A proposito delle riforme istituzionali
Quali limiti alle esternazioni del Presidente?
di Salvatore Sfrecola
In occasione della cerimonia cosiddetta “del ventaglio”, dal dono che tradizionalmente l’Associazione della Stampa Parlamentare riserva al Capo dello Stato alla vigilia delle ferie estive, il Presidente Napolitano ha esortato a non agitare “spettri di insidie e macchinazioni autoritarie” per “determinare in questo modo un nuovo nulla di fatto in materia di revisioni costituzionali”. Inoltre, nel ricordare “l’impegno al centro del dibattito parlamentare su un progetto di revisione di alcuni Titoli della seconda parte della nostra Costituzione”, ha invitato alla ricerca “di un’ampia convergenza politica” in materia.
Il discorso merita più attento approfondimento, alla ricerca di una linea di confine tra gli auspici che il Capo dello Stato è legittimato a manifestare in ordine a riforme ipotizzate o in discussione in Parlamento ed il merito delle stesse, in particolare, come nel caso di specie, se riguardano la revisione della Costituzione in uno dei suoi tratti essenziali, il bicameralismo, una scelta che già impegnò molto i Costituenti in ragione della definizione ottimale del procedimento legislativo e delle funzioni di controllo politico proprie delle Camere.
Le “esternazioni” del Presidente della Repubblica, infatti, sono da sempre oggetto di dibattito tra studiosi e politici, tra chi riconosce al Capo dello Stato un generale potere di manifestazione del pensiero in ragione della sua posizione costituzionale, in quanto rappresentante dell’unità nazionale (art. 87 Cost.), e quanti, invece, pretenderebbero una controfirma, sia pure implicita o tacita, interpretata come assenso del Governo al contenuto della dichiarazione.
In ogni caso le esternazioni che implichino scelte politiche dovrebbero essere escluse in quanto costituzionalmente illegittime.
Tornando al tema delle riforme ho scritto altra volta dei dubbi, seguiti all’entrata in vigore della Costituzione in prosecuzione del dibattito che si era sviluppato nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente, in ordine al bicameralismo “paritario”, “perfetto” o “piucheperfetto”, per dirla con Bin e Pitruzzella. Dubbi li aveva avuti anche Meuccio Ruini, Presidente della Commissione “dei 75”, e ne aveva scritto nei primi anni ’50. Tuttavia l’esperienza ha dimostrato che la doppia lettura di provvedimenti normativi importanti ed incidenti su situazioni e diritti, come pure su aspetti importanti delle politiche pubbliche, ha assicurato provvidenziali correzioni di rotta e, spesso, di errori tecnici messi in evidenza nel tempo che passa tra la prima e la seconda lettura.
Ma se è bene superare il bicameralismo perfetto rimane la scelta del come, tra le varie opzioni suggerite dall’esperienza, individuando le attribuzioni della seconda camera e la sua composizione. È qui, infatti, l’oggetto del contendere, il motivo del dissenso, la delimitazione dei compiti che dovrebbe avere il nuovo Senato e, conseguentemente, la sua composizione. Questioni, come si comprende, funzionali ad una buona riforma sulla quale il Parlamento dovrebbe discutere sine ira ac studio, cioè con serenità, approfondendo ogni aspetto, anche in una simulazione degli effetti nel tempo. Cosa che dovrebbe fare ogni buon legislatore. Approfondimento che ha bisogno dei suoi tempi, anche se è logico immaginare un arco temporale ragionevolmente definito che non può essere, tuttavia, quello dei pochi giorni come vorrebbe il Governo, anche perché le riforme costituzionali sono materia propria delle Assemblee legislative.
L’interesse del Governo, che è il promotore dell’iniziativa, è evidente. Il Presidente del Consiglio assume che quella del bicameralismo sia la madre di tutte le riforme per snellire il procedimento legislativo. Non vorrei fosse un alibi, un falso problema. Infatti l’esperienza ricorda alcune verità. Quando si è voluto sono state approvate leggi in pochi giorni, il che vuol dire che i tempi sono legati alla gestione dei gruppi parlamentari. Ed inoltre da anni le Camere sono prevalentemente impegnate nella conversione di decreti legge, sempre con voto di fiducia. E qui non c’entra il bicameralismo, tanto che sui decreti legge si è pronunciata anche la Corte costituzionale per mettere fine alla scandalosa loro reiterazione, anche più volte, al punto che una disciplina normativa motivata da esigenze straordinarie ed urgenti restava in vita per un tempo nettamente superiore ai sessanta giorni previsti dalla Costituzione.
Poche osservazioni per dire, dunque, che il bicameralismo, anche nella forma attuale, c’entra poco con i tempi della legislazione, perché la loro durata è essenzialmente dovuta alla volontà politica dei partiti e alla capacità di gestione dei gruppi parlamentari ed in parte al numero eccessivo di senatori e deputati, quasi 1000, il numero fatidico dei prodi di Giuseppe Garibaldi.
A mente fredda e sulla base dell’esperienza a sbandierare le riforme costituzionali è da sempre una classe politica e di governo incapace di portare a casa risultati concreti, quelli che interessano la gente, il lavoro, il fisco, la giustizia. Tutti ricordano il problema dell’art. 41 della Costituzione sulla libertà di iniziativa economica privata che, secondo Berlusconi e i suoi suggeritori, doveva essere modificato urgentemente per favorire lo sviluppo dell’economia. Se ne è parlato insistentemente per qualche tempo, poi l’argomento è sparito dalle cronache politiche. Era una bufala.
