mercoledì, Novembre 27, 2024
HomeAnno 2010Ottobre 2010

Ottobre 2010

Negati gli aiuti da parte dello Stato
Incredibile Marchionne, ignora la storia della Fiat
di Oeconomicus

     “Senza l’Italia la Fiat potrebbe fare di più”. “Non un euro di utile dal nostro Paese nel 2010”. Ospite della trasmissione Che tempo che fa condotta da Fabio Fazio e in onda domenica sera su Rai 3 l’Amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ha sostenuto che “Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia”. “Fiat – aggiunge – non può continuare a gestire in perdita le proprie fabbriche per sempre”. Ed afferma che “tra il 2008 e il 2009 la Fiat è stata l’unica azienda che non ha bussato alle casse dello Stato”.
     Certo, la Fiat di aiuti dallo Stato ne aveva avuti tanti prima, fin dalla sua fondazione, con le forniture di guerra e poi, via via, con incentivi e cassa integrazione e, più brutalmente, con massicci acquisti di mezzi invenduti, di tutte le categorie, destinate alle Pubbliche amministrazioni.
     È stata una politica sbagliata? Si direbbe di sì se oggi l’AD di Fiat può dire con molta sufficienza che non vuole essere accusato “di avere avuto aiuti di Stato”. “Gli incentivi – prosegue – sono soldi che vanno ai consumatori: aiutano parzialmente anche me, ma in Italia sette macchine comprate su dieci sono straniere”. Ma non si chiede il perché. Forse un gesto di umiltà sarebbe utile per la verità. La Fiat ha condotto una politica di mercato inadeguata e a mano a mano che nel mercato internazionale entravano automobili di elevata efficienza continuava a cambiare modelli anziché puntare sulla qualità. Si veda la Gol della Volkswagen che tiene il mercato da decenni, sempre migliorata nelle prestazioni e ampliata nell’offerta.
     Forte della tesi che una Fiat si aggiunta anche dal benzinaio sotto casa, sfruttando un certo nazionalismo degli italiani la casa torinese ha gabbato Stato e cittadini per troppo tempo.
     “Con i soldi dello Stato americano risaneremo Chrysler. E ripagheremo il governo Usa con gli interessi e tutto. Gli aiuti ricevuti dallo Stato italiano li abbiamo ripagati”.
     Ma allora li ha avuti!
     Arrogante, erede di una dinastia di imprenditori assistiti Marchionne ha offeso l’intelligenza degli italiani che, infatti, lo hanno ripagato per tempo indirizzando le loro scelte su auto straniere, tedesche, francesi e soprattutto giapponesi che hanno iniziato a includere nel prezzo l’intera gamma degli optional, quando la Fiat riteneva dovesse essere pagato a parte perfino il lunotto termico.
     Marchionne elenca alcuni problemi del sistema-Italia: “Siamo al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48esimo posto per la competitività del sistema industriale. Siamo fuori dall’Europa e dai Paesi a noi vicini, il sistema italiano ha perso competitività anno per anno da parecchi anni e negli ultimi 10 anni l’Italia non ha saputo reggere il passo con gli altri Paesi. Non è colpa dei lavoratori”.
     Forse è colpa degli imprenditori assistiti che lo hanno preceduto nella direzione della Fiat. L’avesse considerato sarebbe stato meno ingeneroso, come ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Per Cesare Damiano, capogruppo in commissione Lavoro del Pd. “Marchionne ha la memoria corta sugli aiuti di Stato”.
     Vogliamo dire che la mentalità Fiat continua ad essere un po’ ricattatoria nei confronti dello Stato?
25 ottobre 2010

Un governo Fini per andare al voto?
di Senator

     Già alla ripresa dopo la pausa estiva, parlando con i suoi, Gianni Letta aveva previsto una crisi a novembre. Ce ne sono tutti gli elementi. Lo scivolone sul “lodo Alfano”, l’improponibile “riforma” della Giustizia a misura di chi vuole limare le unghie ai pubblici ministeri a fini d’impunità, dicono che la misura è colma. Che questa maggioranza la quale, se avesse fatto un centesimo di quello che ha promesso avrebbe uno spazio nella storia d’Italia, sta per raggiungere il capolinea della sua esperienza travagliata, tra dubbi e sospetti.
     Se, dunque, l’analisi è esatta, se, – come ha detto ieri Gianfranco Fini ad Asolo, nel corso di un dibattito con Massimo D’Alema – quanto alla tenuta del governo “non credo che occorrerà molto tempo per verificarla: dipenderà da quale riforma della giustizia verrà presentata, da quale pacchetto per il sud verrà proposto e da come si intende applicare il federalismo fiscale”, e l’esecutivo dovesse cadere o dimettersi, è del tutto evidente che, con la Costituzione vigente, “il Presidente della Repubblica ha il diritto dovere di verificare se può nascere un altro governo, chi dice il contrario in qualche modo si pone contro la Costituzione, fuori dalla Costituzione. Poi, del tutto diverso è il discorso dell’opportunità politica”.
     In questi casi, la crisi si chiude o con un reincarico al Presidente in carica, ove il governo non sia caduto su una mozione di sfiducia, perché verifichi se ha ancora una maggioranza, o con un incarico nella prassi definito “istituzionale”, cioè con un esecutivo affidato alla guida di una delle due cariche parlamentari, Presidente del Senato, Presidente della Camera.
     L’ipotesi Schifani, in astratto, appare la più logica. Tuttavia il Presidente della Camera Alta, come si diceva un tempo, è anche il supplente del Presidente della Repubblica in caso di assenza o impedimento, si dovrebbe dimettere e cedere l’incarico ad altro senatore eletto dall’assemblea. Berlusconi lo preferirebbe senz’altro dove sta.
     Questo rende più probabile una scelta in favore di Gianfranco Fini. Vi osta solamente la posizione critica assunta dal leader di Futuro e Libertà nei confronti del Cavaliere e le polemiche che ne sono seguite. Per cui un incarico a Fini potrebbe apparire come una scelta ostile di Napolitano, anche se il Presidente della Camera è pur sempre la terza carica dello Stato.
      Vedremo l’evoluzione delle cose.
     Al momento, dunque, e per riflettere a voce alta insieme ai commentatori della politica, non è da escludere, in caso di crisi, un incarico a Gianfranco Fini il quale, peraltro, proprio ad Asolo si è pericolosamente esposto con una sorta di programma elettorale sviluppato su alcune considerazioni politico-giuridiche tutto sommato “scolastiche”.
     “Berlusconi continua a dire che la sovranità appartiene al popolo – ha detto il leader di Futuro e Libertà – e quando lo fa è nell’ambito della Costituzione materiale. Ma se la sovranità popolare è la stella polare della democrazia, allora lo è non solo nella scelta del Presidente del Consiglio, ma anche dei parlamentari”.
Imprudente il Presidente della Camera delinea un programma in materia fiscale. La sua proposta è “alzare dal 12,5 alla media europea che è del 24-25% la tassazione sulle rendite finanziarie per garantire che la riforma Gelmini parta con la benzina nel motore. Vedremo come si comporta il Parlamento. Tassare le rendite finanziarie non è né di destra né di sinistra”.
     Poi ricorda che con la nascita di Fli “si é aperta una fase politica rilevante dove ci sono non più solo Pdl e Lega ma anche un terzo soggetto”.
     “Il partito carismatico – ha proseguito Fini nella sua analisi – é il miglior strumento per vincere le elezioni, ma il peggiore per governare”. In quanto il “cosiddetto partito carismatico forse non è ‘cosiddetto’, essendo basato su un rapporto diretto tra il leader e il popolo, essendo spesso senza intermediari, senza un dibattito interno e una democrazia”.
     Per Fini “c’é un deficit di politica e un eccesso di propaganda”,per cui “chi ha il senso della politica ragiona con pacatezza e visione strategica, mentre chi mette l’accento esclusivamente sulla propaganda ha un approccio diverso”. “La nostra società oggi – ha concluso Fini – viene informata dalla propaganda e non più animata dalla politica”.
     Il Presidente della Camera ad Asolo assisteva ad un dibattito tra Luciano Violante e Giuseppe Pisanu ed, evidentemente, ne ha tratto la convinzione che, se animato dalla politica, anziché dalla propaganda, il confronto sui programmi e la loro realizzazione consentono di governare meglio.
     Si tratta di vedere adesso se Fini, che si è esposto in questa fase del dibattito intorno alla sorte del governo ne sarà avvantaggiato. O non sarà usato come grimaldello dall’opposizione per far cadere Berlusconi e preparare una campagna elettorale che non sia drogata dalla propaganda del Cavaliere.
24 ottobre 2010

La Costituzione stracciata
Le perplessità del Quirinale sullo “scudo giudiziario”
di Senator

