2011: Auguri Italia!
di Salvatore sfrecola
Una barzelletta colta in un supermercato, tra la gente in fila alla cassa: “C’è un aereo in avaria con a bordo Berlusconi, Fini, Bossi, Casini e Bersani. L’atterraggio di fortuna non riesce e l’aereo precipita schiantandosi al suolo. Il barzellettiere chiede agli ascoltatori: “chi si salva?” Ognuno dà la sua risposta. Chi Berlusconi, chi Fini, Bossi, Casini o Bersani, con varie motivazioni. Sbagliano tutti. La risposta è “non ci sono sopravvissuti, si salva l’Italia”.
È la disaffezione dalla politica. Ci sono tutti, il Presidente del Consiglio e il suo alleato “fedele” del Cavaliere, il “padano” Bossi, l’antagonista nel centrodestra, il leader del terzo polo, il capo dell’opposizione. Non si salva nessuno. Non il Governo che, con una maggioranza che non ha eguali nella storia d’Italia, va sotto quasi ogni giorno nelle votazioni su provvedimenti importanti per una maggioranza che, alla prova degli impegni parlamentari, si dimostra raccogliticcia, con scarsa preparazione politica e responsabilità istituzionale, priva di una guida forte. Non Futuro e Libertà che ha fallito nel tentativo di abbattere il Cavaliere con un voto sulla mozione di sfiducia, dimostrando scarsa coesione e fragilità morale in quanti hanno ceduto alle promesse e alle lusinghe. Non il terzo polo che, nonostante l’indubbia abilità di Casini, appare al momento un evanescente assemblaggio di gente con alle spalle storie molto diverse, spesso confliggenti con quelle degli alleati (si pensi solo al pannelliano Rutelli, un opportunista neo baciapile). A Bersani, poi, non basta la simpatica calata emiliana per esprimere il carisma del capo dell’opposizione, per definizione uno che studia da Presidente del Consiglio, che propone, più che criticare, che presenta all’elettorato il volto deciso di uno schieramento, con la sua ideologia, con la sua visione complessiva della società.
Disaffezione dalla politica, dunque, in una simpatica barzelletta che tutti potrebbe far sorridere. Disaffezione, un virus pericoloso dalle conseguenze imprevedibili. Ernesto Galli della Loggia parla di qualunquismo, anzi di un “disperato qualunquismo”, come titolava ieri il fondo del Corriere della Sera. Che esordisce con un lapidario “non vanno bene le cose per l’Italia”. Aggiungendo: “prima che ce lo dicano le statistiche – comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 – ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza. Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d’istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall’Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose. Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile. C’è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l’evasione fiscale fra le più alte d’Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell’area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d’Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c’impedisce d’intraprendere qualunque politica di sviluppo. Ancora: nessuno dall’estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta”.
Una lunga citazione, un’analisi impietosa che evidenzia mali antichi e recenti. Non è importante individuare le cause e le responsabilità, tutte equamente distribuite tra chi ha governato e chi non ha fatto opposizione. Il fatto è che non si riesce ad individuare chi potrebbe mettere mano a queste situazioni. Per mancanza di idee. Far funzionare l’istruzione è di destra o di sinistra? E l’efficienza dell’amministrazione centrale e locale, o la giustizia, i servizi di trasporto nelle città e nell’hinterland, la rete degli acquedotti, il paesaggio che frana alle prime piogge, musei e aree archeologiche, cioè il nostro petrolio, in condizioni penose, mentre nel pubblico dilaga una corruzione stimata dalla Corte dei conti in 60 miliardi di euro, con tasse ed evasione fiscale ai massimi livelli in Europa. E una grande sofferenza sociale.
“Lo sappiamo che le cose stanno così – scrive Galli della Loggia – Ce ne accorgiamo ogni giorno che l’Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sé e del suo futuro. Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò. Chi dovrebbe parlare resta in silenzio ? soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico “ghe pensi mi” da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall’altro. Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico”.
E pensare che su questo territorio un tempo la res publica romana aveva costruito un sistema amministrativo la cui efficienza non è stata mai più eguagliata. Un’amministrazione che ha prodotto un sistema viario ancora oggi funzionale. E poi interventi su fiumi, per evitare le esondazioni, la bonifica delle paludi, acquedotti, terme, fognature, teatri, grandi opere di ingegneria civile e militare che sono un esempio di tecniche costruttive ardite. Con capacità di realizzazione in tempi brevi. Una res publica basata su un sistema fiscale che ha assicurato risorse in abbondanza allo stato. In particolare la tassa sulle vendite che, come ha scritto Tacito, ha mantenuto l’impero. Eppure anche allora c’era corruzione e nella lotta politica non si risparmiavano colpi bassi. Ma restano in Italia e nel mondo esempi grandiosi di opere che attestano di una civiltà che, per quanto riguarda il nostro territorio, facciamo di tutto per distruggere, come ci dicono le cronache di questi ultimi mesi, da Pompei a Noto.
Siamo gli eredi di quella grande amministrazione, di quel popolo che ha retto il mondo “con l’imperio e con l’armi. . . giusti in pace, invitti in guerra”, per dirla con Virgilio? O non abbiamo più una goccia del suo sangue. Perché, penso spesso, se i nostri progenitori avessero lavorato al ritmo dei nostri contemporanei il Colosseo sarebbe ancora a primo ordine. Infatti, come ha scritto Galli della Loggia, la Salerno Reggio Calabria finirà chissà quando e gli acquedotti perdono gran parte dell’acqua che trasportano.
Riusciremo nel 2011 a risalire la china. Purtroppo non ci sono certezze. C’è solo la speranza e l’augurio che facciamo, da italiani che amano la propria Patria, che nell’anno del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia qualcosa cambi. Meno chiacchiere e più fatti, per restituire fiducia alla gente, quella fiducia che ammette sacrifici in momenti di difficoltà economica purché se ne intraveda l’utilità.
31 dicembre 2010
La trasmissione di Minoli tra storia e politica
Dixit reticente sul dopo Caporetto
di Salvatore Sfrecola
Dixit, trasmissione su RAI Storia condotta da Minoli stasera ha trattato, tra l’altro, della rotta di Caporetto, un momento drammatico della prima Guerra Mondiale, un esercito allo sbando, senza ordini nell’area del fronte che cede sotto la pressione delle truppe tedesche, tra le quali si segnala un giovane ufficiale dal brillante futuro, Erwin Rommel, con il Comandante supremo italiano, il Generale Cadorna, che, a Padova, percepisce solo dopo tre giorni quel che era accaduto.
È un gravissimo momento per l’Italia in guerra, militare e politico. Si dimette il Presidente del Consiglio, Boselli. Lo segue Cadorna, dopo aver gettato la croce sulle truppe accusate di codardia. Un gesto non degno di un Comandante.
Fu sostituito dal Generale Armando Diaz. Ricordo l’osservazione di un amico, cultore di storia: per riprendere le ostilità si dovette abbandonare un generale piemontese, un po’ troppo burocrate, per affidare le sorti della guerra alla fantasia di un napoletano.
Un momento drammatico che Minoli ricostruisce in modo insufficiente rispetto all’importanza della reazione italiana, perché in quelle giornate prende corpo, non senza difficoltà e contrasti, la decisione di resistere e impostare la controffensiva.
È qui l’insufficienza della ricostruzione di Minoli che non dà conto di un momento essenziale del piano di ripresa dell’iniziativa sul fronte. Una scelta dovuta al Re Vittorio Emanuele III che, con l’autorità del suo ruolo, con la conoscenza del fronte sul quale aveva trascorso mesi accanto ai soldati, impone alle potenze alleate di far fronte sulla linea del Piave facendosi garante della capacità dell’Esercito Italiano di assicurare la tenuta di una linea che francesi ed inglesi volevano fosse fissata al Po. È facile comprendere quali sarebbero state le conseguenze del dilagare delle truppe austro tedesche nella pianura padana. Il Re si fa garante della resistenza sul Piave nel Convegno di Peschiera con gli stati maggiori congiunti.
Era una mattina di pioggia sottile e gelida l’8 novembre 1917, e la nebbia evaporava dal Mincio coprendo le strade. Davanti al Palazzo del Comandante inizia a formarsi una folla di gente, che attende l’arrivo del Re e delle autorità di Francia e Inghilterra. La situazione politica è molto tesa e delicata, basta un passo falso per perdere la partita. Il Re lo sa. Con lui entrano nel Palazzo del Comandante i rappresentanti politici del Governo italiano, Giorgio Sidney Sonnino, Ministro degli esteri e Vittorio Emanuele Orlando Presidente del Consiglio, il Primo ministro inglese David Lloyd Gorge e il suo braccio destro Smuts, accompagnati dai loro generali William Robertson e Woodrow Wilson. Per la Francia è presnete il Primo ministro Paul Pailevé e Franklin Bouillon accompagnati dai generali Ferdinand Foch e Camille Barrére.
Vittorio Emanuele III voleva fortemente questo incontro, dopo il convegno di Rapallo, dove Armando Diaz non era riuscito a convincere gli alleati, il Re dirige l’incontro in modo molto deciso. E la spunta. Convince replica a tutti, punto su punto, spiega, assicura, ottiene la fiducia dei suoi interlocutori. Sarà al Piave che l’Esercito terrà le posizioni per prepararsi, nella primavera del 1918, alla controffensiva che porterà al trionfo di Vittorio Veneto.