Nel dibattito sul bicameralismo, dunque, come si è detto iniziando questa riflessione, si è inserito il Capo dello Stato con una iniziativa e con argomentazioni che destano non poche perplessità perché è dubbio che il Presidente della Repubblica possa farsi sponsor di una delle iniziative in discussione, sia pure del Governo. Che solleciti riforme dirette a far funzionare meglio le istituzioni ed a favorire l’economia sta bene, ma senza abbracciare la tesi di una parte.
L’intervento presidenziale richiama l'”impegno di cui il governo Renzi si è fatto iniziatore, su mandato dello stesso Parlamento, espressosi con le mozioni approvate a schiacciante maggioranza dalla Camera e dal Senato il 29 maggio 2013″. Questo riferimento al voto parlamentare potrebbe giustificare l’intervento del Presidente Napolitano se non si considerasse che quei voti sono stati del tutto generici rispetto all’esigenza mentre si discute oggi di dettagli non irrilevanti in ordine alle attribuzioni ed alla composizione del Senato (ad esempio se elettivo o meno) ed agli effetti della riforma.
Bene quando il Presidente auspica “un’ampia convergenza politica in Parlamento”. Sicché è senz’altro da condividere quando scrive di essere convinto di muoversi “nello spirito della Costituzione repubblicana” ed in ragione dei suoi “fondamentali doveri di Presidente”.
Detto questo, osservare che “oggi in realtà emergono ostilità al progetto di riforma in discussione al Senato dettate proprio dalla pregiudiziale diffidenza e contestazione rispetto alla ricerca di accordi con forze politiche del campo opposto”, significa, pur con il linguaggio prudente quirinalesco, entrare nel merito delle ragioni delle difficoltà dell’accordo nel merito. Dacché “diffidenze e contestazioni” sono espressione di valutazioni politiche per certi versi incensurabili, qualunque sia l’origine delle riserve che le motivano.
Anche la puntigliosa ricostruzione dei tempi della discussione, dei lavori di una Commissione “libera ed estremamente aperta e articolata”, il richiamo al recepimento di “un gran numero di sollecitazioni critiche e di emendamenti”, sicché non ci sarebbe stata “improvvisazione né improvvida frettolosità” sono valutazioni di merito. Come il riferimento alla “ricca e puntuale relazione finale”. Valutazioni tutte condivisibili ma distanti dalla neutralità che si richiede ad un Presidente in una Repubblica parlamentare dove il “sovrano” siede nelle Camere.
Napolitano ci ha abituato ad interventi sollecitatori ed a scelte poco notarili, a volte apprezzabili ed apprezzate, ma il problema è sempre quello della misura anche rispetto alla maggioranza parlamentare e di governo.
Infatti il Presidente che, richiamando le mozioni parlamentari, le quali hanno “nell’agenda dell’impegno di revisione costituzionale? il superamento del bicameralismo paritario” definita “una “anomalia tutta italiana” o “incongruenza costituzionale”? indifendibile e fonte di gravi distorsioni del processo legislativo e della dialettica Parlamento-governo”, avrebbe dovuto fare punto sulla sua esternazione. Infatti, mentre dice di non voler andare “oltre sul tema, per rispetto verso i lavori, ormai in fase avanzata, dell’Assemblea del Senato”, ritiene di dover rivolgere “un pacato e fermo appello a superare un’estremizzazione dei contrasti, un’esasperazione ingiusta e rischiosa – anche sul piano del linguaggio – nella legittima espressione del dissenso. E per serietà e senso della misura nei messaggi che dal Parlamento si proiettano versi i cittadini, non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie”.
Questi sono argomenti di critica politica formulati da chi ritiene, a torto o a ragione, che si prepari una riforma del Senato che attui di fatto un monocameralismo con numeri che assicurerebbero alla maggioranza una forza ulteriore ed un potere difficilmente controllabile, in assenza di garanzie costituzionali che, infatti, in conclusione del discorso il Presidente auspica. Lo ha sottolineato Michele Ainis nel fondo sul Corriere della Sera di ieri (“Il labirinto delle garanzie”) dove, facendo qualche conto, ha dimostrato che è possibile ad una maggioranza occupare tutti i posti, dal Quirinale alla Consulta. Che è quello che temono e con cui argomentano alcuni degli oppositori.
Del resto il Presidente del Consiglio legittimamente minaccia lo scioglimento anticipato delle Camere come ritorsione nei confronti dei Gruppi parlamentari del PD che non gli sono globalmente fedeli, composti da bersaniani, civatiani, cuperliani che pensano di rischiare “il posto”, nel senso che difficilmente sarebbero messi nuovamente in lista. Questa sensazione, che per molti è una consapevolezza, eleva inesorabilmente il tono della polemica. Nel senso che alcuni difendono certamente le loro idee ma anche il loro seggi. Perché c’è da giurare che Renzi non perdonerà loro l’essersi schierati contro la sua riforme “per cambiare l’Italia”.
Nella panoramica delle diverse personalità che hanno ricoperto il ruolo di Capo dello Stato, dal notaio Einaudi al picconatore Cossiga, passando per Pertini, che spesso si è fatto opportunamente interprete di esigenze di giustizia largamente diffuse, Napolitano è stato certamente un Presidente equilibrato ma spesso interventista (l’espressione “Re Giorgio” la dice lunga) che, tuttavia, oggi appare, a tratti, schierato da una parte, sia pure della maggioranza. Che non è proprio quell’esempio di neutralità ispirata al massimo di sensibilità costituzionale che si vorrebbe in chi “rappresenta l’unità nazionale”.
