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Agosto 2009

Non parliamo più di Fiumicino
di JLR

      E’ difficile capire perché la gente, i media, i politici, ancora ogni tanto si scoprano scandalizzati degli incredibili disservizi dell’aeroporto di Fiumicino: Viaggio molto, per lavoro e vacanze, e Fiumicino è stato sempre così  da venti anni almeno.
     La professionalità a Fiumicino non c’è mai stata (salvo poche eccezioni) nei taxi, nei bar, nei ristoranti, nei servizi di informazione dei viaggiatori.
     I bagagli sono sempre arrivati in ritardo e (se non si perdono) talora il ritardo è superiore alla durata del volo effettuato.
     I bagagli che restano sui nastri (perché arrivati dopo qualche giorno) vengono “buttati”   in un angolo incustodito, in fondo al salone “arrivo bagagli” e li restano non so per quanto tempo. Chiunque può prendere uno di questi bagagli e portarselo via senza che nessuno se ne accorga ! (sic)
     Se qualcuno si reca presso l’addetto (persona indistinguibile, con vestiti “molto borghesi”) riferendosi al caos bagagli, la costante risposta è: e io che c’entro? Meglio non rispondere se non si superano gli 80kg di peso ed i 190 cm di altezza!
     Quanto sopra da sempre!!!
     Gli Amministratori che si sono alternati da venti anni sino a oggi, dove erano ?
Che aerei prendevano? Hanno mai fatto scalo all’Aeroporto di Fiumicino?
     Si può continuare con racconti incredibili sui servizi taxi, sulle indicazioni dei voli, sui ritardi, sul  menefreghismo di gran parte del personale, ma è superfluo : e nemmeno io lo farò più.
     Tutti lo sanno, in tutto il mondo, e lo vedono da moltissimi anni, e qualcuno all’improvviso, ogni tanto (quando non ci sono altre notizie da dare),…il Sindaco Alemanno ha aspettato il bagaglio per una ora!
     Incredibile ! Come può essere successo?
27 agosto 2009

un nuovo sistema tributario per tornare a crescere
Il fiasco del Ministro del fisco
di Oeconomicus

     Preciso nell’esposizione dei dati, garbato nel tratto, Francesco Giavazzi affronta oggi sul Corriere della Sera il tema centrale in questo momento di crisi economica dalle prospettive ancora incerte. Il dibattito di questi giorni su tasse e salari dimostra che il fisco rimane il mezzo di elezione per una politica economica che miri allo sviluppo.
     Ricordando le promesse che Berlusconi aveva fatto momento di entrare in campo, “un’Italia con meno tasse”, Giavazzi mette in risalto che quelle promesse non sono state mantenute, certamente per difficoltà obiettive ma anche per l’incapacità del fisco di immaginare, ad imitazione di quanto avviene in molti paesi esteri, di favorire, attraverso un’attenta politica di scelta dei beni e dei redditi da tassare, il risparmio delle famiglie, i consumi, l’imprenditoria più innovativa o coraggiosa.
     Nessuno nega le difficoltà del Paese ma è certo che è mancata anche l’iniziativa di suggerire o di identificare prospettive nuove nello sviluppo della tassazione, ad esempio dei redditi familiari, della quale si parla alla vigilia di ogni elezione per poi passare nel dimenticatoio il giorno successivo all’esito del voto. È evidente che se non si prenderà in esame rapidamente la prospettiva di restituire alle famiglie, che sono o uno spaccato importante dell’economia nazionale, la capacità di risparmiare e di spendere, così sollecitando i consumi e quindi la produzione, che significa posti di lavoro proprio per le famiglie, non ci sarà la possibilità di uscire da questa recessione in tempi rapidi.
     Allo stesso tempo è evidente la pervicace ostilità del fisco ad immaginare anche soltanto un parziale riconoscimento delle spese che le famiglie sostengono per il mantenimento dei figli, per la cura a dei malati e l’assistenza agli anziani, attività alle quali spesso le famiglie provvedono con pagamenti in nero, una condizione che danneggia il fisco e i gestori della previdenza. Una sapiente politica di riconoscimento di queste spese, oltre ad essere una espressione di giustizia sociale, potrebbe, se gradualmente condotta, portare ad un sostanziale recupero di disponibilità di risorse per le famiglie. Ugualmente il fisco dovrebbe avere la capacità e la sensibilità di percepire, come avviene nei paesi più dinamici con prospettive di sviluppo imprenditoriale, di capire quali iniziative imprenditoriali meritano di essere assistite con parziale o totale e limitata nel tempo detassazione in modo da offrire all’economia generale prospettive di sviluppo in settori che sono stati trascurati. Mi riferisco, ad esempio, al turismo che continua ad essere gestita in modo disinvolto ma per nulla concreto, nonostante sia un settore di grandi prospettive occupazionali e di rilevanti possibilità di sviluppo in un Paese che da sempre richiama l’attenzione turistica alla quale non siamo capaci di dare ovunque la stessa soddisfazione per i prezzi elevati, la modestia dei servizi offerti, quando non si devono denunciare casi di autentica truffa ai danni  dei turisti.
     Il ministro dell’economia e delle finanze che spadroneggiano sulla scena politica, come del resto hanno sempre fatto i ministri del Tesoro, sembra non percepire al fondo l’esigenza di fare quella “riforma coraggiosa del fisco” che Giavazzi ricorda in conclusione del suo articolo essere stata la grande promessa di Berlusconi, che ne decretò allora il successo e che continua ad essere considerato uno degli elementi di forza del centrodestra che periodicamente ricorda la necessità di alleggerire il carico fiscale. Un carico che è divenuto insopportabile perché ai livelli più alti nella tassazione europea a fronte dei servizi pubblici generali di estrema modestia.
     Non c’è tempo da perdere. Il fisco come strumento di elezione della politica economica ha in molti casi una capacità di risposta pressoché immediata all’input che proviene dalla classe politica che decide in materia. Nel senso che per molti tributi l’effetto positivo è pressoché immediato.
     Contestualmente lo Stato si liberi di un contenzioso antico e farraginoso che, soprattutto nelle aree meridionali del Paese, determina quanto meno un gravissimo ritardo nella riscossione delle imposte.
     Non si può attendere ulteriormente. Dal primo annuncio di Berlusconi nel 1994 ad oggi il centrodestra è stato a lungo al governo e quando ha gestito l’opposizione avrebbe avuto la possibilità di incidere notevolmente sulle scelte in materia fiscale. Non l’ha fatto allora e non l’ha fatto al governo limitandosi ad un modesto cabotaggio tra gli scogli di un mare infinito, senza avere il coraggio di incidere in modo significativo nella realtà del sistema tributario italiano. Un ministro del fisco poco coraggioso è come il medico pietoso che non cura con decisione il malato e lo fa morire.
26 agosto 2009

FORSE LA TERRA E’ STATA CREATA COSI’
di JLR

     Il primo giorno fu fatta l’ Africa.
     Doveva essere creata la Terra: facendo l’Africa Dio si accorse che aveva fatto tutto quello che voleva in un sol giorno e fu felice.
     Il secondo giorno fece l’America: prima quella del Sud – ancora col pensiero  alle meraviglie del giorno precedente – poi fece l’America del Nord giudicando che doveva fare qualcosa di  grande e potente.
     Il terzo giorno volle divertirsi e passò molto tempo a giocare: e fece  l’Asia.
     Il quarto giorno era preoccupato e serio, pensava al futuro, e fece l’Europa.
     Il quinto giorno voleva fare  qualcosa di spettacolare e fece l’ Oceania e l’Australia.
     Il sesto giorno pensò che tutto questo era troppo bello ed eterno e così creò l’Uomo.
     Il settimo giorno si riposò, si mise a sedere e disse “vediamo che succede!”.
26 agosto 2009

P.S. Di norma sono contrario a racconti o battute che richiamino espressioni proprie di testi di carattere religioso, siano la Bibbia o il Corano, ma la “ricostruzione” della Creazione che ha fatto JLR è garbata e ironica e mi è parso opportuno pubblicarla.
S.S.

Il Campidoglio “scopre” i disservizi di Fiumicino
Se a tardare è la valigia del Sindaco!
di Salvatore Sfrecola

     Il Corriere della Sera oggi, in prima pagina, documenta, grazie a una sequenza fotografica effettuata con il telefonino di un passeggero, che anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è incappato nei disservizi dell’aeroporto romano di Fiumicino ed ha atteso per più di un’ora, in piedi, davanti al nastro bagagli che giungessero le sue valigie. Per cui ha convocato prontamente per i primi di settembre un vertice in Campidoglio con l’azienda aeroporti di Roma, l’ENAC, le società di handling che operano a Leonardo da Vinci.
     “Si tratta di una situazione grave che perdura da tempo – è sbottato Alemanno – e il problema riguarda anche la società di gestione degli aeroporti. L’obiettivo è mettere in campo uno sforzo comune per portare Fiumicino al rango di uno scalo internazionale”.
     Il disservizio era noto da tempo, è capitato un po’ tutti di soffrire per questa straordinaria inefficienza dello scalo romano, un pessimo biglietto da visita per i turisti italiani e stranieri che si recano nella Capitale, ma diventa “incredibile” solo se un’autorità incappa nella disavventura.
     In realtà, vista la ricorrenza dei disservizi di cui adesso ha sofferto, Alemanno avrebbe dovuto assumere da tempo l’iniziativa di studiare il modo di “portare Fiumicino al rango di uno scalo internazionale”. Non è forse lui in Sindaco di Roma? E non avrebbe dovuto già darsi carico di queste disfunzioni che interessano anche le operazioni doganali (una mia amica, tornando dal Giappone, è stata più di un’ora al posto di Polizia; ne sono stato testimone perché l’attendevo all’esterno dell’aeroporto, mentre a Tokio in pochi minuti aveva passato il posto di controllo e trovato all’esterno i bagagli già con indicazione dell’hotel)?
     Ce n’è abbastanza per vergognarsi. Eppure, sia io che il nostra collaboratore per le cose romane, Marco Aurelio, avevamo da tempo ricordato di quell’Imperatore, Federico II di Svevia, che usava monitorare la situazione della città camuffandosi tra i frequentatori del porto ed i clienti del mercato di Palermo, la Vucciria, per verificare l’efficienza dei servizi ed il gradimento del suo governo.
     Continuiamo a non progredire nell’efficienza, colpa della dirigenza politica ed amministrativa degli enti pubblici e delle società che gestiscono i servizi e dei sindacati, strenui difensori dei fannulloni!
26 agosto 2009  

Senza retroterra culturale
la politica non interpreta la storia d’Italia
di Salvatore Sfrecola

