Paola Maria Zerman torna sul “femminicidio” (Avvenire, 24 agosto 2013). Punta di iceberg del malessere sociale
di Salvatore Sfrecola
Ne aveva scritto su questo giornale il 14 agosto (L’ipocrisia del decreto sul “femminicidio”). Ma l’argomento è talmente stimolante per Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato, direttore del giornale on-line www.lafamiglianellasocieta.org, che è tornata a scriverne su Avvenire, il quale l’ha ospitata nella rubrica Scripta manent. Il titolo, Femminicidio, incidere sulle cause, conferma la posizione critica dell’autrice sulla normativa appena varata dal governo. La Zerman ritiene che “in questo, come in altri casi, l’azione politica manifesta inadeguatezza rispetto a un fenomeno assai più ampio di quello che, come la punta dell’iceberg, emerge con prepotenza fino a diventare un’emergenza sociale”. E riprende il tema della “mancanza di una politica di sostegno alla famiglia, che risolva alla radice fattori di tensione che – se esasperati – mettono in seria difficoltà la vita della coppia”.
In sostanza, senza ricondurre gli atroci delitti che la cronaca ci ha consegnato nei mesi scorsi alle difficoltà economiche e sociali delle famiglie in mancanza di adeguate “politiche” che ne allevino in qualche misura gli oneri, la tesi è che la crisi economica, la disoccupazione crescente e la perdita del senso dei valori fondamentali, come quello della legalità, costituiscano in qualche modo il contesto nel quale spesso maturano esasperazioni che, in individui privi di equilibrio o con equilibrio precario, sfociano in atti indicibili di violenza sul partner o addirittura sui figli.
È evidente che non tutte le azioni delittuose, che non sono di oggi e che hanno visto una accelerazione di iniziative penalistiche, dal c.d. stalking al decreto sul “femminicidio” sono riferibili a crisi della coppia per difficoltà economiche e sociali, per la mancanza delle “politiche” che L’avv. Zerman giustamente lamenta. Ci sono sempre, infatti, persone che hanno gravi carenze mentali, che se non usassero violenza alla moglie o alla fidanzata probabilmente rivolgerebbero un’arma nei confronti del vicino di casa padrone del cane che abbaia o dell’automobilista che ne disturba la guida.
Ma anche in questo caso c’è un’evidente carenza di presenza pubblica sui temi della sicurezza. Perché troppe volte i violenti si erano palesati ed erano stati denunciati all’Autorità, senza che questa sia intervenuta. Segno che manca un monitoraggio dei disagi sociali e mentali, che non c’è adeguata prevenzione nei confronti di chi ha difficoltà psicologiche o psichiatriche, se non inviato alle apposite strutture a seguito di intervento obbligatorio dell’Autorità. Casi rari, per cui il più delle volte l’intervento è drammaticamente tardivo anche per la difficoltà, spesso effettiva, di distinguere verità e sospetto nelle denunce.
In ogni caso Paola Maria Zerman, che negli anni 2003-2006 ha coordinato i gruppi di lavoro nell’ambito della Commissione sulla famiglia della Vice Presidenza del Consiglio, coglie certamente nel segno importante quando segnala l’insufficienza delle politiche familiari che devono essere riguardate sotto molteplici profili, a partire da quello fiscale, del lavoro, dell’istruzione e dell’assistenza, come correttamente delineati dalla Costituzione negli articoli da 29 a 31, sotto il titolo “rapporti sociali”. Nell’articolo pubblicato su questo giornale, come in quello ospitato da Avvenire, Paola Zerman non dice che la Commissione di palazzo Chigi aveva elaborato uno schema di disegno di legge in tema di “Statuto dei diritti della famiglia” al quale avevano dato adesione illustri personalità del diritto e della politica, un testo normativo che avrebbe risolto molti problemi, con facilità, il più delle volte senza oneri per il bilancio dello Stato. Fu inopinatamente buttato a mare da chi, Gianfranco Fini, lo aveva voluto e sollecitato prima della “conversione” ad un’idea di destra radicale e anticlericale (come se la famiglia fosse un problema dei cattolici!), che lo aveva portato a votare “no” nel referendum sulla procreazione assistita.
Una battaglia sulle politiche per la famiglia avrebbe dato un esito diverso alle elezioni del maggio 2006, perse per un pugno di voti, al termine di una legislatura nella quale neppure il cattolico Pierferdinando Casini aveva saputo imporsi sul tema delle politiche familiari al quale pure era stato sollecitato. Errori su errori, dunque, incapacità di percepire i problemi veri della società difficile dei nostri tempi nei quali famiglia, lavoro, fisco e sicurezza sociale sono aspetti inscindibilmente connessi in funzione di un progresso solido ed equilibrato. Perché non prevalgano gli sprechi voluti dalle lobby di interessi privati e illeciti, resi evidenti da alcuni dati che non si possono ignorare: 200 miliardi annui di evasione fiscale, oltre 60 di sprechi e corruzione. Le cifre della vergogna!
27 agosto 2013
In morte di zia Bianca
di Salvatore Sfrecola
Era la sorella minore di mio padre, la piccola di famiglia, e per questo, almeno io, non mi sono mai reso conto della sua vera età. E così mi sono quasi stupito di apprendere da mia cugina Tiziana che in effetti era giunta alla soglia dei 96 anni ieri, quando ci ha lasciati dopo alcuni giorni in ansia, tra speranze e timori improvvisi. Ci ha lasciati nel giorno della Madonna Assunta in cielo, lei che alla Madre Celeste era particolarmente devota.
Aveva insegnato a lungo lettere in una scuola media, amata dai suoi allievi per il garbo, la gentilezza, l’entusiasmo con il quale porgeva le nozioni anche le più ostiche, come faceva con noi nipoti quando, qualcuno ricorreva a lei per farsi spiegare ciò che a scuola non aveva ben capito e si vergognava di ammetterlo dinanzi all’insegnante.
Ha lasciato un indelebile ricordo in generazioni di studenti. Alcuni ne ho incontrati anche io. Un giorno, al termine di una udienza, l’avvocato difensore del convenuto mi chiese se la professoressa Bianca fosse mia parente. Un ricordo sincero e spontaneo, come ho potuto accertare.
Garbata e gentile con i suoi studenti, zia Bianca era affettuosissima in famiglia, con i nipoti innanzitutto. Non ricordo un compleanno o un onomastico nel quale non mi giungesse una sua telefonata. Sicché quando il 6 agosto, festa della Trasfigurazione di Nostro Signore, il giorno in cui si festeggiano i Salvatore, non si è fatta sentire ho capito che qualcosa non andava. Come mi ha subito confermato mia cugina Tiziana, che le è stata vicina in questi ultimi anni, dividendosi generosamente tra la zia e la sua famiglia.
Zia Bianca, inoltre, è stata la custode delle memorie familiari, dopo la morte della Nonna Palmira. Era lei che manteneva i rapporti, via via affievolitisi, con alcuni amici di Trani, la città pugliese dove erano nati lei, le sorelle e mio padre e dove il nonno aveva insegnato a lungo italiano e latino nel locale liceo classico con grande apprezzamento dei suoi allievi, alcuni dei quali hanno avuto grande successo nella vita professionale.
