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Febbraio 2014

Perché i politici inquisiti in sede penale non rinunciano alla prescrizione?
di Salvatore Sfrecola
Filippo Penati ex Presidente della Provincia di Milano, inquisito nell’ambito dell’inchiesta per il cosiddetto “sistema Sesto” ci ha provato, ma la Cassazione ha giudicato inammissibile il suo ricorso contro la sentenza che aveva accertato l’intervenuta prescrizione allo scopo di ottenere la piena assoluzione.
Non conosciamo le motivazioni della sentenza della Sesta sezione penale della Cassazione, che ci riserviamo di commentare più avanti, ma l’occasione ci spinge a riflettere sull’art. 157 del codice penale che al comma sette afferma che “la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dell’imputato”. La norma è conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale 31 maggio 1990, n. 275, che ha affermato l’illegittimità della precedente formulazione per contrato con il principio di ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 della Costituzione nella parte, in cui non prevedeva che la prescrizione del reato possa essere rinunciata dall’imputato.
La questione di legittimità costituzionale degli artt. 157 del codice penale e 152, secondo comma, del codice di procedura penale l’aveva sollevata il Pretore di Macerata, Sezione distaccata di Civitanova Marche, con ordinanza 31 luglio 1989, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27, secondo comma, della Costituzione su istanza espressa dell’imputato.
Nell’occasione la Consulta ha cambiato la precedente giurisprudenza (sentenza 16 dicembre 1971 n. 202) la quale, nel riconoscere l’esistenza di un fondamentale interesse dell’imputato ad ottenere una sentenza che riconosca o l’insussistenza del reato o che egli non lo ha commesso, aveva, tuttavia, ritenuto prevalente l’interesse generale a non più perseguire reati in ordine ai quali il lungo tempo decorso ha fatto cessare l’allarme sociale, e spesso reso difficile l’acquisizione delle fonti di prova.
Nel 1990, dunque, le tesi del Pretore hanno convinto i giudici delle leggi sulla base della enunciata linea evolutiva del sistema giuridico la quale suggeriva che i tempi fossero maturi per una svolta costituzionale.
Alla luce di questa pronuncia, che riconosce un evidente interesse giuridicamente qualificato dell’imputato che si ritiene innocente a vedersi restituito l’onore, la cronaca giudiziaria è ricca di esempi opposti. Nel senso che la maggior parte degli imputati, di fronte ad una sentenza di prescrizione, si guarda bene dal rinunciare alla prescrizione. Tra questi a noi interessa, in particolare, sottolineare questo comportamento quando a valersi della prescrizione sono i politici, coloro ai quali “sono affidate funzioni pubbliche” i quali, secondo l’art. 54 della Costituzione, “hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Espressione che, al di là del dibattito dottrinale sul dovere di fedeltà alla Repubblica, identifica quello che la gente ritiene un dovere “necessario” per chi è investito, per concorso (dipendenti civili e militari, magistrati, ecc.) o per voto popolare (parlamentari, amministratori locali), di una pubblica funzione, cioè di una attività nell’esercizio della quale c’è, in qualche modo, la “spendita” del nome dell’Istituzione pubblica.
Questo dovere, quando non adempiuto contribuisce in modo determinante ad allontanare i cittadini dalle istituzione e, in fin dei conti, a giustificare, quando il fenomeno assume determinate dimensioni, l’elusione dei doveri pubblici anche da parte del cittadino, a cominciare dal rispetto delle regole generali e fiscali.
C’è bisogno, dunque, di un ritorno alla moralità pubblica di cui questo Paese ha estremo, urgente bisogno.
28 febbraio 2014

Lo stile del leader, dalla Città dell’arte alla Città eterna
in una visione strategica culturale ed economica
di Salvatore Sfrecola

Ho molto apprezzato i plurimi riferimenti del Presidente del Consiglio all’arte e alla cultura per sottolinearne il valore, non solo ideale ma anche economico. E gli ha fatto eco il Ministro Franceschini quando ha sostenuto che il suo, quello per i beni e le attività culturali  e il turismo, è “il più importante Ministero economico del nostro Paese”.
Viene da Firenze Matteo Renzi e non tralascia di ricordare nei suoi discorsi e nelle dichiarazioni alla stampa le bellezze della sua Città, spesso evocando le splendide sale di Palazzo Vecchio, in particolare il Salone dei Cinquecento con il suo splendido soffitto a cassettoni, realizzato da Simone del Pollaiuolo, assistito da Francesco di Domenico e Antonio da Sangallo, nel quale venivano ospitati i rappresentanti del Consiglio Maggiore, cinquecento appunto. Lì, ha ricordato Renzi, sedeva anche, negli anni in cui la capitale del Regno d’Italia s’installò sulle rive dell’Arno, il Parlamento dello Stato unitario.
Con orgoglio Renzi ricorda la storia della sua Città e dell’Italia unita, un bagaglio di idee e sentimenti che porta nella Città eterna, capitale dello Stato e centro della Cristianità, per dire anche che Roma e l’Italia hanno una posizione centrale nel Mediterraneo che non ha avuto timore di chiamare Mare Nostrum, per rivendicare un ruolo per la civiltà che sulle rive del Tevere si è sviluppata nei secoli, dimenticata nel dopoguerra, forse per la eccessiva enfatizzazione che ne aveva fatto il Fascismo. Un ruolo che appartiene all’Italia e all’Europa, una porta verso il Medio Oriente e in genere verso i paesi rivieraschi che tradizionalmente dialogano con l’Italia nel ricordo di Roma e della sua civiltà emblematicamente rappresentata dalle meravigliose città che lì costruì l’Urbe, dalla tunisina Biserta alle libiche Sabratha e Leptis Magna, da Cesarea a Volubilis, per non citare che le più note.
Il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono straordinarie occasioni per rapporti culturali ed economici. I primi spesso aprono ai secondi, nel senso che il riconoscimento della storia di Roma è espressione della comune cultura che unisce le diverse sponde del Mediterraneo, che apre all’Italia molto più che alla Francia o alla Spagna.
Si è detto più volte della vocazione mediterranea dell’Italia, in proprio e in nome dell’Europa, ma non si è fatto nulla, se non qualche convegno che non ha aperto a relazioni commerciali ed industriali.
Renzi sembra aver capito l’importanza di queste relazioni. Da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi è entrato nella visione romana del Mediterraneo, effetto di buoni studi classici, ad onta di chi vorrebbe ridimensionarne il ruolo nella formazione dei giovani degli anni a venire.
A Roma, nel palazzo del Governo, ma anche negli altri che frequenterà in ragione del suo ruolo, da Palazzo Madama a Palazzo Montecitorio, Renzi ritroverà l’arte universale di Roma e della Cristianità a ricordargli, di giorno in giorno, che il nostro patrimonio storico-artistico è un valore ideale, che definisce il senso dell’appartenenza, ma è anche un grande patrimonio di cultura che genera turismo e buone relazioni con i paesi rivieraschi, dalla Grecia all’Egitto, ad Israele, dalla Libia al Marocco, dalla Tunisia all’Algeria. Occasioni di importanti scambi commerciali, di cooperazione allo sviluppo e della identificazione di progetti comuni per l’ambiente, le fonti di energia, l’industria.
Effetto anche dell’amore per l’arte, perché dalle magnifiche sale di Palazzo Chigi il nuovo Presidente del Consiglio percepirà, solo ad affacciarsi su Piazza Colonna, dalla splendida colonna Antonina, realizzata dall’imperatore filosofo Marco Aurelio nel 180 d.C., l’apertura Urbi et Orbi, alla Città e al Mondo, che non a caso la Chiesa cattolica richiama nelle benedizioni papali in una proiezione spirituale che è laicamente cultura della quale l’Italia può a buon titolo essere custode per proiettarla nel bacino del Mediterraneo. In ragione della pace e dello sviluppo.
26 febbraio 2014

Considerazioni varie sul governo più giovane (e più rosa) di sempre
di Fernanda Fraioli

