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Luglio 2013

Evidente e determinante il ruolo del Re
25 luglio la caduta del regime
di Salvatore Sfrecola
“La crisi del regime”, come l’avrebbe definita Benito Mussolini intorno alle 3 del 25 luglio, nell’abbandonare la sala del Gran Consiglio, si era consumata nella nottata, quando il dibattito aveva messo in evidenza un ampio consenso sul testo dell’ordine del giorno del Presidente della Camera, Dino Grandi, durissimo nei confronti del Duce. Chiedeva l'”immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al governo, al parlamento, alle Corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie costituzionali”. Per Grandi “il popolo italiano fu tradito da Mussolini il giorno in cui l’Italia ha cominciato a germanizzare. È quest’uomo che ci conduce sulla scia di Hitler; egli abbandonò la via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra, e ci ha ingolfati in una guerra che è contro l’onore, gli interessi e i sentimenti del popolo italiano”.
Mussolini, secondo testimonianze univoche, non reagisce. “Il Duce è stanco” – scrive Alberto De Stefani, economista, ministro, autore della riforma dell’amministrazione, in Gran Consiglio ultima seduta, da pochi giorni nelle librerie con una prefazione di Francesco Perfetti (Le Lettere, Firenze), uno dei protagonisti della seduta. “S’abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo abbandono”. Tutti notano questo atteggiamento rinunciatario. E ne scriveranno suggerendo varie interpretazioni. Per i più è come se avesse la consapevolezza di essere arrivato al capolinea. Che le manchevolezze dell’azione militare, che denuncia ripetutamente e impietosamente nelle quasi due ore del suo intervento, sono a lui addebitabili, quale responsabile della conduzione delle operazioni sul campo e per essere stato per due decenni ministro della guerra senza rinnovare soprattutto l’Esercito, entrato nel conflitto con il fucile ’91 (che significa 1891!), l’armamento della prima guerra mondiale! E sì che proprio Grandi, reduce dall’esperienza di Ambasciatore a Londra, aveva ripetutamente segnalato al Duce l’elevato livello degli armamenti inglesi e lo spirito combattivo di quel popolo che Mussolini insisteva a svilire, fino a definire quello di Sua Maestà l’ultimo esercito del mondo, al punto che Winston Churchill, annunciando alla Camera dei comuni la fine delle ostilità con l’Italia, avrebbe ironicamente affermato che “l’ultimo esercito del mondo ha battuto il penultimo”.
Non è solo la conduzione delle operazioni militari sullo sfondo della riunione del Gran Consiglio, organo del Partito Fascista costituzionalizzato nel 1928 con funzioni consultive del Governo, ignorato da anni (non si riuniva dal 1939) anche al momento dell’entrata in guerra. Infatti De Stefani scrive che “le prerogative del Gran Consiglio gli erano state sottratte dal suo stesso fondatore”.
L’ordine del giorno Grandi ha un taglio politico-istituzionale inequivocabile, a cominciare da quell’invito pressante al ritorno alla legalità costituzionale che il Presidente della Camera, una delle personalità più autorevoli e popolari del regime, al punto da essere indicato come successore di Mussolini, e che era stato il motivo dominante della sua azione politica nell’ambito del regime fascista, anche da Ministro degli esteri e Guardasigilli. Grandi oppone – ricorda De Stefani – alla “mistica della cieca obbedienza” la “mistica della legalità che è presidio spirituale e istituzionale della giustizia tra gli uomini e della loro eguaglianza giuridica”. E, pertanto, chiede l’abolizione del regime totalitario, il ritorno alla Costituzione e la restituzione di tutti i diritti parlamentari e delle prerogative della Corona. Il Presidente della Camera non dà tregua al Duce: “voi credete ancora di avere la devozione del popolo italiano? La perdeste il giorno che consegnaste l’Italia alla Germania. Vi credete un soldato: lasciatevi dire che l’Italia fu rovinata il giorno in cui vi metteste i galloni di maresciallo. Vi sono già centinaia di migliaia di madri che dicono: Mussolini ha assassinato mio figlio”.
Anche De Stefani nel suo diario si rivolge direttamente a Mussolini. “Che cosa vi domandiamo? Il ritorno al rispetto delle leggi, alla loro libera applicazione ? Il contrasto tra il partito e lo Stato come è da noi concepito è sempre più profondo ed esso è la causa della scissione tra il fascismo e la Nazione, per cui essa considera il fascismo una struttura parassitaria e fonte di arbitrio”.
Con Grandi voteranno “sì” in 19 (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Marinelli, Pareschi e Rossoni). 7 i “no” degli irriducibili (Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanova). Suardo si astiene. Farinacci avrebbe votato il proprio ordine del giorno se Mussolini non avesse chiuso la discussione.
Gli storici s’interrogano ancora, cercando di comprendere come e da chi sia stato preparato l’evento, ed anche sul rilievo costituzionale delle scelte del Sovrano, in quel pomeriggio del 25 luglio, a Villa Savoia, quando il Re accetta le dimissioni, spontanee, va sottolineato, del Duce e conferisce l’incarico di formare il governo al Maresciallo Pietro Badoglio. Anzi l’aveva già conferito.
Per tutta la giornata venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto. Solo alle 22,45 la radio trasmette il comunicato, stringatissimo, come d’uso: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”.