     Giorgio Napolitano, pur ribadendo l’intenzione di “rimanere estraneo nel corso dell’esame al merito di decisioni delle Camere, specialmente allorché – come in questo caso – riguardino proposte d’iniziativa parlamentare e di natura costituzionale”, non ha potuto fare a meno di manifestare “profonda perplessità” per l’estensione al Capo dello stato dello scudo processuale previsto dal Lodo Alfano in discussione al Senato.
     Nella lettera inviata al Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, il Capo dello Stato prende le distanze dalla scelta “d’innovare la normativa vigente prevedendo che la sospensione dei processi penali riguardi anche il Presidente della Repubblica”.
     Per Napolitano la decisione assunta dalla Commissione “incide, al di là della mia persona, sullo status complessivo del Presidente della Repubblica riducendone l’indipendenza nell’esercizio delle sue funzioni. Infatti tale decisione – continua la lettera del Capo dello Stato al Sen. Vizzini – , che contrasta con la normativa vigente risultante dall’articolo 90 della Costituzione e da una costante prassi costituzionale, appare viziata da palese irragionevolezza nella parte in cui consente al Parlamento in seduta comune di far valere asserite responsabilità penali del Presidente della Repubblica a maggioranza semplice anche per atti diversi dalle fattispecie previste dal citato articolo 90”. “Un Frankenstein costituzionale” ha definito il “lodo Alfano” Massimo Giannini su Repubblica. “Palese irragionevolezza”. La censura è pesante, tecnica e politica ad un tempo. Infatti, se il disegno di legge fosse approvato il Parlamento potrebbe essere chiamato a pronunciarsi a maggioranza semplice sulla prosecuzione di procedimenti penali per fattispecie diverse da quelle previste dall’art. 90 della Costituzione, possibilità oggi esclusa.
     “Degradando” il Capo dello Stato sullo stesso piano del Capo del governo, il nuovo Lodo Alfano trasforma il Presidente della Repubblica da garante super partes della Carta costituzionale in ostaggio permanente della maggioranza parlamentare.
     Ed è quello a cui mira la maggioranza nella prospettiva del depotenziamento del ruolo di garante del Capo dello Stato ed in vista di una ricorrente ipotesi di repubblica parlamentare tanto cara ad un’ala della destra missina.
     Fini si è reso conto immediatamente della fondatezza “delle criticità espresse dal capo dello Stato”. Ugualmente per Pierferdinando Casini “è indispensabile farsi carico, nella stesura del testo del Lodo Alfano, delle preoccupazioni istituzionali espresse dal Presidente della Repubblica”. Che ha aggiunto: “il lodo Alfano non ci piace, ma dobbiamo contribuire a rasserenare il rapporto tra politica e magistratura”.
     “Le osservazioni del Presidente della Repubblica non troveranno indifferenti il nostro gruppo parlamentare”, hanno affermato in una nota congiunta Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, capogruppo e vicecapogruppo del Pdl al Senato annunciando modifiche al testo in discussione.
     Un errore l”ipotesi formulata che potrebbe incidere negativamente sulla indipendenza della funzione del Capo dello Stato, per il giudizio politico implicito nell’autorizzazione parlamentare? Un’imprudenza, poca dimestichezza con le leggi, specie quelle costituzionali? O non piuttosto una reazione scomposta nei confronti del Custode della Costituzione, un ruolo che a Berlusconi non è mai andato a genio? Perché assume che la coalizione uscita vincitrice dalle urne nel 2008, cioè la più forte minoranza, come dice puntigliosamente Giovanni Sartori, che sulla base del porcellum si è assicurato il premio “di maggioranza”, sia ostacolata nella realizzazione delle riforme che intende portare avanti.
     “Eccesso di sensibilità” da parte del Presidente della Repubblica, come scrivono Gasparri e Quagliariello, o non piuttosto una disinvolta lettura della Carta costituzionale da parte del Cavaliere che non intende indietreggiare rispetto ai suoi obiettivi (l’impunità) neppure di fronte alle perplessità del Colle condivise da Fini e Casini.
     Tensione con Gianfranco Fini, dunque. Il leader di Futuro e Libertà è al bivio. Sa che ha conquistato consensi per aver assunto posizioni autonome di fronte a Berlusconi, ma sa anche che potrebbe rimanere al palo se a far cadere Berlusconi fosse una “congiura di palazzo”, di quelle che, insegna la storia, servono all’elite al potere per conservarlo, eliminando il leader consumato che potrebbe trascinare tutti nell’abisso.
     Ieri sera Granata, che si è assunto il compito di apripista per portare avanti le tesi più dure, ha detto a proposito del disegno di legge “si volti pagina”.
     Intanto, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Berlusconi afferma che “nella magistratura abbiamo una corrente che agisce in modo eversivo cercando di procedere contro chi è stato eletto legalmente dal popolo”. Fini storce la bocca e rimanda la palla al premier osservando che nell’agenda del governo c’é sempre la giustizia e mai il tema della precarietà del lavoro.
     Insomma, per far fronte alle sue ossessioni processuali Berlusconi non si perita di provocare un disordine costituzionale stravolgendo gli equilibri che caratterizzano nel nostro ordinamento il rapporto tra le istituzioni.
     Un intollerabile abuso della Costituzione della quale si vuole fare strame, nel momento in cui il leader della maggioranza sente franare, non già il potere economico, ampiamente implementato negli anni del potere politico, ma questo stesso potere, logorato da una esperienza di governo che non ha giovato al Paese, che non ha ridotto la pressione fiscale impedendo lo sviluppo di quella ripresa economia sempre annunciata. Mentre nel partito scalpitano coloro che non intendono essere trascinati nella caduta del leader.
23 ottobre 2010

Il “lodo Alfano” provoca malessere in Futuro e Liìbertà
di Senator

     Il voto di martedì sul Lodo Alfano “retroattivo” e quello che ha negato l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex Ministro Lunardi non sono andati giù a molti finiani. E lo hanno fatto sapere su Facebook con centinaia di messaggi. Ugualmente i siti di FareFuturo e di Generazione Italia hanno registrato proteste e dubbi. “Dove è finita la legalità?” è la domanda che ricorre più frequentemente. Un malessere destinato ad aumentare dopo l’incredibile commento del Direttore di FareFuturo, Rossi, in un editoriale nel quale scrive che “Il berlusconismo non può finire per via giudiziaria. Considero il lodo Alfano un atto doveroso (e faticoso)”, “di realismo politico, di responsabilità”. “Perchè qualsiasi rifondazione del sistema politico italiano – spiega ancora Rossi – non può passare per un virtuale ma pericolosissimo “piazzale Loreto””.
     Siamo all’acme della confusione politica e giuridica, condita di molta ipocrisia. Il lodo Alfano, secondo la vulgata del Presidente imprenditore (rectius dell’imprenditore Presidente) mirava alla “sospensione” dei processi nei quali fossero imputati titolari delle alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidenti delle Camere, Presidente del Consiglio). Da precisare che dai primi tre nessuna sollecitazione era venuta. Certamente non solo perché nessuno ha procedimenti penali in corso.
     Ma tant’è.
     Oggi il “lodo Alfano” dovrebbe coprire il passato e il futuro con l’effetto pratico dell’assoluta impunità, laddove si sosteneva che la norma sarebbe servita per consentire al Presidente del Consiglio di governare secondo le indicazioni dell’elettorato.
     Ed adesso Fini rischia la faccia e il futuro. Il condottiero che ha innalzato la bandiera delle legalità, gravemente sfilacciata e lacerata dall’incredibile gestione dell'”affaire Montecarlo”, laddove la questione doveva essere chiusa rapidamente con un chiarimento vero su ogni aspetto dell’operazione, anche a rischio dell’esposizione a critiche che comunque non sono mancate con il loro seguito di dubbi sull’intera vicenda.
     In questo caso, l’incapacità di Fini di gestire la vicenda è pari all’evidente inconsistenza di chi lo ha consigliato.
     “Il lodo ci fa schifo”, si è letto. Di contro qualcuno ha scritto: “il fatto che è retroattivo e per reati al di fuori delle funzioni lo rende palesemente anticostituzionale, verrà bocciato, pensate che Fini non lo sappia…?”.
     “Sulla legalità e la giustizia – per Granata – si gioca la partita decisiva, e il perimetro della nostra identità in questi mesi è stato costruito soprattutto su questi temi”. Per Granata “bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che il voto al Senato sul lodo Alfano e quello su Lunardi alla Camera ha creato un combinato disposto che ha disorientato l’opinione pubblica e gran parte dei nostri quadri e militanti”. “Mentre sul lodo, fin da Mirabello la posizione di Fini è stata favorevole – ricorda Granata – il voto su Lunardi, pur motivato come semplice richiesta di nuovi atti, è stato un grave errore politico”. Per cui l’auspico di un impegno “pubblico e solenne? a votare compatti a favore dell’autorizzazione a procedere contro il Ministro per i gravi fatti di corruzione che lo vedono coinvolto”.
     Comunque, aggiunge Granata, “anche sul Lodo è opportuna una franca discussione politica per capirne le conseguenze”. Si le conseguenze dell’impunità che abbiamo segnalato.
     La partita è difficile per Fini. E mette in forse la democrazia, anche perché il Presidente del  Consiglio che si sente assediato, non dalla magistratura ma dai suoi errori, tenterà in ogni caso un colpo di coda in vista delle elezioni. Una sorta di “muoia Sansone con tutti i filistei”. D’altra parte senza di lui il partito che ha creato grazie alla sua potenza economica è destinato a dissolversi rapidamente.
22 ottobre 2010

Autorevole monito del Presidente della Corte dei conti, Giampaolino
Spendere di meno, ma soprattutto meglio
di Salvatore Sfrecola