Il richiamo maggiormente ricorrente sui media nei giorni di formazione del governo – intensificatosi dopo la presentazione della squadra – è stato quello al colore rosa di cui si è tinta la compagine formata dal nuovo Presidente del Consiglio, come se fosse stato sdoganato un mito.
L’accento, poi, si è concentrato in modo, di certo, non uniforme.
Sulla Ministra Pinotti, prima donna alla Difesa – senza, peraltro, valutare che le donne nelle Forze Armate sono presenti già dall’anno 2000 e con buona pace dell’Europa che vede già quattro Ministre della Difesa (Ine Eriksen Soereide in Norvegia; Jeanine Hennis-Plasschaert in Olanda; Karin Enstrom in Svezia e Ursula von der Leyen in Germania) – come sulla Ministra Madia all’ottavo mese di gravidanza che, abbiamo saputo, ha ricevuto la telefonata della nomina mentre vedeva in televisione con l’altra bimba uno spettacolo altamente culturale quale “Peppa Pig”.
Per non parlare dello scrupoloso esame a cui sono state sottoposte le età anagrafiche (delle sole Ministre) con il pessimo gusto nei confronti di quelle che l’età della Boschi non hanno, nonché le loro loro mise, in foggia, fattura e colore.
Il tutto esteso anche alla signora Renzi – al secolo Agnese Landini – o meglio al suo spolverino grigio cenere dell’insediamento ed al tubino beige del giorno della fiducia.
Certo, il blu elettrico della Boschi; il pesca della Mogherini ed il pancione della Madia non sarebbero passati inosservati ovunque, ma le “ballerine” di quest’ultima ed il “tacco 12” della Boschi non dovevano necessariamente essere zumati, posta la loro poca attinenza con quanto di più lontano dall’altro estremo del corpo umano.
In tutto ciò, non ha minimamente avuto rilievo il colore degli abiti e/o delle cravatte dei restanti Ministri o della loro età su cui si è magicamente sorvolato con l’unica eccezione del Ministro assente, ma esclusivamente per additarlo quale decano dell’intera “giovane “compagine di governo.
Eppure, c’erano ben altri 8 componenti, di cui qualcuno nuovo anche se “rimpastato” e con cravatte da commentare.
Il Ministro delle Politiche Agricole, ad es., anche lui è giovane (ha 35 anni) ed è nuovo, ma lui è stato appena sfiorato (e pure poco inquadrato) e si sa soltanto che si chiama Maurizio Martina.
Non così per la Madia per la quale la stampa non ha esitato a definirla “con l’indirizzo per non sbagliare Ministero”.
O ancora Gian Luca Galletti, Ministro dell’Ambiente (che a differenza di quelli assegnati alle tre donne Madia, Boschi, così fortemente commentate, e Lanzetta) è con portafoglio e comunque con competenze di non poco conto, che avrebbe meritato un maggiore approfondimento giornalistico.
Così come Giuliano Poletti, oscuro ai più e di cui si sa – ma soltanto approfondendo la navigazione su internet – che è presidente della Lega cooperative, è nato ad Imola ed ha iniziato la sua carriera politica come assessore comunale prima e segretario della federazione del PCI dopo.
Eppure, dov’erano nella postazione per la foto? Di quale colore era la loro cravatta?
Non siamo in grado di rispondere perché troppo offuscati dal blu elettrico indossato dalla Boschi – o meglio dalla visuale che si è avuta al momento dell’apposizione della firma davanti al Capo dello Stato – o dal pancione della Madia che lascia presagire uno scarso impegno dovuto all’imminente nascita della figlia che unita a quella che già ha, fa di Lei un Ministro poco affidabile, presente e capace, per definizione.
Per quelli poco indagati, forse, tutto il resto è probabilmente scontato ed è inutile soffermarsi sulla cravatta rossa o sulla giacca slacciata di un neoministro (che, pure, fa poco bon ton e magari poteva essere argomento, se non proprio di gossip spinto, almeno di osservazione specifica) perché quanto di più lontano dalla materia grigia non inficia sulle capacità ed abnegazione che sono, per così dire, scontate.
Non altrettanto per “il tacco 12″ della Boschi che per renderla inequivocabilmente molto femminile (per non parlare del pancione della Madia), le stesse capacità non sono altrettanto scontate, tanto da dover ricorrere ad una definizione quale ” la Boschi senza paura”.
Certo, un ventennio di anagrafe in più e l’abbigliamento meno vistoso non ha richiamato l’attenzione dei media su di loro, eppure c’erano e preposte a Ministeri con portafoglio e peso di non poco conto, ma cosa sappiamo di loro?
Poco.
Eppure una persona che per nove anni è stata Rettore di un’Università (Giannini), una che è stata Presidente dei giovani imprenditori di confindustria ed a capo di un’azienda, per quanto di famiglia, pur sempre di un certo rilievo (Guidi) ed una che ha avuto il coraggio di resistere da Sindaco agli attacchi delle cosche mafiose (Lanzetta), avrebbero meritato uno spazio maggiore rispetto ai colori sgargianti che sono stati commentati e sviscerati in tutti i modi con annesse proprietarie!
Ciò che, invece, avrebbe dovuto colpire è la naturalezza profusa dal Presidente nel valutarle, al pari dei colleghi uomini, idonee alla nomina.
Per non parlare – in occasione della seduta per la richiesta della fiducia, dei continui richiami evocativi, alle signore (siano esse Ministre e/o Parlamentari in genere) prima ancora che agli omologhi colleghi – del tono usato con rispettosa naturalezza che, lungi dal focalizzare la presenza della diversità di genere come fenomeno nuovo e da salutare con particolare sottolineatura, ha soltanto presentato una normalità di cui c’era immenso bisogno.
Sarà per questioni generazionali o professionali, ma ha chiaramente dimostrato di non conoscere – o quantomeno di non condividere e neppure considerare – l’antica concezione (che negli anni ’50 non consentì alla legge proposta per l’accesso in magistratura alle donne che invece, poi, passò in seguito con la legge che ha appena compiuto un cinquantennio, n. 66 del 9 febbraio 1963) secondo la quale la donna era “quell’essere intermedio tra l’uomo ed il bambino” a cui non si possono affidare compiti di rilievo perché contrassegnata “dalla debolezza organica e dalla psicologia a base istintiva, sentimentale e spesso capricciosa??Ha, soprattutto quando è giovane, scarsissimi scrupoli e freni morali. Ha spiccatissime attitudini per l’intrigo, per la simulazione, per il mendacio e per lo spionaggio?E’ tremenda nell’odio e nella vendetta. E tutto giudica dal lato sessuale?”. perché è “fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica??e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata,?”.
Sarà per questioni generazionali che non si è trovato a dover prima metabolizzare l’esistenza di rappresentanti di genere diverso, fatto sta che non ha avuto bisogno di riferimenti e sottolineature di quanto operato in tal senso.
Ed è forse per questo che quegli ancestrali retaggi culturali che – il più delle volte inconsciamente – ostacolano le donne nel cimentarsi a dimostrare quanto di buono e giusto ci sia nella presenza di entrambi i generi nella vita professionale, non hanno impedito ad una giovane mamma o ad una gradevole fanciulla di accettare la proposta ricevuta.
Sarà per motivi generazionali, ma quella preziosa intuizione femminile che tante volte nel “retro bottega” molto ha contribuito alla formazione del prodotto finale, viene oggi valorizzata con la naturalezza che neutralizza quelle sistematiche rinunce che troppo hanno caratterizzato l’universo femminile di fronte a scelte di tal fatta.
Al Presidente incaricato va il plauso di aver apprezzato – in via del tutto preliminare e senza alcun clamore – la sensibilità femminile come valore aggiunto da utilizzare al meglio per far emergere quelle qualità che consentono ai servizi di essere espletati e forniti al meglio con l’omogeneo apporto di tutti.
Si è fatto portatore, in fattivo silenzio, di una nuova cultura della parità nella differenza di genere; promotore di azioni positive concrete che non si fermano ad interventi di facciata; agente di diffusione della cultura delle pari opportunità, dimostrando che solo volendolo e sentendolo fortemente è possibile attuarlo, senza forzare verso la perfetta, impossibile identità tra i due sessi, ma offrendo ad entrambi le medesime possibilità senza enfatizzazione alcuna, nella convinzione che la diversità è una vera ricchezza per il Paese, non un problema da affrontare tra i tanti (di ben maggior peso).
Ha semplicemente scardinato una “normalità” non attuata, fatta di operatori che al contempo sono portatori, all’unanimità, di una cultura organizzativa dell’amministrazione tendente ad una piena valorizzazione paritaria del contributo professionale di uomini e donne.
Forse avremmo avuto bisogno, in questo, anche dell’impostazione dei media.
26 febbraio 2014

La questione dei Capi di Gabinetto
Un “trappolone” per Renzi
di Salvatore Sfrecola