      “La Politica ha perso il senso del Paese”, ha scritto alla vigilia di Ferragosto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, a proposito del rapporto tra intellettuali e politica. La riflessione, in margine alle polemiche, iniziate proprio da Galli della Loggia, a proposito delle celebrazioni del centocinquantenario dell’unità d’Italia delle quali si sa poco, se non che saranno finanziate alcune opere pubbliche che poco o nulla hanno a che fare con l’evento.
     Lo ha rilevato il Presidente demerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Presidente del Comitato che per quelle celebrazioni svolge funzioni consultive. Ne è preoccupato Giorgio Napolitano, espressione dell’unità della Repubblica, autorità super partes, che teme un flop quando l’occasione dovrebbe rafforzare il senso dell’appartenenza in un Paese troppo spesso squassato da localismi esasperati, anche se frequentemente strumentalizzati, come dimostra l’uscita agostana di Bossi sull’Inno di Mameli che tenta di distrarre l’attenzione dell’elettorato leghista in vista della difficile ripresa autunnale nella quale anche Confindustria prevede difficoltà nell’occupazione, soprattutto nel Nord Est.
     È un problema culturale, insiste Galli della Loggia, con analisi lucidissima della classe politica italiana, con i suoi limiti, messi in evidenza ogni giorno nel dibattito sulle cose da fare e su quelle omesse.
    I limiti della politica, scrive della Loggia, “quando la medesima perde ogni retroterra culturale, quel retroterra che essa deve necessariamente avere di per sé, deve essere capace di avere in quanto tale, senza pensare di poterlo chiedere in prestito quando le serve ai cosiddetti intellettuali. Qui per l’appunto, invece, è avvenuta in Italia una cesura drammatica, ed è di questa cesura che testimonia clamorosamente l’incredibile spezzatino edilizio pensato per il 2011. Cioè del fatto che dopo il grande crollo del 1992-94 le classi dirigenti politiche di questo Paese hanno virtualmente troncato ogni legame con qualunque retroterra culturale. Il retroterra culturale di cui parlo ha un contenuto e un nome: la storia d’Italia nella molteplicità delle sue espressioni (politica, sociale, artistica, religiosa, letteraria e via enumerando). È di questa che oggi, ma non da oggi, la politica di casa nostra e i suoi partiti sembrano non volere sapere (e non sapere) più nulla, quasi che la cosa fosse loro indifferente: della storia d’Italia, cioè dell’identità complessa, unitaria e segmentata, di queste contrade, altissima e miserabile ma sempre struggente per chi le vive e le sente come una patria”.
     L’ho scritto altre volte. La pluralità culturale, la diversità delle esperienze storiche delle regioni italiane può essere fonte di debolezza ovvero di forza, di divisione o di unità. È debolezza nella visione localistica di Bossi, gretta espressione di un ambiente autoreferenziale, con alterazione della scala dei valori che dovrebbero caratterizzare una comunità. Un tempo si ricercavano nella storia e nella leggenda le origini dei popoli, nella convinzione che l’orgoglio poggiato sulle gesta degli eroi, specie se di origine divina (il dio Marte per Roma), dessero ai popoli il senso della loro missione nel tempo. Poi sono venute le ideologie distruttrici del XX secolo, il comunismo, il nazismo, il fascismo e si è dedotto che esaltare la lotta di classe, il grande Reich o la romanità fossero giustamente da rigettare nella loro capacità aggressiva nei confronti delle libertà civili e dell’integrità degli altri popoli. E si è ritenuto che dovessero venir meno anche gli ideali che la filosofia politica nei secoli ha elaborato fissando le regole della democrazia e della libertà. Così oggi viviamo la stagione dell’agnosticismo, della negazione delle differenze che, sia pure in ambiti particolari, esistono in tutte le vere democrazie pluraliste, dove, fermi i valori fondamentali del moderno costituzionalismo, i partiti di dividono sulle scelte e sui metodi della loro realizzazione.
     In questo clima di assenza di valori la politica è molto spesso gestione di affari, non sempre puliti, di carriere nelle quali la ricerca del potere non è servizio alla comunità, al bene comune ma affermazione personale, spesso neppure per la propria parte politica.
     Con queste premesse la ricorrenza della unità d’Italia è solo un’occasione per qualche affare in più, un’opera pubblica qua un’altra là, approfittando di quel po’ di fondi disponibili per realizzare qualche progetto nel cassetto, del tutto svincolato dalla celebrazione, dal senso dell’unità.
     La varietà delle storie del nostro Paese può essere, invece, una grande opportunità, una valorizzazione delle specificità paesaggistiche, culturali, artigianali e culinarie che se fosse valorizzata la nostra naturale vocazione turistica  costituirebbero un ideale itinerario unico al mondo.
     Se non cambierà qualcosa di significativo nella mentalità dei nostri politici alla vigilia del 2011 il centocinquantenario sarà, dunque, un’altra occasione mancata in un Paese nel quale sembra sempre più difficile cogliere le opportunità che la storia e la realtà politica offrono alla classe politica ed agli italiani.
23 agosto 2009

Nel Paese delle caste
Gli italiani e la Giustizia: malata ma non inguaribile
di Salvatore Sfrecola