     È una regola di buon senso, per le famiglie come per gli enti pubblici, quella richiamata ieri mattina dal Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, nel discorso pronunciato in occasione della cerimonia del suo insediamento. “È essenziale – ha detto – non solo controllare la spesa pubblica ma, altresì, operarne una corretta qualificazione, affinché si possa non tanto spender poco o meno ma, soprattutto, spendere validamente ed oculatamente così da favorire la crescita e lo sviluppo, non solo economico, del Paese”.
     È quanto diciamo da anni in ogni occasione, ed ancora pochi giorni fa su queste pagine criticando i “tagli lineari”, cioè percentualmente uguali per tutti, ai quali il Ministro dell’economia, Giulio Tremonti, si è dedicato con grande impegno negli ultimi anni dimostrando di non essere in condizione, lui ed i suoi uffici, di definire, insieme con le amministrazioni interessate, una politica razionale della riduzione degli stanziamenti di bilancio che sia insieme di riqualificazione della spesa pubblica nel senso che si spenda “poco o meno”, come dice Giampaolino, ma “validamente”.
     Sono gravi limiti per il Ministro dell’economia e per il suo apparato di controllo della spesa pubblica, la Ragioneria generale dello Stato, l’Ufficio che prepara il progetto di bilancio, verifica la legittimità e la proficuità della spesa, predispone il rendiconto generale dello Stato, così essendo in condizione di “conoscere per deliberare”, come diceva Luigi Einaudi. Cosa che evidentemente non avviene.
   Eppure il governo dovrebbe essere consapevole, come ha ricordato il Presidente della Corte dei conti, della speciale congiuntura che richiede un impegno particolare per quello che Giampaolino ha qualificato “un vincolo di nuova natura: la prolungata bassa crescita del Pil – evento sconosciuto nella serie storica – rende difficile conservare obiettivi di spesa espressi in quota del prodotto (così come fissare obiettivi di riduzione della pressione fiscale aggregata), soprattutto in una condizione socioeconomica che alimenta istanze non comprimibili di sostegno dei redditi più bassi e di garanzia delle prestazioni essenziali alla collettività”.
   Per il perseguimento di tali finalità, la  Corte dei conti, conformemente alla funzione affidatale dalla Costituzione, di organo ausiliare del Parlamento e del Governo, “appare imprescindibile e strategica”, anche perché, nell’ottica dello sviluppo in senso federale dell’ordinamento, la Corte che Meuccio Ruini, Presidente della Commissione che ha redatto il testo della Costituzione, qualificò ausiliare “della Repubblica”, dovrà garantire che il federalismo non sia legibus solutus e assicuri la correttezza dei conti, anche ai fini dell’applicazione della normativa dell’art. 119 della Costituzione sul “fondo perequativo?, per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e sulle “risorse aggiuntive? in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
20 ottobre 2010

Aperta la successione a Berlusconi?
di Salvatore Sfrecola 

     Ernesto Galli della Loggia è un osservatore attento della politica italiana, filtrata attraverso la sua cultura di storico avvezzo a guardare anche alle cronache, quelle che spesso influenzano in modo determinante le storie.
     Così si è ritrovato a riflettere sulla situazione attuale del Governo e del Popolo della Libertà in un contesto di crisi evidente nella dichiarazione del Premier che, consapevole di un calo di consensi, lo ha addebitato al Partito anziché al governo. Mossa abile del comunicatore ma assolutamente non rispondente alla realtà. Nessuno giudica il partito. E’ la politica del governo che gli italiani hanno presente, sotto il profilo dell’ambiente, dell’assistenza sociale, del fisco dell’istruzione, dell’ordine pubblico, della sanità, funzioni richiamate in rigoroso ordine alfabetico perché sul rilievo che hanno per la gente ognuno può dire la sua.
     Se, dunque, cala il consenso è responsabilità per le cose non fatte e per quelle insufficienti del governo e non del partito che sta sullo sfondo, in modo piuttosto virtuale, secondo l’idea del fondatore, più un movimento che una struttura articolata sul territorio e organizzata per temi politici, perché il Cavaliere non fosse ostacolato nelle scelte dei suoi collaboratori al governo da correnti, da lui stesso ripetutamente definite “metastasi” della democrazia. Come dimostra la legge elettorale attraverso la quale lo stesso Berlusconi e gli omologhi responsabili dei partiti “nominano” deputati e senatori, solo formalmente eletti a seguiti del consenso delle liste.
     Ne consegue lo stupore di Galli della Loggia dinanzi al silenzio dei tre coordinatori del Pdl – Bondi, La Russa e Verdini- che riteneva “avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove”. Ingenua osservazione. In quell’occasione le critiche non venivano dal leader supremo nei confronti del quale un po’ tutti si sentono subordinati, quasi dipendenti del Presidente imprenditore.
     Ugualmente stupisce lo stupore di Galli della Loggia per “il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito – sempre il Pdl, appunto – di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti”. Come potrebbero parlare quei dirigenti di un partito che il fondatore non ha voluto chiamare partito, dove le decisioni sono assunte esclusivamente dall’autocrate incontrollato e incontrollabile perché nessuno ha il potere di farlo tanto che lo stesso Galli della Loggia scrive che “Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi”.
     E “comunque – giustamente scrive – (il Pdl) non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi”.
     E qui vien a parlare della “operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano – sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse – questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi”.
     “Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale “se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando”; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica”.
     “Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi?” Ma – continua Galli della Loggia – mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile”.
     La lunga citazione era necessaria per formulare alcune considerazioni sull’analisi condotta, che trova concordi molti osservatori politici, a mio giudizio, tuttavia, con visione insufficiente della realtà
     In primo luogo è dubbio che la complessa e articolata formazione politica sbrigativamente qualificata Centrodestra sia effettivamente espressione della cultura e del pensiero della destra italiana, di quel pensiero insieme liberale e conservatore, laico e cattolico che ha trovato uno dei massimi esponenti in Luigi Einaudi. Nell’attuale Centrodestra convivono ex socialisti (molti) ex democristiani (pochi) ex missini, portatori di una cultura social nazionale che nulla ha a che fare con la destra. Infine i leghisti, espressione di una concezione egoistica della politica, chiusa nel proprio particulare localistico, poco attenta ai problemi della società nel suo complesso e dello Stato nazionale.
     Questa armata Brancaleone ha trovato un capo carismatico in Berlusconi non portatore di valori politici sentiti e profondamente elaborati a livello ideologico, ma attento essenzialmente all’effetto di certi messaggi nell’opinione pubblica italiana. E così la ripetitiva invettiva contro i comunisti, che gli italiani nella stragrande maggioranza condividono per le esperienze negative, sotto gli occhi di tutti, delle gestioni dell’Est europeo. Poi la famiglia, società naturale profondamente radicata nella cultura delle persone più semplici. E questo basta per ottenere consensi, sia pure conditi di promesse, tante promesse, sul fisco soprattutto, mai attuate.
     Poi la guerra alla magistratura, un errore che solo Berlusconi poteva compiere, perché convinto dai suoi avvocati che sarebbe passato per vittima. Un errore che punta a sottolineare le disfunzioni della Giustizia solo in minima parte addebitabili ai magistrati, mentre quel che il cittadino subisce è figlio delle leggi, della organizzazione dell’apparato che spetta al governo assicurare agli operatori.
     I nodi adesso vengono al pettine. Le promesse ripetute, le affermazioni spudorate – sono il migliore Presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni dalla storia d’Italia, ho il più alto indice di gradimento di tutti i governi, ho fatto fare la pace ad Obama e Putin, ho corteggiato la tale Presidente della Repubblica, non ricordo più quale, e via folleggiando – sono tutte espressioni di una personalità che fin troppo è stata presa sul serio.
     E torna la domanda su Fini. Cosa farà da grande? Esclusa la possibilità che succeda a Berlusconi, perché se quella fosse stata la sua ambizione avrebbe dovuto entrare nel governo con un incarico di peso, improbabile la sua ascesa ai vertici del Pdl (ci sono ben altri galli che possono cantare), d’altra parte Futuro e Libertà è concepito come movimento, a Fini potrebbe riuscire solo la scalata alla Presidenza della Repubblica, se la congiuntura del dopo Berlusconi lo favorisse.
     Un ruolo formale, l’unico che può interessarlo.
     Lo scenario dovunque si guardi è desolante. L’opposizione, in particolare, è inesistente, incapace di fornire una proposta alternativa, rappresentata da personaggi di una modestia incredibile, tutti immersi, qui concordo con Galli della Loggia, “per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza”.
     Noi, comunque, non vogliamo rassegnarci, né al berlusconismo, né al degrado della politica italiana. Come italiani meritiamo di più, per la nostra storia, per la nostra cultura, perché siamo migliori di come noi stessi ci consideriamo.
19 ottobre 2010

Sfruttamento “politico” dei valori
Alla vigilia delle elezioni tocca, come sempre, alla famiglia
di Senator