Così come viene presentata la proposta appare senz’altro ragionevole. Perché mettere magistrati amministrativi e contabili, Consiglieri di Stato della Corte dei conti, e  Avvocati dello Stato a svolgere funzioni di Capi di Gabinetto di ministri e di Capi degli Uffici legislativi? Rimandiamoli a casa a svolgere le funzioni proprie delle loro istituzioni.
Nella realtà questa proposta, che nasce da una critica secondo la quale questi personaggi, in posizione chiave nei ministeri costituirebbero una sorta di lobby potente capace di tenere in pugno le amministrazioni con l’effetto, questo è il punto, di frenarne l’attività, è argomento certamente suggestivo. Tuttavia le cose vanno molto diversamente. Le amministrazioni pubbliche costituiscono lo strumento attraverso il quale i ministri perseguono gli obiettivi di politica pubblica affidati alla competenza del dicastero cui sono preposti. Strutture articolate in dipartimenti e direzioni generali, difficilmente manovrabili e gestibili richiedono una mediazione tra la volontà politica del ministro, espressione di quell’indirizzo politico di governo approvato dalla maggioranza parlamentare, e la struttura amministrativa.
Così, per realizzare effettivamente il buon funzionamento dell’amministrazione, tradizionalmente i Capi di Gabinetto, cioè i funzionari che hanno il compito di assistere il ministro nella predisposizione dei provvedimenti amministrativi a contenuto normativo e di gestione, sono prevalentemente tratti dai magistrati amministrativi, del Tar e del Consiglio di Stato, e contabili, della Corte dei conti, o Avvocati dello Stato.
Perché si ricorre a questi esperti? Il motivo è semplice ed è la dimostrazione della pretestuosità della tesi critica ricorrente della quale ieri ha scritto sul Corriere della Sera Sergio Rizzo (“Capi di Gabinetto e dirigenti inamovibili. Il Potere Ombra cresciuto nei Ministeri”).
Il fatto è che, nel bene nel male, il ministro, che il più delle volte non è un tecnico dell’amministrazione, cioè un giurista che conosca le tante leggi del settore e i tantissimi regolamenti amministrativi che dettagliano la volontà del legislatore, si trova ad essere guidato da chi la struttura conosce a fondo, capi Dipartimento e direttori generali cui spetta realizzare, con gli strumenti e gli uomini a disposizione, le direttive amministrative del ministro che gli stessi alti dirigenti predispongono, documenti importantissimi perché hanno il compito di individuare gli obiettivi ed il percorso per raggiungerli. Cioè per tradurre in atti amministrativi e di gestione le scelte politiche del governo e del singolo ministro.
È per questo che da quando l’Italia è Stato unitario le grandi istituzioni del Regno, prima, della Repubblica, oggi, mettono a disposizione dei ministri Consiglieri, di Stato e della Corte dei conti, ed Avvocati dello Stato che filtrano gli atti che provengono dagli uffici e ne valutano la legittimità, in modo che la firma del ministro sia assistita da un esame tecnico qualificato. Non che l’amministrazione non abbia funzionari di valore capaci di redigere atti legittimi e conformi alle direttive ministeriali. Ma i ministri preferiscono affidare il giudizio finale a persone di stretta fiducia proprio ad evitare che la struttura naturalmente portatrice di una propria visione delle cose li prevarichi, soprattutto quando la politica intende definire o attuare riforme non gradite all’apparato.
In questo senso l’estraneità del Capo di Gabinetto alla burocrazia ministeriale è una garanzia per il Ministro e per la stessa Amministrazione perché questi Grand Commis, come vengono tradizionalmente definiti con espressione francese i diretti collaboratori dei ministri (infatti si parla di Uffici di diretta collaborazione), perché con la loro elevata professionalità sono in condizione di assicurare l’effettiva realizzazione della politica governativa e di guidare in qualche modo l’apparato secondo le regole definite dalla giurisprudenza amministrativa e contabile.
E qui va fatto cenno della situazione che si determinerebbe, e si determina, laddove per legge il Capo di Gabinetto appartiene alla stessa amministrazione, per la naturale “complicità” tra colleghi dirigenti, per le cordate che si realizzano nel tempo, queste sì capaci di attuare una chiusura corporativa della struttura, autoreferenziale, capace di influire negativamente sul ministro, imprigionandolo nella logica, pur rispettabilissima, dell’amministrazione. Con sostanziale lesione dell’indipendenza del Ministro.
Riassumendo, dunque, la presenza di un estraneo in funzione di Capo di gabinetto non è un male ma una scelta razionale alla quale i ministri tradizionalmente ricorrono, in più generalmente apprezzata dall’amministrazione. È ovvio che, come tutte le vicende umane, è possibile ci siano disfunzioni, ma esse sono esclusivamente delle persone, come ho potuto verificare sulla base dell’esperienza maturata nell’esercizio di quelle funzioni o nel controllo esterno delle attività dell’amministrazione.
In questo caso si tratta di scelte sbagliate dei ministri. Infatti Sergio Rizzo, che nel suo articolo è partito da una ipotesi di direttiva del Presidente del Consiglio, giunge a formulare l’ipotesi che non si tratterà di una “direttiva per sbarrare la strada” ai Grand Commis, ma di una “moral suasion per indurre i ministri a scegliersi per quei ruoli chiave figure un po’ diverse”. Un po’ ma non troppo perché persone, pur valentissime, provenienti da altri ambienti, dagli enti locali o da società pubbliche o da enti privati hanno un’esperienza molto lontana da quella che avrebbero potuto maturale in un’amministrazione statale e possono, in buona fede, fare più male che bene creando difficoltà al ministro ed allo stesso governo. Scelte recenti lo hanno dimostrato, specie nei settori delicati dei ministeri economici, dove occorrono professionalità omogenee a quelle dell’apparato, capaci di esperienze e perfino di un linguaggio che consenta il dialogo. Necessario, in particolare, in una stagione riformatrice come quella che ci accingiamo a vivere secondo le indicazioni del Presidente del Consiglio.
In queste condizioni il “crucifige” gettato nei confronti dei Capi di Gabinetto “esterni” e degli alti burocrati potrebbe rivelarsi un “trappolone” per una compagine di governo con scarsa esperienza governativa animata certamente da salutare desiderio riformatore, necessario ma da portare avanti cum grano salis, comde si dice, laddove è facile cadere in errori con conseguenze contrarie agli effetti voluti e sperati.
24 febbraio 2014

In vista delle elezioni europee ed amministrative
La giusta accelerazione di Matteo Renzi
di Salvatore Sfrecola

Matteo Renzi ha accelerato sulla successione a Palazzo Chigi per una buona ragione. La credibilità ed il successo di un partito di governo non vengono giudicati dagli elettori per le idee che manifesta in Parlamento, nelle piazze, nei circoli, nelle sezioni o in altri similari luoghi o organismi dove si mobilita il consenso. Perché al momento in cui compilano la scheda nel segreto della cabina elettorale i cittadini hanno presente quel che il partito ha fatto al governo, qual è il successo che questo può vantare nelle politiche pubbliche, dall’ordine interno alla sanità, dalla scuola all’industria, al fisco, i temi che interessano i cittadini, perché con questi si confrontano giorno dopo giorno.
In sostanza ogni elettore è portato a valutare, al momento del voto, se e come le proprie esigenze sono state soddisfatte in adempimento delle promesse elettorali, di quell’indirizzo politico che è stato approvato nelle ultime elezioni. Ed esprime un giudizio che riversa nel voto.
È naturale che sia così, anche se spesso questo profilo è trascurato dai partiti malati di ideologismo i quali credono che le enunciazioni sui diritti, sulle regole o sugli obiettivi siano di per sé capaci di attrarre consenso, di mobilitare i cittadini. Mentre questo vale solo per gli attivisti.
Ha fatto bene, dunque, Renzi ad accelerare sul governo, perché ritiene di poter dare dimostrazione, con la sua indubbia capacità di sollecitazione dell’attività legislativa ed amministrativa, di saper avviare concretamente o addirittura di portare a conclusione almeno qualcuna delle riforme preannunciate in uno spazio di tempo che gli consenta almeno di mantenere i precedenti consensi in vista delle elezioni europee ed amministrative. È questo, infatti, un passaggio delicato, uno scoglio per tutti i partiti che nell’occasione certamente soffriranno, sia pure in misura diversa, degli effetti di una diffusa freddezza della gente per l’Europa e l’euro, a torto od a ragione individuati come responsabili della crisi economica e, pertanto, delle difficoltà che incontrano da anni i cittadini e le imprese. C’è poi da dire che la gestione degli enti locali segnala insufficienze varie nella erogazione di servizi con tariffe crescenti.
Dovrà correre, dunque, il Presidente del Consiglio e far correre i suoi ministri, soprattutto quelli che possono adottare provvedimenti capaci di rappresentare un segnale concreto di cambiamento. In materia fiscale, innanzitutto, per le caratteristiche proprie del fisco, dotato di una straordinaria flessibilità con effetti immediati, psicologici (già al preannuncio del provvedimento) e concreti, in caso di riduzione delle aliquote. Ma anche in materia di spesa, con il pagamento delle fatture insolute di imprese che hanno fornito beni o servizi, ciò che immetterebbe nel circuito della produzione quei sessanta miliardi che mancano all’appello rispetto alla valutazione del debito dello Stato verso le imprese stimato dalla Banca d’Italia in oltre novanta miliardi (essendone stati pagati intorno ad una ventina). Ancora, con qualche significativa semplificazione con l’eliminazione di adempimenti non necessari, misure da adottare in poco tempo.
Devono correre Renzi ed i suoi ministri, senza commettere gli errori che troppo spesso hanno accompagnato alcune riforme, messe in atto da incompetenti, quei personaggi dei quali troppo spesso in passato si sono circondati gli uomini di governo.
Devono correre, perché le elezioni sono vicine e l’opinione pubblica si va formando giorno dopo giorno, con un giudizio sull’Europa e sull’euro che un’azione intelligente di governo deve saper volgere al positivo. Se non altro per una sola considerazione. Gli stati nazionali sono componente preziosa di un’Europa che sappia gestire una sua politica economica, industriale e della ricerca, per rappresentare il meglio della sua cultura e della sua produzione in un mercato mondiale nel quale il vecchio Continente può dire sempre molto, con il genio delle sue imprese e la laboriosità delle sue maestranze.
22 febbraio 2014