     Ho scritto altra volta che gli italiani nei confronti della giustizia hanno un atteggiamento di evidente diffidenza. Diffidano della giustizia penale perché sono  portati un po’ tutti alle piccole furbizie che sono sostanzialmente elusioni di obblighi di leggi o di regole. Per cui la magistratura che li richiama al rispetto di quegli obblighi e di quelle regole non può essere molto popolare, come non lo sono i vigili urbani che multano per le soste vietate o Carabinieri e Poliziotti che levano la paletta per fermare l’automobilista indisciplinato.
     Naturalmente questo atteggiamento cambia totalmente quando magistrati Poliziotti  e Carabinieri arrestano il mafioso, fermano lo stupratore, bloccano il ladro d’auto. Lo si è visto al tempo di Tangentopoli quando un coro plaudente accompagnava le inchieste dei magistrati di “mani pulite”. Dubito che ci fosse in quell’occasione uno spirito di giustizia. Credo, piuttosto, che gli italiani nella maggior parte dei casi ritenessero che in fin dei conti, attraverso corrotti, corruttori e concussori la magistratura colpisse la classe politica, cioè quei componenti della casta più potente d’Italia che fa e disfa secondo gli interessi di parte, spesso sapientemente ammantati di riferimenti a di un interesse generale che sostanzialmente costituisce un premio a personaggi dell’industria e del commercio vicino a finanziatori della classe politica.
     Questo è un paese di caste. Lo sono, come abbiamo appena visto, i politici, la casta più grande e più potente, composta di migliaia di personaggi che operano al centro ed in periferia nel Parlamento nazionale, nei consigli regionali, provinciali e comunali e nella miriade di enti pubblici o società a capitale pubblico nelle quali vengono parcheggiati i trombati della precedente legislatura. Una casta che ha “invaso l’intera società italiana. Ponendosi sempre meno l’obiettivo del bene comune e della sana amministrazione per perseguire piuttosto quello di alimentare se stessa” (Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, “La casta, così i politici italiani sono diventati intoccabili”, Rizzoli).
     Casta potente è anche quella dei giornalisti che detiene un potere effettivo, anche se limitato dalle direttive della proprietà vicina alla casta dei politici. E ancora vi sono delle caste trasversali, che non sono professionali o politiche ma assumono come connotato dell’unione dei partecipanti la provenienza territoriale. Molto evidente a Roma, città del potere per eccellenza, quindi di forte immigrazione di politici e dipendenti pubblici impiegati nei palazzi del potere, che conosce una serie di associazioni regionali che da nord a sud associano veneti e calabresi, piemontesi e pugliesi, campani e marchigiani, siciliani e friulani, per limitarmi alle associazioni e alle “famiglie” più note e più numerose. In queste realtà, che hanno un significato originario ben comprensibile, quello di tenere vive nel cittadino che è lontano dalla sua terra tradizioni e favorire presentazioni nel nuovo contesto romano di chi vive spesso a centinaia di kilometri dalla città di origine, queste associazioni spesso, soprattutto quando animate da personalità che nella vita politica e amministrativa della capitale hanno raggiunto posizioni di potere, diventa anche espressione di una forza politica ed economica. Infatti non sono tutti politici o funzionari pubblici. Vi sono anche imprenditori i quali si avvalgono certamente di questa rete di contatti di loro conterranei. Tutto questo, ripeto, ha un significato positivo se questi legami non diventano espressione diciamo un po’ mafiosa ed escludente.
     Nella individuazione delle caste, che sollecita molto giornalisti e scrittori di cronache che vanno molto nel mercato della saggistica di attualità, non poteva mancare l’attenzione per la magistratura. Così Stefano Livadiotti pubblica per Bompiani “Magistrati. L’ultracasta”, che per i motivi che ho già esposto, cioè l’amore odio degli italiani per i magistrati, ha avuto discreto successo anche perché dei danti, gravissimi e antichi problemi che appesantiscono l’attività giudiziaria ed il lavoro di giudici e pubblici ministeri, Livadiotti si dedica soprattutto, anzi pressoché esclusivamente, ad alcuni episodi di cattiva gestione di fatti e comportamenti imputati ai giudici che, questa è la tesi dell’autore, sarebbero stati protetti dalla “casta” nonostante meritassero pesanti censure e condanne.
     Il libro si apre, infatti, con la poco onorevole gestione, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura e di alcuni tribunali, della vicenda, certamente vergognosa, di un magistrato pedofilo che sarebbe stato “graziato” dai suoi colleghi con rinvio a situazioni psicologiche personali che avrebbero attenuato la sua responsabilità.
     Credo che questi episodi che disonorano la persona e chi ha gestito la vicenda non possono essere tuttavia assunti ad elemento neppure marginale di giudizio su una categoria che non è fatta di fannulloni superpagati, come vorrebbe far intendere Liviadotti, ma da professionisti che con impegno ed in silenzio svolgono un compito essenziale per il funzionamento della società civile, un compito difficile che implica studio, applicazione severa con una dedizione anche temporale che va al di là dell’orario di lavoro tipico di un dipendente pubblico. Dovrebbero ricordarlo quanti deducono efficienza o inefficienza della magistratura dal numero dei processi pendenti, dal numero delle sentenze e delle ordinanze adottate nel corso dei procedimenti, come se ogni atto avesse lo stesso valore lo stesso peso nella realtà giudiziaria. Questo non vuol dire che non sia possibile valutare il lavoro dei giudici, ma è evidente che qualunque mezzo di valutazione deve assumere a fondamento la complessità del caso di specie. Una sentenza che decida sulle responsabilità penali o civile derivanti da un sinistro stradale ed una sentenza che decida su uno scandalo di corruzione sono entrambe dal punto di vista numerico pari ad uno, ma è evidente che la prima può essere di poche pagine, mai meno comunque di 10 o 15, e l’altra anche di migliaia di pagine. In un caso è nell’altro va attentamente ricostruito il fatto cioè di elementi fenomenici dell’evento penalmente o civilmente rilevante, ricostruzione necessaria per definire il quadro in relazione al quale viene motivata la decisione e questa deve contenere una ragionamento giuridico che sia conforme alla normativa, alla sua interpretazione, come si è evoluta nel tempo spesso di un contesto di contrasti giurisprudenziali che affaticano il lavoro del giudice. In ogni caso la sentenza deve soddisfare esigenze di giustizia che il collegio giudicante e l’estensore esprimono come espressione della propria coscienza e della propria competenza professionale. Le sentenze possono essere appellate e questo è un ulteriore motivo d’impegno per il giudice perché, in ogni caso, deve mettere in condizioni il soccombente di comprendere esattamente qual è stata la decisione dei primi giudici eventualmente per appellarla.
     Un ruolo difficile, dunque, al quale il potere politico non dà i supporti necessari sul piano normativo e della strumentazione. Le leggi spesso sono inadeguate, più spesso ancora sonno scritte male, soprattutto le più recenti, vengono messe in mano a magistrati singoli od a collegi giudicanti ai quali spesso manca supporto di collaborazioni adeguate e di strumenti tecnici. Solo di recente si è diffuso l’uso del computer che collega il magistrato con alcune banche dati che gli consentono in tempo reale di acquisire elementi documentali sulla normativa e la giurisprudenza. Ma può accadere che in un ufficio giudiziario manchino i segretari e gli archivisti, che la carta delle fotocopiatrici sia un bene prezioso non sempre disponibile. Tutto questo in una realtà che vede continuamente aumentare l’impegno della magistratura con il crescere delle fattispecie di reato e con la forte litigiosità degli italiani che ricorrono al giudice, specialmente da quando hanno “scoperto” il giudice di pace, ogni volta che l’ordinamento lo consente, indipendentemente dalla consapevolezza di aver subito un torto, come accade per le contravvenzioni al codice della strada, ma anche solo nella speranza di poter ritardare il pagamento. Ciò che avviene, ad esempio, nella giustizia tributaria intasata da migliaia di ricorsi infondati, destinati spesso  soltanto a rinviare il pagamento dell’imposta.
     In un’analisi del fenomeno giustizia, di quelle che si leggono sui giornali o nei pamphlet del tipo di quello di Livadiotti non si parla mai di  avvocati i quali sono parte essenziale delle vicende giudiziarie e spesso hanno condizionato i tempi della giustizia. Perché se indubbiamente una delle parti ha interesse alla conclusione rapida del processo c’è sempre un’altra, quella che immagina di soccombere, che ha interesse a mandare per le lunghe il processo. Questo accade molto spesso nei processi penali nei quali i tempi si allungano anche per evidenti esigenze di giustizia, per la difficoltà di definire il dolo in molti reati, per cui i  più grandi processi spesso si concludono con la prescrizione.
     I magistrati non sono e non debbono essere “intoccabili”, ma politici e giornalisti debbono capire che, al di là degli interessi immediati che essi hanno come casta, della politica e dell’informazione, l’argomento giustizia va sempre trattato con le cautele che devono caratterizzare l’approccio a un tema che è fondamentale del buon andamento della società.
     Noi spesso parliamo di processi penali e trascuriamo quelli civili che danno un po’ la misura alla società dei cittadini e degli imprenditori dell’efficienza del sistema, cioè della capacità di rispondere in tempi brevi alla domanda di giustizia. È questo anche uno dei motivi per i quali gli imprenditori stranieri hanno forti dubbi quando viene loro proposto di investire Italia perché, tra criminalità organizzata e lentezza della giustizia, c’è poca certezza nelle relazioni interpersonali e imprenditoriali.
     Queste situazioni non possono essere evidentemente addebitate ai magistrati. Tempi e modi della giustizia sono in mano alla classe politica che fa le leggi e che spesso è composta da persone interessate più che a sveltire a rallentare i processi.
     Per quanto riguarda il giudizio penale poi la scelta della classe politica sembra diretta soprattutto a frenare le iniziative investigative ed a tenere sotto controllo la magistratura nelle sue varie espressioni ed articolazioni. ” Giustizia efficiente, non magistrati docili” titola oggi Luca Palamara, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, in un articolo sul Corriere della Sera a pagina otto e affronta i problemi dell’apparato giudiziario e il ruolo dell’Associazione. Mette il dito sulla piaga. Questa classe politica è spesso più preoccupata di allontanare da sé il pericolo di interventi dei giudici a reprimere corruzione e inefficienza che a mettere l’apparato giudiziario in condizioni di esprimere una ragionevole efficienza. Lo si è visto di recente nella polemica estiva sulla Corte dei conti e sul decreto legge (!) che ha portato alla sostanziale abolizione dell’azione di risarcimento del danno da lesione dell’immagine e del prestigio della pubblica amministrazione, che la classe politica avrebbe dovuto, semmai potenziale e una serie di pastoie processuali che nell’ottica di chi le ha pensate dovrebbero rallentare i giudizi di responsabilità per danno lo Stato.
     Un decreto legge, pensate! Ma dov’è la necessità e l’urgenza di un interventi straordinario? Anche questo è un segnale negativo di una classe politica che ha scarso senso dello Stato, come dimostra la polemica di questi giorni sulle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, per i quali Ernesto Galli della Loggia proprio sul Corriere della Sera ha avviato una polemica culturale importante, dal momento che le celebrazioni di un evento importante in una fase storica che vorrebbe essere caratterizzata da riforme rischiano di risolversi nella distribuzione di qualche milione a destra e a manca per opere che non hanno nulla a che fare con l’unità del Paese, mentre nessuna iniziativa si vede all’orizzonte capace di dare il senso di un’unità culturale che viva pur nell’articolazione delle esperienze e delle tradizioni locali.
     C’è molto da fare,  ne siamo consapevoli in tanti, ma come al solito anche nella vicenda delle celebrazioni del 1861 incombe il silenzio assordante di una classe politica dove predominano, come diceva Indro Montanelli, i bottegai, con tutti il rispetto, ovviamente, per gli onesti rivenditori che onorano la categoria dei commercianti. Nel linguaggio dell’Indro nazionale “bottegai” erano i politici che non hanno senso dello stato e pensano soprattutto e solo al loro “particulare”.
22agosto 2009

La fuga dei cervelli
“Le nostre Università sono rimaste fuori
dal campionato del mondo”
di Salvatore Sfrecola

     E’ il titolo con il quale il Corriere della Sera di oggi, utilizzando una frase  di Antonio Iavarone e Anna Lasorella, che sono anche marito e moglie, intervistati a proposito del loro studio su tumori e cellule staminali, riferisce dei risultati della ricerca, condotta per il Columbia Medical Center, pubblicata dall’autorevole rivista Developmental Cell. La notizia naturalmente ha nuovamente scatenato sui giornali ed in televisione la polemica sulla “fuga dei cervelli”, quegli studiosi made in Italy che lasciano il nostro Paese per continuare le ricerche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti.
     La questione è antica e torna d’attualità ad ogni l’uovo evento di risonanza internazionale.
     La notizia, come spesso accade, ne contiene in sé due,  di segno opposto. Una buona ed una cattiva, anzi pessima.
     Cominciamo dalla buona, per soddisfare un certo ottimismo che non può mai mancare. La notizia buona sta nel fatto che, indubbiamente, se i nostri ricercatori si fanno valere all’estero vuol dire che la loro preparazione culturale e scientifica, conseguita alla liceo e all’università, è di buon livello. Nel senso che, ad onta di di un certo costume nostrano che troppo spesso indulge all’autoflagellazione, ì nostri laureati migliori, quelli che hanno voglia di studiare, sanno imporsi a livello internazionale nelle università e nei centri di ricerca. Non solo nei settori scientifici, dacché insegnano ed hanno insegnato nelle università della ipertecnologica America anche studiosi di scienze sociali, come Giovanni Sartori, per fare un esempio a tutti noto, uno dei massimi esperti di politologia a livello internazionale, docente a Firenze di Storia della Filosofia Moderna, Scienza della Politica e Sociologia, Albert Schweitzer Professor in the Humanities alla Columbia University (USA) dal 1979 al 1994.
     Infatti, spesso la preparazione teorica dei nostri laureati e superiore a quella che danno molte università straniere. Nonostante il ’68, gli studi classici e scientifici continuano ad mantenere in Italia una certa dignità che probabilmente potrà aumentare se la scuola tornerà ad adottare criteri di serietà e selezione.
     La notizia cattiva, anzi pessima, come l’ho definita poc’anzi, è quella che la struttura della ricerca in Italia continua a non premiare l’innovazione. Cioè non è vera ricerca, non seleziona le iniziative, non mette a disposizione fondi adeguati, non premia gli studiosi che vi si dedicano. Accade, infatti, che, salvo lodevoli eccezioni dovute all’intraprendenza di alcuni direttori di cattedra dotati di iniziativa e di capacità di chiedere ed ottenere, la nostra ricerca segua moduli stantii, routine prive di riscontri applicativi di carattere industriale, mentre i finanziamenti sono o erogati sostanzialmente “a pioggia”, con assegnazioni ripetitive, quanto alla destinazione alla ricerca e agli enti. In sostanza la distribuzione dei fondi disponibili, che non sono molti, non segue una programmazione che tenga conto delle priorità effettive e della capacità delle ricerche di dare, al di là del dato scientifico, anche un vantaggio per il nostro Paese di tipo imprenditoriale. Nel senso che dalla ricerca provengano vantaggi per le imprese. Un passaggio importante perché in questo modo i produttori di farmaci, per rimanere nel settore della ricerca medica, potrebbero essere indotti a finanziare ulteriori ricerche.
     Queste considerazioni, che sono note e percepite da tutti gli operatori del settore, dimostrano che se lo Stato e gli enti pubblici stentano ad imboccare una strada virtuosa per favorire la ricerca, anche l’imprenditoria privata non sente l’esigenza di investire in questo settore.
     La fuga dei nostri cervelli quindi non potrà essere facilmente arginata se non cambieranno la mentalità degli enti pubblici e degli imprenditori privati i quali comunque andrebbero incentivati attraverso una adeguata normativa fiscale che favorisca le iniziative che finanzino  attività di ricerca. E questo nonostante l’impegno europeo che mette a disposizione rilevanti somme per la ricerca scientifica.
18 agosto 2009

Secondo Bossi nessuno lo conosce
Ministro Gelmini, faccia cantare l’Inno di Mameli a scuola!
di Salvatore Sfrecola