Ricordo Ferdinando Carbone, Segretario generale della Presidenza della Repubblica con Luigi Einaudi e poi Presidente della Corte dei conti, che, ormai anziano, mi diceva “tuo nonno non faceva lezioni, le sue erano conferenze”.
Ne sono stato sempre orgoglioso. Porto il suo nome ed ho trovato spesso negli anni passati diversi suoi allievi, come il senatore Renato Tozzi Condivi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo Tambroni, al quale fui presentato anni dopo. Al sentire il mio nome l’anziano parlamentare s’illuminò per un ricordo antico: “ho avuto da giovane un bravissimo professore con questo nome”. Risposi orgoglioso “era mio nonno”.
Di queste memorie, dei tanti preziosi libri di una biblioteca straordinaria costruita dal nonno nel corso di lunghi anni di studio e di insegnamento, tutti accuratamente ordinati e catalogati con sulla costa il numero di riferimento, moltissimi rilegati, era custode Zia Bianca, restia a prestiti (giustamente), tanto che anche a me solo in una occasione ha donato un piccolo libro di Manzoni “Le tragedie, gl’inni sacri, le odi”, editore Hoepli, 1907, che conservo gelosamente e ho fatto rilegare con prescrizione di non rifilare le pagine, per evitare che si perdessero parti delle annotazioni che, a matita, il nonno aveva fatto a margine.
Ecco, la zia è stata la dolcissima, affettuosa testimone dei nostri primi anni di studio, sempre vicina nelle vicende gioiose e tristi della vita, con il suo sorriso e con la sua parola consolatrice.
Mancherà a noi e ai suoi allievi.
La saluteremo domani alle 10 a Santa Francesca Romana all’EUR, in via Leon Pancaldo.
16 agosto 2013
L’ipocrisia del decreto sul “femminicidio”
di Paola Maria Zerman*
La cronaca di questi ultimi mesi ha registrato un susseguirsi di gravissimi episodi di violenza consumante contro donne, quasi sempre in ambito familiare. Spesso da parte di mariti o ex. Ma anche di compagni, fidanzati, il più delle volte quando il rapporto di coppia era finito da tempo.
Incalzato da questi episodi, quasi quotidiani, spesso aggravati agli occhi dell’opinione pubblica dalla circostanza che le minacce e le persecuzioni erano state invano segnalate alle autorità, il Governo ha approvato un decreto legge in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, il cui obiettivo è soprattutto combattere il fenomeno della violenza sulle donne e il cosiddetto “Femminicidio”. “L’avevamo promesso. Lo facciamo”, ha detto il Presidente Letta in un tweet nel corso della seduta del Consiglio dei Ministri. Il decreto, ha poi spiegato, che si compone di 12 articoli, interviene su temi essenziali.” C’era bisogno nel nostro Paese – ha precisato – di dare un segno fortissimo, ma anche un cambiamento radicale sul tema”.
Dell’iniziativa il Premier si è detto “molto orgoglioso” perché, inasprendo il regime penale previsto per i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale e lo stalking, dovrebbero sortire l’effetto di frenare tali violenze.
C’è tuttavia, e purtroppo, un po’ d’ingenuità in tutto questo ed una certa dose di ipocrisia, in quanto gli episodi di violenza in molti casi, nella maggior parte dei casi certamente, trovano la loro origine nelle condizioni di disagio che vive la famiglia italiana alla quale i governi e le maggioranza parlamentari da anni non sono riusciti a garantire condizioni economiche e sociali quali la Costituzione aveva previsto riconoscendo a questa “società naturale”, cellula fondamentale della società, un ruolo essenziale. Basta rileggere gli articoli da 29 a 32 della Carta fondamentale della nostra Repubblica per rendersi conto che le politiche sociali hanno manifestato, in tema di famiglia, assoluta inadeguatezza rispetto ai fattori di crescita e di sostentamento che avrebbero potuto stemperare i fattori di tensione che -se esasperati- mettono in seria difficoltà la vita della coppia.
La violenza contro le donne, manifesta, infatti, quasi sempre la crisi della famiglia, perché le leggi di fatto ignorano quella comunità di affetti con funzione di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.) agevolandola con “misure economiche e altre provvidenze” per favorire la sua “formazione” e “l’adempimento dei compiti relativi, “con particolare riguardo alle famiglie numerose” (art. 31). Funzione essenziale perché nella famiglia e attraverso la famiglia la società prepara le future generazioni al ruolo di cittadini e lavoratori. La famiglia microcosmo economico fatta di lavoratori, aspiranti lavoratori, risparmiatori, aspiranti risparmiatori, sicché la cura della famiglia rende il tessuto sociale capace di affrontare anche le difficoltà naturali della vita. Non a caso nella famiglia si realizzano forme di solidarietà che lo Stato avrebbe dovuto cogliere e sostenere. Un esempio per tutti, l’assistenza dei malati e degli anziani che fa risparmiare ingenti risorse ai bilanci pubblici.
Al contrario, da ormai troppo tempo la famiglia è stata lasciata sola a combattere con mezzi inadeguati contro gli innumerevoli problemi quotidiani, che i coniugi devono affrontare, con il rischio così di creare ed esasperare tensioni interne alla coppia e di arrivare a punti di non ritorno che una società più giusta dovrebbe evitare.
Si pensi, tra i tanti esempi, alla mancanza di un adeguato regime fiscale, che, riconoscendo nei figli un investimento per la società, possa alleviare in modo significativo i pesanti oneri economici della famiglia. Tutti noi alle prese con una grave pressione tributaria, possiamo immaginare la situazione, anche psicologica, di chi con il proprio stipendio (spesso modesto e precario) deve far fronte alle tante spese per i figli. Situazione che, obbligando entrambi i genitori a lavorare, determina quel clima di tensione, quel malessere che sovente sfocia in crisi familiari, la cui degenerazione può alimentare esasperazione e intolleranza, spesso anticamera della violenza verso la parte più debole.
È una questione di cultura, della mancanza di un adeguato riconoscimento dell’istituto familiare, che faccia emergere l’enorme risorsa sociale rappresentata dalla famiglia e che, pertanto, ponga al suo servizio opportuni strumenti, anche di carattere psicologico, per superare situazioni di difficoltà e conflitto.
Frequentemente la stampa richiama il confronto con altri Paesi, soprattutto europei, per sostenere forme alternative di unioni, mai per segnalare quali sostegni sono riservati alla famiglia tradizionale in molti paesi. Si pensi innanzitutto alla Francia, a noi vicina per storia e cultura, ma anche alla Svezia. Non solo per quanto concerne il regime fiscale (fondato sul c.d. quoziente familiare), assai più equo perché tiene conto del numero dei componenti della famiglia, ma anche in ragione della molteplicità dei servizi e delle facilitazioni che sono offerti dallo Stato (o dagli Enti locali), sia per quanto concerne l’aiuto domiciliare per i bambini piccoli, che per usufruire dei più diversi servizi scolastici e sanitari.