Conferenza di Domenico Giglio il 23 febbraio al Circolo Rex
Il Regno del Sud, da Brindisi a Salerno (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944) nel quadro della transizione dal fascismo alla democrazia

È stato un passaggio cruciale della vita politica italiana. La conferma della sopravvivenza dello Stato dopo l’8 settembre fino alla liberazione di Roma e, quindi, al ritorno della Capitale del Regno nella sua sede naturale. Un tempo importante per la ripresa della politica e dei partiti in vista della liberazione d’Italia dall’occupazione tedesca ed del ritorno alla democrazia dopo la parentesi del regime fascista.
Tema difficile per la permanente influenza della politica sulla valutazione dei fatti storici in un clima che non perde la connotazione di resa dei conti, come dimostra la polemica che inevitabilmente accompagna ogni libro di Giampaolo Pansa, ormai da anni dedito a riscoprire verità scomode sulla guerra partigiana, più esattamente sull’influenza dei partiti di sinistra, sugli eventi tragici degli anni 1943-1945 nell’Italia del Nord.
A cimentarsi in questa difficile impresa è l’Ing. Domenico Giglio, studioso di storia patria, Presidente del Circolo di Cultura ed educazione politica REX, che ne parlerà domenica 23 febbraio alle ore 10,45, a Roma, in via Marsala 42, sala uno, con accesso dal Cortile della Casa Salesiana San Giovanni Bosco.
Il titolo della conferenza “Il Regno d’Italia, da Brindisi a Salerno – 8 settembre  1943 – 4  giugno  1944” consentirà di spaziare sulle vicende politiche, militari e diplomatiche di un tempo importante della nostra storia nel corso del quale sono maturati eventi che poi hanno condizionato la vita politica degli anni successivi, i rapporti tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, ad esempio, nel quadro dei nuovi equilibri internazionali delineati dalla Conferenza di Yalta che ha “assegnato” l’Italia all’Occidente democratico.
In questo clima si colloca anche l’elaborazione della Carta costituzionale del 1948 che con il concorso di cattolici e laici ci ha consegnato una importante legge fondamentale che contiene, tuttavia, elementi di disgregazione dello Stato, come la riforma regionale, a lungo opportunamente rinviata ed attuata solo nel 1970 sulla base di uno scambio tra DC e PCI, nel senso che si è attuata una sorta di spartizione tra potere centrale, saldamente nelle mani della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati, e potere regionale consegnato al Partito Comunista egemone nelle regioni “rosse”. Una situazione che ha frenato e condizionato lo sviluppo economico e sociale del Paese a causa dell’eccessivo potere riconosciuto alle regioni, ulteriormente accresciuto in occasione della riforma del Titolo V della Seconda parte della Costituzione della quale, infatti, opportunamente si chiede oggi la revisione. Con la conseguenza di aver determinato un pesante contenzioso tra regioni e tra regioni e lo Stato che grava pesantemente sulla Corte costituzionale.
Un’occasione preziosa, dunque, per gli amanti della storia italiana la conferenza dell’Ing. Domenico Giglio, brillante oratore e attento osservatore delle vicende della storia proiettate in un presente ricco d’incognite.
Nell’occasione sarà ricordato, nel centenario della nascita (22 febbraio 1914), l’on. Alfredo Covelli, fondatore del Partito Nazionale Monarchico, del quale la Camera dei deputati ha recentemente pubblicato un volume di discorsi parlamentari con una importante prefazione del Prof. Francesco Perfetti.
19 febbraio 2014

Verso un Governo Renzi
L’entusiasmo e l’esperienza
(a proposito degli staff dei “soliti noti”)
di Salvatore Sfrecola

È giovane il leader del Partito Democratico e, da ieri, candidato Presidente del Consiglio, pieno di entusiasmo e di voglia di fare. E circondato da giovani, anche essi pieni di entusiasmo e di buoni propositi, per l’Italia e gli italiani.
Di chi si circonderà nei palazzi del potere è ancora difficile dire. Si fanno nomi per i vari ministeri. Tutti con scarsa o nessuna esperienza ministeriale. E questo può essere un problema, perché si governa con la struttura, con gli uomini delle amministrazioni e con le regole che i funzionari devono applicare. Se non si conoscono questi meccanismi non si possono attuare le politiche pubbliche essenziali nel programma di governo.
È vero che le leggi e i regolamenti si possono cambiare ma anche questi con determinate procedure e con l’ausilio della struttura che sola è in condizione di riformare ordinamento e procedure.
E qui che i governi falliscono gli obiettivi. Dominare la struttura non è facile, anzi è difficile, anche perché averla contro significa spesso fare riforme che non funzionano. Il fatto è che i ministri troppo spesso si circondano di Capi di Gabinetto, Capi degli Uffici legislativi, Consiglieri giuridici certamente fidati e professionalmente dotati ma tradizionalmente legati alle lobby burocratiche attraverso incarichi e consulenze, dalle lezioni nelle scuole delle amministrazioni, ai collaudi ed alle commissioni di esame,  legami forti che portano remunerazioni aggiuntive e, soprattutto, altri vantaggi, l’assunzione di figli e nipoti nei ministeri e negli enti controllati.
Per carità, tutte attività consentite e “utilità” umanamente comprensibili (chi non cercherebbe di aiutare un figlio o un nipote ad ottenere un posto di lavoro?) ma situazioni che impacciano chi voglia riformare profondamente le amministrazioni e restituire loro quell’efficienza che è condizione per una buona azione di governo. Basti pensare alle centinaia di regolamenti da mesi in attesa di dare concreta attuazione a molte importanti leggi.
Riusciranno Renzi ed i suoi ministri a rinunciare ai soliti noti, e scegliere esperti sicuri conoscitori dell’amministrazione e pronti a percorrere la strada delle riforme vere, quelle che sono capaci di restituire efficienza all’amministrazione e smalto al governo? Se lo augurano gli italiani ed i tanti bravi funzionari del quali l’Amministrazione italiana è fornita e che sono compressi dagli interessi privati di chi, fuori e dentro i ministeri, pensa al proprio particulare. E Renzi, che viene da Firenze, buoni studi classici, avrà certamente a mente l’insegnamento del “realista” Francesco Guiccardini e lo troverà più vicino dell'”utopista” Machiavelli, un teorico si direbbe oggi. Guicciardini, infatti, nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio, critica il pensiero di Machiavelli per rimanere ancorato a un empirismo assoluto e radicale, lontano dalla “palude” nella quale il governo Letta è rimasto impantanato.
14 febbraio 2014

La cultura… in bancarella
SUNT LACRIMAE RERUM
di Domenico Giglio

A Roma, In viale dei Parioli, il quartiere dei “ricchi”, dei titolari di “pensioni d’oro”, vi sono due banchetti di libri “usati”, ma guardandoli bene e sfogliandoli ci si rende conto che si tratta di volumi prestigiosi, come autore, argomento ed editore, in ottime condizioni di “manutenzione”. Collane storiche, volumi d’arte, opere complete dei nostri grandi poeti e romanzieri, persino l’opera completa di Giuseppe Mazzini, in decine di volumi, pubblicata a spese dello Stato, come da Decreto del 1904, firmato dal Re Vittorio Emanuele III, e controfirmato dal Ministro Orlando. In questi banchetti, lo dico con stringimento del cuore e con profonda amarezza, si celebrano le esequie di una buona media borghesia che teneva alla cultura e che ora, o i suoi eredi, o gli stessi borghesi disperdono la propria biblioteca, vendono i loro libri per integrare la “pensione d’oro”.
Abbiamo veramente toccato il fondo se si pensa che su uno di questi banchi vi è addirittura una “Enciclopedia Treccani”, con tutte le appendici, ad un prezzo che non posso dire, per necessaria riservatezza! La “Treccani”, l’Enciclopedia italiana, il monumento della nostra civiltà, il biglietto da visita dell’Italia nel mondo, il sogno, l’idea realizzata di un grande industriale, Giovanni Treccani degli Alfieri, nata con l’alto patronato del Re, il primo volume uscito nel 1929 e gli altri 36 con meticolosa periodicità negli anni successivi, fino al 1939 . Poi la guerra, ma subito dopo la prima delle Appendici, sempre con quella splendida rilegatura, quella altrettanto splendida carta lucida, per non parlare delle illustrazioni delle bellezze artistiche (ricordo l’effetto che mi fecero le tavole a colori di due formelle della porta del battistero di Firenze del Ghiberti, che Michelangelo definì “la porta del Paradiso”) e di quelle naturali del mondo. Ricordo anche l’arrivo dei volumi in una custodia di cartone, l’apertura della stessa e l’estrazione quasi religiosa del volume, un primo sfogliare delle pagine, era un rito laico della cultura e della civiltà ed ora il rito si celebra su di una bancarella.
9 febbraio 2014