     Dopo aver letto “Un’occasione mancata”(Nuove Idee editore, Roma, 2006), il libro del nostro direttore, Francesco Storace lo chiama e gli dice “dal libro ho capito perché abbiamo perduto per 24mila voti quando avremmo potuto vincere per 2milioni”. Il riferimento è allo sfilacciamento dell’impegno politico del governo Berlusconi sui valori tanto sbandierati in campagna elettorale e poi abbandonati. Accade ad ogni competizione. Il tema che si ritiene possa ricevere diffuso consenso viene messo al centro del programma elettorale, illustrato nei dettagli che enfatizzano gli effetti positivi per gli elettori, ad esempio imposte e tasse da diminuire, un carico da distribuire più equamente, fermo restando la misura e qualità delle prestazioni sanitarie e sociali. Per tutti e per le famiglie, naturalmente.
     È una promessa che non manca mai. Ma inevitabilmente all’indomani delle elezioni le promesse cadono nel dimenticatoio, tanto per la maggioranza quanto nell’opposizione. La prima si è rivelata incapace di attuarle, fin dal 1994. La seconda ha balbettato, anche quando aveva la responsabilità del governo, vaghe promesse, mai tradotte in proposte concrete.
     Si sa che in Italia la famiglia soffre delle difficoltà dovute alla presunta coincidenza dei valori di cui è portatrice con quelli della religione cattolica. Nulla di più sbagliato. A quella “società naturale” fondata sul matrimonio, che evidentemente preesiste allo Stato, la Costituzione affida la procreazione e l’educazione dei figli per farne cittadini consapevoli dei propri diritti e responsabili dei doveri che su di essi incombono nella società. Per farne professionisti capaci di concorrere al benessere della comunità, al bene comune.
     La famiglia è effettivamente al centro della vita economica e sociale del Paese. È luogo nel quale coloro che la compongono possono assumere e assumono la veste di lavoratori, aspiranti lavoratori, consumatori, risparmiatori, uomini e donne che assistono giovani e anziani, malati e portatori di handicap, persone che svolgono funzioni di interesse pubblico, che integrano o sostituiscono interventi delle strutture sanitarie o assistenziali, con innegabili vantaggi per il bilancio pubblico, che sarebbe ugualmente alleviato se alla famiglia impegnata nell’assistenza fossero riconosciute deduzioni d’imposta.
      Veniamo al punto delle misure per la famiglia, tipo “quoziente familiare” delle quali tutti si riempiono la bocca prevedendo da esse effetti positivi per tutti. E magari anche sui consumi che ristagnano, perfino ai livelli di quelli essenziali, come hanno scritto i giornali in questi giorni.
      Il mio è forse un processo alle intenzioni? Perché non credere a Berlusconi e a Tremonti, a Casini e ad Alemanno, che ha riempito Roma di manifesti sul quoziente familiare? Perché quando hanno potuto non hanno fatto nulla, neppure una mossa, un inizio di politica fiscale per la famiglia, qualche timido avvio di deduzioni che indicasse un cambiamento. Nulla, assolutamente nulla. E adesso, spudoratamente, questi politici, tra i più modesti che abbia conosciuto la storia d’Italia, sentendo che si avvicinano le elezioni per il rinnovo delle Camere riscoprono la famiglia come tema acchiappavoti.
18 ottobre 2010

Il ruolo di Tremonti, oggi e…
di Salvatore Sfrecola

     Pierluigi Battista, Vicedirettore del Corriere della Sera, è un osservatore attento della politica e dell’azione di governo e ne offre una lettura sempre capace di sviluppare riflessioni ulteriori dei protagonisti.
     Così, quando ha preso lo spunto dalle dichiarazioni di quel gran politico di  Bossi che ha definito Giulio Tremonti, Ministro dell’economia, “Cancelliere di ferro”, quasi un novello Otto von Bismarck, cui peraltro la Dieta del Regno negava l’approvazione dei bilanci sicché lui era costretto a sciogliere il Parlamento, il fondo del Corriere di ieri (“La natura del governo – Le tensioni e il nuovo ruolo di Tremonti”) ha dato la stura ad una serie di ipotesi sul ruolo dell’inquilino di via XX settembre. Cominciando dalla definizione dell’attuale esecutivo come “governo Tremonti” e non più “governo Berlusconi”, considerato il potere che il Ministro dell’economia ha saputo esprimere in questi anni fino all’altro ieri quando il Consiglio dei ministri ha approvato in una manciata di minuti il disegno di “legge di stabilità”, quella che fino all’anno scorso si chiamava “legge finanziaria”.
     In teoria la celerità dell’approvazione dice poco. La complessità del documento, che rimodula la legislazione di spesa, è tale che dovrebbe giungere in Consiglio ormai definito dopo un’ampia consultazione tra i Ministri e quello dell’economia, preceduta a livello tecnico da intese tra i dirigenti delle amministrazioni e la Ragioneria generale dello Stato. In realtà in precedenza i Consigli dei ministri dedicati alla manovra di bilancio finivano verso le quattro del mattino proprio per definire gli ultimi ritocchi.
     Stavolta è stato un diktat in piena regola, tanto che i ministri sono usciti tutti scontenti, alcuni, come Bondi, addirittura minacciando le dimissioni.
     Battista si chiede “se la crisi del Pdl non abbia partorito un nuovo asse politico incardinato sulla Lega e impersonato da Tremonti. Se lo scettro decisionista sia passato dal premier al più importante dei suoi ministri”.
     Non è una novità, né di questo governo, né dei precedenti governi Berlusconi. Nei quali Tremonti ha sempre governato la spesa pubblica senza soverchi interventi del premier e sempre scontentando pesantemente i ministri di settore con i quali sostanzialmente si rifiuta di dialogare, preferendo incidere sui bilanci con i famigerati “tagli lineari”, quelle riduzioni percentuali delle dotazioni di bilancio che colpiscono percentualmente, con profonda ingiustizia, considerato che la stessa misura non ha il medesimo effetto su tutti i bilanci.
     La cronaca della gestione Tremonti anche nel precedente governo Berlusconi rivela vere e proprie risse fino alle dimissioni, dopo l’ennesimo scontro con Gianfranco Fini, Vicepresidente del Consiglio. Di più, il Ministero dell’economia si è anche allargato a livello di formulazione della normativa che ha incidenza sul bilancio, quindi di gran parte della legislazione, in pratica espropriando molte competenze del Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi (DAGL) della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
     Sin qui la cronaca, quella osservata da Battista e sulla quale, da cultore di Contabilità pubblica, mi sono soffermato più volte giungendo a dire che la sede “vera” del Governo sta a via XX settembre, 97.
     Il fatto è che i grandi poteri di controllo della finanza pubblica, certamente necessari, non possono spostare l’equilibrio del governo e della sua collegialità, né limitare la funzione di indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio. Lo comprese così bene Giulio Andreotti, uomo di governo di lungo corso, che nel suo ultimo ministero volle Vincenzo Milazzo, Ragioniere generale dello Stato, come suo Capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio.
     L’articolo di Battista, tuttavia, ha consentito a molti osservatori politici di gettare lo sguardo oltre e dato lo spunto per ipotesi varie, soprattutto di un governo tecnico che dovrebbe far fronte ad una crisi dell’esecutivo. Un governo tecnico pilotato dallo stesso Berlusconi per non farsi scippare del tutto Palazzo Chigi, da mantenere attraverso una persona di fiducia sua e della Lega, cioé dell’attuale maggioranza, così mettendo fuori gioco Fini, al quale si attribuiscono ipotesi di apertura all’opposizione probabilmente in vista delle elezioni per il Quirinale.
     Battista loda Tremonti sottolineando come “la messa in sicurezza del bilancio italiano angariato dal mostruoso debito pubblico che conosciamo, l’argine severo contro le politiche di spesa facile” abbia conferito a Tremonti “una forza che fatalmente è destinata a rendere ancora più evidente la debolezza di cui soffre il capo del governo”.
     “Berlusconi – scrive ancora Battista -, svanita per il momento l’arma delle elezioni anticipate, passa il tempo a tessere la tela delle mediazioni per rammendare strappi e conflitti. I cinque punti del programma solennemente sottoscritti con il voto di fiducia della fine di settembre sembrano dimenticati. La bussola appare perduta. Ma l’unico comando riconosciuto è quello del custode del Tesoro che avoca a sé ogni decisione, impone ai ministri la sua dieta feroce, esalta con la sua azione l’unica alleanza che sembra reggere e anzi rafforzarsi: quella tra lo stesso Tremonti e la Lega di Umberto Bossi”.
     La rinuncia al controllo dell’economia è una sconfitta del Premier che vede l’esecutivo paurosamente scoordinato, rissoso, soprattutto demotivato nei ministri che non possono far fronte alle esigenze delle loro amministrazioni.
     È la vigilia di una crisi dalle imprevedibili conseguenze, che fa immaginare scenari diversi, dai quali, tuttavia, effettivamente emerge la personalità di Tremonti in un panorama della classe dirigente italiana estremamente modesta.
     La storia, tuttavia, insegna che è sempre possibile che emerga una personalità, al momento magari sconosciuta ai più, che possa assumere la direzione di un esecutivo “tecnico” per passare alle elezioni, ormai sempre più inevitabili.
17 ottobre 2010

