato presto Gianfranco Ciaurro, Sindaco di Terni indotto ad una serie di errori dai suoi più stretti collaboratori amministrativi i quali, alla fine, lo hanno perfino denunciato alla Procura regionale della Corte dei conti. Ha sbagliato Santoro a sottovalutare l’impegno ed ha sbagliato Alemanno a non considerare che le caratteristiche del suo Capo di Gabinetto non potevano essere speculari a quelle di un analogo capo dello staff di un ministro, laddove le amministrazioni centrali dello Stato hanno una struttura che in pratica si autogestisce e che ha, nella maggior parte dei casi, elevato senso dello Stato. Queste cose, per tempo,prima che si formasse il nuovo governo Berlusconi e che Alemanno diventasse Sindaco di Roma, le aveva scritte il nostro direttore raccomandando Presidente del Consiglio e Ministri a scegliere bene il proprio primo collaboratore. Anche al Governo sono stati fatti errori, ma lì si nota di meno. Anche perché molti ministri sono personaggi minori. Oscurati della preponderante figura del Presidente del Consiglio. E non fanno nulla per farsi notare!
11 ottobre 2008

La legge elettorale e le preferenze
Questioni di democrazia

di Senator

In un’animata discussione tra amici, qualche giorno fa, a margine di una cena di matrimonio, mi sono confrontato vivacemente con un docente universitario, ingegnere, impegnato a difendere, con un fervore certamente degno di migliore causa l’attuale legge elettorale, il porcellum, come l’ha battezzata, con candida onestà, il suo autore, l’attuale Ministro per le riforme istituzionali, Roberto Calderoni. “Agli italiani va bene, diceva il Nostro, non si sono ribellati”. “E poi, aggiungeva, non limita la libertà degli elettori i quali, se non condividono la lista bloccata di un partito possono rivolgersi ad altra formazione politica”. Non c’è stato niente da fare. Non l’ha neppure sfiorato il dubbio che la legge vigente nega al cittadino il suo più importante diritto politico, quello di scegliere i suoi rappresentanti. E, poi, perché mai dovrei rivolgermi ad un altro partito se non trovo nella lista del “mio” persone di mio gradimento nell’ordine giusto, posto che alle prime posizioni spesso sono stati collocati portaborse, famigli, amanti, delle varie “tendenze” sessuali, personaggi ai quali il seggio ha assicurato l’impunità rispetto ad iniziative giudiziarie delle quali sono piene le cronache? Per non dire del fatto che c’è stato anche un leader di partito che al momento di fare la lista ha precisato che a lui bastavano non più di trenta deputati “buoni” perché gli altri avrebbero votato come indicato dai trenta. È in virtù di questa legge che in Parlamento è girata la battuta, riferita ad un noto leader politico, secondo la quale la differenza tra lui e Caligola sta nel fatto che, mentre l’imperatore romano aveva nominato senatore un cavallo lui aveva fatto deputato un somaro, il suo fedelissimo segretario. C’è di più, come ha notato acutamente Arturo Parisi, “uno degli effetti perversi della legge elettorale (Porcellum) è quello di rompere ogni legame tra parlamentari e territorio… Da sempre noi crediamo che il sistema elettorale uninominale di collegio sia la soluzione migliore. Guardiamo comunque con preoccupazione all’idea di estendere le liste bloccate anche alle elezioni europee. Siamo nel perdurante attacco berlusconiano alle istituzioni rappresentative”. Un’analisi lucidissima, che collega questo attacco all’uso strumentale della giusta indignazione dei cittadini di fronte agli eccessi della “casta”. Una casta ristrettissima, fatta di pochissime persone, quelle che decidono la composizione delle liste, i capi partito, cioè i capi corrente, che confezionano il Parlamento secondo i propri interessi. Un meccanismo perverso anche per altro verso, perché chi si rende autonomo, non dico si ribella, rischia seriamente di non essere messo in lista. La sacrosanta indignazione nei confronti dei privilegi dei parlamentari e gli ingiustificati costi della politica è niente rispetto alla ribellione che dovrebbero sentire tutti gli italiani per essere stati privati del primo diritto politico, quello di concorrere, attraverso la scelta di deputati a senatori alla politica nazionale. Non solo il Parlamento è composto a misura degli interessi dei capicorrente, ma esso viene svuotato dei suoi poteri attraverso una proliferazione di decreti legge e dell’uso smodato della regolamentazione di secondo grado, decreti presidenziali e ministeriali, una selva irta e forte che è più intricata della giungla legislativa che nel tempo ha impegnato le Camere e che è spesso, soprattutto quella meno recente, di fattura giuridica decisamente più corretta. Ricordo di aver sentito il Prof. Onida in un recente convegno promosso da Franco Bassanini sulle riforme costituzionali, denunciare il bassissimo livello della normazione secondaria che negli ultimi anni esce dal Consiglio dei ministri o dagli uffici legislativi dei ministeri. È un degrado del quale, purtroppo, non è in vista la fine.
10 ottobre 2008