24 luglio 2014
Inefficienza e sadismo del Comune di Roma
La burocrazia che esaspera il cittadino
di Marco Aurelio
Un caso di ordinaria follia burocratica. Il Comune di Roma, Dipartimento Risorse economiche U.O Notifiche, segue questa prassi in caso di violazioni al Codice della Strada. Il “notificatore” si reca al domicilio di colui che ha commesso l’infrazione e se non lo trova (il più delle volte non lo trova perché passa la mattina quando la gente lavora) non lascia un avviso. Successivamente il predetto Dipartimento invia al cittadino una lettera raccomandata con la quale “si comunica alla persona in indirizzo, non reperita in casa dal notificatore, che in data odierna gli è stato notificato il verbale di violazione n?.. del? mediante deposito nella Casa Comunale sita in Roma U.O Gruppo?” (un Comando locale della Polizia Municipale.
Alcune osservazioni. Il cittadino non ha avuto notizia che il notificatore è passato da casa sua. La raccomandata spedita all’indirizzo della persona può non andare a buon fine. Anche in un momento di crisi economica molti la mattina sono fuori per lavoro e in casa può non esserci nessuno.
Conseguenze: il cittadino si deve recare all’ufficio postale non per ritirare il verbale di contravvenzione ma la comunicazione prima richiamata che lo informa che “nella Casa Comunale” è stato depositato il verbale. Deve quindi recarsi alla “Casa Comunale” per ritirare il verbale. Poi deve fare una sosta all’Ufficio postale o in una tabaccheria autorizzata alla riscossione della contravvenzione.
Nella migliore delle ipotesi è l’impegno di una mattinata che probabilmente costerà un permesso non retribuito o graverà sulle ferie del dipendente.
Il tempo ha un costo per tutti.
Nel 2014 è una follia che costa all’Amministrazione comunale tempo e lavoro ed al cittadino le passeggiate all’ufficio postale ed alla Casa Comunale oltre alle “spese di procedimento e notificazione”. Infatti la raccomandata lo informa che il pagamento della sanzione pecuniaria “dovrà essere effettuato entro il termine indicato nel verbale di accertamento della violazione? che decorre dalla data di ricezione della presente raccomandata o, comunque, decorsi dieci giorni dalla spedizione della stessa”. E se il cittadino è in ferie?
Ogni ulteriore commento è superfluo. Se non che certamente si potrebbe accelerare il tutto. Ad esempio mediante posta elettronica per chi è iscritto nel portale del Comune, magari previa preventiva accettazione di questo tipo di notificazione.
Magari facendo un salto oltralpe si scopre che altrove già ci hanno pensato!
23 luglio 2014
A proposito di un editoriale di Galli della Loggia
Autorevole invito all’autocritica, degli altri
di Salvatore Sfrecola
Ernesto Galli della Loggia è uno storico noto ed un editorialista forbito del Corriere della Sera, dalle cui colonne ci invita sovente a riflettere su temi politici, di diritto ed etica delle istituzioni, richiamando i lettori ai principi della democrazia liberale. Ha studiato John Locke e Alexis de Tocqueville, è critico della degenerazione del partitismo italiano, la “partitocrazia”, come Giuseppe Maranini aveva definito l’asfissiante presenza dei partiti nella vita pubblica italiana.
Oggi Galli della Loggia ha scritto de “L’autocritica che non c’è” spiegata nell’occhiello “L’assenza di verità nelle corporazioni”. Un “invito alla verità, a dire finalmente a se stessi e al Paese come stanno realmente le cose” evitando che essa si trasformi “fatalmente a causa dei troppi consensi nella retorica della verità. E dunque in niente”.
“Quando tutti si dicono subito d’accordo.. allora è certo che la menzogna ha ancora un lungo avvenire davanti a sé”.
Come dargli torto. Nel Paese dove il conformismo politico è una condizione di carriera per alcuni e di sopravvivenza per altri, anche gli intellettuali hanno perduto il gusto della libertà, di dire quel che realmente pensano, anche se non gradito ai potenti ed alle caste, prima tra tutte quella degli universitari, come dimostra il più recente concorso di abilitazione che ha prodotto centinaia di ricorsi che rischiano di intasare il TAR del Lazio. A leggerne solo uno c’è da inorridire per come sarebbero state manomesse le più elementari regole di imparzialità e di trasparenza delle procedure di selezione.
Sarebbe stata un’autocritica opportuna, da parte di Galli della Loggia, magari per dimostrare di essere sereno, obiettivo, disposto a praticare una sana confessione dei peccati della propria casta che certo conosce bene per esserne parte da decenni.
Invece la sua riflessione inizia “dalle grandi corporazioni come quella dei magistrati, i quali, poco curandosi delle necessità del Paese, non ammetteranno mai di esercitare da sempre un paralizzante potere d’interdizione e di ricatto nei confronti di qualunque tentativo di modifica dell’ordinamento della giustizia. Che essi vogliono solo conforme al mantenimento delle loro prerogative e dei loro privilegi, abusivamente spacciati come sinonimo dell’interesse generale”.
Un linguaggio da comizio infarcito di veri e propri insulti. Parole pesanti come pietre, quel “potere d’interdizione e di ricatto” esteso ad una intera categoria di pubblici funzionari cui la legge assicura il massimo di indipendenza (“soggetti soltanto alla legge”, come si legge nell’art. 101, comma 2, Cost.) in relazione alla più elevata delle funzioni pubbliche, quella di ius dicere di dire “in nome del Popolo Italiano” chi ha ragione e chi ha torto, perché questo significa assicurare la pace sociale, ne cives ad arma ruant. Potere ma anche grande responsabilità.