     “Quando cantiamo il nostro inno, il Và pensiero, tutti lo cantano perché tutti conoscono le parole, non come quello italiano che nessuno conosce”. Lo ha detto il ministro delle Riforme Umberto Bossi, parlando alla festa della Lega di Ponte di Legno. Secondo Bossi, il fatto che più gente conosca le parole del Và pensiero significa un maggiore attaccamento alla Lega “perché la gente ne ha piene le storie”. Così l’ANSA, nel servizio sulla manifestazione leghista.
     Ha certamente ragione Bossi, l’Inno nazionale non lo sa quasi nessuno. Nella sua esternazione il leader del Carroccio ha messo il dito sulla piaga. L’Inno nazionale, ritornato in auge soprattutto per iniziativa del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che ne richiese l’esecuzione nelle occasioni ufficiali, non è conosciuto come dovrebbe essere l’inno della Patria.
      Infatti non si insegna a scuola, lacuna della quale dovrebbe darsi carico il Ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, con una bella circolare perché in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, le lezioni si aprano con il canto dell’Inno di Mameli, come si conviene in un Paese civile nel quale i cittadini siano educati ad avere il senso dell’appartenenza senza spocchie o megalomanie e neppure con negazione delle altrui culture, per capire, fin da piccoli, che lo Stato è la casa di tutti, al di sopra delle parti, delle mutevoli maggioranze che si alternano alla guida politica del Paese.
     Pensi, dunque, in grande il leader della Lega che si propone continuamente a tutore della identità delle popolazioni locali contro le immigrazioni illegali. Pensi non solo alla Padania, che, tra l’altro, è solo una testata giornalistica, ma all’Italia, nella quale le popolazioni del Nord potranno far emergere e valorizzare le loro peculiarità culturali, la storia delle loro terre.
     Vorrei sentirlo cantare “Fratelli d’Italia” il Senatur. O forse lo disturba che essa sia nel testo “schiava di Roma”? Suvvia, è una licenza poetica. L’Italia è erede e non schiava della civiltà romana che ha dato al mondo le regole del diritto del quale oggi ogni popolo fa uso.
     E lasci stare “Va pensiero”, meravigliosa melodia dell’italianissimo e lombardo Giuseppe Verdi. La lasci stare perché, ad onta di quelle gradevolissime note, giustamente molto popolari, non solo in Italia, il testo è di una tristezza infinita, come può esserlo il “lamento” degli ebrei esiliati in Babilonia alla ricerca della patria perduta. Lamento e tristezza della quale il Paese non ha assolutamente bisogno in questo momento di crisi economica che si farà notare fin dal prossimo settembre in particolare proprio nel Nord Est. Che quelle popolazioni abbiano imparato “Va pensiero” per lamentarsi della crisi alla quale il Governo, del quale Bossi è gran parte, non sembra sappia far adeguatamente fronte?
16 agosto 2009

Confermata la stagnazione
Cala l’inflazione nell’area dell’euro
di Salvatore Sfrecola

     Dopo aver enfatizzato il dato dell’inflazione nell’area dell’euro, giunta ai minimi storici, come se fosse cosa buona, televisione e giornali hanno cominciato a spiegare agli italiani che quella percentuale, vicina allo “0” significa che i consumi sono nettamente in calo. Tanto è vero che, quando le stesse fonti di informazione hanno fornito indici di sviluppo che danno per probabile la ripresa dell’economia  nei prossimi mesi, hanno dovuto correggere in salita anche il tasso previsto d’inflazione.
     I consumi sono fermi perché le famiglie sono senza soldi e molte di esse vedono nero nel futuro ad onta dell’ottimismo che manifestano all’unisono il Presidente del Consiglio, Berlusconi, e il Ministro dell’economia, Tremonti. Non, invece, il Presidente di Confindustria, Emma Marcegalia, che proprio ieri ha manifestato preoccupazioni per l’autunno. Il pericolo che molte piccole e medie imprese non riaprano i battenti delle fabbriche è, infatti, reale. In molte aree del Paese, soprattutto al Nord Est. E questo spiega anche l’offensiva di agosto di Bossi che tende a distrarre la sua gente dal queste preoccupazioni, invitandola ad assumere posizione sulla battaglia del dialetto e degli stipendi regionalizzati.
     Intendiamoci, fanno bene Berlusconi e Tremonti a diffondere ottimismo. Guai se manifestassero preoccupazioni sul futuro. In economia la fiducia è determinante di effetti nella componente psicologica della domanda. Effetti positivi, nel senso che chi ha fiducia nel futuro spende, risparmia, in sostanza fa operazioni che si ripercuotono positivamente sul mercato perché la domanda trascina la produzione e con essa si consolidano ed aumentano i posti di lavoro.
     Detto questo, tuttavia, va detto che alcune critiche dell’opposizione, che ritiene insufficienti le misura adottate dal Governo, vanno condivise. Con la scarsezza di risorse disponibili, la disgraziata evenienza del terremoto in Abruzzo, non è facile intervenire su una crisi di tanto grandi proporzioni ma quel che manca, al di là delle singole misure, insufficienti o inesistenti, è la capacità di percepire che agli italiani occorre sia presentata qualche novità positiva, ad esempio in tema di famiglia.
     Ho scritto più volte, e torno a  ribadirlo, che appare inesistente nella politica del Governo la considerazione del ruolo economico della famiglia, quella comunità naturale che è costituita da lavoratori, aspiranti lavoratori, consumatori, risparmiatori, oltre che di persone che accudiscono piccoli e anziani.
     Insomma, la famiglia rappresenta il centro dell’economia e ad essa va prestata attenzione perché la sua crisi è crisi del Paese e della sua economia. Dacché se la famiglia non ha risorse non acquista sul mercato e non risparmia, cioè non partecipa all’economia del Paese. Con le conseguenze che ne derivano sulle imprese, che non producono se non vendono. Le quali, a loro volta, devono necessariamente contrarre l’occupazione, quindi togliere ulteriori possibilità alle famiglie nell’ambito delle quali alcuni perdono il lavoro, altri non riusciranno a conquistarlo. Senza dimenticare che le politiche familiari sono riferite a tutti i servizi che le pubbliche amministrazioni rendono ai cittadini, dal trasporto alla scuola, alla sanità, all’assistenza dei malati e degli anziani.
     Occorre, dunque, una politica familiare seria e capace di offrire opportunità. Iniziando dal fisco, strumento di elezione della politica economica, l’unico, per la sua flessibilità, capace di determinare effetti positivi in tempi brevi.
     C’è da dire che alla vigilia delle elezioni tutti si ricordano della famiglia, tranne, poi, a dimenticarsene il giorno dopo i risultati elettorali.
     Fa bene, dunque, Pierferdinando Casini a riprendere l’iniziativa del quoziente familiare uno strumento fiscale capace liberare risorse per le famiglie attraverso un’assunzione, sia pure teorica e da definire in corso d’opera, degli oneri che le famiglie sopportano ogni giorno per realizzare il loro compito, come lo definisce la Costituzione: mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30), cioè i futuri cittadini e lavoratori di questa nostra Repubblica.
15 agosto 2009

Dopo l’assurda tragedia nel cielo
A New York ci vorrebbe un Brunetta
di John Smith

     La tragedia di New York assume connotati di assurda inefficienza. Mentre il cielo della metropoli americana era ingombro di velivoli, mentre il piper si stava per scontrare con l’elicottero dei turisti italiani il controllore di volo era al telefono con la sua fidanzata e il supervisore era assente ingiustificato.
     Di questa inefficienza si può dire tutto, come dell’assoluta assenza di senso di responsabilità per la delicata funzione svolta e di mancanza di senso civico nei due addetti alla torre di controllo. Ma è evidente che questa superficialità nella condotta dei due trae origine da assenza di controlli e, probabilmente, di sanzioni adeguate. Forse anche della professionalità necessaria per svolgere un compito così delicato che mette nelle mani di alcuni soggetti, lautamente pagati, la vita di ignari turisti, giunti nella città americana per vacanza.
     Mancano evidentemente controlli e sanzioni. Allora verrebbe da dire che in America manca un Brunetta, quel Ministro italiano per la pubblica amministrazione che, tra  non pochi errori e qualche approssimazione, ha richiamato, con alcune opportune misure, i dipendenti pubblici alla dignità della loro funzione, ricordando che il datore di lavoro Stato, ma anche ente locale, ha il dovere di erogare una retribuzione adeguata ma anche il diritto di pretendere che la prestazione richiesta sia svolta con efficienza, senso di responsabilità e in tutti i giorni previsti, escluse le ferie comandate, le altre festività e le malattie vere, senza che esse siano allungate artificiosamente da furbizie varie. E’ una grave disonestà che in Italia sembra superata, come attestano i dati sulle presenze negli uffici pubblici in questa stagione di vacanze. Sembra, perché è sempre dietro l’angolo la possibilità di un ritorno all’antico, per qualche iniziativa demagogica della classe politica, incline sempre a servire gli istinti più bassi o per la solita interferenza dei sindacati da tempo e assai spesso atteggiatisi a difensori dei fannulloni.
15 agosto 2009       

Federalismo culturale, non solo fiscale
L’unità necessaria ed il ruolo della storia
di Salvatore Sfrecola

     Torno sulla polemica suscitata dall’iniziativa leghista di affiancare alla bandiera nazionale, “il tricolore italiano”, come si esprime l’art. 12 della Costituzione, anche i vessilli delle regioni ed all’Inno di Mameli un analogo pezzo musicale di stampo regionale.
     Naturalmente la proposta può essere interpretata in vario modo ed avere effetti diversi.
     Io che credo fortemente nell’importanza dello Stato, che non ho apprezzato, e continuo a ritenere sbagliato, il fatto che l’ente stato sia stato collocato in coda agli enti che compongono la Repubblica nell’art. 114 della  Costituzione riformata nel 2001, sono fortemente convinto che la storia d’Italia sia arricchita dalle storie locali, da quelle tradizioni culturali, fatte di letteratura, arte e folclore che caratterizzano le nostre belle contrade. Belle tutte, dacché l’Italia è un meraviglioso Paese con una natura preziosa espressione del creato. Variegata, degna del più bravo dei pittori che sia capace di rappresentare tutte le possibili tonalità del verde, i colori sgargianti di migliaia di specie floreali, di esaltare lo splendore delle acque di fiumi, laghi, del mare, illuminati dal sole.
     L’Italia è tutta bella ma è diversa, come diverse sono le esperienze che ciascuno di noi porta con se e che sono conseguenza di secoli di abitudini e di esperienze, della natura che ci circonda, della storia delle contrade, anche delle più minute, insediate lungo le valli e le coste.
     Un romano, nato all’ombra del “cuppolone” (due “p”, naturalmente) non può avere le stesse sensazioni di chi affacciandosi alla finestra vede il Vesuvio e il mare di Mergellina, né di chi da un balcone di stile orientaleggiante vede sfilare una silenziosa gondola o sente, agli antipodi della penisola, il canto allegro degli eredi della cultura greca alla quale nell’Italia meridionale fu attribuito l’aggettivo “magna”, per dire che sulle coste del Mediterraneo gli eredi dell’Ellade avevano sviluppato ulteriori espressioni di cultura e di civiltà politica.
     Un Paese come questo, che non ha di uguali al mondo, che non si appiattisce sulla storia di una città, come nella Francia Parigidipendente, ha certamente qualche difficoltà ad essere unito, ma se comprende che il valore di ogni esperienza locale concorre a dare il segno di una unità che la natura ha voluto, limitando la penisola con il mare e una catena non interrotta di montagne, allora ogni esperienza attribuisce all’Italia un valore aggiunto grandissimo, essenziale, imprescindibile.
     Ecco che allora, in questo spirito, il vessillo della regione X, accanto al tricolore nazionale, che, detto per inciso, è già presente in tutte le cerimonie pubbliche non dà il senso della divisione, della distinzione pericolosa per l’unità della Patria, ma accresce la sostanza dello stato articolato in espressioni che rappresentano la storia dell’intero Paese.
     E’, certamente, un fatto culturale. Girando per l’Italia non mi sono sentito mai estraneo al luogo nel quale mi sono trovato, per diletto o per lavoro. Anche il dialetto, espressione della popolazione locale, dà un senso della varietà che si fa apprezzare, fermo restando che la meravigliosa lingua che ci è stata tramandata e che si è formata attraverso l’evoluzione di secoli poggiando saldamente nella struttura della frase sul latino, lingua della cultura occidentale e del diritto, l’architrave della pacifica convivenza, non può recedere rispetto ai dialetti locali. Che si affiancano, ma non sostituiscono il “dolce sì” che ci distingue nel mondo. A parte le canzonette che canticchiamo facendo la doccia o passeggiando per strada allegramente.
11 agosto 2009