La nostra legislazione sembra pensata per single. Come dimostrano le coppie di professionisti che decidono di ricorrere ad una fittizia separazione legale per ottenere vantaggi tributari consistenti, come quelli dei servizi sociali. Una donna sola ha la precedenza nella graduatoria dell’asilo nido ed è giusto. Ma se è sola per una scelta indotta dall’esigenza di fruire di vantaggi vuol dire che è lo Stato a remare contro la famiglia.
In queste condizioni di diffuso disagio non ci si può stupire se i semi dell’intolleranza e della violenza attecchiscono in persone dagli istinti asociali.
Né si può avere la presunzione che questi gravi problemi possano trovare soluzione in un decreto legge di carattere penale. La prova evidente del fallimento delle politiche familiari.
14 agosto 2013
* Avvocato dello Stato
Palese disprezzo per le istituzioni
Le Camere vanno in vacanza e non trovano il tempo di nominare i membri laici degli organi di autogoverno delle magistrature amministrativa e contabile
di Salvatore Sfrecola
A metà maggio è scaduto il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, il Consiglio Superiore della magistratura contabile. Più o meno negli stessi giorni è scaduto il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (T.A.R. Consiglio di Stato).
I magistrati hanno eletto i loro rappresentanti, mentre il Parlamento, cui compete la scelta della componente non togata, c.d. “laica”, non provvede e rinvia tutto a settembre, con grave danno per la funzionalità degli Istituti.
In particolare alla Corte dei conti nei prossimi giorni, il 18 agosto, per l’esattezza, va in pensione il Presidente Luigi Giampaolino. Va scelto il suo successore, un adempimento nel quale ha un ruolo determinante il Consiglio di Presidenza che deve indicare al Governo il nominativo del nuovo Presidente, perché il Consiglio dei Ministri deliberi in conseguenza ed il Capo dello Stato adotti il relativo provvedimento.
Non è, ovviamente, solo questo l’adempimento che si richiede al Consiglio di Presidenza. Ad esso spettano le assegnazioni dei magistrati agli uffici, il conferimento di incarichi istituzionali e l’autorizzazione ad accettare quelli extraistituzionali. In sostanza il Consiglio è al centro dell’attività della Corte, come delle altre magistrature, e il regime di prorogatio del vecchio Consiglio scaduto da più di due mesi crea disagio e imbarazzo agli stessi componenti che si ritengono “prorogati” i quali assumono decisioni sulla cui legittimità sono stati espressi più dubbi. I membri togati della prossima consiliatura sono stati eletti, ma rimangono fuori della porta. Il vecchio Consiglio, infatti, continua a lavorare, a bandire concorsi per l’assegnazione di posti, e ad adottare importanti decisioni. Ad esempio ha modificato il regolamento sulla permanenza in servizio del magistrati ultra settantenni. Insomma opera come se fosse nel pieno dei propri poteri.
Continuerà certamente a riunirsi anche dopo il 18 agosto, giorno del collocamento a riposo di Giampaolino. È vero che c’è il Presidente aggiunto, Raffaele Squitieri, che assicura la presidenza del collegio, ma è indubbiamente una situazione non ordinaria. Il Consiglio di Presidenza si riunirà in assenza di un membro di diritto, il Presidente della Corte.
È una evidente, gravissima trascuratezza da parte del Parlamento e anche del Governo che dovrebbe insistere nella nomina dei membri di designazione parlamentare.
L’Associazione magistrati ha sollecitato il Governo e le Camere. Le stesse che mette in mora Cittadini Europei, l’Associazione di consumatori presieduta da Dino Barbarossa che ha inviato un messaggio ai Presidenti del Senato e della Camera ricordando che oltre ai Consigli di Presidenza della Corte dei conti e della Giustizia Amministrativa va rinnovato anche quello della Giustizia Tributaria.
L’appello sottolinea “la delicatezza e l’importanza di siffatte nomine, è evidente. Gli eletti andranno a perfezionare la composizione di organi collegiali fondamentali per l’equilibrio democratico del nostro Paese, fondato sulla separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e sull’autonomia e indipendenza della magistratura. I Consigli di Presidenza in questione infatti costituiscono gli organi di autogoverno dei magistrati amministrativi (TAR e Consiglio di Stato), della magistratura Contabile (Corte dei Conti) e della magistratura tributaria (Commissioni Tributarie), vigilando sulla piena indipendenza e imparzialità delle magistrature speciali, così come il Consiglio Superiore della Magistratura fa con i giudici ordinari”.
Nell’occasione si ricorda come la presenza dei “membri laici”, eletti dalle Camere, ha lo scopo di evitare che tali organi di governo delle magistrature “possano assumere un ruolo di rappresentanza meramente corporativa del rispettivo ordine giudiziario, in totale estraneità rispetto al circuito democratico. Per questo motivo la legge 205/2000 ha previsto per il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa la presenza di “quattro cittadini eletti, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, tra i professori ordinari di università in materie giuridiche o gli avvocati con venti anni di esercizio professionale”. Analogamente il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, prevede tra i suoi membri quattro componenti nominati da Camera e Senato tra professori universitari ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esperienza, come anche il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria”.
La componente di nomina parlamentare è essenziale. Essa porta nelle assise di gestione del personale di magistratura la sensibilità politica del Parlamento e, a sua volta, trasferisce presso le istanze politiche le esigenze funzionali al buon servizio giustizia acquisite nell’esercizio delle delicate funzioni. In sostanza c’è uno scambio di conoscenze e di esperienze che bene ha messo in risalto Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di Diritto pubblico nell’Università di Roma e componente del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, in un volume, “Gli organi dei garanzia delle magistrature – Profili istituzionali del governo autonomo del potere giudiziario” (Jovene, Napoli, 2013), uno studio che si inserisce nella collana “Studi federalismi.it” quale risultato di una ricerca de “La Sapienza – Università di Roma”. Il volume raccoglie i contributi di alcuni studiosi che, come scrive Caravita nell’introduzione, “secondo una linea metodologica di ricerca comune, si sono voluti interrogare sul ruolo e sulle funzioni del CSM e degli altri Consigli di Presidenza che governano il personale magistratuale in Italia. L’esigenza di affrontare ed approfondire questo argomento – continua Caravita – è sorta a seguito della constatazione di un vuoto quasi ventennale nel panorama degli studi di dottrina sul fronte dell’analisi dei profili organizzativi ed istituzionali della Magistratura, quanto piuttosto con riferimento agli altri soggetti dell’ordinamento che, in analogia con il CSM, sono chiamati a garantire e tutelare l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario”.
Aggiungiamo che viviamo un permanente dibattito sul tema della riforma della Giustizia in tutti i settori, con riguardo alle norme sull’esercizio della funzione (basti per tutti la proposta di “separare” le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri) e sulla normativa sostanziale e processuale che attiene alle materie di competenza delle diverse giurisdizioni.
Se ne parla ogni giorno, spesso in tono di dura contrapposizione tra le parti politiche, anche con riferimento al rapporto tra i poteri dello Stato, un profilo essenziale al buon funzionamento della democrazia in uno stato che voglia essere effettivamente “di diritto”.