P. S. Pubblico, ancorché l’amico Domenico Giglio abbia precisato che “non è un articolo” queste brevi considerazioni sulla cultura “in bancarella”, non solo con riferimento alla tradizione che vede nelle città e nei borghi del nostro Paese la vendita di libri, nuovi e usati. Una tradizione consacrata dal “Premio Bancarella” che dal 1952, sull’esperienza dei Librai Pontremolesi, generazioni di ambulanti che hanno conquistato l’Italia, ha svolto un ruolo importante nella cultura e nella sua diffusione.
Quegli ambulanti un tempo si vedevano in primavera al passo della Cisa, sull’antico itinerario della via Francigena, tra Lunigiana e pianura padana. Lì si svolgeva il rito dell’assegnazione delle zone dove andare a vendere, in modo da evitare una inutile e dannosa concorrenza, e per scambiarsi informazioni preziose per rifornirsi dei libri, spesso da un editore dal quale acquistare i resti di magazzino coi pochi soldi ricavati dalla vendita delle castagne, del formaggio e delle foglie di gelso.
Una vita piena di grandi sacrifici, quella dei librai pontremolesi ma anche ricca di soddisfazioni per i risultati commerciali, i successi economici, i consensi culturali.
Scrive Oriana Fallaci: “Non avevano confidenza con l’alfabeto, ma “sentivano” quali libri era il caso di comprare e quali no”. Sulle loro bancarelle gli almanacchi, i libri popolari, Guerin Meschino, i Tre moschettieri, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, le Poesie del Giusti, la Genoveffa, la Massima eterna e altri libri di preghiere, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, le Tragedie del Manzoni, Boccaccio.
Quei librai Hanno diffuso la cultura anche nelle campagne. Un lavoro duro perché, a fronte dei costi ridotti d’esercizio,  stanno le difficoltà per il trasporto delle merci e la precarietà delle stagioni. Nel tempo molte delle librerie del nord e centro Italia sono state aperte e, in parte, sono ancora gestite dai pontremolesi.
Il Premio Bancarella, l’unico gestito esclusivamente dai librai nasce da questa tradizione. La prima edizione vede sul palco editori e uomini politici, Giovanni Gronchi, che sarebbe diventato Presidente della Repubblica tre anni dopo,  l’editore Valentino Bompiani, Salvator Gotta. Nel 1953 vince Hemingway con Il vecchio e il mare, anticipando il Nobel. In seguito sarà premiato Pasternak per Il dottor Zivago e poi, via via, i più grandi della letteratura. La proclamazione avviene in piazza, ai piedi della torre medievale di Cacciaguerra.  È il premio “più scoperto, il meno ipocrita che ci sia in Italia – ha scritto Vittorio Sgarbi, vincitore nel ’90 con Davanti all’immagine – si vince con orgoglio”. Perché c’è sempre un rapporto speciale tra autori e librai che tastano il polso al lettore, spesso lo guidano alla scelta, diventando i protagonisti della filiera editoriale.
Mi sono fatto prendere dalla storia dei librai pontremolesi e del premio che hanno inventato.
Torno alle osservazioni di Domenico Giglio, alla tristezza in lui indotta da quei libri preziosi sulla bancarella e ne deduce un comportamento sociale. In sostanza famiglie borghesi che vendono le loro biblioteche per far fronte alla crisi economica. Ugualmente vendono gli eredi di chi quei libri aveva comprato spesso implementando antiche biblioteche familiari.
Una doppia tristezza, dunque, per le difficoltà economiche con le quali si trovano a fare i conti gli anziani borghesi in questa stagione in cui l’aumento del costo della vita e il pesante carico fiscale esauriscono presto pensioni e riducono i redditi. Ma anche tristezza per quei libri venduti (o svenduti) dagli eredi, spesso un insulto alla memoria di genitori e nonni, per l’incapacità di ricevere, custodire e incrementare un patrimonio di cultura raccolto nel tempo con amore e personale sacrificio.
Crisi della borghesia colta e della stessa cultura libraria, uccisa da internet, inteso come sostitutivo e non integrativo dei bei libri rilegati e accuratamente disposti, per materia e per autore nelle biblioteche di famiglia.
Non è sempre così e non potrà essere sempre e comunque così. Il libro non morirà, né per effetto di internet né per la diffusione dell’e-book. Realtà utili e funzionali, per la ricerca veloce e la lettura in autobus o in treno ma non potranno sostituire il bel libro sul quale sottolineare la parola, la frase, il riferimento alla data o alla persona. La pagina sulla quale annotare, come faceva mio nonno, professore di italiano e latino nel liceo classico di Trani, una sua personale considerazione letteraria o storica sull’autore o su un passaggio del volume. Un appunto, come si potrebbe dire, per sviluppare poi una ulteriore riflessione
“Viva il libro”, dunque, come dice il mio amico editorie Luciano Lucarini, quello di Pagine o di Nuove Idee, che invita a regalare un libro quando si va a cena a casa di amici, magari con una buona bottiglia di vino. Due ricchezze d’Italia.
Salvatore Sfrecola

I due marò: pirati italiani?
di Salvatore Sfrecola

Anche io come la gran parte dei ragazzi della mia generazione ho letto avidamente i libri di Emilio Salgari o Salgàri, come dice qualcuno, correndo con la fantasia tra le rive del Gange, le foreste del Borneo e le acque calde dei Caraibi, tra Sandokan e il Corsaro Nero, Conte di Ventimiglia. Personaggi affascinanti, uomini che rivendicavano un ruolo del quale erano stati privati dalle ingiustizie del potere. Rubavo spesso tempo al sonno per divorare quelle descrizioni dei fatti e dei luoghi affascinanti lontani dai panorami della mia città. Apprezzavo il coraggio e la generosità dei vari protagonisti, il senso dell’amicizia e della solidarietà che li legava nella vita avventurosa che avevano scelto o che erano stati costretti a seguire.
Così solo più avanti ho attribuito un valore negativo al termine “pirata” distinto da “corsaro”, inteso come colui che conduceva una guerra di corsa sotto l’egida di una nazione in competizione con altra. Spagna e Inghilterra saranno concorrenti sugli oceani per secoli. Basta ricordare Sir Francis Drake e Morgan, il conquistatore di Maracajbo.
Ricordi lontani.
Più di recente in alcuni mari, dall’Oceano Indiano alle coste della Somalia, abbiamo riscoperto ben altri pirati, taglieggiatori violenti, estorsori, che rendono pericolose le linee di navigazione mercantili e turistiche, per cui si è reso necessario un intervento degli stati per difendere il naviglio di bandiera. Come, del resto accadeva nei secoli passati, da parte della Serenissima Repubblica di Venezia che aveva un apparato navale militare adeguato alle esigenze di tutelare le naviglio da trasporto. Più indietro nel tempo si potrebbero ricordare le imprese di Cesare contro i pirati che sconfisse dopo essere stato da loro catturato ed aver pagato il riscatto. Come aveva promesso.
Gli stati, dunque, contro i pirati a difesa degli interessi nazionali.
In questa ottica l’Italia ha assicurato sul naviglio mercantile in navigazione nelle aree a rischio un presidio armato, qualificato ed efficiente, affidato a fucilieri del Battaglione San Marco perché non vadano dispersi beni di proprietà italiana e messi in forse i traffici necessari alla nostra economia.
Come dunque possa configurarsi nei confronti dei due militari italiani imbarcati sulla Enrica Lexie una accusa di pirateria per aver involontariamente ucciso due pescatori indiani dei quali erano state equivocate le intenzioni è un assurdo giuridico palese.
Militari sotto comando di uno stato sovrano non possono mai essere altro che soldati e come tali vanno trattati secondo le regole dei rapporti tra stati.
E qui va aggiunto che l’India, che nell’immaginario collettivo è certamente Paese di antica e ammirata civiltà, dove vige la filosofia della tolleranza ed il rispetto delle persone, forse perché ricordiamo tutti l’insegnamento di Ghandi sulla non violenza, si è rivelata, sul piano giudiziario, un oscuro angolo di arretratezza giuridica. Non solo per i tempi delle indagini ancora non definite con una formale imputazione, ma perché di fatto è evidente la strumentalizzazione del caso per fini politici interni, volgarmente elettoralistici, in barba ai trattati internazionali, approfittando di aver a che fare con una Italia incapace di far valere i propri diritti, probabilmente per altrettanto volgari interessi economici.
Il nostro Paese si sta facendo ricattare da uno stato non degno di questo nome. È questa la conclusione cui si deve pervenire. Incapaci, come abbiamo dimostrato, di difendere le nostre ragioni, noi che avevamo sperimentato un ben diverso comportamento delle autorità militari e statali statunitensi, almeno nell’occasione dell’incidente del Cermis.
In quel caso abbiamo preso uno schiaffone e ce lo siamo tenuti offrendo cristianamente l’altra guancia. Ma visto che le guance sono due, come aveva spiegato in un film sulle persecuzioni anticristiane nel Messico dell’ottocento un sacerdote che non aveva esitato a sferrare un pugno al suo aggressore, avremmo dovuto mostrare il volto serio e deciso di uno stato che non è disponibile a subire un sopruso.
Invece la questione, nata male per effetto del comportamento del comandante del mercantile è proseguita peggio con incertezza di comportamenti sul piano diplomatico e giudiziario.
Errori che paghiamo. Perché ogni azione va rapportata alle condizioni nelle quali ci si trova ad operare ed all’avversario. Visto l’atteggiamento apertamente ricattatorio dell’India, nelle sue varie configurazioni istituzionali, avremmo dovuto applicare misure atte a dissuadere dal proseguire nell’atteggiamento ostruzionistico e dilatorio. Insomma il nostro governo ha giocato sulla pelle dei due militari e sui sentimenti delle loro famiglie e del popolo italiano  per evidenti interessi economici di chi deve fare affari con l’India. Affari certamente importanti e meritevoli di tutela. Ma prima viene la dignità dello Stato.
Che non avremmo mai dovuto perdere.
6 febbraio 2014