Fu una forzatura costituzionale? Per qualcuno fu addirittura un colpo di stato, preparato e condotto in porto da Vittorio Emanuele III. Accuratamente preparato, ormai non ci sono dubbi, probabilmente da due o tre anni, dalla Corona alla quale i “congiurati” intendevano restituire non soltanto il Comando delle Forze Armate ma anche le prerogative statutarie che il Regime aveva compresso sistematicamente.
Per il Re la sua azione è legittimata dall’ordinamento statutario. Egli, in tal modo, “tende a ricondurre l’esperienza fascista all’interno del quadro costituzionale albertino, negando che il Ventennio abbia potuto annullarlo completamente” (P. Colombo, Storia costituzionale della monarchia italiana, Laterza, Bari, 2001, 113)
L’antecedente più immediato è l’udienza del Re al Presidente della Camera il 4 giugno 1943 (il 22 luglio Grandi avrebbe incontrato prima Ciano, a casa di Bottai, poi lo stesso Mussolini). Nell’occasione Vittorio Emanuele, da sempre ligio alle regole costituzionali, suggerì a Grandi di provocare un voto del Parlamento o del Gran Consiglio per lui base legale necessaria per deporre Mussolini. Ciò che solo il Re poteva fare una volta ripristinati i poteri statutari. Sintomatico il rinvio all’art. 5 dello Statuto Albertino, la Carta costituzionale del Regno.
La scelta in questo senso è chiarissima nel documento Grandi. Essa è inglobata nell’ordine del giorno di un organo costituzionale, il Gran Consiglio. Nel colloquio con Grandi Vittorio Emanuele aveva affermato: “sono un Re costituzionale e so perfettamente che il Parlamento non è in grado di funzionare: ma, ciò nonostante, una qualche indicazione mi occorre che mi venga da organi dello Stato e del Paese, in modo inequivoco e certo” (Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Mursia, Milano, 1972, 349). Con la conseguenza che alla luce di quella votazione va valutata anche la decisione del Re di incaricare di formare il Governo il Maresciallo Badoglio, senza che fosse sentito il Gran Consiglio, come prevedeva la legge istitutiva. Procedura che ha fatto dire a taluno che Vittorio Emanuele III avrebbe compiuto un vero e proprio colpo di stato. Conclusione affrettata, sostenuta da giuristi antifascisti, comunque antimonarchici, nonostante in regime di statuto flessibile la caduta, per votazione dell’organo supremo del regime, degli istituti tipici di esso dovesse travolgere, nel quadro di un’emergenza costituzionale, il Fascismo e le leggi che lo sostenevano.
Non c’è dubbio, infatti, che le modifiche apportate con legislazione ordinaria all’impianto statutario trovavano comunque un limite nell’essenza stessa della monarchia costituzionale. Come nel caso della successione al trono sul quale il Gran Consiglio si sarebbe dovuto pronunciare, in contrasto con la legge salica, richiamata dall’art. 2 dello Statuto del Regno.
Chi fu il motore della “congiura”? Una iniziativa che parte da lontano, si è detto, immaginata in vari modi d’intesa con il Re che, secondo testimonianze non equivoche, da tempo meditava di allontanare il “collega” Primo Maresciallo dell’Impero, con il quale non sopportava di condividere quel grado che, per definizione, doveva essere unico, rendeva visibile quella “diarchia” che ledeva le prerogative costituzionali del Re ed il quadro istituzionale della Monarchia parlamentare. Ad esempio la legge 24 dicembre 1925, n. 2263, modifica l’impianto statutario secondo il quale “al Re solo appartiene il potere esecutivo” (art. 5) stabilendo che “il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo del suo Governo”, introduce la figura del “primo ministro” e gli attribuisce la qualifica di “capo del governo”. Una norma dalla quale i giuristi fascisti giungono alla conclusione che “il governo non comprende il re e corrisponde piuttosto all’organo tramite il quale la Corona esercita la funzione esecutiva; essere capo dell’esecutivo, dunque, non significa essere capo del governo” (P. Colombo, Storia costituzionale, cit. 97). “Si assiste, in sostanza, ad un rovesciamento della logica della controfirma ministeriale: qui sembra essere il re a “controfirmare” gli atti dei ministri, piuttosto che viceversa” (ivi).
A proposito del grado di Primo Maresciallo dell’Impero, poi,  è noto che, nel contrasto tra il Re ed il Duce, che intendeva fregiarsene, fu richiesto il parere del Prof. Santi Romano, Presidente del Consiglio di Stato, il quale giunse alla conclusione che con la duplice attribuzione non sarebbe stata messa in discussione la prerogativa regia di capo dell’esercito. Vittorio Emanuele non apprezzerà molto il parere dell’insigne giurista, tanto da dire: “i professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere”.
Non è dubbio, infatti, che Vittorio Emanuele III, cui certo in alcuni momenti non ha giovato dinanzi alla storia il suo formalismo costituzionale (“La Camera e il Senato sono i miei occhi e le mie orecchie”, era solito dire), mal sopportava l’invadenza del “cugino” dittatore, soprattutto in quella fase del ventennio nella quale il Duce aveva preso posizioni antinglesi che il Re non gradiva e che non a caso compaiono nell’invettiva di Grandi che denuncia l’abbandono della “via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra”. Una collaborazione che Vittorio Emanuele aveva patrocinato ai tempi della prima guerra mondiale.
Alla resa dei conti il Duce sembra rassegnato ad uscire di scena. Troppe le testimonianze in questo senso. Come dimostra l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana alla quale fu forzato, anche se pensò fosse una scelta idonea ad evitare l’occupazione militare dell’Italia del Nord con le conseguenze tragiche che erano state sperimentate qua e là per l’Europa.