Se va oltre il mandato
Si scrive” scudo giudiziario”, si legge impunità
di Iudex

     Lo “scudo giudiziario” del Presidente del Consiglio e delle altre alte cariche dello Stato, ma, in realtà, immaginato soprattutto per Silvio Berlusconi per consentirgli di governare è, di per se, un istituto anomalo perché, se la legge è uguale per tutti, la sospensione del processo di un leader di governo è certamente un fatto anomalo in punto di diritto. E ancor più sul piano politico. Non, come diceva tempo addietro l’allora direttore de Il Tempo, Arditti, perché il Presidente del Consiglio è inquisito ma perché un inquisito è Presidente del Consiglio.
     Tuttavia non finisce qui. Infatti il Cavaliere rilancia, e pretende, non la sospensione del processo finché in carica, ma va oltre, anche se si dovesse dimettere, come scrive Marco Conti su Il Messaggero.
       Con le riserve “politiche” già dette, essere un inquisito Capo del Governo, una “ragionevole” tutela del Presidente del Consiglio nel periodo in cui esercita le relative funzioni per sfociare nell’impunità, cioè nella pretesa, in un ordinamento costituzionale fondato sul principio di eguaglianza, di essere legibus solutus, una concezione del diritto e della responsabilità che andava di moda un bel po’ di secoli fa e che oggi caratterizza le espressioni tribali dell’Africa nera e delle “Repubbliche delle banane”, dove il potere economico sovrasta il potere politico e prevarica i diritti “politici” dei cittadini.
       Ma non era questa la Patria del diritto?
     E così il Cavaliere punta dritto alla riforma della giustizia. “Con in testa lo scudo-giudiziario – scrive Marco Conti – che lo metta al riparo dalle incursioni delle toghe”. Quella riforma, “è in cima alle preoccupazioni del Cavaliere” che non intende trattare sulla legge elettorale. I finiani non ci stanno e “non sembrano nemmeno prendere in considerazione uno scudo in grado di difendere comunque Berlusconi. Anche qualora non dovesse essere più a Palazzo Chigi. “Se si fa finta di non considerare che il problema da risolvere è quello, non facciamo molta strada!”, sostiene l’azzurro Enrico Costa.
      Una conferma, Berlusconi vuole l’immunità.
17 ottobre 2010

Legge elettorale
Per la “Casta” va bene così!
di Senator

     Duello per finta tra Fini Schifani sulla legge elettorale? È più di un sospetto.  Tra i frequentatori dei palazzi del potere la richiesta del Presidente della Camera al collega del Senato, perché la Camera Alta cedesse il passo sulla legge elettorale, è parsa subito anomala, considerato che a Palazzo Madama i lavori erano iniziati da tempo nella Commissione presieduta da Carlo Vizzini. Fini non è un giurista ma ha sufficiente esperienza parlamentare per comprendere che Schifani non gli avrebbe mai detto di sì, per difendere una giusta primazia del Senato e perché la modifica del porcellum, come Giovanni Sartori ha chiamato la legge scritta da Roberto Calderoli, l’autore che non aveva esitato a definirla “una porcata”, è assolutamente esclusa da Silvio Berlusconi  che non tralascia occasione per lodarla.
     Il fatto è che questa legge, la quale ha privato gli italiani elettori del primo diritto politico, quello di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, fa comodo a tutte le segreterie di partito che in tal modo hanno un potere assoluto di nomina di senatori e deputati, una forma di cooptazione che non ha di eguali al mondo. “Consigliere, sono un senatore eletto, non nominato!”, è stata la risposta di Gustavo Selva al nostro direttore quando questi gli aveva fatto i complimenti per l’esito del voto elettorale (“Un’occasione mancata”, Nuove Idee, Roma, 2006, pagina 12).
     Eletto e non nominato, perché Selva aveva, con straordinario impegno, conquistato il terzo seggio in un collegio nel quale la coalizione di centrodestra al massimo ne prendeva due. Era stato il ringraziamento di Fini ad un uomo che, da Presidente della Commissione esteri della Camera, aveva fatto tanto per il partito e per il suo Presidente girando il mondo. Ma la gratitudine, com’è noto, non è nel dna dell’ex leader di AN.
     Tornando al porcellum, con il massimo del potere tra le mani per controllare i gruppi parlamentari le ristrette oligarchie, segretari e capicorrente che decidono la formazione delle liste, perché mai dovrebbero perdere quel potere e rischiare di veder crescere l’opposizione interna e il formarsi di correnti?
     La sceneggiata va bene agli occhi degli elettori, ma nulla di più. Così Fini potrà dire di aver provato a scippare al Senato l’iniziativa di portare avanti la discussione sulla riforma della legge elettorale. Sarà un motivo di polemica con il Cavaliere e potrà rivendicare un merito per un impegno costato poco, una firma in fondo ad una letterina semplice semplice.
16 ottobre 2010

In margine ad un editoriale di Ostellino
Fine della politica se ignoriamo il diritto
di Salvatore Sfrecola

     Concordo con Ostellino (“La fine della politica”) quando sul Corriere della Sera di oggi afferma che “l’antiberlusconismo giudiziario è la sola risorsa di cui pare disporre il Partito democratico nella sua opposizione al centrodestra”.
     La condivisione, tuttavia, finisce qui. Non sono d’accordo, invece, sull’analisi che porta Ostellino a ritenere che si sia di fronte alla “giuridificazione della politica”, cioè all'”abdicazione della politica al giustizialismo, al moralismo e all’opportunismo”. E cita Carl Schmitt, secondo il quale “il diritto è una sfera autonoma, scevra da qualsiasi rapporto di forza e indifferente a qualunque elemento impuro sia esso politico, sociale, etico”. Aggiunge, poi, che “se la nostra intellighentia avesse anche solo un barlume di cultura politica saprebbe che, non la razionale distinzione fra politica e diritto, ma l’artificiosa contrapposizione del diritto alla politica-cioè il trasferimento dalla realtà dell’interazione sociale a un universo normativo astratto – è stata l’accusa (ingiustamente) rivolta a Kelsen liberal- democratico, prima che teorico del positivismo giuridico; mistificazione e negazione, al tempo stesso, dei fondamenti storici, sociali e giuridici del liberalismo – la tradizione cara ai liberali non meno che ai conservatori – pre-condizione della «democrazia dei moderni”.
     Il fatto è che le regole, cioè il diritto, sono espressione giuridica delle scelte politiche, cioè del modo di intendere lo Stato, il ruolo delle istituzioni nelle quali si articola l’esercizio dei poteri (legislativo, amministrativo e giudiziario) nell’equilibrio di un sistema che la democrazia liberale vuole sia basato su pesi e contrappesi, a garanzia della politica e dei cittadini.
    Per cui “la fine della politica” non sta tanto nella contrapposizione berlusconismo – antiberlusconismo, condotta con rinvio agli scandali giudiziari, ma nel disprezzo delle regole, nella ricerca di uno statuto personale dei politici che li metta al riparo non dalle possibili ingerenze giudiziarie per comportamenti “politici”, cioè dall’essere chiamati a rispondere “delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, come recita l’art. 68 della Costituzione, ma nella immunità per ogni tipo di reato, specie per quelli contro la Pubblica Amministrazioni e per tutti gli altri compiuti quali cittadini privati.
     Non mi scandalizza neppure che nei confronti di alcune autorità pubbliche possano essere sospesi i procedimenti giudiziari che li riguardano. Poche autorità, pochissime. Perché la fine della politica sta proprio nel fatto che la legge, che deve essere “uguale per tutti”, non lo sia per alcuni i quali potrebbero essere stati indotti a scendere in politica per acquisire l’impunità rispetto a condotte illecite che nulla hanno a che fare con comportamenti politici.
     Questa sarebbe veramente la fine della politica che è servizio alla Comunità per finalità che riassuntivamente possono essere definite “bene comune”.
     È chiaro che la politica non deve abdicare “al giustizialismo, al moralismo e all’opportunismo”. Ma attenzione. Se quel che Ostellino, ed altri, chiamano giustizialismo non è altro che l’esercizio dell’azione giudiziaria nei confronti di chi ha violato le regole non è subordinazione della politica al diritto, perché tutti siamo soggetti alla legge. Questa è condizione di democrazia, su questo principio si fonda il moderno stato di diritto, quello che chiamiamo “liberale”, un aggettivo del quale oggi molti si riempiono la bocca, spesso con la palese intenzione di ritenersi legibus soluti.
     Dobbiamo avere le idee chiare in proposito.
     Si dice spesso che ogni popolo ha la classe politica che si merita. Ebbene io credo che tra gli italiani il tasso di rispetto delle regole sia certamente superiore a quello che si riscontra tra i politici. E questo, da solo, basta ad inficiare le argomentazioni di Ostellino il cui risultato finale è quello di indurci a ritenere che “la politica” sia esente dalle regole che la stessa si è data. Perché, è bene ricordarlo, le leggi, dalla Costituzione in giù, sono state scritte dalla classe politica in un determinato momento della storia del Paese. Regole che certamente possono essere cambiate, ma finché sono in vigore vanno rispettate. Da tutti.
     Del resto non è stato Cicerone a scrivere Legum servi sumus ut liberi esse possimus. (da Pro Aulo Cluentio Habito, 146), cioè siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi?
8 ottobre 2010 

Derivati, credit default swaps, vendite allo scoperto
Nuova regolamentazione proposta dalla Commissione Europea
di Europeus

Karl Marx a Wall Street
“Se una buona siepe fa un buon vicino, perché non hanno salvato nessun mattone del muro di Berlino?” ( Anonimo )