Cacciari continuerà a pedalare sui marciapiedi
Filosofo, ma con scarso senso dello Stato
di Iudex

     Per dar voce agli amanti della due ruote, dopo le norme restrittive entrate in vigore nei giorni scorsi (un po’ esagerata la riduzioni di punti sulla patente per  infrazioni commesse sulla bicicletta; è come se mi togliessero il brevetto di pilota di aliante perché sono passato col rosso al semaforo!), il Corriere della Sera ha intervistato oggi Massimo Cacciari, Sindaco di Venezia, aduso ad velocipede per evidenti motivi di praticità.
     Il personaggio è illustre, per scienza, e dotato di notevole capacità di comunicazione. Inoltre, è sempre misurato. Per questo mi ha stupito, non tanto che non sia preoccupato delle sanzioni aggravate dalle nuove norme quanto che si riprometta, all’occorrenza, di violarle. “Anche sui marciapiedi, se ce n’è bisogno. E in città come Milano, dove non esistono piste ciclabili e dove il traffico è molto pericoloso per i ciclisti non ci sono alternative”.
     Mi ha deluso fortemente questa affermazione da un uomo pubblico e, dicevo, sempre misurato. La legge va rispettata e soprattutto debbono farlo coloro che sono incaricati di funzioni pubbliche. Da Sindaco di Venezia proibirà ai Vigili di elevare contravvenzioni a chi non rispetta il codice? Non lo farà certamente. Ma la sua affermazione è un brutto segnale. Fa il pari di quella di Antonio Martino, all’epoca Ministro della difesa, che, intervistato sempre dal Corriere della Sera, in una mezza pagina rivendicava il suo diritto di fumare ovunque, anche ove proibito, dopo la legge Sirchia che aveva introdotto importanti limitazioni. Anche in quell’occasione mi disturbò moltissimo l’improntitudine di un uomo “di stato”, docente universitario e per sacri lombi figlio d’arte, che vuole sentirsi legibus solutus. Fumi dove vuole, pensai nell’occasione, ma solo dove consentito e non è lecito ad uno uomo delle istituzioni affermare pubblicamente di voler violare la legge.
     Deludono molto questi personaggi che abbiamo imparato ad apprezzare per la loro cultura e scienza, quando, in un momento di obnubilamento con sensazione di potenza, disprezzano le istituzioni delle quali sono espressione, dando un pessimo messaggio ai cittadini per i quali dovrebbero essere un esempio positivo.
11 agosto 2009   

Tra politica ed economia
Slogan e comunicazione
di Bruno Lago

     In politica come negli affari e nella società in genere, la comunicazione è estremamente importante ed è noto che spesso le buone idee non vengono considerate o valorizzate per  difetti di comunicazione da parte di chi dovrebbe promuoverle. Vale naturalmente anche l’opposto, una comunicazione brillante ed efficace può spesso compensare idee e messaggi la cui validità e sostanza sono opinabili se non sbagliate.
     La comunicazione ricorre spesso agli slogan la cui funzione è quella di sintetizzare pensieri ed idee complessi. In politica tuttavia gli slogan divengono spesso un mezzo per coalizzare interessi anche sul piano emotivo, sviando l’attenzione dell’opinione pubblica dalla realtà dei problemi o dal contenuto delle idee che si propugnano.
     Un vecchio slogan tanto caro ai sindacati è oggi ritornato d’attualità, il famoso “No alle gabbie salariali!” cavallo di battaglia in tante battaglie politico sindacali degli anni 70/80. L’occasione è stata la pubblicazione di una analisi della Banca d’Italia che ha definito il differenziale medio del costo della vita tra regioni del centro-nord e quelle meridionali in oltre il 16%.
     Bene, con tutto il rispetto per la Banca d’Italia, la questione era arcinota da anni, indipendentemente dal quantum, tranne che ai sindacati. Quindi nessuna attenzione per i problemi del professore o del dipendente pubblico chiamato a fronteggiare maggiori costi di affitto a Milano rispetto al suo pari grado in servizio a Bari o Palermo, in nome di un principio astratto di eguaglianza al di sopra di ogni logica elementare.
     Ecco quindi la necessità di uno slogan di successo per portare avanti battaglie irrazionali sul piano logico ma remunerative sul piano politico sindacale. Certo non per il Paese, la cui opinione pubblica oggi si trova nuovamente a interrogarsi sui perché dell’arretratezza dell’economia nelle regioni meridionali. Vogliamo chiederci se l’eccessivo costo del lavoro nel Mezzogiorno non sia stato un fattore negativo allo sviluppo di quell’area del Paese e chiederne conto, non tanto ai sindacati, ma alle forze politiche che hanno avallato certe battaglie?
    Domanda retorica visto che altre simili battaglie politico sindacali si continuano a combattere contro tentativi di riforme e liberalizzazioni, anche qui coalizzando interessi dietro slogan efficaci sul piano emotivo ma totalmente irrazionali sul piano economico, come “No alla macelleria sociale!” oppure “Non si può far cassa sulla pelle dei lavoratori!”.
     Naturalmente i media hanno una grossa responsabilità per il modo in cui fanno comunicazione senza aiutare l’opinione pubblica a valutare criticamente idee ed eventi socio-economici. Prendiamo un caso in questi giorni alla ribalta della cronaca, l’INSEE, una società fallita da più di un anno, ma i cui ultimi 50 dipendenti sono asserragliati in quel che resta dell’azienda, in difesa di un posto di lavoro che non esiste più perché così ha decretato il mercato. Quei lavoratori hanno beneficiato o stanno beneficiando di ammortizzatori sociali al pari di tanti altri lavoratori di altre aziende entrate in crisi per l’evoluzione dei mercati nazionali ed internazionali. Per quanto umanamente comprensibile l’angoscia di 50 famiglie, è evidente come la maggior parte dei media sorvoli sugli aspetti razionali della vicenda, schierando l’opinione pubblica emotivamente a favore di quei lavoratori ed alimentando così tante illusioni.
9 agosto 2009                   

Italia e Unione europea: inadempienze a tutto campo
di Erasmus

     Dal comunicato non 58 del 31 luglio: “Nella riunione odierna del Consiglio dei ministri è stato anche avviato l’esame di un decreto-legge contenente disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti da atti normativi comunitari, da sentenze della Corte di Giustizia e da procedure di infrazione comunitaria pendenti nei confronti dello Stato italiano. Con il provvedimento si garantisce il rispetto degli obblighi assunti in sede comunitaria e si evita l’aggravio di oneri derivanti da sentenze di condanna”.
     In poche righe la fotografia della disattenzione del Governo per gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Disattenzione è un eufemismo perché il comunicato preannuncia un decreto-legge, cioè un atto normativo consentito in “casi straordinari di necessità e d’urgenza” (art. 77 Cost.), una condizione che non dovrebbe verificarsi quando si tratta di adempiere ad atti normativi dell’Unione, regolamenti e direttive, che in un caso non richiedono nessun atto di recepimento (i regolamenti) nell’altro (le direttive) impongono allo Stato, in un tempo ragionevole, l’adozione di norme interne che, nel sistema amministrativo del Paese, trasformino le indicazioni europee in norme applicabili.
     Ugualmente gravissima è la confessione del Governo di dover dare esecuzione con urgenza a sentenze della Corte di giustizia delle Comunità Europee e di dover risolvere questioni che hanno dato luogo a procedure d’infrazione, che evidentemente lo stesso Esecutivo ritiene fondate. Quindi ci siamo messi ripetutamente fuori della normativa europea non rispettando norme, sentenze e facendo i furbetti, per trovarci nella condizione di essere chiamati a rispondere di fronte alla Giustizia europea.
     Bella figura davvero! C’è da chiedersi cosa faceva in questi mesi il Ministro per le politiche europee, l’ineffabile Andrea Ronchi, che, non dimentico di essere stato il portavoce di Alleanza Nazionale, ogni giorno esterna su qualcosa, ma non provvede agli adempimenti “derivanti da atti normativi comunitari, da sentenze della Corte di Giustizia e da procedure di infrazione comunitaria pendenti nei confronti dello Stato italiano”, per dirla con le parole del comunicato. Il suo compito sembra sia essenzialmente quello di essere l’orecchio di Gianfranco Fini in Consiglio dei Ministri, considerato che Ignazio La Russa e Altero Matteoli sono da tempo passati armi e bagagli nelle schiere del Cavaliere.
     Senza fare particolari accertamenti, il comunicato del Consiglio dei ministri è uno schiaffone rilasciato dal Presidente del Consiglio al suo ministro. O forse è stato un modo per rimarcare che chi non è allineato al Premier rischia, se sbaglia, la gogna mediatica?
8 agosto 2009

Adesso si spiega perché Tremonti voleva limare le unghie alle Procure della Corte dei conti. Altro che la polemica sulle consulenze!
Anche il Ministero dell’economia
nella palude dei derivati Lehman
di Oecomimicus