I fascismo cade all’alba del 25 luglio, senza spargimenti di sangue, al termine di una drammatica ma ordinata votazione in cui i gerarchi rimettevano il potere nelle mani della Corona. Mussolini non si oppone, lascia fare. Perché fu così imbelle? Commenta 70 anni dopo Sergio Romano sul Corriere della Sera: “Se i buchi nella barca non li avesse fatti lui, verrebbe voglia di concludere che, fra i molti protagonisti del 25 luglio, Mussolini non fu il peggiore”.
La resa dei conti era nell’aria, dunque, e nella realtà delle cose, nell’andamento disastroso delle operazioni militari culminate nei giorni precedenti nell’invasione della Sicilia, là dove l’Esercito avrebbe dovuto fermare gli alleati “su quella linea che i marinai chiamano bagnasciuga”, come aveva detto in un discorso del 24 giugno, confondendo la linea di “fior d’acqua”, la parte di superficie della carena della nave limitata superiormente dal piano di galleggiamento, con la “battigia”, che si bagna e si asciuga per effetto del moto ondoso.
L’aveva intuito il pomeriggio del 24 Donna Rachele. Ha come un presentimento, consiglia al marito, che si appresta ad andare a Palazzo Venezia, di far arrestare tutti i gerarchi.
All’alba del 25 luglio e nelle ore successive anche lei si sarebbe resa conto del tradizionale, italico abbandono del perdente. A cominciare dai “fedelissimi”, come i Moschettieri del Duce, dileguatisi alla chetichella, in borghese, da Palazzo Venezia. Ugualmente gli ardori del Console Galbiati, comandante della Milizia, che aveva minacciato di mobilitare le truppe “fedeli”, si smorzano rapidamente. Rimase al suo posto, immobile. Mentre Carabinieri ed Esercito tenevano le posizioni prestabilite, concordate dalla Stato maggiore d’intesa con il Sovrano che avrebbe dovuto affrontare ancora  ben altre, impegnative prove per salvare il salvabile.
28 luglio 2013
Improntitudine e arroganza dei partiti:  vogliono i soldi pubblici ma non il controllo pubblico della Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola

     Si è parlato molto in questi ultimi tempi di abolire il finanziamento pubblico dei partiti immaginando ipotesi alternative difficilmente percorribili. Ad esempio è evidente che il finanziamento privato mette a rischio il finanziatore rispetto ad una maggioranza politica e di governo di segno opposto. Tanto è vero che molti industriali usavano finanziare tutti, sia pure in misura diversa, per mantenere agganci con tutti.
Si sente dire anche che chiudere i rubinetti pubblici improvvisamente non sarebbe giusto. Danneggerebbe i dipendenti dei partiti che si troverebbero improvvisamente sul lastrico. E gli stessi partiti vorrebbero un tempo necessario, una volta indentificato un nuovo meccanismo di finanziamento, per riconvertirsi nella nuova realtà.
Tutto ragionevole. Sta di fatto che, ove fosse in qualche modo mantenuta una contribuzione pubblica questa non potrebbe non essere assoggettata a controlli, non a controlli qualunque. Nel nostro ordinamento il denaro pubblico è soggetto a verifiche di legalità e di regolarità della Corte dei conti, come di recente è stato definito dal Parlamento con la conversione in legge del decreto 174 del 2012 prevedendo  che le Sezioni regionali della Corte dei conti controllino i rendiconti dei gruppi consiliari regionali, destinatari di somme a carico dei bilanci dei rispettivi Consigli sulla base di leggi che le regioni si sono date quanto alla qualità e quantità delle spese ammissibili.
In sede nazionale la Corte già controlla i rendiconti delle spese elettorali dei partiti in occasione del rinnovo di Camera e Senato. Quindi è già sul campo ed ha svolto questo non facile lavoro con serena determinazione raccogliendo consensi da parte di quanti hanno maggiormente senso dello Stato.
Il disegno di legge, ha scritto BlitzQuotidiano arriverà a breve in Parlamento dove troverà opinioni dissenzienti tra chi vuole abolire ogni finanziamento pubblico (Letta, Renzi) e quanti propongono forme miste pubblico-privato. L’ipotesi del 2 per mille, in particolare, è osteggiata in particolare dal Movimento 5Stelle.
Quale soluzione, dunque? Il timore è quello di una nuova Tangentopoli, un pericolo sempre dietro l’angolo a leggere i giornali che di fatti di corruzione si occupano in pratica tutti i giorni. Corruzione a fini personali che potrebbe esplodere letteralmente, come fu nel 1992, per sostenere i “costi” della politica.
Dunque bene un qualche tipo di finanziamento pubblico ma con i controlli che si devono laddove si spendono somme di tutti. Controlli che non possono non essere affidati alla Magistratura contabile, organo terzo che garantisce tutti, i partiti ed i cittadini, dalle cui tasche quelle somme sono vengono prelevate.
BlitzQuotidiano, riferendo del dibattito in corso, qualifica come “più agguerrito” Maurizio Bianconi del PdL che rimbecca la Corte dei conti per aver segnalato come gli incassi dei partiti siano stati pari a 2 miliardi a fronte di 500 milioni spesi. E dice “i magistrati sono gli unici che si sono dati l’aumento di stipendio: non hanno diritto di parlare”. Arrogante e ignorante, nel senso che ignora un dato essenziale. I magistrati non si possono “dare” lo stipendio che è previsto per legge. Così confermando le ragioni del discredito di cui “gode” la classe politica. Un fatto pericoloso, che alimenta la ribellione della gente ed il rigetto della politica che, se fosse rappresentata da altre persone tornerebbe ad essere quella nobile arte della gestione della cosa pubblica che ci era stato insegnato dai nostri maggiori, come si usa dire, da quanti hanno combattuto per la libertà sperando di metterne la difesa in mani migliori.