Evidentemente non se ne doveva parlare perché la storia ancora si piega alla politica e Vittorio Emanuele III, il Re che, per eccesso di un formalistico rispetto della decisione del Parlamento, non può essere ricordato per i momenti luminosi del suo Regno, la mancata repressione degli anarchici dopo l’assassinio del Padre Umberto I nel 1900, l’appoggio incondizionato alla politica sociale di Antonio Giolitti, il suffragio universale, l’istituzione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, lo sviluppo dell’industria.
Non se ne deve parlare di Vittorio Emanuele che continua a fare da parafulmine per antifascisti ed fascisti, i primi che lo accusano di aver aperto la strada a Mussolini quando da Sturzo a Giolitti a Turati si rifiutarono di contribuire a formare un governo senza i fascisti e, dato l’incarico al futuro Duce, si allinearono alla nuova situazione, alcuni addirittura entrando nel governo. I fascisti, poi, rimproverano al Re il congedo al Cavaliere Benito Mussolini, nel 1943 dopo il voto del Gran Consiglio del Fascismo, l’organo costituzionale che il Duce aveva creato per condizionare la Corona financo nella successione al trono. Il contrappasso è chiaro.
La storia, tuttavia, caro Minoli va raccontata nella sua realtà obiettiva, liberi poi tutti, da destra e da sinistra di commentarla ed interpretarla. L’omissione non, non è storia, è politica di basso livello.
27 dicembre 2010
Natale è anche il giorno dello spreco
Dalle tavole degli italiani alla spazzatura
per un miliardo di euro
di Salvatore Sfrecola
Secondo la Coldiretti, a Natale, tra cenone della Vigilia e pranzo del 25, oltre un terzo delle portate che hanno arricchito le tavole degli italiani è andato sprecato per un valore di circa un miliardo di euro in gran parte destinato al bidone della spazzatura.
La stima è riferita soprattutto ai prodotti già cucinati ed a quelli più deperibili come frutta, verdura, pane, pasta, latticini e affettati.
La Coldiretti suggerisce il “riuso” di alcuni prodotti, frittate, pizze farcite, caponata e macedonia, secondo le preziose ricette della nonna.
In un momento di difficoltà economica, quando le città presentano situazioni di grave sofferenza in fasce emarginate di cittadini e di stranieri, l’invito alla sobrietà non è solo – come sottolinea la Coldiretti – un modo per utilizzare la fantasia e il tempo libero per recuperare con gusto i cibi rimasti sulle tavole. L’invito deve costituire motivo di riflessione perché lo spreco è comunque una cosa inutile e diseducativa, dimostra una mancanza di solidarietà nei confronti di chi ha bisogno che non è degna di un Paese civile, non dico cristiano. Fa perdere il senso dei valori ai quali, invece, sarebbe bene educare i giovani.
Naturalmente la sobrietà non va esercitata soltanto a tavola, magari ricordando un po’ ipocriticamente che aiuta a mantenere il peso forma e la salute. Il rifiuto dello spreco è espressione di civiltà tanto più significativa quanto maggiore è il bisogno che vediamo intorno a noi.
Gli italiani che comprano fiori e mele per sovvenire la ricerca in campo sanitario, che inviano per lo stesso motivo un sms da uno o due euro, che volentieri donano un pacco di pasta o di zucchero al Banco alimentare all’uscita dai supermercati, facciano qualcosa in più. Non portino in tavola quantità di cibo che sanno di non mangiare ed offrano un piatto a chi non può permetterselo. Una solidarietà tanto più efficace in quanto mirata, consapevole che chi chiede non è uno che vuol vivere di elemosina, ma che non può lavorare o che non riesce, pur con impegno, a far fronte alle esigenze della sua famiglia. In fondo, se riempiamo meno la pancia possiamo riempire di più il cuore di gioia.
27 dicembre 2010
Le parole del Papa all’Angelus nel giorno della “Santa Famiglia”
Il bisogno di Famiglia
di Paola Maria Zerman
Un bimbo ha bisogno, dell'”amore di un padre e di una madre” e del “calore di una famiglia”, non tanto di “comodità esteriori”. All’Angelus di oggi Papa Benedetto XVI è tornato sulla famiglia, sulla “sicurezza” che assicura ai giovani e che “nella crescita, permette la scoperta del senso della vita”.
“La nascita di ogni bambino”, ha detto il Papa, ricordando la nascita di Gesù, “porta con sé qualcosa di questo mistero. Lo sanno bene i genitori che lo ricevono come un dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è capitato di sentir dire a un papà e a una mamma: “Questo bambino è un dono, un miracolo”. Perché, ha sottolineato il Santo Padre, “vivono la procreazione non come mero atto riproduttivo, ma ne percepiscono la ricchezza, intuiscono che ogni creatura umana che si affaccia sulla terra è il “segno” per eccellenza del Creatore e Padre che è nei cieli. Quant’è importante allora», ha aggiunto, “che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia. Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l’amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell’amore del padre e della madre. È questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita. La santa Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come quella – ricordata nel Vangelo secondo Matteo – della ‘strage degli innocenti’, che costrinse Giuseppe e Maria a emigrare in Egitto. Ma, confidando nella divina Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e assicurarono a Gesù un’infanzia serena e una solida educazione”.
Il Papa ha anche voluto ricordare anche “tutti coloro – in particolare le famiglie – che sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa della guerra, della violenza e dell`intolleranza”. Ed ha invitato i fedeli ad unirsi a Lui “nella preghiera per chiedere con forza al Signore che tocchi il cuore degli uomini e porti speranza, riconciliazione e pace”. In particolare ricordando l’attentato in una chiesa cattolica nelle Filippine, mentre si celebravano i riti del giorno di Natale, e gli attacchi a chiese cristiane in Nigeria e ovunque “la terra si è macchiata ancora di sangue in altre parti del mondo, come in Pakistan”.
Le parole di Benedetto XVI sulla famiglia, che alle migliaia di fedeli presenti in Piazza San Pietro hanno ricordato la Sacra Famiglia di Nazareth, hanno un valore che va al di là dell’evidente profilo religioso. Nel ricordare che i bambini hanno bisogno dell'”amore di un padre e di una madre” e del “calore di una famiglia”, non tanto di “comodità esteriori” Papa Ratzinger ha sottolineato una caratteristica della Famiglia come delineata dalla Costituzione della Repubblica Italiana, una “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29) nell’ambito della quale i genitori hanno il dovere di “mantenere, istruire ed educare i figli” (art. 30). La Costituzione aggiunge (art. 31) che “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.
Un sistema normativo, al più elevato grado nella gerarchia delle fonti del diritto, la Carta fondamentale dello Stato, per dire di un valore sociale altissimo, quello della procreazione dei figli e della loro istruzione ed educazione per farne cittadini consapevoli dei loro diritti e doveri, impegnati nello sviluppo economico e sociale del Paese.
Ma il Papa ha anche ricordato che quella società “naturale” che lo Stato “riconosce”, come si esprime la Costituzione sottolineandone la preesistenza alle stesse istituzioni politiche, è luogo di affetti che si esprimono attraverso due figure diverse e complementari, entrambe essenziali, un padre ed una madre, che la natura ha posto accanto ad ogni bimbo e che non possono essere sostituite da altre forme di unioni che non vedano la presenza di un uomo e di una donna.
26 dicembre 2010
Don Mazzi, la Chiesa ed i preti
di Salvatore Sfrecola
So di andare contro corrente, ma don Antonio Mazzi a me è stato sempre antipatico, fortemente antipatico. Anche se non è assolutamente politically correct, insisto nell’esprimere la mia personale e istintiva avversione, se non altro per il personaggio televisivo. E me ne ha dato conferma questa mattina quando, ospite di UnoMattina, ha detto di aver impartito la Prima Comunione ad un ragazzo che glielo aveva chiesto. “Così ho fregato la Chiesa ed i preti”, ha precisato, evidentemente riferendosi alla regola della Chiesa che richiede una preparazione al sacramento perché i giovani che vi si accostano ne percepiscano il significato religioso.
Non intendo soffermarmi sulla violazione della regola da parte di chi, fino a prova contraria, è un religioso. Avrebbe potuto sottolineare di aver voluto soddisfare immediatamente un desiderio spirituale del giovane. Ma Don Mazzi deve essere sempre controcorrente ed ha voluto dire dinanzi alle telecamere che lo ha fatto “fregando” la Chiesa e preti, cioè la società religiosa alla quale appartiene ed i suoi confratelli. Una esibizione gratuita di ribellione alle regole, nella specie ad una regola con la quale la Chiesa affida solidità alla scelta dei giovani al sacramento.
Il prete controcorrente, con questa esibizione fa del male alla Chiesa, alla religione, alla gente che lo ha ascoltato, tra quanti credono che i sacramenti, per chi si sente di appartenere alla Comunità dei credenti, siano un valore spirituale.