Il professore getta il sasso e ritira la mano, non spiega, non giustifica, magari con un esempio come una intera categoria di funzionari che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e alle leggi, tutti insieme non solo bloccano altrui iniziative ma ricattano.
Galli della Loggia certamente conosce il senso delle parole ma impunemente le scaglia contro magistrati, giudici e pubblici ministeri, venendo meno anche al ruolo proprio di un docente cui spetta insegnare, il che vuol dire essere di esempio, anche sulla base dell’esperienza negativa che può aver maturato ed osservato. Lui che solo nel 2010 faceva un bilancio terrificante dell’Italia, del sistema scolastico, che rende poco, della burocrazia, sovrabbondante e incapace, della giustizia, approssimativa e tarda, della criminalità organizzata, che non eguali all’estero, delle nostre città le cui periferie sono tra le più brutte al mondo. Per non dire degli acquedotti che oltre a portare acqua “fanno acqua”, del territorio a rischio frane, dei musei e dei siti archeologici abbandonati o sottoutilizzati. E poi della corruzione, delle tasse inique, dell’evasione fiscale.
In questo panorama terrificante le caste non compaiono. Solo quella dei magistrati.
Diseducativo, questo modo di affrontare i grandi temi della giustizia le inefficienze della quale i magistrati sono testimoni e vittime, per non poter rendere quel servizio secondo standard di efficienza che altrove caratterizzano l’azione dei giudici, ovunque dotati di leggi migliori e di più adeguate strutture tecniche.
Diseducativo, per aver dato la stura all’ennesima pantomima dei soliti Marco Ventura di Panorama e Luigi Amicone, direttore di Tempi, che stamattina ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La 7, senza avere un contraddittore si sono scagliati sui magistrati con una violenza verbale pari solo all’inconsistenza delle tesi espresse. Come quando Amicone è tornato sul tema dell'”avviso di garanzia” a Berlusconi nel 1994, quando si trattava solo di un invito a fornire testimonianza.
E poi la questione del “ricatto” all’industria, perché, spiegano i due, i magistrati fanno politica industriale perché chiudono fabbriche che inquinano, ad onta delle leggi che le amministrazioni non fanno rispettare e dei politici che non provvedono a finanziare piani di risanamento. Nonostante volino mazzette qua e là per l’Italia.
Ma tant’è, i due sono inquadrati nella casta più potente, perché controlla l’informazione, sottocasta giornalisti militanti.
Per fortuna dopo i magistrati “si può poi proseguire con le migliaia di rappresentanti della classe politica locale, per esempio di quella delle Regioni. Mai nessuno di questi che in mezzo secolo abbia detto una parola sola di rincrescimento e di autocritica per il malfunzionamento, gli sprechi e i costi smisurati di quei carrozzoni che appena istituite sono diventate le suddette Regioni”. “Avrebbe fatto piacere agli Italiani – scrive Galli della Loggia – ascoltare almeno una volta un consigliere regionale, dico per dire, della Calabria o della Sicilia, ammettere che le loro amministrazioni hanno rappresentato e rappresentano un’autentica vergogna nazionale, o che per esempio l’autonomia siciliana è diventata ormai un’autentica truffa, utile solo ad arricchire a spese di tutti poche migliaia di fortunati”.
Per concludere che “se vuol essere una cosa seria, insomma, l’omaggio generale alla verità non può che accompagnarsi all’autocritica di alcuni. Magari, visti gli errori commessi e le responsabilità accumulate, accompagnata alla decisione di farsi da parte”.
Intanto il danno è fatto, ed è enorme. Quanti italiani saranno convinti che effettivamente, come scrive l’illustre cattedratico che ha studiato John Locke e Alexis de Tocqueville (il curriculum non lo dice ma avrà studiato anche Montesquieu), i magistrati esercitano un “potere d’interdizione e di ricatto”, in barba alla legge alla quale sono soggetti?
Grande è la responsabilità di chi è chiamato da una cattedra universitaria a dare testimonianza di obiettività. Quella che è necessaria per affrontare i nodi delle riforme delle quali ha bisogno questo nostro martoriato Paese.
20 luglio 2014
Le competenze non si improvvisano
Realtà e leggende sui “mandarini” di Stato
di Salvatore Sfrecola
Qualche sera fa a In Onda, la trasmissione di approfondimento de La7, si è parlato di “mandarini di Stato”, gli alti burocrati, ma soprattutto i magistrati amministrativi e gli avvocati dello Stato che, legati ai potenti dei governi, entrano ed escono dai ministeri, ora come Capi di gabinetto, ora come Capi degli Uffici legislativi, ora come consiglieri giuridici, per cui l’espressione ripetutamente usata della “porta girevole”, quella attraverso la quale, negli alberghi, si entra e si esce. Ne hanno parlato, stimolati dai conduttori Alessandra Sardoni e Salvo Sottile, il Presidente del Sezione del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, il giornalista de L’Espresso Stefano Liviadotti e il Sottosegretario per la semplificazione la pubblica amministrazione, Angelo Rughetti, collegato in video.
Devo dire, con il massimo rispetto per gli illustri partecipanti alla trasmissione, che raramente ho sentito una somma di luoghi comuni che non avranno certamente consentito agli ascoltatori di comprendere di cosa si stesse parlando, se non della innegabile professionalità del Presidente Patroni Griffi, che tutti continuavano a chiamare consigliere, il quale ha dato conto con estrema chiarezza del ruolo dei magistrati che collaborano con i ministri ed in particolare dei Consiglieri di Stato, categoria della quale fa parte, appunto, avendo ricoperto, proprio per le sue conoscenze delle problematiche della pubblica amministrazione, tra gli altri, il ruolo di Capo di Gabinetto, di Ministro della funzione pubblica e di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del consiglio.