Dove alligna la corruzione
di Salvatore Sfrecola

Tutti mobilitati a dire che la corruzione in Italia non raggiunge le dimensioni denunciate nel Rapporto della Commissione dell’Unione Europea reso noto due giorni fa. Che il dato, 60 miliardi, sarebbe indicato in modo apodittico con scarsi riferimenti a specifici fatti singolarmente identificati, tante inchieste e tante condanne le quali abbiano accertato che il pubblico ufficiale “per l’esercizio delle sue funzioni” abbia “indebitamente” ricevuto “per sé o per un terzo denaro o altra utilità” o ne abbia accettata “la promessa”, come si legge nell’articolo 318 del codice penale.
Se dovessimo valutare l’ammontare della corruzione con esclusivo riferimento alle sentenze definitive certo non arriveremmo a 60 miliardi. Neppure se ci riferissimo anche soltanto alle indagini delle Procure penali e della Corte dei conti.
Questo accade per le caratteristiche proprie del reato di corruzione, come di quello di peculato o di concussione che, insieme, concorrono, pur con le loro specificità, a gravare i bilanci pubblici di costi non dovuti, ciò che nel linguaggio della gente comune è comunque genericamente corruzione, intesa come alterazione della corretta gestione del denaro pubblico da parte di amministratori, funzionari, imprenditori. In sostanza parliamo di sprechi, di somme che gravano i bilanci o di minori entrate. Ugualmente ci possiamo riferire ai costi per il danneggiamento del patrimonio pubblico.
La tesi di questo giornale è nota. Gli sprechi tante volte denunciati sono, in ogni caso, un sintomo della corruzione, gli acquisti non necessari od a prezzi superiori a quelli di mercato, la realizzazione di opere pubbliche a costi superiori a quelli preventivati (magari perché si sono allungati i tempi di completamento) od a condizioni che non ne consentano l’utilizzazione o, ancora, con difetti che richiedano immediati interventi di manutenzione straordinaria.
Queste vicende non accadono per caso. Un funzionario che acquisti beni non necessari o in misura superiore all’esigenza o, ancora, a prezzi eccessivi, è un incompetente o favorisce colposamente, direi anzi dolosamente, il venditore. Ugualmente se il prezzo non è giusto. In questi casi non è necessario che ci sia il pagamento di una tangente. Perché l'”utilità” di cui parla il codice può consistere in una vacanza pagata, in un incarico professionale o in una assunzione assicurati ad un parente o amico dell’amministratore o del funzionario.
Ugualmente un’opera pubblica realizzata a costi ed in tempi superiori al preventivato è naturalmente un’anomalia che solo raramente può essere giustificata dalla “sorpresa geologica” che, invece, sembra una clausola ordinaria in barba ai sondaggi che devono assistere la progettazione.
E qui va detto che spesso le ragioni di questi costi e ritardi, comunque tollerati, vanno individuate nei forti ribassi con i quali le imprese si aggiudicano gli appalti. Un lavoro ottenuto con il 50 per cento di ribasso finisce per non essere remunerativo per l’appaltatore il quale deve ricercare altro modo per recuperare sui costi. Lo fa con la sospensione dei lavori, le perizie di variante, le riserve, tutti quei meccanismi che gli consentono di spuntare dalla stazione appaltante somme aggiuntive rispetto a quelle di contratto. In questo contesto vanno collocati negli anni gli arbitrati che hanno quasi sempre assicurato la vittoria alle imprese. Posto, dunque, che non possiamo dubitare della onestà degli arbitri si deve ritenere che se l’Amministrazione perde vuol dire che si è messa nelle condizioni di soccombere.
C’è anche da dire dei collaudi, tema sul quale più volte mi sono soffermato. Occorre chiedere conto ai collaudatori delle opere ritenute realizzate in  conformità al contratto ed a regola d’arte le quali, a breve distanza di tempo, si siano rivelate abbisognevoli di lavori di manutenzione incompatibili con l’accertamento contenuto nel certificato di collaudo (cum laude.). Anche in questo caso il collaudatore è un incompetente o un disonesto.
E qui va sottolineata la delicatezza delle operazioni di collaudo che si svolgono nell’interesse dell’Amministrazione. Per cui i collaudatori dovrebbero essere scelti tra i migliori professionisti disponibili e adeguatamente remunerati. Risparmiare sui collaudi, come fa di tanto in tanto lo Stato riducendo i compensi, significa allontanare professionisti di valore e quindi pregiudicare l’esito dell’accertamento. Come quando i collaudatori si scelgono non per merito ma perché del partito del ministro o del sindaco o amici degli amici. Bravi e remunerati bene i collaudatori dovrebbero essere soggetti a vincoli, come quello di non accettare incarichi dalle imprese le cui opere hanno collaudato, neppure per persone a loro riconducibili, parenti o collaboratori. “Utilità” che integrano la fattispecie della corruzione.
L’esempio delle opere pubbliche, eclatante, come dimostrano i frequenti servizi mandati in onda dal telegiornale satirico Striscia la Notizia, che segnala opere iniziate e non concluse o rapidamente degradate, vale, con le differenze dovute alla specifica prestazione, per gli appalti di forniture e le consulenze fasulle, quelle inutili delle quali la giurisprudenza della Corte dei conti contiene un catalogo lunghissimo. Un incarico inutile assicura comunque una “utilità” ad un soggetto che non ne aveva diritto. Queste consulenze inutili a professionisti amici di partito sono sostanzialmente atti corruttivi.
Si potrebbe dire molto ancora e lo scriveremo.
Chiudiamo questo articolo con riferimento ai processi per corruzione. Riguardano fatti sempre difficili da accertare. Corrotto e corruttore sono legati dal vincolo del silenzio. Per questo sono essenziali le intercettazioni che alcuni vorrebbero limitare al massimo. La deduzione dell’illecito dai fatti prima indicati, sostanzialmente dagli sprechi, dimostra comunque l’esistenza di un illecito amministrativo-contabile, il cosiddetto danno erariale addebitabile a titolo di dolo o colpa grave al funzionario che ha consentito la spesa inutile.
Sul piano processuale penale i giudizi si concludono spesso con l’accertamento della prescrizione. Una anomalia tutta italiana, in quanto non ha giustificazione una prescrizione che continui a correre durante il processo. Anche questo è censurato in Europa.
5 febbraio 2014

Rapporto Ue sulla corruzione
Un costo da 60 miliardi annui, la metà dell’intera Europa
di Salvatore Sfrecola