Ma tant’è, il mondo è bello perché è vario, per cui nella zoologia del pianeta ci sta bene anche un prete che esibisce dai teleschermi le sue critico alla Chiesa ed ai preti, maglione e risata sonora, convinto di poter avvicinare alle sue iniziative e forse alla fede qualcuno che potrebbe diffidare di un abito talare o del richiamo alle regole della religione. Un po’ prete operaio, un po’ sociologo, Antonio Mazzi, impegnato in attività per il recupero di tossicodipendenti attraverso la Comunità Exodus, della cui validità non sono in condizione di esprimere valutazioni, fa certamente del bene. Un po’ teologo, un po’ filosofo psicologo psicopedagogo.
Ma continua ad essermi potentemente antipatico. E come diceva Panfilo Gentile in Opinioni sgradevoli “non toglietemi le mie antipatie”. Sono una reazione Istintiva a quel che non ci piace, soprattutto quando un’esibizione ci disturba per la sua gratuita volgarità. In particolare nel giorno di Natale, quando il clima induce alla semplicità.
25 dicembre 2010
L’importanza dell’ascolto
di Senator
Stavolta è andata bene. Gli studenti hanno modulato le manifestazioni di protesta per il disegno di legge Gelmini, di riforma dell’università, senza farsi strumentalizzare dai partiti dell’opposizione e dai professionisti della violenza.
Decisiva anche l’iniziativa del Presidente della Repubblica di ricevere una delegazione per ascoltare le ragioni dei manifestanti.
Quella dell’ascolto è espressione istituzionale di grandissimo rilievo civile e democratico, propria dei regimi di libertà e costantemente attuata, ovunque, dai vertici degli stati perché nella contrapposizione degli schieramenti, specie quando essa assume i toni dello scontro sulla piazza, l’iniziativa del Capo dello Stato dà conto di un’attenzione che, provenendo da una istituzione super partes, rimette in gioco idee e proposte.
Secondo l’ANSA, sulla base delle testimonianze dei manifestanti, il Presidente avrebbe detto alla delegazione degli studenti: ”Inviatemi le vostre proposte alternative, le valuterò”’. Per Luca, famoso per lo scontro televisivo con Ignazio La Russa, Napolitano “ha fatto una cosa importante. E’ stato il nostro unico interlocutore”.
Potenza dell’istituzione che rappresenta l’unità della Repubblica ed una posizione politica neutra, nonostante la personalità che l’incarna sia stata parte essenziale del dibattito politico nei decenni passati come esponente del Partito Comunista Italiano. Poi Presidente della Camera e Ministro dell’interno, sempre con grande sensibilità istituzionale.
E questo solo dovrebbe far riflettere coloro che vorrebbero trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o semipresidenziale, con evidente difficoltà di individuare una posizione di equilibrio e moderazione che, ad esempio, da una gestione Berlusconi sarebbe impossibile attendersi.
Del resto un tempo i capi di stato, i monarchi, erano abituati all’ascolto a sentire il popolo per confermare, da un lato la provenienza divina del potere esercitato, e, dall’altro, per compensare, con la popolarità derivante dall’attenzione della gente, le pressioni della nobiltà e del clero che detenevano una parte importante del potere, politico ed economico.
Nei giorni scorsi, in Spagna per motivi di lavoro, nel visitare il real alcazàres di Siviglia la guida ha illustrato la parte che vi ha avuto Pietro il Sanguinario, spiegando che così lo chiamavano la nobiltà e il clero, dei quali aveva, con durezza, limitato i poteri, mentre per il popolo quel sovrano meritava l’appellativo di “Generoso” per l’attenzione di riservava alle istanze popolarti.
È il ruolo dei poteri neutri, quelli che riconducono ad equilibrio il confronto politico, in tutti i tempi della storia.
23 dicembre 2010
In margine alla guerriglia urbana del 14 dicembre. Ordine pubblico e democrazia oggi alla prova
di Salvatore Sfrecola
Qualcuno, nei paludati palazzi del potere, tra quanti ritengono che la funzione pubblica debba essere esercitata tra i compromessi più che con la prudenza, che certamente è una virtù, anche cristiana, ha avuto da rifire sull’articolo di Senator che, pur con il garbo che gli è consueto, ha criticato la gestione dell’ordine pubblico del Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, in occasione degli eventi del 14 dicembre, quando la Città è stata messa a ferro e a fuoco da una composita manifestazione di studenti, collettivi dei centri sociali, infiltrati dei partiti che ne immaginavano di trarre un vantaggio politico nella contestazione al Governo in carica. Il tutto, mettendo sul piatto delle trattative sul dopo Berlusconi un po’ di teste rotte, contusi e forse qualche ferito più grave.
Come al solito le Forze dell’Ordine, Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza sono stati all’altezza del loro compito di servitori dello Stato, pronti a farsi insultare cercando di parare bottiglie incendiarie, sedie e sampietrini, mentre i più facinorosi sfondavano vetrine ed incendiavano automobili e cassonetti. Quel che è mancato è stato il quadro di comando, più esattamente la prevenzione, quella nella quale le polizie di tutto il mondo si esercitano per tempo per evitare che l’ala violenta dei manifestanti possa non solo impedire il libero esercizio dei diritti dei cittadini, compresi i commercianti ed i turisti, ma mettere in atto devastazioni che costituiscono la negazione della democrazia. Perché se il diritto alla manifestazione dei pensiero fino alla protesta più energica va tutelato, ugualmente le autorità devono assicurare il pieno esercizio delle funzioni istituzionali ed i diritti dei singoli e delle comunità, come la salvaguardia beni di chiunque perché le ragioni dei manifestanti possono essere fatte valere attraverso disagi alla comunità, se questa è la forma della pressione, che non trascendano nella violenza.
Per assicurare contemporaneamente i diritti dei cittadini e garantire espressioni civili di protesta, i responsabili dell’ordine pubblico si avvalgono di uomini e mezzi che consentono loro, nel rispetto dell’esercizio del diritto di riunione di studenti e gruppi politici, di tenere sotto controllo le iniziative che preludano ad attività violente o che possano prevedibilmente diventarlo in relazione al presumibile sviluppo della manifestazione. Si tratta di tecniche consolidate, rese possibili anche dalla disponibilità di informazioni e da precedenti iniziative adottate dalla stessa base organizzativa.
Si è parlato di agenti infiltrati nel corso della manifestazione. È stato smentito e non abbiamo dubbi che sia la verità, ma è certo che qualche ascolto appropriato avrebbe potuto mettere su chi vive le Forze dell’Ordine per evitare che la manifestazione al centro di Roma assumesse la connotazione della guerriglia violenta a danno delle Istituzioni, delle persone e delle cose. Era stata investita della prevedibile violenza della manifestazione l’Autorità Giudiziaria che avrebbe potuto autorizzare attività di controllo dei violenti?
Non si sa niente di tutto questo ma i risultati fallimentari dell’attività di prevenzione dimostrano che sono stati fatti errori, che il pericolo è stato sottovalutato. È sufficiente, a questo proposito il candido ottimismo manifestato dal Prefetto il giorno dopo.
Giuseppe Pecoraro è un garbato signore con esperienza ministeriale e buone relazioni trasversali, come si deve ad un funzionario di polizia, almeno da Fouchet in poi. Per cui un tempo passava per essere “vicino” alla sinistra, ed oggi gli si attribuiscono simpatie per l’area ex AN, tra Fini ed Alemanno. Ma non è stato all’altezza del suo ruolo ed è necessario che con lui si torni alla immediata valutazione dei risultati perché gli errori non si ripetano ed i funzionari pubblici sappiano che chi sbaglia paga. Perché prevalga la legge, che significa rispetto della res pubblica e dei diritti di tutti.
Per questo ho autorizzato la pubblicazione del pezzo di Senator, una firma che da lustro al giornale al quale il saggio politico, una lunga esperienza parlamentare e di governo, dà costantemente un apporto di riflessioni largamente apprezzate che, quando affrontano temi della pubblica amministrazione, partono dal presupposto che l’apparato ed i suoi funzionari sono la forza dei governi, con la conseguenza che chiudere un occhio su insufficienze danneggia l’immagine dell’esecutivo agli occhi della gente e mortifica i migliori, quelli che non avrebbero sottovalutato i rischi di una manifestazione che era stata preceduta da prove generali solo pochi giorni prima.
Vediamo oggi se l’esperienza è servita.
22 dicembre 2010
Il Prefetto “di latta”
di Senator
Ai tempi del Regno d’Italia, del quale ci apprestiamo a celebrare i 150 anni, già prima del “Prefetto di Ferro”, quel Cesare Mori che Mussolini scelse per reprimere la Mafia, avendone sperimentato la capacità operativa quando a Bologna i fascisti avevano tentato invano di tenere sotto controllo la città e di occupare la Prefettura, i Prefetti non facevano conferenze stampa o pubbliche dichiarazioni, soprattutto quando ritenevano di doversi giustificare per insufficienze nella gestione del servizio di competenza. In questi casi venivano rimossi nel giro di poche ore. A volte addirittura collocati d’ufficio in pensione.