Detto questo è stato evidente, per chiunque conosca anche solo un po’ l’amministrazione, come da un lato i giornalisti, dall’altra il Sottosegretario, dessero soprattutto voce all’uomo della strada, cui si deve il massimo rispetto, ma che conosce le cose dall’esterno, in modo superficiale e influenzato dall’eterno vezzo italiano dell’invidia per i potenti, specialmente se, si immagina, guadagnano bene e hanno non pochi vantaggi, primo di tutti l’auto di servizio, forse i biglietti per cinema, teatri e manifestazioni sportive. Inoltre, probabilmente, piazzano figli e nipoti qua e là nelle amministrazioni e negli enti.
Dico questo perché il tema è serio e va affrontato seriamente, sotto vari profili: dell’interesse pubblico generale, in primo luogo, e dell’interesse dei Ministri ad avvalersi di collaboratori di fiducia, professionalmente dotati, per esercitare le rilevanti funzioni di vertice politico delle amministrazioni.
Cominciamo col dire che tradizionalmente i ministri della Repubblica, come quelli che ricoprivano analoga funzione nel Regno d’Italia, si sono costantemente avvalsi della collaborazione di magistrati amministrativi, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, e di Avvocati dello Stato, quali responsabili dei Gabinetti o degli Uffici legislativi. I magistrati ordinari, infatti, sono presenti soprattutto nel Ministero della giustizia e in alcuni Uffici legislativi (ad esempio al Ministero delle finanze, ora dell’Economia e delle Finanze, l’Ufficio legislativo è stato spesso retto da un Consigliere di Cassazione).
Questa prassi, tranne casi rari, non è stata mai gradita dagli alti vertici dell’amministrazione che ritengono non necessari questi “estranei. Ed è proprio qui il centro di una riflessione che va fatta con riferimento al ruolo che questi magistrati hanno svolto nell’Amministrazione dello Stato, che è molto diverso da quello che avrebbe, secondo quel che si dice, indotto il nuovo Premier ad avvalersi di altre categorie di pubblici dipendenti, in particolare di Consiglieri parlamentari, funzionari sulla cui professionalità non c’è nulla da dire, avendo esperienza dell’attività delle Camere e degli Uffici Studi che presso di esse hanno formato nel tempo studiosi di grande valore, molti dei quali successivamente hanno retto con riconosciuto prestigio cattedre universitarie.
Diremo anche di un altro profilo, spesso utilizzato per contestare la preposizione di magistrati agli uffici di cui si è detto, quello della separazione dei poteri che risulterebbe contraddetta dall’esercizio di queste funzioni da parte di giudici amministrativi e contabili, sia pure fuori ruolo.
Cerchiamo di chiarire, in primo luogo, qual’è il motivo per il quale i ministri si sono tradizionalmente circondati di magistrati amministrativi e di avvocati dello Stato.
La vulgata parla di casta che si alimenta, che mantiene le posizioni, che trasmette da uno all’altro come in una staffetta il testimone dello specifico ruolo, così individuando una situazione di fatto, senz’altro concretizzatasi in alcuni casi, ma che non modifica l’impianto fondamentale della vicenda, il motivo per il quale i ministri si avvalgono di queste professionalità.
È evidente che il ministro, posto alla guida di un ministero, struttura complessa e distribuita sul territorio, anche se fosse un tecnico di grande professionalità, non conosce nel dettaglio la normativa organizzativa e procedimentale dell’amministrazione, ma neppure i dirigenti preposti agli uffici. Sicché, insediandosi al vertice dell’Amministrazione, diventa in qualche modo, nel bene e nel male, prigioniero dell’apparato. Nel senso che capi dipartimento e direttori generali, cioè i detentori delle posizioni nelle quali si esprime il potere di quell’amministrazione, lo orientano nelle scelte relative alle politiche pubbliche di quel settore. Sono loro che portano i provvedimenti alla firma e ne giustificano l’adozione (come può il ministro esercitare un controllo sulla decisione al suo esame se non utilizzando persona di fiducia, estranea agli interessi in gioco?). Non solo. L’influenza di questa classe dirigente dell’amministrazione si esprime anche attraverso le nomine e i conferimenti di funzioni proprie dell’alta dirigenza, come gli incarichi nei consigli di amministrazione di enti e organismi controllati (basti pensare ai dirigenti della Ragioneria Generale dello Stato e, in genere, del Ministero dell’economia e delle finanze che siedono in Consigli di amministrazione, da Finmeccanica a Ferrovie, tanto per fare due esempi la cui importanza tutti possono percepire), nomi suggeriti al ministro il più delle volte, proprio dalla dirigenza, magari direttamente dagli interessati alla nomina. La motivazione è sempre la stessa: quella posizione è tradizionalmente retta dal dirigente della direzione x o y.
Inoltre nei ministeri si formano delle “cordate”, di colleghi di concorso, di chi ha maturato una determinata esperienza in un particolare settore, con la conseguenza, che evidentemente non ha nulla di illecito, che se uno della cordata raggiunge una determinata posizione è naturale che porti con sé e imponga, in posizioni di controllo dell’apparato, amici e amici degli amici.
Questa situazione, che nella trasmissione non è assolutamente emersa. è la ragione della scelta, da parte dei ministri, di collaboratori i quali abbiano un prestigio pubblicamente riconosciuto e possano quindi fare da tramite tra il ministro e la struttura e viceversa senza che l’apparato si senta in qualche modo condizionato in ragione del fatto che il Capo di gabinetto viene col ministro e, il più delle volte, se ne va con il ministro. Così, tra l’altro, impedendo le famose cordate deleterie per il buon andamento dell’Amministrazione, quando non hanno interessato i giudici di varie giurisdizioni.