     Nel 1997 il New Yorker scrisse “più tempo si passa a Wall Street, più si capisce quanto Marx avesse ragione”. Appena undici anni dopo il Times  al crollo delle borse del 2008 lo riprende: “Karl è tornato!”
     Qualcuno può spiegarci a cosa è servita la riforma dei mercati finanziari e assicurativi degli Stati Uniti nel 1999? E come mai è toccato a Bill Clinton accendere la miccia della deflagrazione globale dei mercati bancari, finanziari e assicurativi che stiamo vivendo dal 2007, appunto con la cancellazione del Glass- Steagall Act nel 1999 e la nascita dei conglomerati bancari-finanziari-assicurativi: la banca holding universale?[1]
     Il Glass-Steagall Act aveva qualche decennio, ma aveva ben servito sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, fino al 1999. Si fondava sulla distinzione giuridica fra banche commerciali e banche d’investimento, attività che non potevano essere svolte dallo stesso soggetto giuridico per il conflitto di interessi esistente fra le due attività. Il Glass-Steagall Act – in seguito ai numerosi fallimenti conseguenza della crisi del ’29 – proibiva alle banche commerciali, o a società da esse controllate, di sottoscrivere, detenere, vendere o comprare titoli emessi da imprese private e impediva alle banche di continuare a collocare presso i propri clienti titoli emessi da imprese loro affidate.
     Impediva perciò di trasformare potenziali sofferenze bancarie in emissioni collocate presso i propri clienti che alla fine sarebbero rimasti col cerino in mano a bruciarsi perché così da potenziali potevano trasformarsi più facilmente in reali sofferenze. La separazione è stata cancellata nel 1999 dalla banca holding universale che si è integrata con il settore assicurativo. E tra i clienti che sono rimasti bruciati ci sono anche se stesse: le banche. Il capitale è non solo onnivoro ma anche autofago. Dal 2007 ad oggi tutti stanno correndo ai ripari, sperando di non correre verso un burrone ancora più profondo.

* * *

     Nel quadro dei lavori in corso per creare un sistema finanziario più solido, la Commissione europea ha presentato il 15 settembre 2010:
     a ) una proposta di regolamento mirante a rendere più sicuro e più trasparente il mercato dei derivati negoziati fuori borsa (i cosiddetti derivati over-the-counter od OTC);
     b) una proposta di regolamento sulle vendite allo scoperto e alcuni tipi di Credit Default Swaps (CDS).
     Passano ora al Parlamento europeo e agli Stati membri dell’UE per il successivo esame. Una volta adottati i regolamenti saranno applicati a partire dal 2012.
     La proposta sui derivati è in linea con gli impegni assunti dall’UE in seno al G20 e con l’approccio adottato dagli Stati Uniti; Elementi chiave della proposta[2].
    Maggiore trasparenza. Gli scambi di derivati OTC nell’UE dovranno essere comunicati a centrali di dati, i cosiddetti repertori di dati sulle negoziazioni. Le autorità di regolamentazione nell’UE avranno accesso a questi repertori. Nel frattempo la nuova Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) sarà responsabile della vigilanza sui repertori e autorizzerà/revocherà la loro registrazione.
    Maggiore sicurezza-ridurre il rischio di controparte. I derivati OTC standardizzati dovranno essere compensati tramite controparti centrali. Le controparti centrali sono soggetti che si interpongono tra le parti di un’operazione, diventando l'”acquirente di ogni venditore”, nonché il “venditore di ogni acquirente”. Ciò impedirà il verificarsi di situazioni in cui il crollo di un partecipante al mercato causi il crollo di altri partecipanti al mercato, mettendo a repentaglio l’intero sistema finanziario.
     Ambito di applicazione: la proposta si applica a tutti i derivati OTC. Essa si applica sia alle imprese finanziarie che utilizzano i derivati OTC che alle imprese non finanziarie che detengono ampie posizioni in derivati OTC. Essa si applica anche alle controparti centrali e ai repertori di dati sulle negoziazioni. Tuttavia, quando le imprese non finanziarie (ad esempio le imprese manifatturiere) utilizzano derivati OTC per attenuare i rischi derivanti della loro attività di base (ad esempio la “copertura commerciale” utilizzata per proteggersi dalle variazioni dei tassi di cambio), esse sono esonerate dall’obbligo di compensazione mediante una controparte centrale.
     La proposta sulle vendite allo coperto e alcuni tipi di Credit Default Swaps (CDS) intende creare un quadro normativo armonizzato per poter arrivare a interventi coordinati a livello europeo, migliorare la trasparenza e ridurre i rischi. Elementi chiave della proposta[3].
     Maggiore Trasparenza. Tutti gli ordini su titoli azionari impartiti nelle sedi di negoziazione saranno registrati come scoperti (cosiddetto “flagging”) se comportano una vendita allo scoperto, in modo che le autorità di regolamentazione sappiano quali sono le operazioni effettuate allo scoperto. Inoltre, gli investitori devono comunicare alle autorità di regolamentazione le proprie posizioni corte nette significative in titoli azionari quando superano una certa soglia e al mercato se superano una soglia più elevata. Per quanto riguarda i titoli obbligazionari sovrani, le autorità di regolamentazione saranno in grado di individuare possibili rischi alla stabilità dei mercati del debito sovrano ricevendo informazioni sulle posizioni corte, tra cui quelle ottenute attraverso Credit Default Swaps sovrani ( prodotto derivato considerato talvolta una forma di assicurazione contro il rischio di inadempimento).
     Autorità di regolamentazione e un quadro normativo europeo coordinato. Le autorità di regolamentazione nazionali, in situazioni eccezionali, avranno dei poteri precisi per limitare o vietare temporaneamente le vendite allo scoperto di qualsiasi strumento finanziario, fermo restando il coordinamento da parte dell’ESMA (che dovrebbe diventare operativa nel gennaio 2011 ) che avrà inoltre il potere di indirizzare pareri alle autorità competenti quando queste devono intervenire, con efficacia immediata, per limitare o vietare delle vendite allo scoperto.
     Affrontare i rischi specifici delle vendite allo scoperto “naked”. La proposta prevede che per effettuare una vendita allo scoperto un investitore deve aver preso a prestito gli strumenti interessati, aver stipulato un accordo per prenderli a prestito o aver concluso un accordo con un terzo per trovare e tenere a disposizione i tioli in questione ai fini del prestito in modo che
possano essere consegnati alla data di regolamento.

* * *

     Il 16 agosto 2007 falliva l’American Home: in tanti sapevano che incendio stava per divampare e si son dati da fare perché si bruciassero solo i nemici e lo Stato mandasse i pompieri, sgombrasse le macerie e pagasse i costi della ricostruzione. Dopo più di 3 anni la ricetta per uscire dalla crisi è una sola: nuove norme, più regole e tanta altra burocrazia. Ma non credo che ce la caveremo così a buon mercato.
     E’ stato bruciato una buona parte del capitale del nord-ovest che è pure noto grande debitore ed, in tempi di tassi di interesse quasi a zero, il nord-ovest appare quasi tutto “giapponesizzato” cioé senza idee buone per investimenti per il futuro, salvo tagli e regole! Se il sud-est, che è pure noto grande creditore, continua così, è possibile che il nord-ovest faccia la fine del Regno Unito dopo la prima guerra mondiale.
     Un nuovo grande ciclo può iniziare con una guerra, con una grande vampata inflazionistica o con un profondo mutamento istituzionale. Proviamo a capire se possono bastare le terapie apprestate o in preparazione per evitare le prime due.
Basilea 3: le banche “too big to fail” ed i paesi che sfuggono alla sorveglianza delle autorità se la ridono. Il capitale può controllare il Senato USA, figurarsi una big bank o una isoletta!
     USA. Riforma Obama della finanza approvata a giugno 2010: non cambia il rapporto capitale/politica.
     Unione Europea: 1) European Financial Stability Facility. Se tra tre anni chiude ed i paesi che ad essa hanno fatto ricorso falliscono che succede? e se si trasforma in un meccanismo permanente di soccorso perché i paesi non potrebbero prendersela piu’ comoda nel risanarsi? 2) Nuova Supervisione Finanziaria Europea: di fatto proposta di creazione di altre 4 authorities! 3) Nuova Governance Economica Europea: cioé patto di stabilità III. Cioe’ sanzioni più aspre ai paesi in difficoltà col rischio che i paesi più indebitati e politicamente più instabili potrebbero non farvi fronte provocando una crisi sistemica e la rottura dell’area euro.
    Cina, Giappone, USA, Brasile: si parla di nuovo di guerra monetaria internazionale e di protezionismo. Cina e USA: l’agenzia di rating cinese Dagong declassa gli Stati Uniti e gli assegna un outlook negativo, cioé abbassa il rating proprio al principale debitore dei cinesi. Gli Usa ripagano non riconoscendo i ratings della Dagong per Wall Street.
     Ormai anche al di fuori dell’inner circle si parla di realtà esistenti da tempo ma finora mimetizzate: “banche ombra”, “shopping normativo”, “paesi avanzati vulnerabili”, “complessità delle indagini”.
     Allora il malato guarirà? Si può dubitare. Un diluvio di regole, nuove autorità tecniche, realtà minacciose che sfuggono. Dei necessari cambiamenti istituzionali nessuno ha voglia di parlare. Dato che chi è matto non va in guerra, ma chi non va in guerra non è matto, vuol dire che pensano alla grande inflazione.
     La successione corretta è: cultura, politica, società, economia, finanza. Invece realmente nel mondo oggi è al contrario. Il buco nero è incominciato dalla finanza nel 2007 e sta risucchiando progressivamente l’economia, la società, la politica e la cultura.
     E’ come se il malato suggerisce, fino ad imporgliela, al medico la terapia per guarire: fargli scrivere tante ricette fasulle pur di non prendere mai la medicina giusta. Appunto Karl Marx a Wall Street.
6 ottobre 2010