23 luglio 2013
Reduci allo sbaraglio
di Senator

            L’appuntamento è per le 18 di domani, lunedì 22 luglio, alla Sala delle Colonne, in via Poli 19, a Roma, per iniziativa delle Fondazioni Nuova Italia (Alemanno) e FareFuturo (Urso). L’occasione, la presentazione del fascicolo di Charta minuta intitolato Maldestra, con in copertina un’immagine di cerchi sui quali campeggia un “?”. L’occhiello, “come uscire dalla crisi con una nuova prospettiva per l’Italia. Non servono reduci ma innovatori”.
Intervengono Ferdinando Adornato, Gianni Alemanno, Renato Brunetta, Guido Corsetto, Cristiana Moscardini e Adolfo Urso.
Dove gli innovatori? Sono tutti reduci, malconci, ancora frastornati dal tracollo elettorale che per alcuni degli interventori significa anche la fine della vita politica. A cominciare da Gianni Alemanno, scalzato dal Campidoglio in malo modo dopo cinque anni di chiacchiere, come mai era avvenuto ad un sindaco. Come per Adolfo Urso, che a Montecitorio non è tornato.
Solo Adornato e Brunetta sono di nuovo nel Palazzo.
Fuori Corsetto, Moscardini e Urso, gli ultimi due invano aggrappati a Futuro e Libertà.
            Una riunione di reduci, dunque, con due visitatori, il Prof. Adornato e il Prof. Brunetta che, come le stelle, stanno a guardare.
Un’assise senza futuro, di personaggi “incredibili”, cioè che non suscitano alcuna credibilità, che con la loro inefficienza hanno affossato la destra, per aver scambiato la politica, quale nobile arte della gestione della polis, diretta a perseguire il bene comune, per una disinvolta occupazione del potere. Ovunque, nello stesso modo, per arruolare amici o camerati o portaborse modesti, assatanati di quel potere che per anni avevano visto col cannocchiale dicendo di volerlo riplasmare alla luce di ideali nobili.
Invece, come diceva Gianfranco Fini di Berlusconi “senso dello Stato zero”, sono stati proprio gran parte di quelli che militavano sotto le insegne di Alleanza Nazionale a dare pessimo esempio di politica, spesso inconcludente, quando non subordinata ad interessi privati.
Adesso questi reduci male in arnese pensano di poter passare per “innovatori”, fidando nella tradizionale, scarsa memoria degli italiani che, dopo averne dette di tutti i colori all’indirizzo di quelli che avevano tradito ideali e promesse elettorali, hanno quasi sempre votato ancora lo stesso partito e le stesse persone, quelle messe in lista dal porcellum.
Non sarà più così. Gli italiani ne hanno abbastanza di questi mestieranti che hanno tradito gli ideali dei quali si erano detti paladini, che hanno abbandonato l’identità che li aveva caratterizzati e che aveva riscosso consensi. Ed hanno pensato solo ai propri interessi
Devono uscire di scena. E con loro anche le seconde linee, i giovani e i meno giovani che hanno allevato, perché a loro immagine e somiglianza. Inaffidabili. Modesti personaggi che l’Italia non vuole più, neppure a livello di consiglio comunale di comuni al di sotto di mille abitanti.
Tempo sprecato, dunque, questo rifiorire di iniziative alla disperata ricerca di un ubi consistam di persone che non hanno una professione o se l’hanno non vi si sono mai applicati.
Tutti a casa. Per cui rimangono il solo Corsetto, che merita apprezzamento per l’onestà intellettuale in passato dimostrata, per il quale questa non è la compagnia giusta, Adornato e Brunetta che tradizionalmente vagano tra ideali e interessi personali che consentono loro di galleggiare, comunque!
21 luglio 2013

A proposito dell’intervista di Saccomanni sulla cessione di quote di proprietà pubblica in importanti imprese nazionali. L’uso della lingua italiana, sempre preferibile (insomma, in pubblico “parla come mangi”)

di Salvatore Sfrecola

           È accaduto più volte in passato a uomini politici italiani ed a dirigenti pubblici che una intervista in lingua straniera abbia dato luogo ad equivoci, subito ovviamente ridimensionati da precisazioni ufficiali. È accaduto e accadrà certamente ancora, come nel caso delle dichiarazioni del Ministro dell’economia Saccomanni a proposito della ventilata, non nuova, cessione di quote di partecipazioni del tesoro in società di rilievo pubblico, quelle che un tempo erano le aziende autonome o le finanziarie pubbliche.
Non interessa oggi il merito della questione che altri hanno commentato e che sarà ancora oggetto di approfondimenti.
Preme, invece, sottolineare l’imprudenza nell’uso della lingua straniera, in particolare dell’inglese. Imprudenza condita con una buona dose di presunzione, certamente perdonabile, ma non per chi esercita funzioni pubbliche.
A questo proposito ricordo una interessante riunione alla Farnesina, presieduta da Umberto Vattani, all’epoca Segretario Generale del Ministero degli affari esteri.