Questa situazione ha determinato effetti positivi per il ministro e per l’amministrazione perché ha posto accanto al vertice politico ed a quello amministrativo personalità di rilevante preparazione giuridico-amministrativa e di vasta e variegata esperienza, con importanti relazioni negli apparati pubblici, ciò che ha consentito spesso di superare difficoltà interpretative ed operative rispetto a normative coinvolgenti più amministrazioni.
Vediamo, infine, l’eccepita incompatibilità dei ruoli con riferimento alla separazione dei poteri tra amministrazione e organismi con funzioni giurisdizionali, che vale solo per i magistrati e non per gli Avvocati dello Stato che sono ottimi funzionari tecnici, il cui compito è quello di difendere lo Stato in giudizio e di fornire, quando previsto, pareri in ordine a pratiche che possono avere profili contenziosi.
È chiaro che, a prima vista, possa sembrare strano o anche in contrasto con il richiamato principio della separazione dei poteri, fonte del buon governo nell’insegnamento di Montesquieu, che il Ministro si avvalga come diretto collaboratore di un magistrato che potrebbe svolgere funzioni giudicanti in una controversia amministrativa (se del T.A.R. o del Consiglio di Stato) o in una vicenda di responsabilità per danno erariale (se della Corte dei conti).
Al riguardo soccorrono regole giuridiche e comportamenti deontologici, le une e gli altri sempre verificabili e verificate nell’esperienza.
Un dato formale è il collocamento “fuori ruolo” del magistrato che, per il periodo nel quale ricopre l’incarico, non esercita le funzioni proprie del suo ruolo. E ove, tornando ad indossare la toga, si trovasse a giudicare di un caso che coinvolge l’amministrazione presso la quale ha operato a fianco di un ministro avrebbe il dovere di astenersi dal giudicare.
Sotto il profilo deontologico il magistrato, nel momento in cui ha una collaborazione ministeriale, “dimentica” di essere componente di un organo giurisdizionale e quando torna ad indossare la toga “dimentica” di essere stato Capo di Gabinetto o Capo di Ufficio legislativo.
Immagino la replica. Sono chiacchiere. No sono fatti e comportamenti che ho potuto verificare in tante occasioni. D’altra parte anche il funzionario di carriera può venir meno al suo codice deontologico e al dovere di agire, secondo Costituzione, con “disciplina e onore” (art. 54), di esercitare le sue funzioni in modo che siano assicurati “il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione” (art. 97), essendo “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98). Ma questo non impedisce che, di tanto in tanto, si scoprano autentici delinquenti che provocano sprechi e che si fanno corrompere perché “al servizio” delle lobby politiche o affaristiche. È cronaca di queste ultime settimane.
Aggiungo che nella forma mentis del magistrato, cui è stato insegnato fin dall’ingresso in carriera che è necessario non solo “essere” indipendente ma “apparire” anche tale, è chiara la distinzione dei ruoli sicché cambiando ruolo cambia mentalità. Ma comprendo che non tutti possano esserne convinti. L’esperienza dimostra che l’eventuale caso contrario attesta proprio che la regola è rispettata.
C’è gente che ha alto il senso dello Stato. È così, dobbiamo ammetterlo, pur in un Paese in cui è diffuso il disprezzo per la legalità.
D’altra parte la Corte costituzionale, chiamata a decidere della conformità alla legge fondamentale dello Stato delle norme che consentono la nomina, da parte del Governo, di una aliquota di magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, ha detto che la provenienza della nomina dall’Esecutivo non incide sulla indipendenza del magistrato, che una volta indossata la toga recide ogni legame con chi lo ha nominato.
Chiarite dunque, le ragioni per le quali i ministri hanno ritenuto di doversi avvalere della competenza professionale di magistrati e avvocati dello Stato, il nuovo Presidente del Consiglio ha ritenuto, secondo una propria personale convinzione, di doversi avvalere di altre professionalità per svolgere funzioni di Capo di gabinetto in vari ministeri, così come di Segretario generale della Presidenza del Consiglio e di Capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (DAGL), preponendo ai due uffici, rispettivamente, l’ex Direttore generale del Comune di Reggio Emilia e l’ex Comandante del Corpo della Polizia Municipale di Firenze. Funzionari certamente preparati ma che indubbiamente non possono vantare l’esperienza e le relazioni di coloro che li hanno preceduti, considerata la complessità delle funzioni attribuite ai detti uffici, in ragione delle quali non possono essere sufficienti le esperienze che i due hanno maturato in realtà del tutto diverse, quanto al tipo delle attribuzioni svolte ed alle dimensioni delle città nelle quali hanno operato. Ricordando che Firenze, città che è nel cuore non solo degli italiani ma di tutte le persone di cultura per la sua storia e la sua arte, ha un numero di abitanti inferiore al più piccolo municipio di Roma. E tali, ovviamente, sono i problemi che hanno dovuto affrontare e sui quali si sono formati.
Detto questo, da osservatore esterno, può darsi che tutte le persone che il Presidente del Consiglio e i suoi ministri hanno messo in campo si rivelino straordinari collaboratori. Ma è certo che non parlare il linguaggio dell’Amministrazione non consente facilmente di trasmettere la volontà politica del Presidente del Consiglio e dei ministri agli apparati che dovranno dare esecuzione alle scelte che l’esecutivo mette in campo.