Leggi e decreti tra maggioranza e governo
di Salvatore Sfrecola

I governi, non da oggi, si lamentano una grave lentezza nei tempi dell’attività legislativa. Il fatto è vero e le cause sono molte, almeno per come la vedono politici e giuristi. Una prima causa di lentezza dell’attività legislativa viene individuata nel bicameralismo “perfetto”, quella situazione che vede Camera e Senato su un piede di assoluta parità, per cui ogni legge deve passare al vaglio delle due Camere nello stesso testo. Con la conseguenza che ogni pur minima modifica dà luogo alla cosiddetta navetta che trasferisce un testo da una Camera all’altra e viceversa. Il bicameralismo è stato voluto dai costituenti per assicurare ad ogni atto normativo primario l’apporto di esperienze diverse, da due Camere elette con un sistema leggermente diverso. Così al Senato i cittadini più che venticinquenni eleggono cittadini con un minimo di quarant’anni. Pare effettivamente una differenza modesta, che non assicura quella distinzione che giustificherebbe due camere con gli stessi poteri. Allora è necessario diversificare i ruoli, almeno per alcune leggi. Per cui si parla di Senato delle regioni che dovrebbe curare la legislazione di interesse “federale”. Anche qui le ipotesi sono molteplici. Vi sono leggi, come la finanziaria o la legge di bilancio che in realtà interessano anche le regioni. L’ipotesi è di distinguere leggi che impegnino le due Camere e leggi che possano essere approvate da una sola. Poi c’è la questione dei regolamenti parlamentari la cui modifica viene auspicata per accelerare i lavori delle commissione e delle assemblee. Anche per questo verso le ipotesi sono molteplici. Primeggia quella di assicurare una corsia privilegiata ai disegni di legge del Governo. Naturalmente senza privare le Camere delle prerogative che sono loro proprie in quanto assemblee elette dal popolo composte da soggetti che concorrono all’esercizio della volontà popolare che nelle leggi trova la massima espressione. Nel dibattito non sfugge che le difficoltà dei governi di portare a casa le leggi che corrispondono all’indirizzo politico elettorale sono, in realtà, difficoltà della maggioranza che è la stessa maggioranza che tiene in vita il governo, ma nella quale si manifestano esigenze diverse rispetto a quelle del governo. Proprio nel settore della spesa che nei parlamenti dell’Ottocento veniva frenata dai deputati rispetto alla politica di grandezza dei governi e che oggi, e da molti anni, vede nelle assemblee una spinta all’accelerazione per motivi di ricerca del consenso elettorale, mentre i governi frenano, soprattutto da quando sono tenuti al rispetto di vincoli internazionali, come quelli conseguenti al patto di stabilità europeo. Il malessere della legislazione lenta è, dunque, prima di tutto, un problema della maggioranza, della sua responsabilità e della sua capacità di esprimere un indirizzo politico conforme a quello del governo, secondo le indicazioni del corpo elettorale. I decreti legge sono, almeno nell’immediato, una soluzione? Sembra crederlo il Presidente del Consiglio, che vi ricorre frequentemente,come, del resto, i suoi predecessori, con scarsa attenzione ai requisiti di necessità ed urgenza che la Costituzione all’art. 77 richiede per questo straordinario trasferimento di competenza legislativa dal Parlamento al Governo. È chiaro che si tratta di concetti che tengono conto di situazioni di fatto variamente configurabili, per cui i rifiuti abbandonati a lungo sui marciapiedi di Napoli hanno determinato una situazione di necessità ed urgenza ambientale e sanitaria, così l’esigenza di operare in materia tributaria in un momento di emergenza è assistita dalla stessa legittimità costituzionale, ma è altrettanto indubbio che si sia abusato in alcuni casi con l’adozione di misure di vario genere, come la modifica dei programmi scolastici che la storia parlamentare riserva da sempre alla legislazione ordinaria. Non sono contrario ai decreti legge in un Paese che vive da sempre difficoltà di gestione del potere, ma come sempre l’uso di questo strumento straordinario non può espropriare di fatto il Parlamento del potere per il quale è stato istituito, pena la mortificazione della democrazia che si fonda sulla rappresentanza popolare e sulla sua capacità di esprimere la volontà del popolo. C’è qualcosa che non va se la maggioranza che, ripeto, è quella che regge il governo entra in contrasto con il governo e si fa da questo prevaricare con lo strumento del decreto-legge. È una democrazia malata, destinata ad essere vittima di assalti oligarchici. Forse il rimedio sarebbe nella ricerca di una classe politica più consapevole, meno guidata dal particulare elettoralistico, più professionale, dotata di senso di responsabilità verso il proprio elettorato, senza trascurare gli interessi complessivi della Nazione. Forse i leader dei partiti, che hanno monopolizzato le scelte attraverso il sistema elettorale che ha escluso le preferenze, si sarebbero dovuti preoccupare più della capacità di quanti hanno messo in lista anziché della fedeltà cieca e sorda che hanno fin qui privilegiato.
7 ottobre 2008