Qualcuno, come Massimo De Manzoni, de Il Giornale, oggi ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, è ricorso alla mozione degli affetti patriottici. Non possiamo essere i più corrotti d’Europa, ha detto, i dati sono dubbi, il report della Commissione dell’Unione Europea si basa molto sulla corruzione percepita non essendo certi i dati su quella effettiva.
Mi piacerebbe molto poter convenire e sostenere che il rapporto sulla corruzione in Europa, per quel che riguarda l’Italia è esagerato. Che il quadro impietoso non è veritiero, che la mancata disciplina del conflitto d’interesse, le leggi ad personam, la lunghezza dei processi e la loro conseguente prescrizione, le collusioni tra politica, imprenditoria e criminalità, gli appalti truccati, ci sono ma non delle dimensioni denunciate. Che, in sostanza quegli illeciti non pesano per 60 dei 120 miliardi di euro che gravano sull’intera Unione.
Purtroppo non possiamo giungere a queste conclusioni. E non è questione di corruzione percepita, cioè non si tratta della sensazione della gente che magari enfatizza qualche episodio eclatante o esprime la tradizionale diffidenza nei confronti della classe politica e burocratica.
Ci sono dei dati certi che costituiscono in qualche modo indicatori della corruzione. A cominciare dagli sprechi nelle pubbliche amministrazioni, per continuare con le opere pubbliche iniziate e non terminate oppure non eseguite a regola d’arte, per cui non sono entrate in esercizio oppure abbisognano di rilevanti interventi di manutenzione.
Come ho scritto altre volte, il politico o il funzionario al quale possono essere addebitati sprechi, come l’acquisto di beni inutili o sovrabbondanti od a prezzo superiore a quello di mercato non può essere qualificato solo un incapace. Perché quei comportamenti, anche quando non danno luogo alla corresponsione della classica “mazzetta” possono essere diversamente compensati, come l’assunzione di un figlio o di un parente dalla ditta fornitrice dell’amministrazione. Di casi del genere è ricca la casistica giornalistico-giudiziaria.
Uguale fonte di corruzione devono essere considerate le attestazioni di corretta realizzazione di un’opera pubblica che si riveli piena di difetti. In questi casi le commissioni di collaudo, le quali abbiano attestato la corretta esecuzione dei lavori, o sono composte da incompetenti o da disonesti. Non ci sono alternative. E qui andrebbe accertato se quei collaudatori, che sono stati incaricati dall’ente pubblico di garantire la corretta esecuzione dell’opera, saranno incaricati successivamente di progettazioni o direzione dei lavori da parte delle imprese le cui opere sono state collaudate. Ugualmente andrebbe vietato che per un congruo periodo di tempo figli, mogli amanti dei collaudatori assumano incarichi o impieghi presso le imprese appaltatrici.
Insomma tutte queste cose si sanno o si percepiscono come effetto naturale di “errori” di progettazione e di esecuzione delle opere.
Il rapporto della Commissione Ue presenta giudizi durissimi sul nostro Paese segnalando anche che la nuova legge italiana contro la corruzione “lascia irrisolti” vari problemi perché “non modifica la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l’autoriciclaggio e non introduce reati per il voto di scambio”.
Il decorso della prescrizione, in particolare, durante il processo penale è un assurdo che premia i colpevoli che se tali non fossero, cioè se fossero effettivamente innocenti, rinuncerebbero alla prescrizione per avere una pronuncia di assoluzione nel merito.
Secondo il rapporto dell’U.E. tre quarti dei cittadini europei, e il 97% degli italiani, ritengono che la corruzione sia diffusa nel proprio Paese. E per due europei su tre, e per l’88% degli italiani, le mazzette e l’utilizzo di legami con politici e funzionari , sono il modo più semplice per ottenere alcuni servizi pubblici.
Va aggiunto che nell’attuale scarsezza di risorse nei bilanci pubblici l’incentivo alla corruzione è ancora più evidente in quanto per accaparrarsi i pochi contratti di appalto di opere o forniture gli imprenditori sono disposti a tutto.
Nelle dimensioni denunciate – 60 miliardi l’anno – la corruzione in Italia vale 4% del Pil. Nonostante la “legge anticorruzione” adottata nel novembre 2012 e “gli sforzi notevoli profusi dall’Italia” per combattere il fenomeno, questo “rimane preoccupante” secondo la Commissione.
Una brutta figura che diventa bruttissima se si pensa che quei 60 miliardi sono esattamente la metà della corruzione a livello dei 28 paesi della Ue stimata in 120 miliardi di euro annui.
Bruxelles suggerisce di perfezionare la legge anticorruzione, anche perché “frammenta” le disposizioni sulla concussione e la corruzione, “rischiando di dare adito ad ambiguità nella pratica e limitare ulteriormente la discrezionalità dell’azione penale”. Sono inoltre “ancora insufficienti le nuove disposizioni sulla corruzione nel settore privato e sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.
Il report sulla corruzione rileva che “i tentativi” di darsi norme per garantire processi efficaci sono stati “più volte ostacolati da leggi ad personam” approvate in Italia “in molte occasioni” per “favorire i politici imputati in procedimenti giudiziari, anche per reati di corruzione”.
Le colpe della politica sono evidenti. “In Italia i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese – si legge nel rapporto -, e lo scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia l’alto numero di indagini per corruzione”.
Infine, per rispondere a chi ritiene esagerato l’ammontare della corruzione va ricordato che è dato ufficiale dell’Agenzia delle Entrate che l’evasione fiscale sfiora i 200 miliardi di euro annui.
È evidente che c’è qualcosa che non va nel sistema tributario globalmente considerato, dalle norme che disciplinano imposte e tasse al sistema di riscossione al contenzioso che, nella migliore delle ipotesi, rallenta l’acquisizione a bilancio delle entrate.
C’è molto da fare. Il rapporto UE suggerisce riflessioni che presenteremo ai nostri lettori nei prossimi giorni.
4 febbraio 2014

DITTATURA E MONARCHIA : Il crepuscolo degli Dei
di Domenico Giglio

Avevamo definito “trilogia” i lavori storici di Domenico Fisichella dall'”Elogio della Monarchia”, a “Il Miracolo del Risorgimento”, al “Dal Risorgimento al Fascismo” ed ora con l’ uscita nel gennaio 2014, del volume “Dittatura e Monarchia – L’Italia tra le due guerre “, (Editore Carocci) riguardante il periodo 1922 – 1946, siamo alla tetralogia, di wagneriana memoria, della quale l’ultima opera è “Il crepuscolo degli Dei”, con l’incendio finale del Walhalla, strana coincidenza con un libro che si chiude con la scomparsa del duce del fascismo, del Re e della Monarchia .
Fisichella, iniziando l’opera con il 1922 e l’avvento legalitario al potere di Mussolini, si sofferma giustamente, prima di approfondire il problema italiano, con il quadro istituzionale, politico ed economico dell’Europa, quale uscito dalla Grande Guerra, 1914 – 1918, dopo i vari trattati di pace, ed il clima che si respirava negli anni successivi, con un particolare interesse sulla vicenda della Germania di Weimar, che tanto poi ci avrebbero condizionato e dove Hitler ed il partito nazionalsocialista raggiungono il potere con una serie di successi elettorali che resero inevitabile l’ascesa di Adolf Hitler al Cancellierato e poco dopo a Capo dello Stato, a seguito della scomparsa del Presidente della Repubblica, l’ultra ottuagenario Feldmaresciallo Hinderburg, (di convinzioni monarchiche), unificazione delle cariche che insieme ai pieni poteri venne concessa ad Hitler, anche da deputati di altri partiti, che forse non avevano studiato le vicende italiane di alcuni anni prima.
Dopo questa panoramica europea Fisichella passa ad esaminare la vicenda italiana con una attenzione particolare ai tre anni dall’ottobre 1922 al 1925 dove ancora il fascismo non era né partito unico, né regime, con le gravissime responsabilità degli “aventiniani” che non seppero cogliere, dopo il delitto Matteotti, la possibilità di sgretolare la maggioranza parlamentare del “listone” governativo, che aveva senza dubbio stravinto le elezioni politiche del 1924, rendendo praticamente inutile il meccanismo maggioritario della legge Acerbo, ma nel quale, dato numerico impressionante e poco conosciuto, i “fascisti” erano solo 227, saliti a 255, ma sempre minoranza sui 535 totali. Non afferrata questa possibilità dalle opposizioni e legando così le mani alla Corona, il governo Mussolini potè proseguire indisturbato il suo cammino e così nel 1926 vengono promulgate le leggi base del regime, sancita la decadenza dei deputati aventiniani, che avevano tentato di rientrare nell’ aula di Montecitorio nel gennaio, in occasione della morte della Regina Madre Margherita, per cui fino al 1928 rimase in aula solo una decina di oppositori, tra cui Giolitti.
Segue poi l’analisi delle modifiche del sistema elettorale, per il 1928, fino alla successiva scomparsa della Camera dei Deputati e l’avvento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la persistenza del Senato del Regno, e la sua composizione, oltre al significato etico che il fascismo intendeva dare allo Stato, per cui Fisichella si sofferma a chiarire il relativo concetto, partendo da Rousseau e da Hegel; ed egualmente se il fascismo potesse definirsi un regime totalitario e non semplicemente autoritario, dimostrando l’impossibilità del totalitarismo in una nazione dove persisteva la Corona con le Forze Armate legate al giuramento al Re ed era presente la Chiesa Cattolica con il Pontefice.
Non c’è settore dell’attività governativa, dalla politica economica e sociale, allo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, alle opere pubbliche in Italia e nelle Colonie, che non venga esaminato e documentato, anche con dati numerici, per poi passare, per il periodo fino al 1935 ed all’impresa etiopica, alla politica estera, mettendo in risalto, in numerosi casi, la continuità della stessa, con gli indirizzi precedenti alla presa di potere del fascismo. E per l’impresa etiopica, che vide forse la massima adesione popolare al regime, anche per le “sanzioni” decretateci contro dalla Società della Nazioni, l’Italia si era mossa certa che non vi sarebbe stata, ed in effetti non vi fu, una vera opposizione alla nostra guerra ed alla conquista da parte della Francia e dell’Inghilterra, che si limitò ad un enorme concentramento nel Mediterraneo di 144 navi da guerra per 800.000 tonnellate di stazza.
Dopo la conquista dell’Etiopia ed alla proclamazione dell’ Impero, l’italia, malgrado discorsi e toni militareschi, come nel discorso mussoliniano del “carro armato”, desiderava ed aveva bisogno della pace, vedi l’ultimo bagliore del convegno di Monaco di Baviera del 1938, ma la guerra civile spagnola con il nostro intervento in aiuto ai nazionalisti di Francisco Franco, lentamente, ma inesorabilmente ci avvicinava alla Germania hitleriana, Germania che giustamente Fisichella ricorda essere una repubblica, e da qui l’alleanza, l’Asse Roma – Berlino, la guerra scatenata da Hitler nel settembre 1939, dopo l’allucinante connubio con l’Unione Sovietica, per spartirsi le spoglie della Polonia, la nostra giustificata “non belligeranza” per nove mesi, ed infine, dopo i travolgenti successi tedeschi in Francia, su quello che si era ritenuto il primo esercito del mondo (sic), la nostra entrata in guerra il 10 giugno 1940, guerra che doveva essere breve e parallela a quella germanica.
Fisichella tratteggia, con ricchezza di dati e di citazioni di numerosi altri storici, come aveva fatto anche in precedenza, l’evoluzione negativa della guerra, la perdita dell’Africa ,lo sbarco angloamericano in Sicilia, il 25 luglio ed il nuovo governo, e la conclusione dell’armistizio con il Regno d’Italia ridotto a poche province del Sud, avendo però salvato la continuità dello Stato, e non cercato di salvare la Monarchia come si scrisse e si continua a scrivere, evitando la “debellatio”, e la lenta ,ma costante ripresa dello Stato stesso e delle Forze Armate, con la partecipazione di sempre più numerosi reparti del Regio Esercito alla campagna per la liberazione della restante parte del territorio nazionale dalla occupazione germanica, la cosiddetta “cobelligeranza”, non valorizzata in sede di Trattato di Pace. Infine il difficile inizio della Luogotenenza del Principe Umberto, dopo la sofferta decisione del Re Vittorio Emanuele,il 12 aprile 1944, di ritirarsi dalla vita pubblica non appena fosse stata liberata Roma, e con il Re Vittorio Emanuele, scrive Fisichella scompare “l’ ultimo uomo del Risorgimento rimasto in Italia”, quell’ uomo che da bambino non voleva giuocare il 27 marzo, perché era l’ anniversario della sfortunata battaglia di Novara del 1849 e che all’atto della abdicazione ha il coraggio morale di scrivere di avere sempre mirato al bene della Nazione “anche se posso avere errato”! Trattando poi del referendum e di come si arrivasse allo stesso, dopo che il Luogotenente era risalito nella stima, sia dei governanti e militari angloamericani, particolarmente Churchill e Clark, sia di politici italiani e diventato Re anche di nome, il 9 maggio 1946, stava riconquistando il favore popolare, Fisichella effettua un’analisi attenta dei dati “ufficiali” dai quali emerge chiarissimo che la repubblica ha vinto dove vincevano partiticamente i social- comunisti e cioè nel centro nord, dove pure per 18 mesi vi era stata una persistente e faziosa propaganda antisabauda della repubblica di Salò, e che senza questi voti, di cui quelli comunisti erano non certo per una repubblica democratica mazziniana e per di più di un partito legato ad una potenza straniera l’URSS, i voti repubblicani di una modesta parte di democristiani, liberali, demo sociali, oltre ad azionisti e repubblicani storici non sarebbero bastati alla vittoria della repubblica, di fronte alla massiccia maggioranza monarchica del meridione.
Con questa opera nella quale nella parte finale Fisichella si sofferma anche sulla realtà attuale con interessanti raffronti sui dati elettorali e sui governi della repubblica e relative alleanze e sulla marcia “verso lo zero”, si conclude il ciclo di 85 anni di storia del Regno d’Italia, esposta con la serenità ed obiettività dello studioso che ha senza dubbio le sue convinzioni razionali in merito alla superiorità della monarchia costituzionale ed al ruolo positivo, anche nei momenti più difficili di questi anni, svolto dalla Corona, ma lascia ai fatti esposti la relativa dimostrazione e sono i fatti spesso ignorati, che confermano e rafforzano le convinzioni, quando siano visti senza gli occhiali deformanti della faziosità e della passione di parte.
2 febbraio 2014