Per chi considera gli apparati ministeriali la prima cura dei governi lo shock di Renzi rischia di rivelarsi fonte di risultati negativi, come dimostrano i provvedimenti fin qui adottati che, a fronte della necessità di significative, urgenti trasformazioni degli apparati e delle procedure, si limitano ad alcuni interventi che è dubbio abbiano la capacità di restituire alle strutture di governo quella efficienza che il cittadino attende.
Un dato formale, ma non irrilevante, ne è la prova. Il decreto legge sulla Pubblica Amministrazione, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 13 giugno, a leggere i giornali, è stato profondamente modificato nei giorni successivi fino al 24, quando lo ha firmato il Capo dello Stato. Infatti ne sono state diffuse versioni diverse. Doveva tornare al Consiglio dei Ministri, 30 secondi per una nuova approvazione. Il più modesto dei “mandarini” non avrebbe esitato per garantire la legittimità del provvedimento.
Da ultimo, è evidente che dietro l’ex sindaco di Firenze, che ha amministrato un microcosmo rispetto alla competenze delle quali è investito a Palazzo Chigi, c’è un suggeritore. Accade a tutti i politici. L’importante è sceglierlo giusto. Sul punto il giudizio, ovviamente, è rinviato.
8 luglio 2014
P.S. Il tema è di quelli centrali per il buongoverno delle amministrazioni. Con questo articolo apro un dibattito nel quale ospiterò volentieri tutti coloro che hanno qualcosa di intelligente da dire.
Riflessioni sulla “Grande Guerra”
Luglio 1914: il suicidio dell’ Europa
di Domenico Giglio
E’ abbastanza ovvio che in questi giorni si ricordi l’assassinio dell’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, unitamente alla consorte morganatica Sofia, avvenuto a Sarajevo ad opera di Gavrilo Princip,”due colpi di pistola: dieci milioni di morti”, come è stato sintetizzato, ma non vedo per l’Europa questi grandi motivi di rammentare un evento che ha significato la fine, o l’inizio della fine, concretatasi nel 1945, della sua supremazia mondiale, se non per un atto di pentimento per gli errori commessi e per la riaffermazione, che è poi il maggiore e migliore motivo della attuale Unione, del mai più guerre tra gli stati europei.
In questi ricordi e rievocazioni del “Luglio ’14”, vi è una tendenza quasi a sottovalutare l’assassinio dell’erede al trono dell’ Austria-Ungheria, quale causa scatenante il conflitto, in quanto , dicono illustri storici, la guerra sarebbe scoppiata egualmente perché la politica mondiale dell’Impero Germanico, lo sviluppo della sua flotta da battaglia, non sarebbe stata tollerata a lungo dalla Gran Bretagna, potenza mondiale, particolarmente egemone sui mari.
Le guerre però non sorgono per “autocombustione”, ma necessitano di un “casus belli”, per cui non è facile individuare il “quando” sarebbe scoppiata la guerra europea, se non ci fosse stato Serajevo e l’arroganza della diplomazia austroungarica, arroganza già mostrata nel 1859 nei confronti del Piemonte, ed in epoche successive, per cui la Serbia, che sapeva di godere della protezione “ortodossa” dell’Impero Russo, non potè accettare, come Stato Sovrano, l’incredibile ultimatum inviatogli da Vienna. ” Verum ipsum factum” , dice Giambattista Vico, ed il fatto e la verità coincidono. Senza Serajevo il 1914 sarebbe trascorso tranquillamente, e l’estate avrebbe ancora una volta visto il gran mondo incontrarsi nei saloni del grandi alberghi e nelle stazioni termali. Ed il 1915? Se vogliamo continuare le ipotesi quale fatto poteva accadere per accendere la “miccia” della guerra? Se la storia non si fa “con i se e con i ma” vorrei capire se in un anno la Germania avrebbe compiuto un ulteriore balzo in avanti, tale da costringere la Gran Bretagna , ad agire. Andiamo al 1916 e qui è un fatto certo e cioè la scomparsa dopo 68 anni di Regno di Francesco Giuseppe, e l’ascesa al trono di Francesco Ferdinando, se non fosse stato assassinato due anni prima, come fu in realtà.
Presi in questo giuoco si poteva pensare che il nuovo Imperatore, che aveva idee interessanti di una ristrutturazione dell’ impero che riteneva urgente, date le spinte centrifughe esistenti, si sarebbe imbarcato in imprese belliche, almeno per qualche anno e si poteva pensare che la Germania , senza avere la certezza di una collaborazione austroungarica, si sarebbe, a sua volta, spinta oltre nella sua politica espansiva? Questo per rimanere su dati e date certe perché altrimenti si potrebbero ipotizzare gli eventi più svariati, da morti improvvise di capi di stato, con problemi successori od a rivolgimenti interni dagli esiti imprevedibili.
Per questo il gesto criminale di Gavrilo Princip rimane l’unica e sola causa certa ed indiscussa della cosiddetta prima Guerra Mondiale, che portò in Europa una potenza fino ad allora estranea, gli Stati Uniti d’America, e portò anche negli eserciti franco-inglesi soldati dei loro imperi coloniali che videro, e lo rividero nella seconda guerra mondiale, i “padroni” bianchi combattere tra loro, con tutti i mezzi, anche i meno leciti, come i gas asfissianti, e capirono che erano maturi per una propria indipendenza nazionale, magari, e questa è storia recente, rivelatasi di molto inferiore alle loro aspettative.
6 luglio 2014
Saltano le regole più elementari del diritto
Se il decreto legge non è il testo approvato dal Consiglio di Ministri
Il decreto dei misteri
di Senator
C’è una categoria di professionisti che fa il tifo per Renzi. E’ quella degli avvocati che patrocineranno i ricorsi che già si preannunciano numerosi contro il decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” .