Si trattava di un incontro degli ambasciatori italiani accreditati in tutti gli stati, ai quali Vattani voleva trasmettere direttive del Ministro, era Frattini, e delineare alcune modalità di esercizio della delicata funzione.
È così venuto a parlare dell’uso della lingua italiana nelle relazioni internazionali. Ricordo perfettamente perché mi colpì, e lo ritenni giustissimo, l’invito ad usare sempre la lingua italiana in pubblico. Disse Vattani: “non sarete valutati e apprezzati per come parlate inglese, francese o tedesco, ma per il modo con il quale gestite i rapporti. Se poi nelle conversazioni private potete vantare una buona conoscenza della lingua dell’interlocutore tanto di guadagnato. Ma nei discorsi ufficiali e nelle interviste dovete usare l’italiano. Vi mette al riparo di equivoci nella traduzione e vi consente, grazie all’intervento dell’interprete, anche se conoscete la lingua bene, un adeguato tempo di riflessione prima di rispondere che può essere prezioso”.
           L’esortazione mi ha convinto e ne ho tratto più volte conferme. Per quanto possa conoscere bene la lingua del suo interlocutore un pubblico funzionario deve avere la prudenza di esprimersi con compiutezza e sicurezza, quella che solamente la lingua madre può consentire. È facile nella traduzione che un aggettivo o una espressione gergale possa essere equivocata.
           La storia della diplomazia conosce clamorosi esempi. Per tutti la traduzione del famoso trattato di Uccialli che diede luogo sul finire dell’800 ad una dura controversia con l’Abissinia foriera di una guerra sanguinosa.
Il trattato fu stipulato fra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia il 2 maggio 1889 nell’accampamento del Negus Menelik II, imperatore d’Etiopia, ad Uccialli dallo stesso Menelik e per l’Italia dall’ambasciatore italiano ad Addis Abeba, conte Pietro Antonelli. Il trattato, volto a regolare i rapporti reciproci tra i due Stati (l’Etiopia riconosceva le recenti acquisizioni territoriali italiane in Eritrea) diede luogo ad una dura controversia in ordine alla formula dell’articolo 17, redatto, come da tradizione, in due versioni, nelle lingue delle parti contraenti, italiano e amarico.
Le due versioni erano in netto contrasto: il testo italiano infatti recitava:
“Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi”, mentre nella versione in amarico si leggeva: “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia”.
Evidenti le conseguenze. In base al testo italiano, il Negus delegava al governo italiano tutte le sue attività di politica estera, rendendo di fatto l’Etiopia un protettorato dell’Italia; in base alla versione in amarico, invece, la delega era solo facoltativa.
            Sta di fatto che il Presidente del Consiglio, Francesco Crispi, l’11 ottobre 1889 notificò il Trattato con la versione italiana dell’articolo 17 alle potenze firmatarie dell’atto di Berlino, Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Austria, Russia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Svezia, Norvegia, Turchia e Stati Uniti. La decisione fu accolta malissimo dalla delegazione etiope e quando il Negus allacciò relazioni diplomatiche con l’Impero russo e con la Francia in modo autonomo e senza darne preavviso all’Italia iniziarono controversie che furono una delle cause della successiva sfortunata Guerra di Abissinia tra l’Italia e l’Etiopia, conclusasi con una netta vittoria degli etiopi. Una citazione direi ratione materiae.
Insomma, il detto popolare “parla come mangi” (o “magni”, alla romana) esprime una verità innegabile.
21 luglio 2013

Governo e dintorni
La carica dei mediocri: non è stato sempre così
di Salvatore Sfrecola

Viviamo da anni nell’era della mediocrità. Della classe politica e di quella amministrativa che spesso, anche ai livelli più elevati, conta soggetti di scarsa professionalità ed esperienza, il più delle volte non vincitori di prove selettive ma nominati dai politici di turno.
Perché tutto questo? Perché da molti anni la classe politica al governo non viene selezionata sulla base di esperienze maturate in precedenti responsabilità di gestione della cosa pubblica a livello di comuni, province o regioni.
Un tempo, infatti, non si diventava ministro senza esperienza di sottosegretario, né di sottosegretario se non erano state svolte funzioni di parlamentare per una o due legislature. Così, ugualmente, non si entrava a Palazzo Madama o Montecitorio se non si era stati almeno consigliere comunale, in sostanza senza una esperienza politico amministrativa.
Salvo rare eccezioni questo cursus honorum era necessario per accedere ai piani alti del Palazzo, avendo acquisito, attraverso esperienze significative, la capacità di percepire in quali termini l’indirizzo politico elettorale si trasforma in concreti atti di gestione, quelli che sono di competenza dell’alta burocrazia statale, che predispone atti normativi, generali e specifici, necessari per la realizzazione dei programmi di governo.
Questi politici sapevano dialogare con i loro collaboratori, con quella variegata classe di Grand Commis fatta dei Capi di Gabinetto e degli uffici legislativi e di dirigenti generali, in numero limitato, come esige una adeguata selezione. Consiglieri di Stato, della Corte dei conti e Avvocati dello Stato, indipendenti per definizione, anche nei confronti dell’Amministrazione presso la quale coadiuvavano il ministro, sapevano dialogare con i vertici dell’Amministrazione, dirigenti sempre di elevata professionalità.