In questa ottica è evidente che non consentire il buon funzionamento delle istituzioni cui la stessa politica ha demandato il ruolo di garanzia delle magistrature è da parte del potere politico una grave trascuratezza, se non una prevaricazione inammissibile in uno stato costituzionale. Gli organi di garanzia sono, infatti, espressione di quella indipendenza delle magistrature che i Costituenti hanno voluto per assicurare i cittadini che la legge è veramente “uguale per tutti”.
Il Parlamento se ne va in vacanza alla vigilia di Ferragosto senza decidere sui membri laici. È solo trascuratezza o il ritardo nasconde il mancato esito positivo delle solite trattative per individuare chi designare, perché effettivamente adatto alla funzione o necessita di una collocazione magari perché non rieletto in Parlamento?
Non sembri un indebito sospetto. Ma è noto, come insegna l’esperienza, che i partiti spesso scelgono chi in quelle assise deve rappresentare soprattutto le loro idee ed i loro interessi di parte. O essere “ricollocato”.
Il documento di Cittadini Europei cita “indiscrezioni”, non sappiamo quanto attendibili, secondo le quali entrambe le Camere sarebbero “in procinto di nominare quattro membri laici tutti espressione dei partiti che sostengono l’attuale maggioranza di governo, escludendo quindi i partiti di opposizione”. Aggiungendo che “la ratio degli organi di autogoverno è garantire l’indipendenza dei giudici speciali, come previsto dall’art. 108 della Costituzione”.
Cittadini Europei, dunque, “si vuole fare portavoce di un’istanza di trasparenza avvertita in più settori della società civile. Trasparenza nella scelta dei membri da designare, trasparenza nella procedura di nomina, trasparenza nella valutazione dei curricula dei candidati”. Perché esprimano “una particolare sensibilità rispetto al problema della terzietà e dell’indipendenza del giudice, per questo dovranno essere, oltre che competenti, come richiesto dalla legge, oltremodo indipendenti ed equidistanti dagli interessi e dalle dinamiche di partito, in modo da non essere influenzati nell’esercizio delle loro funzioni”. A tale riguardo il documento suggerisce che i candidati siano selezionati “all’esito di una procedura comparativa tra soggetti tutti egualmente dotati delle medesime caratteristiche in termini di competenza e professionalità, slegati da appartenenze politiche o da, seppur teorici, conflitti di interesse”.
Sollecitazioni assolutamente condivisibili. Sta di fatto che la decisione è rinviata a settembre, uno sgarbo istituzionale non tollerabile, ennesima prova che la “casta” è sempre più autoreferenziale e arrogante nei rapporti con gli altri poteri dello Stato con i quali, secondo una lettura corretta della Costituzione, dovrebbe realizzarsi quella leale collaborazione che è la cartina di tornasole di una autentica democrazia.
13 agosto 2013
La Dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla situazione politica (Governo, caso Berlusconi, ecc.)
Pubblichiamo il testo integrale della dichiarazione del Presidente della Repubblica ritenendo di fare cosa gradita ai nostri lettori che leggeranno sulla stampa considerazioni e commenti di taglio diverso che potranno valutare alla luce del documento originale.
“La preoccupazione fondamentale, comune alla stragrande maggioranza degli italiani, è lo sviluppo di un’azione di governo che, con l’attivo e qualificato sostegno del Parlamento, guidi il paese sulla via di un deciso rilancio dell’economia e dell’occupazione”. E’ quanto si legge in una dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
“In questo senso – ha continuato il Capo dello Stato – hanno operato le Camere fino ai giorni scorsi, definendo importanti provvedimenti; ed essenziale è procedere con decisione lungo la strada intrapresa, anche sul terreno delle riforme istituzionali e della rapida ( nei suoi aspetti più urgenti ) revisione della legge elettorale. Solo così si può accrescere la fiducia nell’Italia e nella sua capacità di progresso. Fatale sarebbe invece una crisi del governo faticosamente formatosi da poco più di 100 giorni; il ricadere del paese nell’instabilità e nell’incertezza ci impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica finalmente delineatesi, peraltro in un contesto nazionale ed europeo tuttora critico e complesso. Ho perciò apprezzato vivamente la riaffermazione – da parte di tutte le forze di maggioranza – del sostegno al governo Letta e al suo programma, al di là di polemiche politiche a volte sterili e dannose, e di divergenze specifiche peraltro superabili. Non mi nascondo, naturalmente, i rischi che possono nascere dalle tensioni politiche insorte a seguito della sentenza definitiva di condanna pronunciata dalla Corte di Cassazione nei confronti di Silvio Berlusconi. Mi riferisco, in particolare, alla tendenza ad agitare, in contrapposizione a quella sentenza, ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere. Di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto. Ciò vale dunque nel caso oggi al centro dell’attenzione pubblica come in ogni altro. In questo momento è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella scia delle valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di giudizio; ed è comprensibile che emergano – soprattutto nell’area del PdL – turbamento e preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo ( fatto peraltro già accaduto in un non lontano passato ) e che è per di più rimasto leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza. Ma nell’esercizio della libertà di opinione e del diritto di critica, non deve mai violarsi il limite del riconoscimento del principio della divisione dei poteri e della funzione essenziale di controllo della legalità che spetta alla magistratura nella sua indipendenza. Né è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche. Intervengo oggi — benché ancora manchino alcuni adempimenti conseguenti alla decisione della Cassazione — in quanto sono stato, da parecchi giorni, chiamato in causa, come Presidente della Repubblica, e in modo spesso pressante e animoso, per risposte o “soluzioni” che dovrei e potrei dare a garanzia di un normale svolgimento, nel prossimo futuro, della dialettica democratica e della competizione politica. A proposito della sentenza passata in giudicato, va innanzi tutto ribadito che la normativa vigente esclude che Silvio Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva irrogatagli e sancisce precise alternative, che possono essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso concreto. In quanto ad attese alimentate nei miei confronti, va chiarito che nessuna domanda mi è stata indirizzata cui dovessi dare risposta. L’articolo 681 del Codice di Procedura Penale, volto a regolare i provvedimenti di clemenza che ai sensi della Costituzione il Presidente della Repubblica può concedere, indica le modalità di presentazione della relativa domanda. La grazia o la commutazione della pena può essere concessa dal Presidente della Repubblica anche in assenza di domanda. Ma nell’esercizio di quel potere, di cui la Corte costituzionale con sentenza del 2006 gli ha confermato l’esclusiva titolarità, il Capo dello Stato non può prescindere da specifiche norme di legge, né dalla giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali nonché dalla prassi seguita in precedenza. E negli ultimi anni, nel considerare, accogliere o lasciar cadere sollecitazioni per provvedimenti di grazia, si è sempre ritenuta essenziale la presentazione di una domanda quale prevista dal già citato articolo del C.p.p.. Ad ogni domanda in tal senso, tocca al Presidente della Repubblica far corrispondere un esame obbiettivo e rigoroso — sulla base dell’istruttoria condotta dal Ministro della Giustizia — per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni che senza toccare la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato, possono motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale.