Accade, invece, che di fronte agli eventi del 14 dicembre, quando la Capitale è stata messa a ferro e a fuoco sulla base di una regia ben pianificata e condotta, il Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, abbia detto candidamente – cito dal Corriere della Sera di oggi – che, alla vigilia della manifestazione, era “ottimista”. Cioè non aveva monitorato i preparativi e/o non ne aveva percepito le dimensioni. Prova evidente di incompetenza inescusabile in quanto l’evento politico parlamentare, esasperato fin dai giorni precedenti, con la protesta particolarmente aggressiva degli studenti medi ed universitari contro la “riforma Gelmini”, aveva fatto intendere che non si sarebbero fermati lì.
Era logico, dunque, che quella manifestazione avrebbe dovuto assumere agli occhi del responsabile dell’ordine pubblico il senso di una prova generale di quel che sarebbe accaduto di lì a pochi giorni, il 14 dicembre, in occasione di un delicato passaggio parlamentare ricco di tensioni per la contestazione globale della politica governativa formulata, pur con qualche marginale distinguo, dal centro e dalla sinistra, in un clima esasperato dalla posizione assunta da Futuro e Libertà, una costola venuta meno al PdL nonostante essa facesse capo al “confondatore” del Partito, quel Gianfranco Fini, “sdoganato” da Berlusconi, dal 1994 alleato ma subordinato del premier spesso a disagio per una evidente incompatibilità culturale e politica.
Di fronte a tutto questo Pecoraro è “ottimista”, non prevede nulla di preoccupante. Evidentemente alle Forze di Polizia, che hanno il compito di monitorare le situazioni a rischio per l’ordine pubblico, non sono state date disposizioni idonee a cogliere i segnali che certamente sarebbe stato possibile isolare per identificare la strategia in corso di elaborazione. Infatti, se il Prefetto afferma di essere sicuro che martedì “c’è stata l’intenzione di sovvertire le regole democratiche con la violenza”, è evidente che tattica e strategia dell’intera operazione, dai collegamenti con ambienti politici alla definizione in tempo reale delle iniziative da assumere sul territorio, erano state attentamente definite e previste anche con riferimento agli scenari possibili e mutevoli per le variabili che si sarebbero verificate nel corso della manifestazione. L’unico a non prevederle è stato chi, per mestiere, avrebbe dovuto averne contezza per assicurare l’ordine pubblico che, oggi afferma, non mancherà di mantenere, pronto “a difendere il Parlamento, un luogo sacro”.
La cosa grave, inoltre, sta nel fatto che il Prefetto preannunci più severe misure per la prossima occasione, il che fa temere innalzamento del livello della protesta se, per rimediare agli errori del 14, Pecoraro vorrà predisporre un dispositivo con misure di repressione che potrebbero creare disagio forte al Governo.
Chissà perché Giuseppe Pecoraro non ha voluto applicare l’aurea regola secondo la quale prevenire è meglio che reprimere! Gli è stato consigliato di trascurare quelle cautele perché a qualcuno faceva comodo l’incidente, msagari un morto? O, più semplicemente, non è stato all’altezza del ruolo? Propendo per la seconda.
Dal Regno alla Repubblica, da un Prefetto “di ferro” ad un Prefetto “di latta”!
16 dicembre 2010
Perché e quando ho preso le distanze dal leader di FlI
Fini ed io, io e Fini
di Salvatore Sfrecola
“Perché Fini ce l’ha con te?”, “perché tu ce l’hai con Fini?”
Non passa giorno, spesso più volte al giorno, che qualcuno mi ponga l’una o l’altra domanda. Una litania insopportabile, in particolare dopo l’episodio di cui dirò tra poco, al punto che ho deciso di prendere carta e penna per spiegare che io non ce l’ho con Fini, perché non ne avrei motivo. Neppure per aver dovuto io prendere le distanze dall’ex leader di Alleanza Nazionale sul piano dei valori, nel pieno rispetto di una diversità che non significa certamente “avercela” con chi la pensa diversamente. Mentre escludo che lui ce l’abbia con me, considerato il livello della collaborazione, da tutti riconosciuto molto elevato, che ho prestato al Vicepresidente del Consiglio, come suo Capo di Gabinetto. E con me i miei validissimi collaboratori a Palazzo Chigi.
Altri assegnano al mio libro “Un’occasione mancata” il motivo di un presunto risentimento di Fini nei miei confronti. Un argomento che si smentisce da solo per motivi, se non altro, temporali. Il libro è stato presentato il 6 dicembre 2006, quando la collaborazione era finita a maggio e il motivo del contrasto vero risaliva a molti mesi prima. Poi dubito che Fini lo abbia letto, perché, altrimenti, da persona intelligente, anche se, mi dicono, poco avvezza ad esprimere gratitudine, non avrebbe potuto che ringraziarmi per i lusinghieri giudizi espressi nei suoi confronti, pur con qualche presa di distanza, in un panorama librario che, al momento, era pesantemente critico nei suoi confronti. Piuttosto sono certo che Fini abbia avuto del libro una lettura distorta da chi aveva interesse a farsi spazio nel suo entourage.
Ma veniamo all’episodio che ha superato il livello di guardia in questa ossessione del “ce l’hai con lui”, “lui ce l’ha con te”. È accaduto qualche giorno fa, quando mi è stato fatto notare che non sarebbe “opportuno” che io continui ad occuparmi, nella qualità di magistrato della Corte dei conti addetto alla Procura regionale del Lazio, di un’indagine di un caso di presunto assenteismo di dipendenti della Camera dei deputati, per il profilo dell’eventuale danno erariale, oggetto di accertamenti anche da parte della Procura della Repubblica di Roma, per il profilo penale, nell’ipotesi che la condotta presunta illecita integri gli estremi della truffa aggravata a danno dello Stato. Parliamo, ovviamente di un’istruttoria autonomamente aperta dal Capo dell’Ufficio ed assegnata a me in conseguenza di una predeterminata ripartizione delle istruttorie.
È stato facile comprendere che il suggerimento proveniva da persona “vicina” al Presidente della Camera, della quale ho anche sentito fare il nome in un corridoio del Palazzo di viale Mazzini, attraverso una porta rimasta aperta (il diavolo fa le pentole e non i coperchi!).
Naturalmente Fini è, con ogni evidenza, estraneo a questa iniziativa. È persona intelligente e comunque non ha alcun interesse a che l’inchiesta della Procura contabile sia condotta da questo o da quel magistrato, anche perché è stato proprio lui a denunciare l’illecito. Il “consiglio” sull'”opportunità” che io non mi occupassi della vicenda è certamente iniziativa autonoma di uno zelante “consigliere” del Presidente, arrogante e sgomitante ma molto imprudente, tanto da lasciare ovunque tracce delle sue performance. Ma il tempo, ripete spesso Fini, è galantuomo. E, infatti, se non altro, già certifica una generalizzata disistima per il personaggio. E qui va richiamata la scarsa capacità di alcuni politici di scegliersi i consiglieri giusti, senza farsi condizionare dalle vanesie piaggerie di aspiranti portaborse.
Ma tant’è.
Ma andiamo alle cronache.
Sono entrato a Palazzo Chigi alle 11 dell’11 giugno 2001 per svolgere le funzioni di Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dei ministri, come ho raccontato dettagliatamente nel mio libro “Un’occasione mancata” (Nuove Idee editore, Roma, 2006), spiegando come un magistrato della Corte dei conti, con lunga esperienza di collaborazioni ministeriali (Politiche comunitarie, Funzione pubblica, Ricerca scientifica, Marina mercantile, Lavori pubblici, Trasporti, Sanità), nessuna militanza palese o occulta di partito, abbia accettato di svolgere la funzione di primo collaboratore, sul piano amministrativo, di un leader generalmente definito “postfascista”. Tenuto conto, in particolare, che da sempre mi sono considerato un modestissimo “allievo” di Luigi Einaudi, che avevo conosciuto, ancora con i calzoni corti, al Quirinale, avendo avuto come padrino di Cresima Ferdinando Carbone, Segretario Generale della Presidenza della Repubblica. E, pertanto, elettore, finché c’è stato, del Partito Liberale Italiano.
Va aggiunto che quell’11 giugno del 2001, ero Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti, rieletto un mese prima con un consenso senza precedenti, nonché Procuratore regionale dell’Umbria, Ufficio individuato dalla Funzione pubblica come “Procura pilota” per l’informatizzazione dei servizi.
Avevo, dunque, una posizione istituzionale di evidente rilievo.
L’accettazione della proposta, suggerita a Fini da un parlamentare amico ex democristiano, con il quale avevo da anni occasione di approfondimento dei temi legislativi riguardanti la Corte dei conti (dalla istituzione dell’Organo di autogoverno al decentramento della giurisdizione), mi aveva favorevolmente colpito. “Fini è un uomo dello Stato, anche perché, pensai, nel delicato compito di Capo di Gabinetto, sceglie un uomo delle istituzioni, non di partito né di area”.
Ho accettato la proposta anche ritenendo che, nella prospettiva di un governo che s’immaginava destinato a durare nel tempo per l’ampiezza del consenso elettorale reso palese dalla consistente maggioranza parlamentare (di qui il titolo del mio libro, “Un’occasione mancata”, peraltro suggerito dallo stesso Fini), avrei potuto dare un significativo contributo professionale (i lettori mi perdoneranno l’immodestia) in considerazione della mia lunga esperienza di magistrato, di studioso (dirigo dal 1979 l’unica rivista di contabilità pubblica ed ho sempre insegnato nelle università e nelle scuole dell’amministrazione) e di consulente ministeriale.