Questo scenario è cambiato radicalmente sotto entrambi i versanti. Si diventa ministro o sottosegretario per meriti diversi da quelli che possono derivare dall’esperienza politica, mentre i più stretti collaboratori vengono anch’essi selezionati in ragione della loro fedeltà cieca, non alle istituzioni ma alla persona o al partito. È lontano il tempo in cui un Vincenzo Caianiello, all’epoca Consigliere di Stato (sarebbe divenuto Presidente della Corte costituzionale) lasciava la direzione dell’Ufficio legislativo del Ministro Nicolazzi per dissensi tecnici sul disegno di legge sui suoli.
Ugualmente l’Amministrazione è stata letteralmente demolita, attraverso una sistematica proliferazione di uffici ai quali vengono preposti molto spesso giovani virgulti di partito o reclutati nelle segreterie politiche e in aziende private, con scarsa o nulla preparazione sulle procedure amministrative, che spesso si rapportano con arroganza nei confronti della struttura, con la conseguenza di determinare un clima che non favorisce la collaborazione necessaria all’interno di un ufficio.
La nuova realtà era ben presente a politici di lungo corso come Giulio Andreotti, sei volte Presidente del Consiglio dei ministri dopo aver ricoperto l’incarico di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e di ministro delle finanze, dell’industria, della difesa, sempre accompagnato in questi incarichi da collaboratori tecnici di elevata professionalità.
E poiché siamo andati indietro nel tempo voglio ricordare una vicenda che mi fu raccontata, molti anni dopo, da Ferdinando Carbone, uno dei più illustri Grand Commis che abbia avuto l’Italia del dopoguerra, una carriera iniziata da giovanissimo in Magistratura ordinaria, poi Avvocato dello Stato, Consigliere di Stato, infine Presidente della Corte dei conti per sedici anni. Nel frattempo aveva svolto le funzioni di Capo di Gabinetto di Luigi Einaudi al Ministero del bilancio e di Segretario Generale della Presidenza della Repubblica con lo stesso Einaudi.
La vicenda è proprio quella della istituzione del Ministero del bilancio, un dicastero creato apposta per Luigi Einaudi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia. Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio (siamo al IV Governo dello statista trentino, 31 maggio 1947 – 23 maggio 1948), aveva fortemente voluto che Einaudi entrasse a far parte dell’Esecutivo formato dalla coalizione DC – PLI – PSLI – PRI. L’indicazione fu quella di Ministro delle finanze e del tesoro, impegno notevole che il Professore, come tutti chiamavano il grande economista, capì ben presto non adeguato all’impegno di risanamento del Paese distrutto dalla guerra che aveva assunto con il suo ingresso nel governo. Così dal 6 giugno 1947 divenne Vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, cessando in pari data, dalla carica di ministro delle finanze e tesoro.
Il Ministero del bilancio fu istituito con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 4 giugno 1947, n. 407, che contestualmente sopprimeva il Ministero delle finanze e tesoro e costituiva due distinti dicasteri, delle Finanze, guidato da Giuseppe Pella, e del Tesoro, cui fu preposto l’economista Gustavo Del Vecchio.
Ebbene, pochi ricordano la vicenda complessa del passaggio di Einaudi dal Ministero delle finanze e del tesoro, alla Vice Presidenza del Consiglio e della istituzione del Ministero del bilancio.
Einaudi voleva uno strumento duttile di controllo della spesa pubblica senza oneri di gestione, quelli che alle finanze richiedevano la firma di molte decine di atti al giorno (all’epoca gli atti di spesa, anche i più modesti, ed i provvedimenti amministrativi erano tutti firmati dal ministro). Della sua idea si diede carico Carbone, suo Capo di Gabinetto, che ne parlava con De Gasperi che voleva conoscere come in concreto Einaudi intendesse definire il suo ruolo. L’idea doveva essere messa a punto dal Consigliere Carbone che vi lavorava alacremente cercando di costruire un sistema normativo del tutto nuovo secondo i desiderata del Professore. Sicché un giorno, pressato da De Gasperi che chiedeva cosa volesse Einaudi, Carbone rispose “la luna nel pozzo”. E De Gasperi non ebbe dubbi che la si dovesse dare all’economista piemontese del quale, aggiunse, “non possiamo fare a meno”.
Così fu varato il decreto legislativo che consentì al grande economista, che lungo decine di anni aveva insegnato ed indicato, dalla cattedra e dalle colonne de La Stampa e del Corriere della Sera come si gestisce l’economia e lo Stato, di favorfire in breve tempo la ripresa dell’economia italiana nel rispetto dei principi della libera concorrenza e della libertà di intrapresa.
Una vicenda che dimostra la capacità politica di un grande statista, De Gasperi, e di uno straordinario economista, Einaudi, insieme al livello professionale di un alto magistrato, Carbone, che univa alla conoscenza del diritto e dell’Amministrazione quella sensibilità politica che, unita all’indipendenza di giudizio, dovrebbe sempre caratterizzare i collaboratori dei ministri.
Siamo anni luce lontani da quel che osserviamo oggi. Ma torneremo a parlarne dacché la situazione finanziaria ed economica della nostra Italia non è molto distante da quella che Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, con la collaborazione, tra altri, di Ferdinando Carbone, si trovarono ad affrontare all’indomani di una guerra che aveva distrutto la nostra economia e fisicamente i luoghi della produzione.
20 luglio 2013

Presidenzialismo: autogoal del PDL ?
di Domenico Giglio

Il recente rilancio del presidenzialismo, da parte del PDL, scomparso però quasi subito dalle tematiche istituzionali, e per il momento drammatico attraversato dal mondo del lavoro e dell’economia e per i risultati delle recenti elezioni comunali, regionali e nazionali, ha lasciato molte perplessità anche tra gli elettori del centro-destra e ci si è domandati “cui prodest”?