P.S. Il volume uscito nelle librerie il 23 gennaio 2014 è stato presentato su iniziativa del Circolo di Cultura ed Educazione Politica Rex, presieduto dall’ing. Domenico Giglio, a Roma, domenica 26 gennaio, dall’autore, sen. prof. Domenico Fisichella, ad un folto e qualificato pubblico che acquistate le copie disponibili si è stretto intorno all’Autore per sollecitarne la firma e la dedica.

Tanto tuonò che piovve (anzi diluviò)
di Salvatore Sfrecola

Che sarebbe scesa a catinelle lo sapevano tutti coloro che seguono le previsioni del tempo in televisione o alla radio. L’incontro di aria fredda con lo scirocco africano preannunciava piogge consistenti un po’ dappertutto, soprattutto sulla fascia tirrenica già interessata giorni prima da consistenti precipitazioni che avevano imbevuto a tal punto le colline liguri da provocare il 17 gennaio lo smottamento della collina tra Andora e Cervo, con conseguente deragliamento di un treno intercity. Sfiorato il disastro il convoglio è ancora in bilico e potrebbe scivolare a mare.
Dal 17 gennaio al 31, il giorno dell’alluvione a Roma, perché di questo tecnicamente si tratta, sembra non sia successo niente. Certo l’acqua è stata tanta, forse più del prevedibile. Ma un cittadino normale, come chi scrive, immagina che l’Amministrazione competente, nella specie il Comune di Roma, abbia dei piani di emergenza variamente modulati in relazione a situazioni che possono verificarsi, nelle aree a rischio che sono sempre le stesse, il Nord di Roma, con possibilità di allagamenti nella zona di Prima Porta, come è accaduto più volte in passato, neppure tanto tempo fa.
Invece sembra a chi ha osservato gli eventi che non ci fosse nulla di predisposto e modulato secondo il possibile variare degli eventi. Strade e sottovia si sono immediatamente riempiti d’acqua, con il Grande Raccordo Anulare, un nome che in queste circostanza si rivela inutilmente pomposo, intasato fino all’inverosimile.
Non me lo ha raccontato nessuno perché poco dopo le 7,30 ero sull’Aurelia in uscita proprio all’imboccatura dello svincolo per il raccordo, naturalmente pieno d’acqua, sicché la Municipale ci fa fatto salire sulla carreggiata interna del raccordo già intasato all’inverosimile. Ho fatto in due ore poco più di trecento metri e mentre migliaia di automobili erano in fila la carreggiata esterna era libera, tanto è vero che passavano frequentemente auto e camion diretti verso Fiumicino. Ed è venuto spontaneo pensare, considerato che alla centrale operativa (ma quale?) avranno avuto le idee chiare perché sopra di noi passava ripetutamente un elicottero, per quale motivo non si sia pensato di far deviare il traffico sulla carreggiata esterna ridotta come quando sono in corso lavori per far deviare il traffico o verso sud o verso una uscita che consentisse il rientro in città. Niente di niente. Incompetenti, incapaci di decidere.
Evidentemente mancano piani di emergenza. Mancano anche interventi di manutenzione. Il Sindaco Marino ha detto di aver fatto pulire le candiole, cioè gli scarichi che portano l’acqua nelle fognature. Se è vero, e non ho motivo di dubitare, è certo che le fognature non sono state pulite e, probabilmente intasate, non sono state in grado  di accogliere le acque piovane.
Il problema va visto nella sua globalità. Quando piove tanto e il fiume s’ingrossa l’acqua stenta a disperdersi in mare che in queste circostanze è sempre molto mosso. È qui che sta la capacità degli amministratori ai quali spetta anche tenere pulite le sponde del fiume perché l’acqua scorra e non sia rallentata dai cumuli di tronchi e vegetazione varia depositata in vicinanza dei ponti e lungo alcuni argini, soprattutto nelle anse.
È Il tema della prevenzione e del monitoraggio, funzioni pressoché ignote in questo Paese. Attività che costano e sono poco visibili agli occhi dei cittadini ai quali i politici di turno chiedono i voti. Per cui si preferisce trascurare, tanto l’emergenza ed i disagi della popolazione si dimenticano presto. Qualche improperio indirizzato al Sindaco per le poche ore dell’emergenza e poi torna tutto come prima, anche se il diluvio ha lasciato strade dissestate per la gioia di chi ha vinto gli appalti per la manutenzione.
Una vergogna per la nostra Città, che è stata la capitale del più grande impero di tutti i tempi, quello che per secoli ha costruito strade, ponti, acquedotti, fognature. Su un ponte romano, mi è stato detto stamattina passano addirittura i TIR.  Mancano risorse adeguate, è vero, ma non c’è dubbio che si potrebbero recuperare attraverso una oculata revisione della spesa inutile, di tutti gli sprechi infiniti dovuti a cattiva gestione politico-amministrativa e ad insufficienti controlli, a cominciare dai collaudi delle opere stradali e non solo che degradano rapidamente proprio perché non eseguite a regola d’arte, eppure puntualmente collaudate.
In queste situazioni c’è molta incapacità e non solo. Perché chi spreca denaro pubblico è incapace o corrotto. Tertium non datur.
1 febbraio 2014

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