Inoltre, intorno a Fini ed ai Ministri di Alleanza Nazionale non ruotavano magistrati amministrativi né avvocati dello Stato, le categorie dalle quali solitamente vengono tratti i Capi di Gabinetto ed i Capi degli Uffici legislativi. Basti pensar che mi fu chiesto di inserire nel decreto di gabinetto con l’indicazione di “consigliere giuridico” un funzionario di ottavo livello e, poi, un preside di scuola media laureato in psicologia. Non si era mai visto.
Ritenevo, altresì, che la mancanza di esperienza di governo del Vicepresidente, ma l’evidente senso dello Stato e rispetto delle istituzioni che ne caratterizzano la personalità (l’ho sentito ripetere più volte “senso dello Stato zero” a certe uscite di Berlusconi o Bossi), mi avrebbero consentito di lavorare bene al servizio dell’Istituzione, com’era mio specifico compito.
Così è stato. E devo dare atto al Vicepresidente Fini di aver prestato costantemente attenzione a proposte e suggerimenti in campo istituzionale, anche su vicende relative alla magistratura ed alla Corte dei conti in particolare. I miei colleghi, ai quali spesso ho riferito nel dibattito interno sulle iniziative assunte a Palazzo Chigi su questioni riguardanti la magistratura contabile sanno bene del riconoscimento che, in tal senso, ho sempre pubblicamente riservato al Presidente Fini.
Non ho mai avuto motivi di dissenso su questioni di gestione dell’Ufficio al quale ho assicurato un impegno mai inferiore a 12 – 14 ore al giorno, con una mole di lavoro che ha portato, nel quinquennio, a dialogare per iscritto, a firma del Vicepresidente o mia, con oltre cinquantamila persone in relazione alle varie tematiche rappresentate da cittadini e associazioni, dalle quali sono pervenuti sempre apprezzamenti (in ogni caso nei confronti dell’On. Fini). Un lavoro di qualità, che è stato possibile grazie anche alla collaborazione di funzionari di elevata preparazione professionale, accuratamente selezionati. Devo dare atto, al riguardo, al Vicepresidente di aver condiviso le mie scelte sul personale, spesso criticate dalla segreteria particolare che insisteva nel ricercare persone del partito. Una scelta assolutamente comprensibile, che non ho mai contestato quando il personale era destinato alla segreteria particolare, improponibile all’Ufficio di Gabinetto dove il requisito essenziale doveva essere la professionalità.
Ne è derivata per questi profili una certa ruvidezza nei rapporti con l’entourage del Vicepresidente che ha pesato molto in senso negativo. Nulla di strano. Parliamo di persone che hanno condiviso con il Presidente Fini lunghi anni di militanza, quando lo “sdoganamento” dell’M.S.I. non era neppure immaginabile. “Voti in libera uscita”, li aveva qualificati un giorno Giulio Andreotti, politici destinati ad essere sempre all’opposizione, con un forte legame affettivo con il leader di AN. Un valore personale indiscutibile, da rispettare.
In realtà questa difficoltà “ambientale” sopravvenuta non avrebbe probabilmente determinato conseguenze su una futura collaborazione mia con il Vicepresidente anche dopo la sconfitta elettorale del 2006, limitata solo (-24mila voti), va detto onestamente, per l’impegno di Berlusconi, l’unico a credere effettivamente nella possibilità di vittoria.
Avrei potuto continuare a collaborare, se Fini avesse voluto, ovviamente, se non fossero intervenuti due fatti che mi hanno messo personalmente a disagio: il “no” al referendum sulla procreazione assistita e l’abbandono del disegno di legge sullo Statuto dei diritti della famiglia.
È chiaro che le scelte sono politiche e spettano al leader politico. Ma se la personalità politica alla quale presto la mia collaborazione tecnica assume iniziative che contrastano con principi etici o religiosi fondamentali oppure cambia radicalmente orientamento su valori essenziali ho un problema d’immagine nel mio ambiente professionale o culturale, nelle mie relazioni con determinati ambienti.
“Amici come prima”, ovviamente, ma devo abbandonare la collaborazione. Nulla di strano.
Ho spiegato nel libro che da cattolico, fedele alle indicazioni della Chiesa, non avrei potuto rimanere a Palazzo Chigi e se l’ho fatto è stato per evitare, nella polemica di quei giorni, di fornire un, sia pure piccolissimo, ulteriore motivo di critica a Fini.
Ugualmente ha inciso in senso negativo sui miei rapporti con il Vicepresidente l’abbandono da parte dell’On. Fini dell’iniziativa, da lui stesso a lungo sollecitata, di portare avanti un disegno di legge sulla famiglia che ne definisse i diritti nella prospettiva della conciliazione lavoro-famiglia, dei ricongiungimenti familiari, delle agevolazioni per la casa alle giovani coppie con soluzioni delineate dalla migliore esperienza italiana e internazionale. Ad esempio, il Ministro Meloni ha pubblicizzato un’ipotesi di garanzia sui mutui prima casa per le giovani coppie che avevo delineato prendendo spunto dall’esperienza che avevo fatto, da magistrato addetto al controllo del Ministero del tesoro, a proposito della garanzia dello Stato sui prestiti della Banca Europea degli Investimenti.
Fini mi aveva incoraggiato a portare avanti il progetto elaborato da una Commissione di studio nella quale sedevano tutti i rappresentanti delle più rappresentative associazioni familiari ed esperti vari, compresa la notissima Paola Binetti (un fatto di per se politicamente significativo). Poi, alla vigilia delle elezioni, Fini ha abbandonato il progetto ed ha anche impedito ad altri di presentarlo (ad esempio, il Sen. Buttiglione che glielo aveva chiesto).
La “conversione” laica di Fini (ricordo il capitolo “La Chiesa aveva scommesso su Fini” nel mio “Un’occasione mancata”), una scelta ovviamente insindacabile, ha concorso non poco a determinare la sconfitta elettorale del 2006, con il concorso di altri che non hanno capito l’importanza di una mobilitazione sul tema della famiglia sulla base di un testo normativo concreto che con poche norme di buon senso e di facile applicazione, in alcuni casi perché elaborazione di disposizioni già esistenti (come i ricongiungimenti familiari per i dipendenti civili, già legge per i militari) anziché di quelle promesse che la propaganda di partito esibisce ad ogni campagna elettorale, regolarmente abbandonate il giorno dopo.
A questo punto coloro i quali sostengono che Fini ce l’avrebbe con me richiamano il mio libro sui cinque anni a Palazzo Chigi. In poco più di cento pagine descrivo il clima, gli ambienti, il modo di lavorare nei Palazzi del potere. Nessun segreto, ovviamente, ma un affresco di luoghi e persone che ha fatto conoscere come prima e durante le riunioni di governo i collaboratori dei ministri mettono a punto provvedimenti, definiscono future scelte, esaminano i curricula di candidati a cariche pubbliche. Un servizio anche per la storia, ha detto Francesco Perfetti, che l’insegna alla LUISS, in occasione della presentazione del libro nella sala delle conferenze della Fondazione NuovaItalia di Giovanni Alemanno. Aspetti della vita istituzionale non formalizzati, che gli storici vogliono conoscere perché momento effettivo delle decisioni.
Il libro è piaciuto molto e continua a tener banco nelle discussioni e nelle riflessioni politiche e giornalistiche, nonostante siano trascorsi quattro anni. Giorni fa un senatore ex di AN si è offerto di ristamparlo.
Qualcuno mi dice “come hai indovinato questo o quello?”. Non ho, ovviamente, doti profetiche. Mi sono limitato ad osservare, per individuare ruoli e attitudini di persone. Non c’è neppure il minimo riferimento a cose coperte da riservatezza, è tutto descritto come effettivamente avvenuto.
C’è chi sostiene che il presunto contrasto con Fini, presunto perché inesistente, sia nato dal libro. Nulla di più evidentemente inesatto. Il libro è uscito il 6 dicembre 2006 ed è un obiettivo e documentato spaccato dei fatti e dei comportamenti, trattati sempre in punta di penna, con quel senso delle istituzioni al quale mi picco di non venir mai meno. Con le sue luci e le sue ombre, Fini ne esce come personalità ricca di meriti politici e istituzionali. Quelli che, a mio giudizio, sono stati errori politici, iniziative poco meditate, che ho continuato a sottolineare su questo giornale appartengono al diritto di cronaca, alla mia passione nel cogliere quei tratti della vita politica e istituzionale che vanno al di là della cronaca per incidere sulla storia.