[1] Il Glass-Steagall Act fu revocato negli Stati Uniti mentre era presidente Bill Clinton e Ministro del Tesoro Robert Rubin. Alla distinzione fra banca commerciale e banca di investimenti si è sostituito il modello di banca universale che include anche l’attività assicurativa. Il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999 abrogò il Glass-Steagall Act. La legge passò al Senato con un voto di 90 contro 8, col contributo di 38 Democratici. Potenza del capitale: mette quasi tutti d’accordo. E gli riesce meglio se a governare è la sua opposizione!
[2] Un derivato è un contratto tra due parti legato al valore o alla situazione futuri di un sottostante al quale si riferisce (ad esempio, l’andamento dei tassi di interesse o del tasso di cambio o il possibile fallimento di un debitore). I derivati OTC sono derivati che non vengono negoziati in borsa ma privatamente tra due controparti. L’uso dei derivati è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi dieci anni e le operazioni su OTC hanno dato il maggiore contributo a questa crescita. Alla fine del dicembre 2009 le dimensioni del mercato dei derivati OTC al valore nozionale era pari a circa 615 000 miliardi di dollari USA, con un aumento del 12% rispetto alla fine del 2008, registrando comunque un livello inferiore del 10% rispetto al massimo raggiunto nel giugno 2008.
Il quasi fallimento di Bear Sterns nel marzo 2008, il fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008 e il salvataggio di AIG il giorno successivo hanno cominciato ad evidenziare le carenze del funzionamento del mercato dei derivati OTC, dove vengono negoziati l’80% dei derivati.
[3] La vendita allo scoperto consiste nella vendita di un titolo che il venditore non possiede, ma che ha l’intenzione di acquistare successivamente per poterlo consegnare. Nelle vendite allo scoperto cosiddette “naked” il venditore non ha preso a prestito i titoli né ha provveduto, prima della vendita allo scoperto, a garantirsi la possibilità di prenderli a prestito prima del regolamento. Ciò può portare a rischi specifici legati al mancato regolamento (vale a dire che l’operazione non venga portata a termine). Fin dall’inizio della crisi finanziaria, molti Stati membri hanno adottato iniziative per sospendere o vietare le vendite allo scoperto. Ora iniziative non coordinate possono essere meno efficaci e provocare difficoltà sui mercati, avendo inoltre delle conseguenze sulla fiducia degli investitori.

In tema di responsabilità civile dei giudici
Realtà normative
e divagazioni politiche del Senatore Quagliariello
di Salvatore Sfrecola

      Gaetano Quagliariello, napoletano, ma eletto in Toscana, professore di storia contemporanea alla LUISS di Roma, vicepresidente vicario del Gruppo del Popolo della libertà, un passato nel Partito Radicale, del quale è stato Vice Segretario Nazionale, è venuto alla ribalta in occasione del referendum sulla legge 40 (procreazione assistita) e dell’impegno nella Fondazione Magna Carta, che ha contribuito a fondare con il Senatore Marcello Pera, all’epoca Presidente del Senato (“E’ una delle cose che meglio mi sono riuscite nella vita: un luogo di formazione e ricerca di ispirazione liberale schierato senza soggezioni culturali e prudenze con il centro-destra”) da qualche tempo si occupa di giustizia.
     Così ieri sera, intervistato da un telegiornale (il TG5), ha discettato di “riforma” della Giustizia, chiedendo che sia effettiva la parità tra accusa e difesa e la responsabilità dei magistrati che, a suo giudizio, non pagano per gli errori che commettono.
     Nella foga polemica e nel desiderio di essere perfettamente allineato con le direttive del suo partito il Senatore/Professore, evidentemente, non ha approfondito l’argomento. Cosa sempre più diffusa di questi tempi, nella politica degli annunci e delle esternazioni.
     Infatti, dovrebbe sapere che l’istituto della responsabilità civile dei magistrati è stato disciplinato organicamente dalla legge del 13 aprile 1988, n. 117, “applicabile a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria” (art.1).
     Precisa l’art. 2 (responsabilità per dolo o colpa grave) che: “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale” (comma 1).
     E, chiarito che “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove” (comma 2), viene precisato che (comma 3): costituiscono colpa grave:  a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza é incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”.
     Quanto al “Diniego di giustizia” (art. 3) esso è costituito dal “rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio”.
     “L’azione di risarcimento del danno contro lo stato deve essere esercitata nei confronti del presidente del consiglio dei ministri” (art. 4), eventualmente con Intervento del magistrato nel giudizio (art. 6). Lo Stato (art. 7) “entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale? esercita l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato”. L’azione “deve essere promossa dal presidente del consiglio dei ministri” (art. 8).
     A parte (art. 9) c’è l’azione disciplinare.
     Cosa preoccupa il Senatore Quagliariello, forse la responsabilità del giudice nell’interpretazione delle norme di diritto e nella valutazione di fatti? Grave caduta di stile per uno che si proclama liberale!
     Il legislatore, è chiaro dai lavori preparatori, ha avvertito l’esigenza di contemperare esigenze ugualmente degne di tutela, il rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, essenziale in uno Stato di diritto, da una parte, e la garanzia del diritto del cittadino al risarcimento del danno ingiusto, dall’altra.
     Una “clausola di salvaguardia”, pertanto, nega qualsiasi possibilità di sindacare il modo in cui il giudice interpreta la norma che applica o procede alla valutazione dei fatti sottoposti al suo esame “purché se ne dia conto in motivazione”, perché non si sconfini nel diritto libero (Corte di Cassazione, sent. n.11880 del 20/09/01).
     È, dunque, ben presente la distinzione tra attività interpretativa tutelata e colpa grave, sicché genera responsabilità del giudice quel provvedimento emanato non come esplicazione di discrezionalità interpretativa, bensì per una negligenza macroscopica ed inescusabile nella lettura del testo di legge.
     È evidente che l’impostazione del Senatore Quagliariello ha una finalità di pressione sul giudice, al limite dell’intimidazione. Quando trova un difetto nella sua automobile il Senatore chiama in causa la casa produttrice o il capo reparto o il lavoratore della fabbrica che ha assemblato il mezzo? Così lo Stato, se un suo dipendente, non solo un magistrato, causa un danno risarcisce chi lo ha  prodotto, per poi rivalersi sul responsabile. E’ questo, ad esempio, il ruolo della Corte dei conti per i dipendenti pubblici.
     Caro Senatore, la Giustizia esprime il più alto potere dello Stato, garanzia della civile convivenza di un popolo, non facciamone un’area di scontro tra partiti per salvare qualcuno che ha scheletrucci negli armadi.
3 ottobre 2010

Le barzellette blasfeme del Premier
La volgarità al potere
di Gianni Torre

     “Mancanza di cultura, di educazione, di finezza e di signorilità, di elevatezza e di nobiltà spirituale”. Così il Vocabolario della lingua italiana dell’enciclopedia Italiana Treccani, vol. IV a pagina 1223. Una definizione che si attaglia alla più recente performance del Presidente del Consiglio. Volgare e blasfema. Un tempo si sarebbe detto “da caserma” e difatti il Cavaliere stavolta si è esibito tra dei militari, evidentemente convinto che che con loro potesse sfoderare trite battutacce da trivio.
     “Ci mancava solo la bestemmia dentro la barzelletta del presidente”, ha scritto il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, aprendo il suo editoriale all’indomani del video pubblicato dal sito de L’Espresso, in cui Berlusconi racconta una barzelletta contro Rosy Bindi che si conclude con una bestemmia.
     “C’è una cultura della battuta a ogni costo che ha preso piede e fa brutta la nostra politica. E su questo tanti dovrebbero tornare a riflettere”, scrive Tarquinio. E aggiunge:”su ogni uomo delle istituzioni su ogni ministro e a maggior ragione sul capo del governo grava, inesorabile, un più alto dovere di sobrietà e di rispetto. Per ciò che si rappresenta, per i sentimenti dei cittadini e per Colui che non va nominato invano”.
     “Le barzellette sono un problema di gusto e di rispetto per gli altri. Un problema per cui ciascuno risponde della barzellette che dice”, è stato il commento di Pier Ferdinando Casini, mentre per il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, “l’Italia non può permettersi un primo ministro così”.
    Non può fare a meno di un commento critico neppure il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, cattolico, colui che sui giornali e in televisione arriva a sostenere l’insostenibile pur di compiacere il Cavaliere. “Berlusconi ha sbagliato, dice, ma ha chiesto scusa. Quando accadono questi fatti ci sono solo poche cose da fare: dare un giudizio, e lui ha sbagliato, chiedere scusa, e lui lo ha fatto, e, per un cattolico, andarsi a confessare. È inutile ora continuare ad alimentare polemiche e strumentalizzare”.
     Una cosa è certa, non si confesserà.
     Per Famiglia Cristiana la bestemmia è stata “un’offesa a tutti i cattolici”.
    Vorrei dire che la volgarità che, abbiamo letto, è mancanza di cultura, di educazione, di finezza e di signorilità, di elevatezza e di nobiltà spirituale in fondo non offenderebbe nessuno perché il volgare è fuori del contesto civile se la persona “volgare” non fosse il leader di un grande partito e non assumesse, avendo ottenuto un bel po’ di voti di rappresentare la maggioranza degli italiani o, più esattamente, come ha scritto Giovanni Sartori, la più forte minoranza.
     E siccome il Premier sbandiera questo dato per pretendere i portare avanti le “sue” riforme “in nome” del popolo italiano, non vorrei che ritenesse di aver “libertà di bestemmia” che offende tutti non solo i cattolici, dacché bestemmiare, cioè “offendere la divinità o le cose sacre con parole di odio e di spregio spesso triviali” (sempre dal Vocabolario Treccani, vol. I, pagina 447) è prima di tutto offesa al buon gusto della gente.
     Ma forse Berlusconi crede che gli italiani siano volgari? Ha fatto qualche sondaggio in proposito. E pensa che anche gli ebrei possano essere oggetto di volgari battute, che una tragedia dell’umanità che ha scosso tutte le coscienze, possa essere oggetto di volgari battutacce.
     Il Premier, lo sappiamo, vuol essere spiritoso ad ogni costo e nella sua vecchiaia vuol tornare giovane a quando intratteneva i passeggeri sulle navi da crociera. Solo che quella barzelletta, se detta a bordo, gli avrebbe fatto rischiare grosso, prima che con gli armatori con i crocieristi.
     Gli italiani, infatti, amano le barzellette, accettano anche quelle “un po'” spinte. Ecco, un po’. È sempre un problema di misura. E la bestemmia (“per incrocio con bestia”, sempre dal Vocabolario) è decisamente fuori misura. Pere tutti, cattolici e non.
3 ottobre 2010