Infatti oggi il PDL non ha o non sa esprimere nessun nome se non quello di Berlusconi, che, per una serie di motivi ben noti è sempre meno spendibile “?segno d’immensa invidia ?d’inestinguibil odio?” stabili, se non crescenti, e ,” ?d’indomato amor?”, calante.
E allora? Anche il Partito Democratico non se la passa bene, ma ha nel suo arco una freccia di riserva che si chiama Matteo Renzi ed una compattezza nel suo elettorato, specie di sinistra,

 di provenienza PDS o addirittura PCI, qualunque siano le alleanze proposte e gli uomini che vengono loro presentati. Se sbandamenti od astensioni vi sono state, se il peso dei centristi alleati alla sinistra è sempre minore – il caso di Enrico Letta chiamato alla Presidenza del Consiglio dal Presidente Napolitano, è, al momento, unico ed eccezionale – vi è uno zoccolo duro di milioni e milioni di votanti che affollano i gazebo delle primarie e le cabine elettorali.
E allora? Hanno riflettuto i pidiellini sui casi di repubbliche presidenziali, USA e Francia, dove i presidenti sono stati eletti direttamente dal popolo con poco più del 50% dei voti, malgrado che, nel caso di Hollande si trattasse di un grigio ex segretario del partito socialista francese, senza alcun particolare carisma e che, infatti, attualmente ha un indice di popolarità molto al di sotto di quel 50% faticosamente raggiunto nelle urne, ma che nessuno può rimuovere prima della pluriennale scadenza del suo mandato.
E allora? Al momento l’unica proposta accettabile, dopo aver raddrizzato l’economia e modificata la legge elettorale, è quella del rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, vero Primo Ministro all’inglese, lasciando al Capo dello Stato, che personalmente e con me tantissimi altri italiani, vorremmo fosse un Re, quale simbolo unitario e nel suo ruolo di garanzia, moderazione e compensazione, che non possiedono i capi direttamente eletti dal popolo (vedi anche ora in Egitto) con le esigue maggioranze già dette e con problemi di coabitazione (vedi Obama) con diverse maggioranze parlamentari.
E allora? Vogliamo rinnovare alla sinistra la possibilità, che ha già attualmente, di avere nelle mani, in forma ancora più marcata e pesante, tutte le cariche istituzionali per sette anni, come nel caso del Capo dello Stato?
Senza dubbio il vento elettorale potrà cambiare, ma a tutt’oggi non se ne vedono i segnali, e perché accada, e qui ci riferiamo al centro-destra, bisogna lavorare in profondità nella società civile, vivere tra la gente, eliminare traffichini e trafficoni in tutto il periodo intercorrente tra una elezione e l’altra e non sperare nel colpo di scena e nel ribaltamento dell’ultimo minuto, come quello riuscito nel 1994 e sfiorato nelle ultime elezioni politiche, alla Camera, e riuscito al Senato, entrambi dovuti ad una sola persona, Berlusconi, della cui stella calante abbiamo già detto.
8 luglio 2013

Attacco alla Chiesa, come e perché
di Salvatore Sfrecola

Chi ha seguito qualche mattina fa Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, ha sentito parlare di crisi della Chiesa Cattolica in ragione di vicende, anche di carattere giudiziario, che l’hanno colpita in Italia ed all’estero, da quelle riguardanti lo I.O.R. (l’Istituto per le Opere di Religione) agli episodi di pedofilia, purtroppo ricorrenti.
Il confronto si è sviluppato soprattutto tra Massimo Franco, notista del Corriere della Sera, e Luigi Amicone, Direttore di Tempi. Il primo ha analizzato le vicende portate all’attenzione dai media immaginando una crisi interna della Chiesa che non si adeguerebbe alle esigenze del mondo moderno. Il secondo ha puntato molto sulla tesi, non nuova, di una sorta di attacco coordinato a livello internazionale, una sorta di complotto del quale ha spiegato le ragioni. La Chiesa costituisce nel mondo un baluardo a difesa di valori sui quali molte società o, più esattamente, parti di esse non si riconoscono più, dal ruolo dei cattolici in politica alle unioni gay, passando per la sessualità. Ne consegue che le vicende giudiziarie di cui si è fatto cenno sono amplificate a misura di chi vuole criticare la Chiesa. Aggiungo io che certe polemiche si sviluppano particolarmente in Italia alla vigilia delle dichiarazioni dei redditi con l’evidente scopo di dissuadere quanti si propongono di donare l’8 per mille a sostegno delle iniziative caritatevoli della Chiesa cattolica.
Devo dire che mi convince di più la tesi di Amicone. In primo luogo perché non ritengo che la Chiesa debba adeguarsi, se non in alcune forme, al mondo moderno. Chi crede che il Romano Pontefice ed i sacerdoti abbiano il compito di insegnare le verità esposte nel Vangelo ha difficoltà a credere che queste siano condizionate dal passare del tempo, anche se, indubbiamente, alcune forme della vita sociale e delle relazioni interpersonali sono mutate nel corso dei secoli. Le forme, ma non le regole. Perché se Cristo ha insegnato che siamo tutti fratelli perché figli di Dio, è evidente che la “legge dell’uguaglianza”, che ha distrutto le regole dei rapporti sociali preesistenti, ha una connotazione permanente che non è condizionata da Monarchie o Repubbliche o regimi vari. L’osservazione storica insegna, semmai, che in alcuni contesti la regola dell’uguaglianza non è stata rispettata, ma anzi pesantemente contraddetta.