“Un’occasione mancata”. A mio giudizio Fini di occasioni ne ha mancate diverse in molte sue scelte, incerto tra partito e governo, una realtà politica di cui non riesce ad impadronirsi, istintivamente portato a ragionare in termini di politica come arte del possibile, quando la gente ricerca certezze in tema di ordine pubblico, istruzione, sanità, fisco, lavoro. Un uomo politico che rinuncia all’impegno di governo delle risorse pubbliche preferendo vetrine politicamente improduttive di risultati di interesse per l’elettorato, il Ministero degli esteri, la Presidenza della Camera, rimane fuori del circuito decisionale. Potrà avere analoghe soddisfazioni, la Presidenza di un’altra Camera, la Presidenza della Repubblica, ma avrà comunque, come insegnano la cronaca e la storia, un ruolo comunque marginale, magari di soddisfazione scenica, ma apparente.
Ovviamente ognuno è artefice del proprio destino e misura le scelte sulla base delle proprie ambizioni e propensioni.
Forse da chi è nato in politica con la prospettiva di stare sempre all’opposizione non ci si poteva attendere di più.
Al termine di queste considerazioni che sono tanti appunti dei temi essenziali del libro che costituirà seguito di “Un’occasione mancata” spero soltanto che sia chiaro che il rapporto di collaborazione con l’On. Fini si è idealmente interrotto a seguito della sua conversione “laica”, anzi laicista, di cui ho dato conto in questo articolo. Era legittimo che seguisse una sua intima convinzione. Così come è legittimo da parte mia ritenere impossibile continuare la collaborazione. Ciò che non mi impedisce di augurargli, cristianamente, di convertirsi ai valori in precedenza sempre richiamati come espressione di una destra italiana, tradizionalista e moderna.
8 dicembre 2010
“Senso dello Stato zero!”, (come dice Fini)
Se Renzi va ad Arcore
di Senator
Il Sindaco di Firenze è andato ad Arcore per parlare con il Presidente del Consiglio dei problemi della sua città. Ha fatto sicuramente bene, per cui le critiche provenienti dai suoi del Partito Democratico sono certamente fuori luogo. Il sindaco ha il dovere di operare per la sua città e per i suoi concittadini e se si è resa necessaria una visita nella residenza privata del Capo del Governo per facilitare o accelerare i tempi di una comune riflessione sulle esigenze di una comunità come quella fiorentina non è certo da criticare.
Diversa è la posizione del Premier per il quale non è una novità l’utilizzazione di abitazioni private (si è vantato in televisione di averne più di venti) per incontri di carattere istituzionale. Non incontri politici con esponenti di partito o parlamentari, ma riunioni istituzionali, ad esempio con ministri.
E’ noto, infatti, che il Presidente del Consiglio “lavora” a Palazzo Grazioli, mentre a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio, presiede le riunioni collegiali dell’Esecutivo ed incontra autorità estere, che accoglie nel cortile tra presentat arm e squilli di tromba, per poi fare gli onori di casa al terzo piano, nell’appartamento, spesso con invito a pranzo nella bella sala con visione su piazza Colonna, dinanzi alla Colonna Antonina.
Può sembrare un formalismo, un richiamo ad un cerimoniale superato, ma sta di fatto che le autorità, in tutto il mondo, usano le sedi istituzionali per gli incontri ufficiali. Poi può accadere che il seguito, la parte “informale” dei colloqui possa svolgersi nella residenza, sempre ufficiale, dell’autorità che riceve. Così il Re d’Italia, dopo gli incontri al Quirinale poteva ricevere per una colazione informale a Villa Ada o a Castelporziano, come può fare il Presidente della Repubblica. O gli ospiti della Regina Elisabetta possono trascorrere un fine settimana nel castello di Balmoral. E via dicendo.
Nel caso di Berlusconi l’uso delle abitazioni private, a Roma, ad Arcore, in Sardegna sono espressione, da un lato del desiderio di esibire la sua ricchezza personale, dall’altro della sua concezione della funzione pubblica, di uno che ha in uggia il protocollo, interno ed internazionale, che ritiene che un Presidente del Consiglio si possa comportare, negli atti e nel linguaggio, come un imprenditore, in modo anche burlesco.
Il Cavaliere rifiuta l’ufficialità e può anche far bene per facilitare i rapporti personali, ma deve sentore la responsabilità del suo ruolo per cui se riceve un’altra autorità deve farlo nella sede del Governo o, se fuori Roma, in Prefettura, che è, appunto, il Palazzo del Governo, come si legge sui portali dei palazzi che ospitano quegli uffici,
Capisco che può sembrare un formalismo, ma la forma a volte è sostanza ed assicura ufficialità alle relazioni che si vogliono instaurare. Per cui l’impegno assunto da Berlusconi nella sede del Governo è certamente più “spendibile” di quello che segue un incontro privato.
“Senso dello Stato zero!”, ripete spesso Gianfranco Fini. Forse lo ha ripetuto anche in questa occasione a dimostrazione che, a parte ogni valutazione politica sulla storia dei due, c’è indubbiamente una differenza di fondo, caratteriale e di costume.
8 dicembre 2010
In occasione del quarantacinquesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965)
“Il Concilio Vaticano II – Una storia mai scritta”,
di Roberto de Mattei (*)
Nella storia della Chiesa si sono tenuti ventuno Concili riconosciuti come ecumenici, o generali. L’ultimo è stato il Concilio Vaticano II, aperto a Roma nella Basilica di San Pietro, da Giovanni XXIII, l’11 ottobre 1962, e chiuso nello stesso luogo, dopo quattro sessioni, da Paolo VI, l’8 dicembre 1965.
in occasione, dunque, del quarantacinquesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965) LE Edizioni Lindau presentano un libro di Roberto de Mattei. “Il Concilio Vaticano II – Una storia mai scritta (“I Leoni”, pp. 632, euro 38).
Dal Concilio di Nicea, che è stato dopo il Concilio di Gerusalemme il primo Concilio trattato dagli storici, al Vaticano II, ogni Concilio è stato oggetto di dibattito storiografico. Ognuna di queste assemblee non solo ha fatto la storia, ma ha avuto poi i suoi storici e ognuno di essi ha portato nella sua opera la propria visuale interpretativa.
A differenza dei precedenti Concili, il Vaticano II pone però agli storici un problema nuovo. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne Magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori, per quanto riguarda il diritto della Chiesa. Il Concilio Vaticano II non ha emanato leggi e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di fede e di morale. La mancanza di definizioni dogmatiche ha inevitabilmente aperto la discussione sulla natura dei documenti e sul modo della loro applicazione nel periodo del cosiddetto “postconcilio”. Il problema del rapporto tra Concilio e “postconcilio” sta perciò al cuore del dibattito ermeneutico in corso.
La discussione sul Concilio Vaticano II, pur nella complessità e nella articolazione delle diverse posizioni, può ricondursi sostanzialmente a due linee interpretative: quella della “continuità” del Concilio con la tradizione precedente e quella della sua “discontinuità” con il passato della Chiesa. La prima linea è stata assunta dalle gerarchie ecclesiastiche fin dal pontificato di Giovanni Paolo II ed è stata formulata con chiarezza e convinzione da Benedetto XVI soprattutto nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 7. Si tratta di un approccio teologico al Concilio Vaticano II, giudicato dai 16 testi, di ineguale valore dottrinale, che esso ha prodotto. L’insieme di questi testi, secondo la suprema autorità della Chiesa, esprime un Magistero non infallibile, ma autentico, che deve essere letto in continuità con i documenti che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito, ovvero ” alla luce della Tradizione “.
Benedetto XVI è ritornato più volte sull’argomento; nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009 ha ribadito, ad esempio, la necessità di rifarsi ” all’ininterrotta Tradizione ecclesiale ” e di ” favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa “. L’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II – ha sempre sostenuto il card. Ratzinger e sostiene oggi Benedetto XVI – è presentarlo come una parte dell’intera ed unica Tradizione della Chiesa e della sua fede.
La seconda linea interpretativa ha un approccio ermeneutico di taglio non teologico, ma storico. Essa ha la sua espressione più significativa nella cosiddetta “scuola di Bologna” che, sotto la direzione del prof. Giuseppe Alberigo, ha prodotto un’imponente Storia del Concilio Vaticano II , diffusa in varie lingue, che costituisce un’opera di riferimento, per quanto discussa e discutibile, da cui non si può prescindere. Per questa scuola il Vaticano II, al di là dei documenti che esso ha prodotto, è stato innanzitutto un “evento” storico che, in quanto tale, ha significato un’innegabile discontinuità con il passato: ha suscitato speranze, ha innescato polemiche e discussioni, ha aperto, in ultima analisi, un’epoca nuova.
Un evento è una situazione che rappresenta una radicale frattura con il passato, ” un fatto che, avvenuto una volta, cambia qualcosa nel presente e nel futuro “. Il Concilio Vaticano II presenta, secondo Alberigo, caratteristiche proprie molto spiccate: il modo in cui fu convocato; l’assenza programmatica di uno scopo storico determinato; il rigetto quasi integrale delle prospettive e delle formulazioni predisposte dagli organi preparatori; l’elaborazione assembleare degli orientamenti generali e degli stessi testi delle decisioni; la percezione del Concilio da parte dell’opinione pubblica come evento cruciale, seguito e partecipato con straordinaria intensità. ” Per tutte queste ragioni – scrive lo storico bolognese – l’ermeneutica del Vaticano II dipende, principalmente e in misura elevata, dalla dimensione evento del Concilio “. L’identità del Concilio è determinata, in questa prospettiva, non solo dai documenti dottrinali istituzionali e dalle norme canoniche seguite al Concilio, ma soprattutto dall’effettivo svolgimento dell’assemblea e dalla recezione dell’evento da parte della comunità dei fedeli.