Essenziale è che si possa procedere in un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia e delle esigenze complessive del Paese. E mentre toccherà a Silvio Berlusconi e al suo partito decidere circa l’ulteriore svolgimento – nei modi che risulteranno legittimamente possibili – della funzione di guida finora a lui attribuita, preminente per tutti dovrà essere la considerazione della prospettiva di cui l’Italia ha bisogno. Una prospettiva di serenità e di coesione, per poter affrontare problemi di fondo dello Stato e della società, compresi quelli di riforma della giustizia da tempo all’ordine del giorno. Tutte le forze politiche dovrebbero concorrere allo sviluppo di una competizione per l’alternanza nella guida del paese che superi le distorsioni da tempo riconosciute di uno scontro distruttivo, e faciliti quell’ascolto reciproco e quelle possibilità di convergenza che l’interesse generale del paese richiede. Ogni gesto di rispetto dei doveri da osservare in uno Stato di diritto, ogni realistica presa d’atto di esigenze più che mature di distensione e di rinnovamento nei rapporti politici, sarà importante per superare l’attuale difficile momento”.
13 agosto 2013
Alberto Bechi Luserna : eroe e martire (all’indomani dell’armistizio)
di Domenico Giglio
Avvicinandoci alla data dell’8 settembre, di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario dell’armistizio, è doveroso ed opportuno ricordare alcuni eventi relativi a tale data.
L’episodio oggetto di questa rievocazione è il barbaro assassinio del Tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, Capo di Stato Maggiore della divisione paracadutisti Nembo, di stanza in Sardegna, nel Campidano. Avuta la comunicazione dell’armistizio un battaglione della divisione ebbe una reazione di rifiuto dell’accettazione dello stesso decidendo di aggregarsi alle truppe tedesche per proseguire le ostilità . A tale notizia il comandante della Nembo, generale Ercole Ronco, fedele al giuramento al Re e che nel dopoguerra aderì al Partito Nazionale Monarchico, divenendone a Roma un suo importante esponente, ritenne necessario inviare il suo Capo di Stato Maggiore dai ribelli per convincerli a recedere dal loro ammutinamento.
Così il colonnello Bechi Luserna il 10 settembre 1943, su una auto di servizio, accompagnato da due carabinieri raggiunse il gruppo verso Macomer, e fermato dai ribelli ad un posto di blocco istituito sulla statale Carlo Felice, dove oggi sorge in ricordo un cippo, in località “Castigadu”, fu barbaramente ucciso da una raffica di mitra, insieme con uno dei carabinieri, mentre cercava di parlare con i paracadutisti sovversivi, ed il suo corpo ,chiuso in un sacco fu successivamente gettato in mare dai suoi uccisori, alle Bocche di Bonifacio.
Terminava così tragicamente, per mano fratricida, la carriera di uno dei più brillanti ufficiali del Regio Esercito, insignito di quattro medaglie di bronzo, per le sue azioni in Libia, in Etiopia e ad El Alamein, con la divisione paracadutisti Folgore, di cui narrò le vicende in un suo scritto “I Ragazzi della Folgore “, da cui è stata poi tratta l’epigrafe che si trova nel Sacrario Militare Italiano di El Alamein, dove si recarono, in doveroso omaggio, il Re Vittorio Emanuele III, durante il suo esilio in Egitto, insieme con il figlio, il Re Umberto II, anche Lui ormai esiliato:
“Fra le sabbie non più deserte – son qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore – fior fiore di un popolo e di un Esercito in armi. – Caduti per un’idea, senza rimpianto, onorati nel ricordo dello stesso nemico, – essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa fortuna, – il cammino dell’onore e della gloria . – Viandante, arrestati e riverisci. – Dio degli Eserciti, – accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo del cielo – che riserbi ai martiri ed agli Eroi.”
L’ Esercito ha giustamente ricordato Alberto Bechi Luserna intitolando al suo nome la Caserma di Macomer, attualmente sede del quinto reggimento del Genio Guastatori, appartenente alla Brigata Sassari e recentemente il 28 maggio 2010 il locale Lions Club di Macomer, con grande sensibilità e coerenza con i propri valori fondamentali, ha donato un busto, in pietra basaltica, sorretto da una colonna, con l’effigie del martire, esposto ad un lato dell’ingresso principale della Caserma.
Il miglior suggello alla figura di Alberto Bechi Luserna, esempio fulgido di fedeltà al giuramento al Re, è la motivazione della medaglia d’oro conferitaGli alla memoria:
“Ufficiale di elevate qualità morali ed intellettuali, più volte decorato al valore, Capo di S.M. di una divisione di paracadutisti, all’atto dell’armistizio, fedele al giuramento prestato ed animato solo da inestinguibile fede e da completa dedizione alla Patria, assumeva senza esitazione e contro le insidie e le prepotenze tedesche, il nuovo posto di combattimento. Venuto a conoscenza che uno dei reparti dipendenti, sobillati da alcuni facinorosi, si era affiancato ai tedeschi, si recava con esigua scorta e attraverso una zona insidiata da mezzi blindati nemici, presso il reparto stesso per richiamarlo al dovere. Affrontato con le armi in pugno dai più accesi istigatori del movimento sedizioso, non desisteva dal suo nobile intento, finché, colpito, cadeva in mezzo a coloro che Egli aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell’onore. Coronava così, col cosciente sacrificio della vita, la propria esistenza di valoroso soldato, continuatore di una gloriosa tradizione familiare di eroismo. – Sardegna, 10 settembre 1943.”
13 agosto 2013
Sempre a proposito del 25 luglio 1943
La “congiura” del Quirinale
di Salvatore Sfrecola
È giunto nelle librerie da pochi giorni, con la prefazione di Francesco Perfetti, un prezioso volumetto, in tutto 80 pagine, “La congiura del Quirinale” di Enzo Storoni (Il salotto di Clio, Le Lettere, Firenze, ? 10) che offre un interessante spaccato degli avvenimenti che precedettero la riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio, la successiva uscita di scena, il 25, di Benito Mussolini e la fine del Regime. Il titolo richiama quello di un articolo che Storoni aveva pubblicato il 7 maggio 1949 su Il Mondo di Mario Pannunzio, ma il pezzo forte del volume sta nel Memoriale, inedito, scritto fra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’ingresso a Roma degli alleati il 4 giugno 1944.
Per Storoni si può affermare “senza tema di smentite che artefice unica del colpo di stato sia stata la monarchia”. Anche se non mancano, prova dell’onestà intellettuale dell’uomo, pur fedelissimo al Re, critiche a Vittorio Emanuele III per il pregresso suo atteggiamento nei confronti del fascismo e riserve sulla conduzione di quello che ormai è assodato sia stato un complotto della Corona nei confronti del Duce.
Storoni, avvocato, poi deputato liberale, per entrambi i profili “figlio d’arte” (il padre Emilio era stato un brillante civilista), futuro sottosegretario, aveva conosciuto per motivi professionali il duca Pietro d’Acquarone e ne era divenuto legale di fiducia, ciò che gli avrebbe consentito di entrare in confidenza con lui e di affrontare temi politici quando d’Acquarone divenne Ministro della Real Casa. Ex ufficiale di cavalleria, brillante personalità legata alla Corte, d’Acquarone si apre a Storoni che gli manifesta le aspettative degli intellettuali antifascisti, in particolare di Alessandro Casati e Ivanoe Bonomi, già presidente del Consiglio, che il duca riceve e fa ricevere dal Re.