Cominciamo con un dato elementare, di immediata evidenza e pregiudiziale rispetto a qualunque altra valutazione di legittimità, prima del profilo riguardante la sussistenza dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza richiesto dalla Costituzione perché il governo possa adottare, “sotto la propria responsabilità provvedimenti provvisori con forza di legge”, come si legge nell’art. 77, comma 2, della Costituzione, così assumendo una funzione legislativa in via ordinaria rimessa alle Camere del Parlamento dall’art. 70 (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”).
Mi riferisco ad un elemento testuale. Il decreto pubblicato il 24 giugno è stato deliberato dal Consiglio dei ministri del 13 giugno, come si legge nel preambolo. Perché tutto questo tempo, ben undici giorni, prima della firma del Capo dello Stato e della pubblicazione?
Niente di strano, anche se il lasso di tempo, più di un sesto di quello che la Costituzione assegna alla validità del decreto (sessanta giorni), ad una prima valutazione contraddice l’urgenza, presupposto dell’assunzione del potere legislativo da parte del Governo.
Il problema preliminare, tuttavia, è un altro.
Secondo notizie di stampa e il tam tam delle mail che ha accompagnato l’annuncio della adozione del provvedimento e le prime indiscrezioni, il testo approvato sarebbe stato oggetto di plurime correzioni, a seguito di proteste dei sindacati, ad esempio del pubblico impiego, e di suggerimenti che sarebbero pervenuti, a tacer d’altro, dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Capo dello Stato o, più probabilmente, dai suoi uffici, per profili giuridici, di costituzionalità, ma anche per gli effetti che alcune norme avrebbero determinato su alcune categorie. Ad esempio per quanto riguarda l’abrogazione dell’istituto della proroga della permanenza in servizio dei magistrati, da 70 a 75 anni, che, è stato segnalato da più parti, avrebbe avuto l’effetto di determinare un vuoto di organico preoccupante. Infatti, mentre in una prima versione si indicava come termine per la permanenza in servizio di coloro i quali avevano avuto la proroga il 31 ottobre 2014, il testo uscito sulla Gazzetta Ufficiale indica il 31 dicembre 2015. Sui “dubbi del Colle” titolava La Repubblica del 24 giugno in prima pagina (“Manca ancora il via libera alla riforma della Pubblica amministrazione firmata dal ministro Madia. In particolare il Colle, ricevuta parte della riforma, avrebbe sollevato alcuni dubbi sulle regole di pensionamento dei magistrati chiedendo al governo di rivedere il testo”).
Lo stesso giorno il Corriere della Sera titola in prima “I rilievi del Quirinale sui decreti”. Una frase eloquente accompagnata da una vignetta di Giannelli intitolata “Il minestrone” che un Renzi in veste di cameriere offre a Napolitano dicendo “c’è di tutto”. La risposa del Capo dello Stato è “si sente” e rimette. “Un decreto-omnibus, un provvedimento monstre” è l’incipit di Marzio Breda. La dice tutta.
Anche sulla “definizione delle funzioni dell’Autorità nazionale anticorruzione” (art. 19 del decreto legge) sembra ci siano stati più aggiustamenti suggeriti dal Presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone sulla base della sua lunga esperienza nella lotta alle mafie notoriamente dedite a pratiche corruttive.
Comunque sia andata, secondo queste notizie giornalistiche univoche il decreto pubblicato non sarebbe identico a quello adottato dal Consiglio dei ministri, come dovrebbe essere e come deve risultare dal verbale dell’adunanza collegiale del governo.
E’ stato spesso così. Quante volte i provvedimenti governativi, non solo i decreti legge, sono stati approvati “salvo intese”, secondo il linguaggio dei comunicati stampa di Palazzo Chigi. Per dire che al momento dell’approvazione di quel determinato provvedimento rimanevano, comunque, alcune esigenze di messa a punto da concordare. Profili generalmente tecnici, sia pure importanti, ma che non coinvolgevano la scelta “politica” propria del provvedimento deliberato.
Ovviamente nessuno nega il diritto del Governo, re melius perpensa, di modificare il testo approvato prima della firma del Presidente della Repubblica . Ma per farlo occorre una nuova deliberazione del Consiglio dei ministri. Nuovo testo, nuova deliberazione. Difatti, alla vigilia della firma del Capo dello Stato si era diffusa la notizia che il decreto sarebbe tornato in Consiglio. Anzi era stata indicata anche una data, il 20 o il 27 giugno, un venerdì, giorno nel quale è consueto che si riunisca il Consiglio dei Ministri.
Queste considerazioni, alla luce dell’ampio dibattito che si è sviluppato sulla stampa, sono certamente imbarazzanti. Sarebbe stato sufficiente riunite i ministri qualche minuto prima che il Capo dello Stato firmasse il decreto che avrebbe contenuto nel preambolo una frase del genere: Viste le deliberazioni del Consiglio dei Ministri, adottate nelle riunioni del 13 e del?”.
Forse a Palazzo Chigi ci vorrebbe qualche giurista che “sussurrasse al potente di turno”!
30 giugno 2014
A proposito della rimozione del Prefetto di Perugia
Al termine del Consiglio dei Ministri, nell’ormai consueta conferenza stampa, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha lodato il Ministro dell’interno per la prontezza con la quale ha rimosso il Prefetto di Perugia, Antonio Reppucci, per alcune incaute affermazioni contenute in una intervista a proposito della diffusione della droga nel capoluogo umbro.
La vicenda è stata commentata da una mamma alla quale abbiamo dato ospitalità.
S. S.