La tesi della “discontinuità” viene portata avanti, anche dal mondo cosiddetto “tradizionalista”, che raccoglie un ventaglio di voci ampio ma disomogeneo. L’opera più importante finora apparsa è quella del prof. Romano Amerio, Iota Unum , che non si pone però sul piano storico, ma su quello teologico e soprattutto filosofico. Ignorata dalla pubblicistica progressista, è anch’essa un’opera di riferimento da cui non si può prescindere.
La formula del Concilio alla luce della Tradizione o, se si preferisce, dell'”ermeneutica della continuità”, offre indubbiamente un’autorevole indicazione ai fedeli per chiarire il problema della giusta ricezione dei testi conciliari, ma lascia aperto un problema di fondo: posto che la corretta interpretazione sia quella continuativa, resta da comprendere perché dopo il Concilio Vaticano II è accaduto ciò che mai avvenne all’indomani di nessun Concilio della storia, e cioè che due (o più) ermeneutiche contrarie si siano trovate a confronto e abbiano, per usare le parole dello stesso Papa, ” litigato ” tra di loro. Se poi l’epoca del postconcilio è da interpretare in termini di “crisi”, c’è da chiedersi se una errata ricezione dei testi possa incidere a tal punto nelle vicende storiche e costituire una ragione sufficiente e proporzionata a spiegare la vastità e la profondità della medesima crisi.
L’esistenza di una pluralità di ermeneutiche attesta peraltro una certa ambiguità o ambivalenza dei documenti. Quando si deve ricorrere a un criterio ermeneutico esterno al documento per interpretare il documento stesso, è evidente, infatti, che il documento non è in sé sufficientemente chiaro: ha bisogno di essere interpretato e, in quanto suscettibile di interpretazione, può essere oggetto di critica, storica e teologica.
Da parte nostra ci proponiamo di distinguere accuratamente tra la dimensione teologica che emerge dai testi e quella più propriamente “fattuale”, che si riferisce alle vicende storiche. Distinzione non significa naturalmente “separazione”. Ogni storico della Chiesa porta nella sua opera il bagaglio di una visione teologica ed ecclesiologica e, ancora prima, di una sua “teologia della storia”. Diremmo anzi che la ricostruzione storica dell’ iter conciliare è indispensabile per comprendere il senso e il significato di quei documenti della Chiesa che i teologi ci aiutano a leggere nella loro dimensione teologica. Il teologo legge i documenti nella loro portata dottrinale e su quelli discute. Lo storico ricostruisce gli eventi, anche se non si limita alla dimensione meramente fattuale, ma coglie gli accadimenti nelle loro radici e conseguenze culturali e ideali. Il compito dello storico non sta nello scomporre il passato, né nel ricomporlo in maniera cronachistica, ma nel cogliere l’orientamento processuale e il nesso unitario per giungere ad una comprensione “integrale” degli avvenimenti.
L’ermeneutica della continuità ribadisce correttamente il primato del Magistero ma assume il rischio di rimuovere, non solo un’errata concezione teologica, ma anche il fatto stesso su cui si discute. La conseguenza di questa opera di rimozione dell’evento è che oggi non esiste alcuna seria alternativa alla scuola bolognese, alla quale va riconosciuto il merito di offrire una prima ricostruzione fattuale, sia pure tendenziosa, dell’avvenimento.
Per molti fautori dell’ermeneutica della continuità, la rimozione storica dell'”evento” conciliare è necessaria per separare il Concilio dal post-Concilio e isolare quest’ultimo come una patologia sviluppatasi su di un corpo sano. C’è da chiedersi però se la cancellazione del Concilio-evento porti a comprendere in profondità che cosa è accaduto nel post-Concilio. Il Concilio Vaticano II fu, infatti, un evento che non si concluse con la sua solenne sessione finale, ma si saldò con la sua applicazione e ricezione storica.
Qualcosa accadde dopo il Concilio come conseguenza coerente di esso. In questo senso non si può dar torto ad Alberigo quando afferma che la ricostruzione di quanto è avvenuto tra il 25 gennaio 1959 e l’8 dicembre 1965 costituisce una premessa necessaria per una seria riflessione sul Vaticano II.
La storia del Concilio è perciò da riscrivere, o almeno da completare.
8 dicembre 2010
(*) Roberto de Mattei insegna Storia della Chiesa e del Cristianesimo all’Università Europea di Roma, dove è coordinatore della Facoltà di Scienze Storiche. È Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e membro dei Consigli direttivi dell’Istituto Storico per l’Età moderna e contemporanea e della Società Geografica Italiana. Presiede la Fondazione Lepanto e dirige le riviste «Radici Cristiane» e «Nova Historica». Collabora inoltre con il Pontificio Comitato di Scienze Storiche e ha ricevuto dalla Santa Sede l’insegna dell’ordine di San Gregorio Magno, come riconoscimento del suo servizio alla Chiesa. Tra le sue opere più recenti: La Biblioteca delle «Amicizie». Repertorio critico della cultura cattolica nell’epoca della Rivoluzione (1770-1830), Bibliopolis, Napoli 2005; De Europa. Tra radici cristiane e sogni postmoderni , Le Lettere, Firenze 2006; La dittatura del relativismo , Solfanelli, Chieti 2007; La Turchia in Europa. Beneficio o catastrofe? , Sugarco, Milano 2009.
Un magistrato non partecipa a manifestazioni politiche
No caro Ingroia no, così non va
di Iudex
“Show Idv a Bologna contro il “dittatore” Berlusconi. Con Di Pietro, Fo, Vauro e Travaglio ci sarà anche Ingroia, il magistrato che a Palermo sta curando l’inchiesta sulla presunta trattativa tra il premier e Cosa nostra nel 1993″.
Così stamattina, in prima pagina, Il Giornale.
Non so se è vero, ma se la notizia è esatta, se veramente un magistrato, non un magistrato qualunque ma uno che ha lavorato con impegno nella lotta alle mafie ed al momento si occupa di una vicenda che si dice sfiori il Presidente del Consiglio, non dovrebbe partecipare ad una manifestazione diretta a criticare il Presidente del Consiglio.
Mi spiego meglio. Quando sono entrato in magistratura mi è stato spiegato, ma ne ero già consapevole per cultura personale ed esempi familiari, che un magistrato deve non solo essere ma anche apparire indipendente agli occhi dei cittadini i quali da lui si attendono una pronuncia in diritto, indipendentemente dalle loro e dalle sue idee politiche.
In sostanza il magistrato ha una funzione pubblica attraverso la quale esprime la più alta funzione dello Stato, quella di ius dicere, di affermare il diritto, la giustizia in modo da assicurare la pacifica convivenza della comunità.
Il magistrato, dunque, non deve rinunciare alla sue idee politiche, ma non può esternarle in occasioni che facciano ritenere la sua posizione sospetta di parzialità quando dovesse decidere su vicende che interessano altra parte politica.
Mi rendo conto che per molti è un sacrificio, un grave sacrificio, una forte limitazione dei diritti individuali politici, ma è la condizione per indossare con dignità la toga.
Chi non se la sente cambia mestiere.
Mi auguro, dunque, che la notizia de Il Giornale non sia esatta e sul quel palco “politico” non salga Ingroia, “magistrato”. Altrimenti, tra l’altro, diamo ragione a quanti sostengono che giudici e PM sono due cose diverse e non espressione dello stesso potere pubblico di giudicare e di esercitare l’azione penale che è azione pubblica. Appunto rimessa al Pubblico Ministero.
6 dicembre 2010
Il Centrodestra in difficoltà per il Presidente “ingombrante”
di Senator
Dopo le qualificazioni di imprenditore, comunicatore, operaio, ferroviere, a seconda delle performance nelle quali si è esibito dal 1994 nella sua “vocazione” populista, di Silvio Berlusconi si va dicendo ogni giorno di più che è anche “ingombrante” per il Centrodestra e un po’ “imbarazzante”, nel senso che la sua leadership appare logorata, sia come capo di partito che di governo da rendere difficile la stessa sopravvivenza della maggioranza.
È evidente, infatti, che un ciclo si è chiuso, che il Cavaliere, il quale ha dominato gli ultimi quindi anni della vita politica italiana tra amori sviscerali ed odi altrettanto forti, non né più in grado di tenere la scena, travolto da un’immagine personale fortemente deteriorata da un permanente conflitto di interessi di cui oggi nessuno più dubita e, soprattutto, da una evidente inadeguatezza dell’azione politica rispetto alla crisi economica e sociale che sta mietendo vittime in tutta Italia, tra posti di lavoro perduti e famiglie in affanno.