Non è facile. Nel clima di sospetto ingenerato dalla dittatura e dai controlli diffusi posti in essere dal regime, d’Acquarone prima stenta a comprendere come possano gli antifascisti dirsi certi di un sentire antiregime degli italiani che numerosissimi si erano accalcati sotto il balcone di Palazzo Venezia all’indomani della caduta di Tunisi.
Storoni convince d’Acquarone che quella folla non esprimeva vero consenso nei confronti del regime, che Mussolini ormai aveva perduto “la sensibilità dello stato d’animo della masse”. Aggiungendo che “forse era il suo decadimento fisico e spirituale che lo portava, nel momento più difficile della vita, a circondarsi di persone sempre meno degne che spingevano l’adulazione ai limiti del grottesco: sempre più isolato, sentiva vagamente l’ostilità montante dell’intero paese, l’opposizione crescente in seno allo stesso partito; per evitare di udire e di vedere, si faceva schermo di una cerchia ristretta di cortigiani”.
Sono gli argomenti di Dino Grandi nella requisitoria a sostegno del suo ordine dei giorno il 24 a Palazzo Venezia.
Per Storoni la monarchia costituisce l'”unico potere in grado di agire legalmente, fornito di indiscutibile ascendente sull’esercito, per ottenere l’abolizione del fascismo e la costituzione di un governo antifascista, che ripudiasse senz’altro la guerra di partito in cui l’Italia era stata trascinata”. D’altra parte al Re giungevano giornalmente migliaia di lettere che davano conto del diffuso malcontento nei confronti del regime.
Con il duca d’Acquarone, dunque, “l’unico intermediario tra la corona e il mondo esterno”, Storoni avvia un dialogo che sorregge con promemoria vari destinati al Re per formulare ipotesi sulla uscita di scena di Mussolini. Osserva l’A. come sarebbe stato difficile, senza il sostegno del Re, che “uomini, i quali per tanti anni avevano prostituito la loro coscienza in una serie di acquiescenze, connivenze, equilibrismi, malversazioni, adulazioni, una volta giunti all’apice della ricchezza e degli onori, abbiano ritrovato quel senso del dovere civico che non avevano mai dimostrato di possedere”. Giudizio duro certamente riferibile alla maggioranza dei componenti del Gran Consiglio non a quanti avevano nel tempo messo in guardia il Duce sull’errore dell’alleanza con il tedesco. Come Grandi, De Marsico, De Stefani, Federzoni. Lo stesso Ciano aveva manifestato in più occasioni preoccupazioni per una alleanza storicamente innaturale, a fronte della “tradizionale amicizia” verso l’Inghilterra.
Storoni qualifica “colpo di stato” la sostituzione di Mussolini alla guida del governo, come altri giuristi hanno sostenuto. Ma non ne spiega le ragioni sul piano costituzionale un po’ contraddicendosi, avendo attribuito alla votazione del Gran Consiglio la caduta del regime, in quanto “costituzionalmente sanzionava l’allontanamento di Mussolini”. Il quale, in ogni caso, avrebbe presentato al Re le proprie dimissioni, nel corso dell’incontro con il Sovrano quel pomeriggio del 25 luglio a Villa Savoia.
Prezioso, dunque, il Memoriale di Storoni, un tassello fondamentale per la comprensione di un drammatico passaggio storico che avrebbe avuto un seguito ancora controverso l’8 settembre, alla comunicazione dell’armistizio, e successivamente con l’occupazione di gran parte dell’Italia da parte delle forze armate tedesche decise, su ordine di Hitler, a farla pagare ai “traditori” italiani. Un intento che costerà caro anche al Terzo Reich per aver distolto da altri fronti truppe eccellenti che avrebbero potuto essere meglio impiegate altrove.
Il dopo 8 settembre, dunque, è ancora un tema da approfondire.
7 agosto 2013
Berlusconi e le istituzioni: senso dello Stato zero
di Senator
Colpisce sempre, anche se ci eravamo abituati, la violenza con la quale Berlusconi aggredisce la magistratura, l’improntitudine con la quale si rifiuta di accettare le sentenze che ne accertano, dopo lunghi approfondimenti, le responsabilità penali.
È facile mettere a confronto il suo atteggiamento con quello di Giulio Andreotti sottoposto a processo perché imputato di “intelligenza”con la criminalità mafiosa. Mai una parola contro i suoi inquisitori ed i suoi giudici. Sintomatico il suo saluto, con stretta di mano, a Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica di Palermo, al termine della requisitoria che ne scandiva le responsabilità.
Del resto, anche in altre occasioni, Andreotti e la classe politica della tanto deprecata Prima Repubblica avevano manifestato rispetto per la magistratura, un potere dello Stato necessario ne cives ad arma ruant, come abbiamo letto sulle prime pagine dei nostri manuali di diritto, al primo anno di giurisprudenza. Neppure Craxi che con molta dignità si è addossato le responsabilità di una intera classe politica che lo ha ascoltato in silenzio nell’aula di Montecitorio nella quale il leader socialista chiamava tutti correi.
Abituato ad avere tutto con la forza della sua potenza economica, invece, Berlusconi pensa di poter ottenere sempre quello che desidera, senza curarsi delle regole se non di quelle che gli fanno comodo e che ottiene.
Imprenditore certamente abile, ma fortunato e protetto dalla politica (ha ottenuto quanto ad altri è stato impedito da governi e burocrazia) crede che quel che desidera debba inevitabilmente ottenere e lo persegue ad ogni costo aiutato da yes men privi di dignità professionale, grand commis prestati non allo Stato ma agli interessi dell’imprenditore-politico, personaggi ben noti nella Roma burocratica che non si vergognano neppure un po’ ad essere indicati sui giornali come collocati qua e là nelle strutture del potere politico e/o amministrativo per fare gli interessi personali del Cavaliere.
La presenza di Berlusconi nella vita politica, una discesa in campo in primo luogo per tutelare i propri interessi aziendali, ha alterato le regole della democrazia, l’ha azzoppata senza che ne avessero vantaggi i cittadini, sempre più tartassati dalle imposte e tasse che ha voluto o che ha prodotto con la sua politica economica dissennata. Un’Italia alla sudamericana, in barba ad ogni conflitto di interessi.
Spudorato quanto abile nella modalità con la quale convince i moderati, preoccupati da sempre della possibilità che prevalga la sinistra. Infatti il Partito Democratico presenta un governo con molte facce democristiane di ultima generazione per non spaventare i moderati. In primo luogo portando a Palazzo Chigi il nipote di chi quel Palazzo ha a lungo direttamente o indirettamente guidato, anche al tempo del Governo Monti, essendo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, fedelissimo di Gianni Letta e del Cavaliere.
Con le facce democristiane adesso Berlusconi dovrà fare i conti se deciderà di accelerare sulle elezioni. Anche se è difficile che i moderati si fidino, perché ci sarà sempre un Vendola ad incutere il timore di un’egemonia di matrice comunista.