     Nel momento in cui scrivo, poco prima delle 11.00, consultati il sito del Ministero dell’economia e delle finanze (www.mef.gov.it), quelli dell’ANSA e dell’ADNKronos, non si ha traccia di precisazioni o chiarimenti in ordine a quanto ha scritto ieri Il Sole 24 Ore a pagina 27, nell’inserto Finanza & Mercati, “I derivati Lehman nei portafogli di 70 big italiani” con un eloquente occhiello “Scandali. Pubblici e privati tra i creditori”.
     Laura Serafini, l’autrice del pezzo, collocato di spalla nella pagina di apertura dell’inserto, descrive la situazione esordendo con l’affermazione che “ci sono quasi tutte le maggiori società italiane, quotate e non, private ma soprattutto a capitale pubblico, e una rappresentanza istituzionale, tra regioni e ministero dell’Economia, tra le controparti che hanno stipulato contratti derivati con Lehman Brothers Holdings (Lbhi) e controllate, il gruppo finito in Chapter 11 nel settembre scorso”.
     L’elenco lo ha fornito Lbhi per la prima volta indicando i suoi “potenziali creditori”, tra cui i magnifici 70 italiani, un parterre qualificato, nel quale spiccano ENEL, ENI, MEDIOBANCA, RAI e il Ministero dell’economia e delle finanze. La posizione di quest’ultimo era stata definita, ricorda il giornale, “all’indomani del default di Lehman” quando fonti del Ministero “avevano precisato che in essere con il gruppo c’erano contratti di swap del valore nozionale di 35 miliardi di euro, ma che la valutazione del contratto al 15 settembre faceva emergere una posizione debitoria del ministero per 2 miliardi. Da quanto emerso in quei giorni, però, – continua Laura Serafini – sembrava che la gran parte della posizione del dicastero fosse verso le società londinesi del gruppo che ricadono oggi sotto un’altra procedura fallimentare. La posizione verso il gruppo USA, dunque, potrebbe invece essere creditoria ma allo stato attuale questo non viene specificato, tantomeno è noto l’ammontare del credito che potrebbe anche essere contenuto”.
     Fin qui Il Sole 24 Ore. Ragioniamoci su. In primo luogo, in via di mera ipotesi, insinuandosi nella procedura fallimentare il Ministero dell’economia potrebbe recuperare poco venendo a concorrere con altri creditori della fallita società londinese di Lehman, la cui situazione debitoria potrebbe essere assorbita dalla casamadre statunitense.
     Un danno per l’erario italiano, dunque, indubbio e probabilmente consistente. Del quale qualcuno dovrà rispondere. In primo luogo in via politica, in Parlamento. Una ipotesi, peraltro, meramente teorica, perché è evidente che la maggioranza, che è la stessa che regge il Governo, farebbe certamente quadrato intorno al Ministro Tremonti. Che comunque non sarebbe l’unico responsabile in quanto la vicenda della gestione del debito pubblico italiano va avanti da tempo, anche se si è aggravata da quando il Tesoro (continuo a chiamare così il nostro Ministero dell’economia e delle finanze), fidando su alcune banche estere per il collocamento dei titoli di Stato, ha evidentemente sottoscritto contratti di swap senza approfondimenti in ordine all’affidabilità delle stesse, alcune delle quali, Lehman in primo piano, già erano state declassate sul piano del rating internazionale.
     La scelta della controparte per la delicata operazione di collocamento dei titoli non è irrilevante sul piano della responsabilità politica del Ministro e dell’intero Governo. Ma è anche, in prima approssimazione, rilevante sul piano della responsabilità giuridica (amministrativo contabile) per danno all’erario, se la scelta, certamente ampiamente discrezionale, è stata assunta ignorando indicatori di fiducia, come quelli rilasciati dalle maggiori agenzie di rating che danno un voto in base al quale il mercato stabilisce un premio per il rischio da richiedere all’azienda per accettare quel determinato investimento. Scendendo nel rating aumenta il premio per il rischio richiesto e quindi l’emittente deve pagare uno spread maggiore rispetto al tasso risk-free. Quello degli emittenti solidi.
     I rating sono periodicamente pubblicati da agenzie specializzate, tra le principali: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Ratings, Lince Spa. Di queste agenzie non è stato considerato il potenziale conflitto di interesse, in quanto soggetti che pubblicano i rating e nel contempo svolgono attività di banca di investimenti, per cui è possibile che il rating sia strumentalizzato nell’interesse della banca ovvero dei clienti per attività speculative in Borsa, o per l’acquisizione di asset a prezzi di realizzo.
     Le agenzie per questo sono sotto osservazione, si trovano ad essere severamente criticate, tanto che si è posto a livello internazionale il problema della regolazione e supervisione di queste società, anche delle più autorevoli, a causa dei giudizi troppo generosi che sono stati prodotti negli ultimi tempi. “Questa eccessiva generosità di giudizio – si fa osservare – ha finito per minare gli interessi degli investitori” (www.finanzalive.com). Tempi difficili questi per agenzie celebri e illustri che “non vengono più considerate come in passato dei punti di riferimento essenziali per chi investe in titoli obbligazionari”.
     “È stato soprattutto il caso Lehman Brothers a minare la fiducia nei confronti delle società di rating; tale evento ha dimostrato infatti che le cosiddette “probabilità implicite” di default avrebbero potuto costituire l’unico indicatore in grado di dimostrare la rischiosità del titolo, nel caso fossero state valutate in maniera opportuna. Il rating è invece diventato col tempo un indicatore fallimentare nel suo ruolo di monitoraggio del rischio di credito associato ad ogni obbligazione: questo rischio è stato associato in troppi casi alla valutazione del rating espresso dalle principali agenzie internazionali”. Il primo segnale di “allarme” doveva venire con Lehman Brothers, “ma in quel caso i comportamenti delle agenzie sono stati quantomeno ambigui; infatti, i titoli della banca erano stati portati al livello CCC (vale a dire un “quasi fallimento”) solamente il 15 settembre, ovvero lo stesso giorno in cui si è ricorso alla procedura di fallimento pilotato”.
     Ancora sull’affidabilità delle indicazioni provenienti dalle Agenzie è stato fatto da Adusbef su oltre 1.000 “report” “(consigli per gli acquisti o per le vendite su titoli e/o azioni) emessi a pagamento (quindi con un potenziale conflitto di interessi, a volte anche quando non è stato richiesto)  dalle maggiori agenzie di rating, anche di origine bancaria, ha rappresentato la prova provata che tali rapporti sono risultati sballati al 91 per cento,efficaci al 9 per cento” (www.adusbef.veneto.it). Le società di rating, poiché sono pagate dai committenti e non dagli investitori – continua Adusbef – , sono portatrici di un conflitto di interessi, che ha mostrato tutta la sua evidenza negli scandali finanziari mondiali: dalle Enron e Worldcom alla Parmalat”.
     Nel 2006, il 19 di ottobre, 2 delle 3  agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, hanno deciso di declassare l’Italia, con un voto negativo sulla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. La conseguenza? Un aumento del costo del collocamento dei titoli di Stato. Un danno non indifferente. La prova che l’economia dei paesi “deboli” viene governata da un pool di banche, se quei paesi non trovano una alternativa nel collocamento del debito.
     Le motivazioni della “pagella” – osserva Adusbef – “sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento. Sono giudizi, ripetuti in salse un po’ diverse, che sono stati emessi per tutti, siano questi paesi industrializzati o nazioni in via di sviluppo. L’effetto immediato del voto negativo è un aumento dei tassi di interesse per “ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni e di altre forme di credito, per cui tutto il debito pubblico e privato di una nazione costa subito di più (la stima del declassamento italiano, calcolata da Adusbef,è pari a circa 3,3 miliardi di euro), con ricadute negative sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli alla spesa sociale”.
     Ci salva l’euro. Perché con la vecchia lira queste decisioni delle agenzie di rating provocano anche una caduta del valore di scambio della moneta, con effetti devastanti sulle importazioni (che costano di più), sulle esportazioni (che valgono di meno), sul suo bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione.
     Vediamo di chiudere sul punto con qualche prima considerazione.
     Il debito pubblico italiano è di proporzioni gigantesche, un dono della storia, ho detto in altra volta facilitato dalla disinvolta applicazione dell’art. 81, comma 4, della Costituzione, che impone che, per ogni nuova o maggiore spesa, siano indicati i mezzi per farvi fronte. La copertura finanziaria che comprende tanto le maggiori spese quanto le minori entrate.
     Ogni anno la legge finanziaria stabilisce il limite del ricorso al mercato, cioè quanti titoli di Stato possono essere emessi per far fronte al deficit di bilancio (rapporto spese entrate) che comprende anche le spese per il rimborso dei prestiti.
     Fino a qualche anno fa la Corte dei conti esaminava in sede di controllo preventivo di legittimità i provvedimenti di emissione di titoli di Stato (BOT, CCT, BTP, nelle varie forme e durata), con la conseguenza che l’organo di controllo poteva ricusare il visto a provvedimenti che sforassero il limite posto dalla legge finanziaria.
     Quei provvedimenti non vengono più controllati. Infatti con il decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, è stato aggiunto il comma 13 all’art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, che stabilisce che il controllo non si applica “agli atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria”. Con la conseguenza che la Corte dei conti ha dichiarato il non luogo a deliberare proprio su un provvedimento del Tesoro che disponeva in materia di investimenti sul mercato statunitense con formula swap mediante intermediari.
     La conseguenza è evidente. Se sul piano internazionale le banche e gli istituti finanziari che assumono il compito di collocare i titoli di Stato italiani tirano sul prezzo per effetto del rating rilasciato allo Stato italiano è evidente che pretendono uno spread più favorevole che determina un maggiore onere per l’emissione e necessariamente lo sforamento del plafond definito in sede di legge finanziaria per coprire il deficit di esercizio, comprensivo, come ho detto, del rimborso dei prestiti, cioè della gestione del debito.
    Tutto questo è possibile essendo venuto meno il controllo della Corte dei conti.
   Ma non la responsabilità per il danno provocato all’erario per i maggiori costi dovuti all’incauta scelta delle banche che collocano i titoli.
     Questa e non altra è la preoccupazione che ha mosso il Ministro Tremonti nel patrocinare gli emendamenti “punitivi” delle Procure della Corte dei conti. Altro che l’inchiesta sulle consulenze, briciole di euro, nella maggior parte un modesto cadeau a qualche amico di partito. Il timore è che la Corte affronti il tema dei costi finanziari impropri del debito. Ma stia tranquillo il Ministro sarà praticamente impossibile dimostrare la colpa grave.
     Piuttosto licenzi certi suoi collaboratori frastornati da attenzioni confliggenti tra interessi pubblici e privati.
7 agosto 2009

Riflessioni tra storia e politica alla vigilia dei 150 anni dell’unità d’Italia
Dal Regno d’Italia alla Repubblica federale
di Salvatore Sfrecola