Terrorizzati dal “rischio elezioni”
Bossi chiede scusa ai romani e tutti tirano un sospiro di sollievo
di Senator

     Alla fine Bossi ha chiesto scusa. “Mi spiace se ho offeso qualcuno? era solo una battuta”. Si chiude il caso e tutti tirano un sospiro di sollievo.
“Sono molto contento del gesto di Umberto Bossi. Per quanto mi riguarda le scuse sono accettate”. Gianni Alemanno subito commenta, così, le parole del leader della Lega. E lo invita in Campidoglio, con Calderoli e Tremonti.
     Intanto il capogruppo del Pd Dario Franceschini ha annunciato: “Valuteremo insieme agli altri firmatari se le scuse di Bossi sono sufficienti», rilevando che le scuse «sono il risultato della presentazione di questa mozione e del timore dopo il complicato voto di mercoledì”.
    Ugualmente l’Italia dei valori prende atto delle scuse formali di Bossi e, proprio per non alimentare ulteriori polemiche, le accetta nella speranza che questa storia “possa servirgli da lezione”, come ha detto Antonio Di Pietro.
La verità è che sono tutti terrorizzati dal rischio elezioni per cui la mozione di sfiducia contro un ministro avrebbe potuto scatenare, nel caso di accoglimento, una reazione a catena giungendo anche alle dimissioni del Governo.
      Tutti sanno di non poter vincere e che la coalizione che dovesse prevalere alle elezioni non sarebbe in condizioni di governare cinque anni. Una vittoria alla Prodi, una vittoria di Pirro, una sconfitta per l’Italia che meriterebbe di essere governata da una maggioranza stabile con le idee chiare e il senso dello Stato.
     È questa l’impasse che il Paese si trova a vivere con un governo inadeguato, incapace di portare avanti una politica che affronti i grandi e gravi problemi di questo momento, nonostante la poderosa maggioranza.
     Le difficoltà del Cavaliere che non riesce a superare il conflitto di interessi ben scandito dalle indagini giudiziarie, le schiere raccogliticce dei suoi parlamentari, la sua inadeguatezza a capire i problemi dell’Amministrazione e il suo ruolo nello sviluppo ne fanno un generale che non può vincere. Circondato da aure mediocrità, Silvio Berlusconi non riesce a governare, nonostante distribuisca  ottimismo ad ogni dichiarazione, spesso smentito dai suoi, come nel caso della Salerno-Reggio Calabria della quale ha annunciato la conclusione dei lavori due anni prima della data indicata subito dopo dal Ministro Matteoli.
     Povera Italia e poveri italiani, meriterebbero di meglio, di questa maggioranza incapace e dell’opposizione più inadeguata della sua storia.
3 ottobre 2010

Il primo Congresso Nazionale
Persona, sessualità, procreazione
(Roma, 21 e 22 ottobre 2010, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Piazzale Aldo Moro, 7)

    Iniziativa di estremo interesse, con prevedibili riprese nell’ambito scientifico e politico, il Congresso su “Persona, sessualità, procreazione” vuole mettere punti fermi sul piano scientifico, medico e giuridico, su una serie di problemi di notevole impatto sull’opinione pubblica, sulla legislazione e sulla giurisprudenza.
     L’identità personale, che alcuni vorrebbero non fosse più riferita al sesso, maschile o femminile, ma a personali “tendenze”, se non ad opinioni, favoleggiando di un genere che, anche qui, vocabolario alla mano sapevamo dai tempi della scuola essere maschile o femminile (il neutro i latini lo riservavano alle cose inanimate), dovrebbe moltiplicarsi per individuare omosessuali, transessuali e quant’altro, con effetti devastanti anche sulle garanzie in tema di occupazione e lavoro.
     Di tutto questo parleranno scienziati, medici e giuristi, provenienti dalle migliori scuole.
     Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, On. Prof. Giorgio Napolitano e con con il patrocinio delle Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (Prof Luigi Frati), “Tor Vergata” (Prof. Renato Lauro); “3” (Prof. Guido Fagiani), “4” (Prof. Paolo Parisi), “La Cattolica” (Prof. Lorenzo Ornaghi), “Campus Biomedico” (Prof. Vincenzo Lorenzelli), LUISS (Giurisprudenza) (Prof. Roberto Pessi), LUMSA (Prof. Giuseppe dalla Torre), “Europea” (Prof. Paolo Scarafoni), i lavori si svolgeranno secondo il seguente programma:
21 OTTOBRE 2010
8,30 Saluto: Prof. Luciano Maiani, Presidente CNR
Introduzione ai lavori:
Prof. Roberto de Mattei, Vicepresidente CNR
Intervento
Prof. Andrea Lenzi, Presidente CUN
8,45 Moderatori:
Prof. Cesare Mirabelli e Prof. Gaetano Frajese
Lettura magistrale “Pensare la sessualità”
Prof. Francesco d’Agostino (Roma)
9,30 Malattie Trasmissibili Sessualmente, Prof. Federico Perno (Roma)
Prima Sessione
Moderatori:
Prof. Antonio Manzoli e Prof. Eugenio Gaudio
10.00 Genetica, Prof. Giovanni Neri (Roma); Embriologia, Prof. Irene Lobeck (Mi);
Anatomo-Fisiologia del Sistema Sessuale e Riproduttivo (m. e f.), Prof Gianni Mazzotti (Bo)
11.00 Pausa Caffè
Seconda Sessione
Moderatori:
Prof. Massimino d’Armiento e prof. Alfredo Pontecorvi
11.30 Classificazione e Patogenesi dei Disordini
dello Sviluppo Sessuale, Prof. Gaetano Lombardi (Na); L’Iperplasia Surrenalica Congenita, Prof. Marco Cappa (Roma)
12.10 La Sindrome di Morris, Prof. Vincenzo Toscano (Roma);  Disordini della Differenziazione Sessuale, Prof. Laura Palazzani (Roma)
Discussione
13.30 Pranzo
Terza Sessione
Moderatori:
Prof. Enio Martino e prof. Alberto Loizzo
16.00 Sessualità e Cervello; Prof. Vanni Frajese (Roma); La Teoria del Gender (Ruolo e Identità di Genere), Prof. Francesca Brezzi (Roma); Il Riassegnamento del Sesso: aspetti legali, Prof. Paolo Arbarello (Roma);  La trasformazione Medico-Chirurgica, Prof. Chiara Manieri (To)
17. 30 Discussione
22 OTTOBRE 2010
Quarta Sessione
Moderatori:
Prof. Maria Luisa Di Pietro e prof. Andrea Bixio
8.30 Maschile e femminile tra natura e cultura, Prof. Paola Ricci Sindoni (Me); Dinamiche per una nuova antropologia: la centralità della persona umana nella cultura dei diritti umani per una società e una economia di “comunione”, Prof. Paolo Sorbi (Bo); Educazione e Sessualità.Vita, Valori e Affettività nella scuola primaria; Prof. Anna M. Favorini (Roma)
9.30 Discussione
10.00 Pausa Caffè
COMITATO SCIENTIFICO
Cesare Mirabelli, Presidente, Giuseppe Benagiano, Roberto de Mattei, Maria Luisa Di Pietro, Gaetano Frajese, Andrea Lenzi, Gaetano Lombardi, Salvatore Mancuso, Luigi Paganetto, Roberto Pessi, Walter Ricciardi
Segreteria Scientifica e Organizzativa
Dina Nerozzi, 00187 Roma, Via di Porta Pinciana, 4, Tel./Fax 06.4818775
e-mail: sessualitaprocreazione@gmail.com

Articolo precedente
Articolo successivo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

Gianluigi Biagioni Gazzoli on Turiamoci il naso e andiamo a votare
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B