Ma se scendesse in campo Renzi? Sarebbe una variabile capace di alterare gli equilibri sui quali Forza Italia è nata e che presume di riconquistare.
Vedremo nei prossimi giorni.
Intanto rimandiamo al mittente gli improperi contro le istituzioni, contro la magistratura in particolare, che in bocca ad un condannato e plurinquisito per fatti “imprenditoriali” possono convincere solo gli elettori di bocca buona e quanti non vedono quel ricambio nel Centrodestra che è nell’aria come una necessità ineludibile per il popolo moderato, l’assoluta maggioranza del Paese, che non vuole la sinistra ma che neppure si può riconoscere nell’imprenditore furbastro e prepotente che, come ha detto la Santanché ad Omnibus l’altro ieri, ha stretto molte mani in Europa, ma che si anche conquistato sorrisetti ironici che ci hanno umiliato come italiani.
Senso dello Stato zero. È l’unica frase che mette conto ricordare di Gianfranco Fini con la quale l’allora leader di Alleanza Nazionale chiosava ogni incontro con Berlusconi.
3 agosto 2013
Dopo la condanna di Berlusconi
Adesso un nuovo Centrodestra è possibile
di Senator
La sentenza con la quale la Corte di cassazione, respingendo il ricorso da lui proposto, ha reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale sarà oggetto di numerosissimi commenti e di altrettante ipotesi sulle sue conseguenze politiche di breve e medio periodo. Politici e politologi già si interrogano sugli assetti dei mesi a venire, considerato che del governo è facile prevedere la fine, sia pure, probabilmente, alla ripresa dopo le ferie.
Quel che desta maggiori interrogativi è invece il futuro degli assetti politici, a destra, in particolare, considerato che nessuno ragionevolmente può pensare che tutto rimanga come prima e che la rinnovata Forza Italia possa occupare gli spazi conquistati negli anni d’oro con un leader azzoppato da una pesante condanna in un settore, quello del fisco, al quale gli italiani guardano con crescente preoccupazione per il moltiplicarsi di imposte, tasse e balzelli vari, statali, regionali e comunali, che erodono i loro redditi. Con la prospettiva di ulteriori aggravi per effetto di rinvii di altri tributi che evidentemente prefigurano solo trasformazioni a parità, si fa per dire, di gettito.
La “minestra riscaldata”, come si esprimevano già ieri a Montecitorio alcuni parlamentari di Centrodestra, alludendo alla nuova Forza Italia, non avrà lo stesso appeal della prima versione, anche perché sconta un ventennio di insufficienze nella realizzazione dei programmi di sviluppo economico e sociale che avevano portato vasti consensi tradotti in consistenti gruppi parlamentari, i più numerosi della storia repubblicana, nel 2001 e nel 2008, una forza sprecata, impegnata in pratica solo a realizzare norme capaci di influire in varia misura sull’andamento delle indagini e dei processi riguardanti Berlusconi.
In queste condizioni si profilano iniziative da parte di quanti non intendono essere travolti dalla fine del berlusconismo, intendiamo i politici che non mancano in parlamento e nella società civile, portatori di valori, anche spirituali, personalità assai lontane da quelle modeste che il Cavaliere ha portato con se traendole dall’anonimato del sottobosco politico socialista e democristiano. Mi riferisco a quanti sono rimasti interdetti e terrorizzati alla lettura della sentenza e che da giorni ripetono che non c’è Popolo della Libertà senza Berlusconi, al punto che i più onesti ammettono che non sarebbero mai entrati in Parlamento, nei Ministeri o negli enti, quali dirigenti e amministratori, se non li avesse collocati lui.
Nello scenario che abbiamo sotto gli occhi c’è un Partito Democratico che immagina sbagliando di trarre vantaggio dalla condanna di Berlusconi e dal possibile scompaginamento delle schiere del Centrodestra, contando anche sul fatto che il partito del Cavaliere presenta in posizioni preminenti transfughi della sinistra socialista, quella dalla quale proviene lo stesso Berlusconi. I Brunetta, i Tremonti, i Cicchitto, i Sacconi, per non fare che qualche nome.
Tuttavia è molto improbabile che la Sinistra tragga significativi e duraturi vantaggi della crisi di Berlusconi. È divisa al suo interno, praticamente senza idee, come ha dimostrato la recente campagna elettorale, avendo come unica risorsa quel Matteo Renzi che lo zoccolo duro degli ex comunisti considera un corpo estraneo. E certamente lo è nello stile e nelle idee, tanto che molti lo vedrebbero bene a capo di una destra moderna, veramente liberale e sociale.
C’è spazio, dunque, a destra per qualcosa di nuovo. Non alla maniera dei Fratelli d’Italia, romantica espressione di ricordi gioventù di profughi e reduci da ogni tipo di insuccesso. Una moderna destra liberale può certamente contare su personalità di valore provenienti dalla classe media, dalle università e dalle professioni, laici e cattolici che credono nei valori della civiltà occidentale e nelle radici profonde della cultura greco-romana irrobustita dalla spiritualità cristiana.
Sta in questa vasta area politica la speranza della destra. Cerca un leader che come sempre deve essere dotato di un carisma che trascini il consenso, che faccia sentire la forza delle idee, che anteponga alla politica degli interessi personali quelli della società nelle sue varie articolazioni in un contesto di giustizia e di buon funzionamento delle istituzioni, mettendo al centro dello sviluppo economico e sociale la famiglia e recuperando le grandi possibilità date dal nostro patrimonio storico artistico in un contesto paesaggistico che non per nulla assicurò all’Italia la definizione di “giardino d’Europa”.
Tutto sommato, dunque, la condanna di Berlusconi fa venir meno un equivoco che per la destra è stato deleterio, quello che il Cavaliere sia effettivamente un liberale e non un imprenditore, certamente abile e comunque fortunato, entrato in politica per tutelare le sue aziende, non un uomo di ideali civili, con scarsa, dimostrata, capacità di governo.
2 agosto 2013
L’ossessione di Andrea Pancani, giornalista
La sospensione dei termini processuali
e le ferie dei magistrati
di Salvatore Sfrecola
Andrea Pancani è un brillante giornalista del la La7 che, alternandosi con l’altrettanto brava e simpatica Alessandra Sardoni, conduce Omnibus, la trasmissione di approfondimento di quella emittente, spazio interessante nel quale politici e giornalisti, delle varie tendenze, in studio o collegati in video, si confrontano nell’arco di un paio d’ore, a cominciare dalle 8 del mattino. Compito del conduttore è quello di indicare i temi della giornata, ripresi dalla stampa quotidiana e dalla notizie dei telegiornali e di proporli agli intervenuti, a volte in modo volutamente e palesemente provocatorio, per stimolare il dibattito. Con aggiornamenti in corso di trasmissione sulla base di nuove notizie di agenzia.
Ho sempre apprezzato la professionalità di Pancani, la capacità di suggerire spunti per il dibattito e di cogliere dalle risposte elementi per ulteriori approfondimenti, anche da parte di intervenuti portatori di altri orientamenti o professionalità. Il tutto contribuendo ad un dibattito sereno, anche quando lo spirito della polemica infiamma la trasmissione.