Al di là delle polemiche, delle quali anche io ho dato conto ieri, l’iniziativa della Lega Nord di emendare l’art. 12 della Costituzione per affiancare alla bandiera della Repubblica, “il tricolore italiano”, anche i vessilli delle regioni s’inserisce nella logica di una Repubblica che, volenti o nolenti, è “federale” dal 2001, da quando, cioè, la riforma della seconda parte della Costituzione con la legge n. 3 ha attribuito alle regioni poteri legislativi generali, nel senso che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 118).
Come spesso avviene in questo Paese non si riesce a trovare la misura giusta. Così l’esigenza, obiettiva, di dare un ruolo adeguato alla realtà regionale è stata raggiunta con una riforma a metà, senza rivedere il sistema parlamentare che un bicameralismo perfetto (con due camere con gli stessi poteri) rende inadeguato non solo ai tempi della legislazione assolutamente incompatibili con le esigenze di un Paese moderno, ma anche alla necessità che le comunità regionali siano rappresentate a livello parlamentare. Occorre, cioè, una camera delle regioni perché gli enti che gestiscono la parte più consistente delle risorse pubbliche non concorrono alle decisioni legislative essenziali, ma intervengono a livello di Conferenza Stato-Regioni con uno spirito di rivincita che di fatto rallenta ulteriormente l’azione dello Stato. Quello Stato che è stato collocato in coda, per cui “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.
Il riconoscimento delle realtà regionali non si fa mortificando lo Stato, limitandone le attribuzioni ma attuando un sistema basato su una sinergia efficiente tra centro e periferia, riconoscendo che questo grande Paese ha una storia unitaria che molto deve all’esperienza locale, nella cultura, nell’arte, nelle attività economiche.
Purtroppo l’Italia è nata e si è sviluppata per molti anni negando le specificità locali, senza tener conto che le regioni italiane avevano una storia civile ed economica illustre, dalla Repubblica di Venezia, al Granducato di Toscana, al Regno delle due Sicilie, una storia da riversare nel neonato Stato nazionale per dargli quella vivacità che è venuta meno sotto il tallone della prima classe politica e che non si è sviluppata neppure successivamente.
Il Regno d’Italia, infatti, proclamato dalla Camera dei deputati il 17 marzo 1861, era fortemente accentrato. Onestà intellettuale deve farci dire che in quel momento l’Italia, appena unificata dopo secoli di divisioni e, spesso, di contrapposizioni, vista, nonostante i plebisciti, come annessione al Regno di Sardegna, non avrebbe potuto non nascere accentrata, ma avrebbe dovuto subito programmare una valorizzazione delle specificità locali. Lo aveva capito Marco Minghetti, uno dei politici più lungimiranti, con la sua proposta di federazioni di province, un modo per dare voce alla storia delle comunità.
Non è stato così. La proposta Minghetti non ha fatto un passo avanti. Di più, la componente cattolica della cultura italiana, bloccata dal  non expedit di Pio IX all’indomani del 20 settembre 1870, una componente molto radicata sul territorio con attività culturali ed economiche (le leghe bianche e le banche popolari, tanto per fare un esempio messo ben in luce da Giovanni Spadolini in una famoso libro “L’opposizione cattolica”) avrebbe potuto dare al nuovo Stato nazionale il valore aggiunto di una partecipazione convinta e piena delle comunità locali, al Nord come al Sud.
Certo la storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia con il senno di poi e per guardare al futuro, come devono fare tutti coloro che si occupano dei problemi della società e come dovrebbe fare la classe politica che, diceva De Gasperi, si divide tra coloro che pensano alle elezioni prossime (i politici) e quanti guardano alle future generazioni (gli statisti), oggi dobbiamo essere convinti che occorre trarre dagli errori e dalle insufficienze del passato idee nuove per gli anni a venire.
In sostanza dobbiamo pensare che la varietà delle esperienze regionali, delle culture, dell’economia, dello stesso territorio sono una ricchezza locale e nazionale. Si pensi  solo al turismo, risorsa inadeguatamente sfruttata nel nostro Paese, che potrebbe costituire lo zoccolo duro della nostra economia, una riserva di ricchezza la cui potenzialità continua ancora a sfuggire alla classe politica, nazionale e regionale, nonostante i soliti annunci che non mancano mai.
6 agosto 2006

Lo propone la Lega
Bandiere ed inni regionali accanto al Tricolore?
di Salvatore Sfrecola

     L’hanno definita un’iniziativa estemporanea una boutade di agosto. Qualcuno ha parlato di colpo di sole. Centro, destra e sinistra, una volta all’unisono contro l’ennesima iniziativa di sapore antitaliano della Lega Nord, sollecitata dagli istinti più grezzi delle laboriose popolazioni della padania che, in un momento di grave crisi economica, hanno bisogno di altre occasioni per scaldare gli animi.
     E siccome, ad onta di quel che afferma il Presidente del Consiglio ed il suo Ministro dell’economia la crisi sta colpendo le piccole medie imprese del Nord Est, quelle più fragili, con poca innovazione, scarsa capacità di leggere le esigenze dei mercati internazionali nei quali non ha adeguata capacità di penetrazione, ecco che la Lega propone di modificare la Costituzione ed affiancare al Tricolore nazionale vessilli regionali ed all’Inno di Mameli canzonette locali, in dialetto.
     Non sottovalutiamo l’iniziativa. E’, per ogni persona di buon senso, una boutade agostana, ma Bossi ed il suo partito hanno grande capacità di persuasione. Hanno già ottenuto la depenalizzazione del vilipendio alla bandiera, un assurdo per definizione, che è passato in Parlamento grazie ad un’ampia convergenza di voti anche di chi aveva da sempre proclamato sacri i valori della Patria. La bandiera, prima di tutti i simboli nei quali l’Italia si presenta all’interno ed all’esterno e non solo in occasione degli incontri sportivi. Ho già scritto di aver assistito con ammirazione, dinanzi all’Ambasciata della Repubblica del Brasile all’esecuzione dell’Inno nazionale cantato da civili e militari, tutto, fino all’ultimo. Mentre da noi, quei pochi che lo conoscono tra i politici, non vanno spesso oltre la prima strofa.
     Bossi ha una grande capacità di “persuasione” sul Cavaliere. Le sue bizze mettono in difficoltà il Governo e Berlusconi cede, sempre. Cederà anche stavolta? Mi consola solo il fatto che il poeta ha scandito “che schiava di Roma Iddio la creò”. Di Roma, mi dispiace per il Senatur.
5 agosto 2009

Agosto della stampa: meno pagine stesso prezzo
di Salvatore Sfrecola

     Cala il presso del petrolio, osservano i giornali, ma alla pompa il prezzo è sempre lo stesso.
     Anche per i giornali e le riviste vige la stessa regola. D’estate diminuiscono le pagine ma il prezzo resta lo stesso. Anche per loro dovrebbe valere la regola che essi invocano. Invece, giorno dopo giorno si assottigliano quotidiani e periodici. Perfino il Corriere della Sera, il più prestigioso giornale italiano non rinuncia a qualche centesimo a fronte del minor numero di pagine che offre ai propri lettori.
     Come dire predica bene ma razzola male.
5 agosto 2009

L’Italia rinuncia all’immagine ed al prestigio
di Senator

     Dopo gli articoli del direttore, di contenuto giuridico, che hanno illustrato le conseguenze del decreto legge n. 78 del 2009 e del successivo “correttivo” n. 131, da politico vorrei fare qualche considerazione su questa assurda norma che, per legge, impedisce, a chi ha istituzionalmente il compito di chiedere il risarcimento del danno patrimoniale in favore dello Stato e degli enti pubblici, di tutelare l’immagine ed il prestigio delle pubbliche amministrazioni, quando esse siano lese da una condotta dolosa o gravemente colposa che desti scandalo.
     Non intendo avventurarmi su questioni prettamente giuridiche, sul fatto, ad esempio, che la lesione dell’immagine di un ente pubblico, inizialmente concepita come “danno morale” dalla Corte di cassazione in occasione dello scandalo Locked (la vicenda dell’acquisto degli aerei dell’Aeronautica militare  per il quale furono pagate tangenti) è stata successivamente interpretata come danno all’immagine ed al prestigio dell’Amministrazione a seguito dell’evoluzione giurisprudenziale della stessa Cassazione e della Corte dei conti. Ritengo, però, che in una società “dell’immagine”, nella quale il Presidente del Consiglio cura innanzitutto la propria, fisica, infoltendosi la chioma e cancellando rigorosamente ogni segno del tempo, dai capelli bianchi e le borse sotto gli occhi, inevitabili in un uomo che ha passato la settantina, lo Stato avrebbe dovuto tenere alla propria. E tutelarla nel solo modo possibile, quello di sanzionare con un sonoro e significativo risarcimento in denaro contante, quando a tradire il giuramento di fedeltà siano amministratori e dipendenti dimentichi di essere al servizio esclusivo della Nazione. Tenuti a risarcire non solo quando la loro condotta si tinge dell’illecito penale (corruzione o concussione, ad esempio) ma anche quando assuma le connotazioni di un illecito di diversa natura eppure tale da menomare il prestigio del pubblico agli occhi del cittadino contribuente.
     Non sarà più possibile. “Senso dello Stato zero”, abbiamo sentito ripetere più volte dal Presidente della Camera di fronte a certi atteggiamenti degli alleati della maggioranza. Speriamo che Gianfranco Fini si opponga, in sede di conversione del decreto legge n. 131 a questa ennesima ritirata dello Stato che rischia di riversarsi sull’intera classe politica.
3 agosto 2009

Ammessa solo se l’illecito costituisce delitto contro la Pubblica amministrazione, ma….
Di fatto abolita per legge la tutela dell’immagine dello Stato!
di Salvatore Sfrecola