Tutto questo mentre le pubbliche amministrazioni che, sfinite da una spesso insensata riduzione dei quadri e dalla mancanza di risorse, le quali si riversano sui tradizionali fornitori mettendone in dubbio la stessa sopravvivenza, non riescono a realizzare gli obiettivi propri della loro missione istituzionale. Con buona pace di un altro “comunicatore”, quel Ministro Brunetta che ha fatto molte parole e pochi fatti in un settore nel quale c’è moltissimo da riformare per rendere il “servizio amministrazione” adeguato alle esigenze di un Paese moderno, che deve affrontare le sfide della globalizzazione dei mercati, rafforzando la propria capacità operativa e la qualità professionale dei cittadini.
Alla verifica dei fatti il leader del “governo del fare” denuncia l’insufficienza di una gestione politica che, con maggioranze mai viste nella storia d’Italia, nel 2001 e nel 2008, avrebbe potuto veramente riformare il Paese. Invece la presunzione dell'”imprenditore” abituato a risolvere i problemi aziendali con l’assistenza della politica e con qualche iniziativa “disinvolta”, di quelle della cui legalità dubitano i giudici milanesi, non ha saputo convertirsi in uomo delle istituzioni, anche per essersi circondato di personaggi il cui unico merito, riconosciuto, è stato quello di assecondare sempre e comunque il leader, senza preoccuparsi se l’iniziativa fosse, quanto meno, conforme alla Costituzione ed utile per il Paese. La dichiarazione di Denis Verdini, che “se ne frega” delle prerogative costituzionali del Capo dello Stato è, ad un tempo, espressione di grezza arroganza e di grave insipienza politica. Come dire farsi male da soli.
Le conclusioni di queste brevi, scontate considerazioni, ampiamente condivise anche nel Popolo della Libertà, ci dicono che è giunto il momento che lo stesso partito attui il ricambio al vertice. È necessario per la sopravvivenza del Centrodestra, per il mantenimento della sua leadership politica un Paese che non vota e non vuol votare a sinistra.
Un tempo, nel buio Medio Evo e nel Rinascimento corrusco e infido, i detentori del potere che facevano temere la sopravvivenza della dinastia venivano opportunamente sostituiti, a volte con l’esilio, magari in convento, altre eliminati fisicamente negli anfratti dei palazzi. In sostanza prendeva il sopravvento l’esigenza dell’entourage dirigente di mantenere il potere. Ma c’è stato anche chi, consapevole di aver esaurito il suo tempo, cedeva il passo. A volte anche per non vedere ulteriormente deteriorata la propria immagine e rimanere nel ricordo della gente per le cose buone fatte. E’ stato invano suggerito anche a Berlusconi.
Al momento Berlusconi non sembra disponibile ad essere lui il gestore del “dopo”. Lo impedisce la sua smisurata presunzione di essere “il migliore”, tanto da essersi circondato esclusivamente di yes men, quei “cattivi consiglieri” di cui abbiamo detto più volte e che gli impediscono di individuare una personalità idonea a portare avanti il programma politico sul quale il Centrodestra ha chiesto e ottenuto la maggioranza. Tanto che dal Terzo Polo giungono incongrue ipotesi di un dopo Berlusconi affidate a Letta, Alfano, Tremonti, come dire “Il buono, il brutto e il cattivo”, secondo il fortunato titolo di un western spaghetti all’Italiana.
Questo Paese merita di più. Non lo sdolcinato sovrintendente di Palazzo Chigi che non ha avuto altra strategia che la sopravvivenza del “potere per il potere”. Non il piccolo advocatellus di provincia scoperto dal Cavaliere, il bulldog che avrebbe dovuto intimidire i magistrati. Non l’autore dei “tagli lineari”, una dimostrazione di incapacità, politica e tecnica, nella individuazione della spesa inutile.
A questo punto c’è da dubitare che, chi fa questa proposta, abbia le idee chiare sul dopo Berlusconi. Sta qui la forza residua del Cavaliere e la preoccupazione che dobbiamo nutrire per l’Italia. L’inconsistenza di una classe dirigente.
6 dicembre 2010
È morto Vittorio Grevi,
giurista tra i massimi esperti del processo penale
di Salvatore Sfrecola
Una leucemia fulminante, a 68 anni, ha privato la comunità dei giuristi di Vittorio Grevi, “una delle menti più libere che avevamo”, è stato il commento commosso di Armando Spataro,Pubblico Ministero a Milano.
Nato a Pavia nel 1942, Vittorio Grevi è diventato nel 1974 professore ordinario di Procedura penale nella Facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo della sua città, dopo aver insegnato la medesima disciplina a Macerata.
Socio fondatore e segretario (dal 1985 al 1997) dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale era membro della Fondation internationale penale et penitenti aire. Chiamato a far parte di Commissioni governative di studio per il nuovo codice di procedura penale e di numerose altre commissioni ministeriali in tema di giustizia penale, faceva parte dei Comitati di direzione delle più prestigiose riviste della materia, da “Cassazione penale” alla “Rivista italiana di diritto e procedura penale”. Era direttore della collana “Giustizia penale oggi” (Cedam, Padova) e condirettore della collana ‘”Procedura penale” (Giappichelli, Torino). Ricchissima la sua produzione scientifica che ha riguardato tutte le tematiche relative al processo penale.
Il grosso pubblico lo conosceva soprattutto per la sua assidua collaborazione al Corriere della Sera per il quale commentava le vicende legate alle ipotesi di riforma del processo penale con contributi che si sono sempre distinti per l’approfondimento ma anche per l’equilibrio, avendo sempre presenti i diritti delle persone, degli indagati e delle vittime dei reati, con straordinaria capacità di far comprendere, anche ai non addetti ai lavori, questioni spesso complesse, sempre appesantite dagli interventi della politica.
L’Associazione nazionale magistrati ha ricordato di Vittorio Grevi “le doti di profondo conoscitore del diritto e della procedura penale, nonché di strenuo difensore dei principi costituzionali di indipendenza”.
5 dicembre 2010
Riflessioni a margine delle trasmissioni di approfondimento
Politici e giornalisti nei dibattiti televisivi
di Senator
È tempo che nei dibattiti televisivi, accanto a politici dei partiti di maggioranza e di opposizione, siedono giornalisti di varie testate “di opinione”, cioè apertamente schierate dall’una o dall’altra parte. Con la conseguenza che il confronto si anima con l’apporto di contributi che formalmente non sono etichettati come partitici ma che, in realtà, assumono una configurazione di parte in termini di estrema durezza. Sono gli integralisti dei due schieramenti, convinti di detenere quote di verità incontrovertibili.
A differenza dei politici che si presentano nei dibattiti con la loro casacca ma anche con lo strumentario dialettico che si alimenta del confronto sperimentato nelle varie assemblee nelle quali si assumono le decisioni di gestione della cosa pubblica, dal consiglio di quartiere al Parlamento nazionale, passando per i consigli comunali, provinciali e regionali, i giornalisti delle testate “di opinione” (cioè “di partito” o “di area”) appaiono animati da sacro furore polemico. Le cui ragioni occorre approfondire.
Perché è possibile un confronto in un dialogo deciso, duro ma garbato, con un politico e questo non è quasi mai possibile con un giornalista “di partito” o “di area”? Perché il giornalista, nell’affrontare una polemica, appare quasi ossessionato dalla necessità di apparire “più realista del re”, cioè più convinto del segretario del partito “di riferimento”? Quasi volesse dimostrare all’editore, che è espressione di una parte politica, che il suo impegno “di parte” è correttamente espletato, in una sorta di ossessione, come se la sua posizione nell’organico del giornale dipendesse, in una certa misura, dallo zelo che pubblicamente è capace di esprimere a sostegno della posizione politica del partito “di riferimento.
In sostanza, per dirla fuori dai denti, più che giornalisti, cioè portatori della cultura dell’informazione e del commento dei fatti, distinti dalle opinioni, questi signori piegano i fatti alle opinioni predeterminate. Sono intollerabili, la loro partecipazione alle trasmissioni di approfondimento politico non assicura una migliore riflessione, non arricchisce il dibattito, non appare un contributo di chi osserva, sia pure in un’ottica di parte, la realtà dal di fuori.
Queste mie osservazioni sono facilmente verificabili qualunque sia la trasmissione di quelle che ci presentano le varie testate, da Ballarò a AnnoZero, a Matrix, a InOnda a Ominbus, quando “la parte” del giornalista la fa, ad esempio, un Mieli, del quale si comprende la linea “politica” ma che non la esprime con l’accanimento di alcuni che partecipano per Il Giornale, Libero, Il Fatto Quotidiano o l’Unità.
Sono convinto che questi signori non facciano neppure l’interesse dell’editore o del partito “di riferimento” perché tale è la pervicacia nella difesa di posizioni apertamente partitiche che la loro partecipazione al dibattito non aggiunge un contributo di sereno approfondimento, sia pure orientato.
Siamo di fronte ad una versione “drogata” del ruolo dell’informazione che degrada il dibattito non consentendo il prevalere delle ragioni migliori che pure possono militare in favore di una posizione ideologica o programmatica.
In sostanza questi signori, non solo vengono meno al loro ruolo di osservatori e commentatori dei fatti ma danneggiano anche l’uditorio ed i lettori, quando ripetono le stesse cose sui giornali, limitando la sfera libera del dibattito che dovrebbe nascere dal confronto tra politici “con casacca” mediato da osservatori professionali dell’informazione.
2 dicembre 2010