Come capita spesso a tutti noi, anche Andrea Pancani ha un argomento preferito. Si direbbe un chiodo fisso, ricorrente in questo periodo di vacanze, quello delle ferie dei magistrati, a suo giudizio troppo lunghe in particolare considerati i tempi della giustizia, notoriamente lentissima in ogni settore, in particolare nel civile e nel penale. Né minori sono i tempi dei processi amministrativi, tra primo e secondo grado. I motivi sono sempre gli stessi e ben noti, la quantità di processi dovuti alla riconosciuta litigiosità degli italiani i quali ricorrono ai vari giudici spesso per questioni che potrebbero essere definite in sede di conciliazione come previsto in molti ordinamenti esteri. Una strada che il legislatore non ha fin qui voluto tracciare.
Ma torniamo alle ferie dei magistrati, circa cinquanta e più giorni secondo Pancani.
Facciamo il punto sulla questione.
Dal 1° agosto al 15 settembre – così si legge nell’art. 1 della legge – è prevista la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. Lo ha stabilito la Legge 7 ottobre 1969, n. 742. “Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1° agosto al 15 settembre di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”. La Corte costituzionale ha dichiarato, con varie sentenze, la illegittimità costituzionale di quell’articolo nella parte in cui non disponeva che la sospensione si applicasse a varie fattispecie.
Va aggiunto, per completezza, che (art. 2) “In materia penale la sospensione dei termini procedurali, compresi quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia cautelare, qualora essi o i loro difensori rinunzino alla sospensione dei termini”. La sospensione dei termini delle indagini preliminari non opera, altresì, nei procedimenti per reati di criminalità organizzata.
Altri casi di esenzione della sospensione in ragione dell’importanza degli adempimenti richiesti non rilevano ai nostri fini.
Basta dire, dunque, che in un Paese nel quale festività varie sono parte della nostra tradizione e cultura ed i “ponti” sono accuratamente studiati e sfruttati dai vacanzieri, la sospensione dei termini processuali ha la funzione di assicurare un periodo di riposo a giudici ed avvocati, senza l’incubo della scadenze che costellano i codici e le leggi che consentono le impugnative. Questo giova, ovviamente, anche ai cittadini che devono ricorrere al giudice per vedere tutelati i loro diritti o interessi. Che non sono pregiudicati dal periodo della sospensione dei termini.
Perché Pancani se la prende, ad esempio, con le ferie dei magistrati e non con quelle degli avvocati è un mistero, peraltro neppure troppo inspiegabile. Infatti in un Paese largamente dedito alla violazione delle regole, da quelle del parcheggio in divieto di sosta o in seconda fila, come ognuno può verificare nelle nostre città, per non dire di cose ben più gravi come l’evasione fiscale o la fruizione di servizi ottenuta accampando diritti inesistenti, come dimostra la quotidiana scoperta di falsi invalidi, per anni beneficiari di somme non dovute, i giudici, come i Carabinieri, che richiamano il rispetto delle regole, urtano, come si dice, la “sensibilità” di molti.
Poi non è neppure vero che i giudici appendono la toga a fine luglio e se ne vanno in vacanza per quarantacinque giorni o un po’ di più, come dice Pancani, che conta anche le festività soppresse che hanno tutti i pubblici dipendenti e forse anche i giornalisti.
Con un po’ di pazienza e con onesta buona volontà Pancani potrà verificare nelle cancellerie e nelle segreterie giudiziarie che nel corso del periodo feriale vengono comunque depositate le sentenze che i giudici hanno scritto nei giorni precedenti.
E qui va chiarito all’inclita e al volgo, a chi non lo sa ed a chi fa finta di non sapere o di non capire che scrivere una sentenza non è come riempire un modello mettendo crocette a destra ed a manca, di quelli dei quali le pubbliche amministrazioni fanno largo uso negli adempimenti routinari. Anche le Amministrazioni sono tenute ad adempimenti complessi, come l’adozione di provvedimenti di riconoscimento di diritti o di approvazione di contratti o di atti di gara, nei quali emergono differenziati interessi tutelati dinanzi alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Atti importanti e delicati anche quando il funzionario è guidato dal precedente.
Il precedente giurisprudenziale guida anche il giudice, ovviamente. Ma chi ha un minimo di dimestichezza con le cose della giustizia sa che ogni sentenza ha una propria storia (il fatto), che va accuratamente ricostruita per dare contezza della applicazione della norma che, in diritto, motiva la pronuncia.
Questo impegno è in ogni caso delicato, perché coinvolge la responsabilità del magistrato, la sua deontologia professionale nel rispetto della regola antichissima della corretta e compiuta motivazione della sentenza, richiamata anche dalla Sacra Bibbia, secondo la quale “è inviso a Dio tanto il giudice che assolve un colpevole quanto quello che condanna un innocente”. Una regola che il giudice segue innanzitutto per rispetto del proprio ruolo ed anche per mettere la sua pronuncia al riparo da una eventuale revisione in appello. In quanto è evidente che a nessuno fa piacere se il giudice di secondo grado giunge alla conclusione che i fatti posti a fondamento della sentenza sono diversi e le norme applicate non coerenti con l’impostazione di chi ha introdotto il giudizio o di chi lo ha contraddetto. Ricordando sempre, quanto sostiene ripetutamente Michele Vietti, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando invita a riflettere su alcune proposte in tema di responsabilità civile dei magistrati, che un giudice dà sempre ragione ad una delle parti e torto all’altra, siano entrambe parti private o se ad una parte pubblica si oppone un privato, come accade nei processi civili ed in quelli amministrativi e tributari e sempre nei processi penali.
Tutto questo perché il cittadino deve sapere e capire che il lavoro dei giudice è un lavoro pesante e impegnativo, che sempre richiede ricerche per l’aggiornamento degli indirizzi giurisprudenziali relativi alle norme applicate, anche quando le suggerisce il ricorrente, la controparte o il pubblico ministero. Insomma, con buona pace dei superficiali detrattori del lavoro dei magistrati, siamo sempre di fronte ad un lavoro non esente da difficoltà di ogni genere, come quello di doversi scontrare con norme di ardua interpretazione, scritte male in un susseguirsi di interventi legislativi che determinano non di rado una stratificazione ardua da ricondurre a razionalità.
Lo sanno prima di tutto i cittadini che ricorrono ai giudici per non essere riusciti in altro modo a tutelare diritti e interessi.
Senza voler essere difensore d’ufficio, visto l’argomento, dei giudici di ogni ordine e grado che, come tutti, possono sempre sbagliare, mi sembra che i problemi della giustizia siano seri e seriamente affrontati dagli addetti ai lavori, a cominciare dagli stessi magistrati ai quali molto gioverebbe un sistema normativo, sostanziale e processuale, più coerente e funzionale.
Pertanto la polemica sulle ferie dei magistrati, che hanno la stessa durata di quelle degli avvocati, ripetutamente proposta da Andrea Pancani è certamente fuori luogo.
1° agosto 2013