     Il comunicato della Presidenza del Consiglio, al termine della riunione durata solo 10 minuti, precisa, con riferimento al testo del decreto legge n. 131, adottato per assumere “misure correttive del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78”,  che “ulteriori disposizioni ribadiscono il principio della specificità della notizia del danno al fine dell’esercizio dell’azione di danno erariale da parte della Corte dei conti”. Ribadiscono, quindi non c’è niente di nuovo. Allora perché la norma? l’Agenzia ASCA scrive: “La legge (la conversione del decreto legge n. 78 del 1° luglio 2009, n.d.A.)- prevede una stretta generalizzata sulle attività di indagine della giustizia contabile. Ma nella correzione si prevede che le procure della Corte dei Conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale e fronte di ”specifica e concreta notizia di danno”.
     E’ stato sempre così. Infatti, “ribadiscono”. Allora perché la norma, torno a chiedermi?
     Quel che preme al Governo è altra fattispecie, rimasta un po’ in ombra nel dibattito e nelle polemiche di questi giorni. Il “danno all’immagine” delle Pubbliche amministrazioni, che secondo la giurisprudenza della Corte dei conti comprende anche il pregiudizio del “prestigio” sarà risarcibile ad iniziativa delle Procure della Corte dei conti “nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”.
     Cosa vuol dire?
     L’articolo 7 (responsabilità per danno erariale) prevede che “1 .  La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.
     Perché la Procura della Corte agisca, cioè inizi l’azione, è necessario che la sentenza adottata in sede penale per un delitto contro la pubblica amministrazione sia irrevocabile, cioè abbia passato tutti i gradi del giudizio in sede penale. Di fatto, lo abbiamo denunciato più volte i più importanti processi per reati contro la P.A. si concludono con la prescrizione. Quindi non c’è una sentenza “irrevocabile” di condanna. E quindi non c’è neppure il danno all’immagine ed al prestigio della P.A.!
     Come la mettiamo con le fattispecie penali che hanno una autonoma rilevanza in sede di giurisdizione contabile? Se il reato è prescritto ma la condotta è dolosa o gravemente colposa ai fini della responsabilità amministrativa mi sembra evidente che il danno all’immagine non potrà essere perseguito. La sospensione della prescrizione dell’azione di responsabilità, da ultimo prevista, è la classica foglia di fico che non copre un bel niente. Se la sentenza irrevocabile non viene è inutile che la prescrizione per noi sia sospesa!
     Dunque, gli amministratori e i dirigenti pubblici che hanno compiuto atti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio della P.A. si sono messi al riparo. Alla faccia del cittadino contribuente.
      Restano fuori naturalmente tutti gli illeciti, pur gravissimi, che non abbiano il connotato del delitto contro la pubblica amministrazione. Immaginiamo i responsabili dei gravissimi sperperi che da anni denuncia Raffaele Costa (su Il Duemila) e quelli che hanno fatto la fortuna dei libri di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.
     Mi sembra che questa sia l’interpretazione corretta della norma contenuta nel decreto legge. D’altra parte la classe politica ci ha abituato a leggi che proteggono la Casta in tutte le sue espressioni, compresi i portaborse al centro ed in periferia. Debbo ancora trovare una legge che faciliti il lavoro dei magistrati.
     Forse questo profilo è sfuggito alla pur attenta disamina del Presidente della Repubblica e dei suoi consiglieri. Il danno all’immagine, di fatto, è stato abolito per legge.
2 agosto 2009

Lettera aperta al Ministro Tremonti
Le inchieste della Procura regionale del Lazio
che non piacciono al MEF
di Salvatore Sfrecola

     Onorevole Ministro,
     Lei non passa per un personaggio simpatico. Lo sa anche Lei, che sul punto ha scherzato più di una volta. Forse non ci tiene. Probabilmente si rende conto che un Ministro del Tesoro (pardon, dell’economia) tanto simpatico non può essere ai suoi colleghi ed ai cittadini. Deve dire spesso dei “no”. Non ci sono risorse, non c’è cassa, rischiamo di violare le regole di Maastricht.
     Eppure, in controtendenza, Lei a me è simpatico. Sarà per l’eloquio rotondo e dotto, con il quale si rivolge agli italiani ed agli altri colleghi di governo e di opposizione, sarà per la erre “moscia”, un po’ snob, che in qualche modo ingentilisce la Sua oratoria, sarà perché da sempre stimo e apprezzo le persone intelligenti e non c’è dubbio che Lei sia persona colta e intelligente, come dimostrano i Suoi più recenti libri che attestano di una riflessione che poggia su conoscenze scientifiche e su approfondimenti di carattere politico che denotano capacità di vedere oltre.
     Aggiungo che, con queste doti, Lei svetta nella classe politica italiana di oggi e specialmente nel governo nel quale abbondano figure modeste, anzi modestissime.
      Non scrivo, tuttavia, per farLe dei complimenti. Devo, infatti, constatare che nell’occasione del decreto legge n. 78 del 1° luglio, sulle misure anticrisi, e degli emendamenti presentati alla Camera a proposito delle attribuzioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale, con specifico riferimento all’azione di responsabilità  alcune  Sue dichiarazioni riprese dalla stampa mi hanno profondamente deluso. Denotano scarsa conoscenza dei meccanismi investigativi delle procure contabili e incertezza sui termini della questione.
     Se mi consente, mi attendevo anche più senso dello Stato.
     Vediamo un po’ quel che ha detto, almeno a leggere i giornali.
   Cominciamo  da La Repubblica del 29 luglio, a pagina 5. Parlando dell’intervento del Presidente Napolitano, ormai noto, l’articolista Liana Milella chiosa: “Tremonti recalcitra, forse pensa ai 400 avvisi a dedurre inviati dalla Procura del Lazio che incombono sulla testa dei suoi funzionari…”; 31 luglio, a pagina 4: la stessa articolista fa riferimento alla “indagine del pm……con 400 inviti a dedurre e inviti a comparire, sulle consulenze del ministero dell’economia”.
     In verità, è stato il commento di un magistrato della Corte dei conti, “a me sembra assurdo che si faccia una legge per sottrarre presunti responsabili di danno erariale ad un regolare giudizio ed ancora più assurdo che, a tal fine, si limiti così drasticamente la giurisdizione contabile (il che equivale, con una similitudine azzardata, a buttar via il bambino con l’acqua sporca); sicuramente l’articolista si è lasciato andare ad illazioni eccessivamente maliziose”.
     Sempre secondo fonte giornalistica, secondo Lei la Corte dei conti sarebbe andata “oltre i limiti”. L’ANSA del 31 luglio riferisce: ” Le indagini della Corte dei Conti sul Tesoro hanno portato all’apertura di 700 fascicoli. Lo dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il titolare dell’Economia indica che il numero delle indagini aperte dimostra che ”l’indagine non e’ stata su singoli casi”. La magistratura contabile avrebbe superato i limiti indicati anche dalla Corte Costituzionale: ”Ci sono sentenze – dice – che dicono che l’azione della Corte dei Conti non può essere estesa a interi settori”.
     Ancora, l’Agenzia Italia, sempre il 31 luglio scrive:”Non c’e’ nulla nel ministero del Tesoro di così particolare da giustificare una deroga della sentenza della Corte costituzionale”. Lo ha affermato il ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, durante un’intervista a SkyTg24, riferendosi alle recenti polemiche con la Corte dei Conti. Il ministro ha sottolineato che “c’e’ una serie di sentenze della Corte Costituzionale che dice che l’azione della Corte dei Conti non può essere estesa all’azione intera di un ministero, ad un’ampia casistica, o interi settori ma a piccoli casi”. Tremonti precisa che “dal 2002 ad oggi 700 fascicoli sono stati aperti sul ministero, l’indagine non e’ stata specifica ai singoli casi ma estesa su un’entità di fascicoli molto ampia e per lungo tempo”.
     Il passaggio è delicato. Le è stato evidentemente prospettato un profilo di gestione dell’attività istruttoria della Procura regionale del Lazio che, a giudizio di chi l’ha informata, sarebbe in contrasto con indicazioni della Corte costituzionale che, facendo distinzione tra l’attività di controllo sulla gestione ed attività di indagine svolta in sede giurisdizionale sottolinea un diverso modus operandi. In un caso (il controllo) diretto a verificare se una pluralità di atti abbiano, o meno, determinato una gestione rispondente ai requisiti dell’economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, in un altro caso (la giurisdizione) diretto all’accertamento del danno erariale cui provvede la Procura regionale sulla base di notizie di danno in vario modo acquisite. Naturalmente in questo caso l’organo requirente procede, una volta accertato il danno ad individuare eventuali condotte le quali, con dolo o colpa grave, abbiano prodotto l’evento pregiudizievole per l’erario.
     Ebbene, Signor Ministro, Lei  ritiene che la Procura della Corte abbia condotto un’indagine ad ampio raggio, a tappeto, come si usa dire, svincolata da qualsiasi notitia damni, in forma simile al controllo. Trascurando che, a volte le indagini sembrano condotte a tappeto se si trascura che, come spesso avviene, la notizia (interrogazione parlamentare, denuncia di associazioni o sindacati, articoli di stampa) che muove l’Ufficio requirente è formulata con riferimento ad un complesso di attività (le consulenze, gli appalti, gli acquisti, ecc.), una formula che impone all’Ufficio del P.M., pur con le dovute cautele, di mettere sotto osservazione una serie di atti. Di qui l’impressione che l’indagine sia “a tappeto”.
     Infine, Signor Ministro, cosa teme? I casi sono, anche in questo caso, due. O le consulenze che i Suoi dirigenti hanno dato, di loro iniziativa o su Sua indicazione, sono conformi alla disciplina del settore, nel senso che il conferimento dell’incarico è funzionale ad un’esigenza che l’Amministrazione non potrebbe altrimenti soddisfare con i propri uomini e mezzi, oppure è un grazioso omaggio a qualche amico al quale si vuol far guadagnare un po’ di euro.
     Se gli incarichi sono legittimi quali preoccupazioni nutrite Lei ed i Suoi dirigenti?
     Un giorno si diceva della moglie di Cesare, nel senso che dovesse essere inattaccabile.
     Se  io fossi al Suo posto darei la massima collaborazione alla Procura proprio per dimostrare di non aver nulla da nascondere, che quel denaro che spende per i Suoi consulenti è ben speso, che è necessario per risolvere qualche problema urgente e grave dell’Amministrazione.
     Questa  battaglia nella quale l’hanno tirata per i capelli i Suoi dirigenti, anche quelli più in alto, alcuni dei quali, mi faccia dire, di modestissima levatura professionale, mille miglia al di sotto dei loro predecessori, che riescono a sopravvivere solo per la bravura dei loro collaboratori, avrebbe potuto evitarla. L’Amministrazione deve essere una casa di vetro. Immagini se Quintino Sella, del quale Lei  ha ereditato lo studio, si sarebbe ribellato all’indagine! Lui che aveva detto al nonno “dal giorno del giuramento come Ministro delle finanze le imprese di famiglia dovranno ritirarsi dagli appalti con le pubbliche amministrazioni”. Uomo del Nord anche Lui. E di Destra!
     Infine, oggi è stato emanato il decreto correttivo di quello approvato poco prima dal Senato. Nel comunicato di Palazzo Chigi si legge: “ulteriori disposizioni ribadiscono il principio della specificità della notizia del danno al fine dell’esercizio dell’azione di danno erariale da parte della Corte dei conti”. A parte l’italiano, assai carente, come mai si era visto prima, forse che le istruttorie delle Procure regionali partono da notizie di danno non specifiche? La classica scoperta dell’acqua calda!
     Caro Ministro, come ho scritto in passato con riferimento a Berlusconi, eviti di circondarsi di yes men. Eppure sì che di persone che sanno di diritto ne ha intorno, a cominciare dal Suo Capo di Gabinetto. Un politico vale anche per le persone delle quali sa circondarsi!
1° agosto 2009 

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