Se analizziamo bene le materie oggetto di discussione, si rileva che il cosiddetto mancato “adeguamento” al mondo moderno riguarda essenzialmente le polemiche sul ruolo dei cattolici in politica, nel senso che ad essi si contesta di portare nelle proposte di decisioni, soprattutto legislative (vedi procreazione assistita, disciplina del matrimonio o “fine vita”), principi di origine religiosa. Ugualmente la polemica riguarda i costumi sessuali (è nota vicenda, enfatizzata spesso dai mass media dei preservativi trovati nell’area di Tor Vergata quando vi hanno soggiornato i papaboys in occasione della Giornata mondiale della gioventù che dimostrerebbe in quei fedeli una condotta in netta contraddizione con la castità al di fuori del matrimonio predicata dalla Chiesa). Delle dimensioni del “ritrovamento” si è molto favoleggiato a seconda degli interessi dei dialoganti, ma questo poco importa per chi punta sull’argomento per screditare il “popolo di Dio”.
Analizziamo i fatti oggetto del dibattito. Non c’è dubbio che i casi di pedofilia portati all’attenzione delle cronache in Italia e nel mondo siano gravissimi per i cattolici. Non tanto in se, in quanto ovunque, in ogni comunità c’è chi non rispetta le regole, quanto per la, almeno apparente, difficoltà nel reprimerli. È probabilmente il senso di carità e l’attitudine al perdono che ha convinto alcune autorità ecclesiastiche, soprattutto negli anni passati, a scegliere la strada del trasferimento dei sacerdoti imputati anziché quella del loro isolamento quando non della riduzione allo stato laicale.
Premesso che nessuno può essere condannato senza un compiuto accertamento dei fatti che gli sono addebitati (sono sempre possibili calunnie dalle più diverse motivazioni) prudenza e difesa dell’Istituzione vorrebbe che il sospettato fosse, quanto meno, isolato in attesa della conclusione delle indagini. È, infatti, evidente la gravissima ricaduta sull’immagine della Chiesa dal permanere, a contatto con i giovani, di sacerdoti sospettati di comportamenti “impropri”. È facile immaginare la reazione dei genitori cattolici che “affidano” i loro figli alla Parrocchia perché ne ricevano una formazione religiosa in un ambiante nel quale le amicizie lì maturate possono costituire occasione di importanti sviluppi negli anni a venire, negli studi e nelle professioni.
Alla Chiesa si chiede, dunque, un comportamento severo e tempestivo, rispettoso dei principio di non colpevolezza fino a dimostrazione della  realtà giudiziaria dei fatti, ma al contempo a tutela della immagine di una Istituzione che rinviene nella Parola del Vangelo la sua legittimazione nella comunità dei credenti.
Ugualmente la Chiesa deve allontanare da se il sospetto che una istituzione certamente necessaria come lo I.O.R., l’Istituto per le Opere di Religione, che amministra risorse finanziarie necessarie per le attività di culto, dalla costruzione di Chiese all’aiuto ad istituti di insegnamento e sanitari, non sia coinvolta in operazioni bancarie sospette di coprire riciclaggio di denaro di non limpida provenienza in violazione di regole e/o prassi internazionali.
Papa Francesco avrà la forza di mettere da parte personaggi “chiacchierati”? Ce lo auguriamo. L’entusiasmo che questo Papa ha suscitato in tutto il mondo, tra i fedeli che lo identificano come una risposta adeguata ad affrontare le difficoltà che avevano indotto Papa Benedetto XVI al clamoroso gesto delle dimissioni, tra l’altro proprio per non essere riuscito, lui studioso poco incline alla gestione del potere, stanco e con salute incerta, a perseguire obiettivi che richiedono vigoria e una recente legittimazione. Come quella del Supremo Collegio Cardinalizio che si è indirizzato verso un Pastore con esperienza di governo di una non facile Diocesi.
È evidente, dunque, che con queste difficoltà, chi attacca la Chiesa cattolica per i principi morali e religiosi ai quali ispira la sua azione trova modo di screditarne l’immagine sulla base di  comportamenti di singoli che, tuttavia, se reiterati e non repressi, offuscano l’Istituzione nella sua capacità di fare pulizia al proprio interno.
Di questo certamente è consapevole il Santo Padre che non può non percepire come il confronto con il mondo moderno non sia formale ma attenga alla sostanza dei costumi che incarnano valori permanenti la cui enunciazione disturba moltissimo il mondo laico, soprattutto quando nega ogni radice spirituale. È l’errore che ha fatto la Convenzione Europea quando ha negato una realtà storica incontrovertibile, perché le “radici cristiane” del vecchio continente non sono un’invenzione di Papa Giovanni Paolo II che se ne era fatto paladino fin dai primi anni 2000 ma stanno scritti nelle immagini migliori delle nostre città che sono segnate dalle cuspidi dei campanili e dalle cupole delle chiese, sagome che, pur nella diversità degli stili, dicono che l’Europa, nata dalle ceneri dell’Impero Romano lungo molti secoli si fonda sulla cultura che partita dalle rive del mare Egeo si è irrobustita sulle sponde del Tevere, sulla base della filosofia politica dei quiriti, a Roma, “onde Cristo è romano”, come ha scritto Padre Dante.
2 luglio 2013

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