Il ruolo del Quirinale e della politica
di Salvatore Sfrecola

C’è una polemica in corso, e non solo da oggi, sul ruolo del Capo dello Stato che a taluno appare troppo formale, “papista”, secondo una pittoresca espressione dell’On. Di Pietro, secondo il quale il Presidente della Repubblica “deve fare di più”. L’occasione è la nomina del Presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI e del giudice costituzionale che dovrà sostituire il Prof. Romano Vaccarella, dimessosi nei mesi scorsi. Al leader dell’Italia dei Valori replica l’On. Antonello Soro in un’intervista al Corriere della Sera di oggi a pagina 13, facendo alcune considerazioni che si riferiscono alla posizione del Partito Democratico, che non ci interessano essendo eminentemente politiche, ed altre sul ruolo del Capo dello Stato che, invece, è importante riprendere. “Il Presidente della Repubblica potrebbe fare di più?, chiede l’intervistatore, Andrea Garibaldi. “Può fare quel che ha fatto. Moral suasion. Cercare un punto di equilibrio istituzionale”. Concordo con l’On. Soro. Il Capo dello Stato nel sistema costituzionale è titolare di funzioni proprie importanti, anche di controllo di legittimità di atti del governo, come ho ricordato altre volte (ad esempio nel caso della sostituzione del Generale Speciale al vertice della Guardia di Finanza), ma per le vicende politiche ha un ruolo di sollecitazione, di moral suasion, come si usa dire oggi, di autorevole guida morale. E difatti i partiti, che propongono una candidatura con ricerca del più ampio consenso, scelgono da sempre personalità che, pur militando in uno schieramento, hanno saputo dimostrare un tratto super partes. Così ha disegnato il Capo dello Stato l’Assemblea costituente che nel redigere una Costituzione “repubblicana” si è ispirato alla tradizione monarchica che voleva, secondo un’espressione di Vittorio Emanuele III che gli occhi e le orecchie della prima magistratura dello Stato fossero la Camera ed il Senato, quali espressioni della politica militante, quella suffragata dal voto popolare. Non a caso furono di cultura e fede monarchica il Capo provvisorio dello Stato ed il primo Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Per questo sono da sempre contrario ad ipotesi presidenzialiste, che farebbero venir meno il ruolo di garante supremo che spetta oggi al Capo dello Stato. Che, ad esempio, non a caso, nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale, ai quali spetta la verifica della conformità delle leggi alla Carta fondamentale, e porterebbe al Quirinale un capo di partito che, forte di un presumibile vasto consenso popolare, potrebbe mettere a rischio la democrazia. Teniamoci cara questa Costituzione con i suoi equilibri istituzionali e diamo al Presidente ciò che è del Presidente ed alla politica ciò che è della politica.
1 ottobre 2008

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