Esempi per incominciare
Follie burocratiche che (giustamente)
indignano il cittadino
di Salvatore Sfrecola
Ce n’è per tutti. E di volta in volta segnaleremo le follie della burocrazia per l’inutilità di procedure che costituiscono un peso per la gente senza alcun vantaggio per l’erario.
Due follie riguardanti le sanzioni in materia di violazione al Codice della strada che interessano tutti cittadini. Riguarda Roma, ma vale per tutti. Auto parcheggiata in divieto di sosta. L’agente della Polizia Municipale non lascia l’avviso perché, si legge nel verbale, “in assenza del trasgressore e del proprietario”. L’italiano è la logica sono approssimativi per quel “e” che farebbe intendere che debbano essere presenti entrambi. In ogni caso un tempo l’agente lasciava l’avviso con l’indicazione dell’importo da pagare. In questo modo il cittadino provvedeva rapidamente al versamento dell’importo della sanzione, senza particolari disagi.
Troppo belle, troppo civile. Oggi, invece, il Comune invia al proprietario dell’autoveicolo il messo notificatore, un agente della Polizia Municipale che bussa alla porta di mattina quando, nella normalmente in casa non c’è nessuno. Non c’è chi è al lavoro e chi lo cerca.
In ogni caso il messo notificatore non lascia traccia della sua visita.
A questo punto il Comando locale della Polizia Municipale notifica con lettera raccomandata con avviso di ricevimento un avviso con il quale si avverte che il verbale è depositato nella Casa comunale, cioè presso il Comando della medesima Polizia. Se non si ha la fortuna di incontrare il postino questo lascia un avviso della raccomandata che occorre ritirare all’ufficio postale. Dall’avviso di deposito del verbale decorrono i cinque giorni per il pagamento della sanzione in forma ridotta. Il cittadino deve recarsi al Comando della Polizia Municipale per ritirare il verbale. Solo in quel momento saprà quale infrazione ha commesso e quale la sanzione deve pagare.
Tra ufficio postale, Comando della Polizia Municipale e di nuovo l’ufficio postale per pagare il bollettino (ma si può anche pagare dal tabaccaio e in sedi lontane chilometri dal luogo di residenza) il cittadino di una grande città non ha perso meno di una mattinata. Pagare se si è violato il Codice della strada è giusto ma un’amministrazione moderna, nell’anno di grazia 2014, dovrebbe facilitare e non aggravare con costi inutili il cittadino il quale avrà dovuto chiedere una mattinata di permesso il più delle volte con riduzione dello stipendio e, se libero professionista, avrà dovuto rinviare adempimenti del proprio lavoro. Il tempo ha un costo e l’Amministrazione non deve accrescerlo oltre il necessario in un realtà nella quale esistono strumenti di notifica e di pagamento adeguati all’era del computer.
A questo punto non si può fare a meno di richiamare una ulteriore variabile che riguarda il cittadino il quale abbia violato i limiti di velocità. Stessa procedura, con l’aggravante di dover riempire un apposito modulo per dire alle amministrazioni chi era alla guida ai fini della riduzione dei punti della patente. Una dichiarazione che va fatta anche nel caso che alla guida sia lo stesso proprietario del mezzo. Mi chiedo che senso ha. Basterebbe limitare la comunicazione ai casi nei quali alla guida non è proprietario. Mi sembra di ricordare che un tempo era così. Chi ha deciso la modifica era evidentemente un sadico che ha voluto aggravare la posizione del debitore dell’amministrazione. Naturalmente ci sarà chi è pronto a giustificare questa procedura, magari con riferimento a qualche pronuncia di un giudice di pace. In ogni caso l’omessa comunicazione del soggetto alla guida è sanzionata pesantemente.
Morale? Uno spaccato di incredibile complicazione burocratica rispetto alla quale il cittadino giustamente s’indigna. E siccome il cittadino non è solamente un utente della strada ma ha anche altre occasioni di incontrarsi con la burocrazia la somma di queste inefficienze fa presto la misura coma.
Tasse, balzelli, perdite di tempo inutili sono una cosa che dovrebbe preoccupare coloro che ricercano il consenso e si dicono attenti alle esigenze della gente.
Che qualcuna delle autorità interessate a questa normativa presti attenzione a questa mia segnalazione? Sarebbe un gesto di grande intelligenza politica e magari potrebbe aprire la strada ad altre semplificazioni di quella miriade di pastoie burocratiche incomprensibili ma soprattutto inutili. Anche perché è evidente che dietro questa complicazione ci sono uomini e donne che prendono nota, compilano registri, inviano raccomandate e via discorrendo.
30 novembre 2014
Alla ricerca di un centro-destra autorevole e credibile
di Salvatore Sfrecola
“Un centrodestra attivo dovrebbe partire dalle idee e scendere verso i programmi, con la credibilità delle persone”, così Gennaro Sangiuliano riassume una interessante riflessione pubblicata su Il sole 24 ore del 25 novembre, all’indomani del voto regionale che in Emilia-Romagna e Calabria ha certificato lo sfaldamento del centrodestra. Pertanto, “un centro-destra da rifondare”, nella convinzione che la scomparsa del blocco moderato limiterebbe la nostra democrazia.
Sangiuliano richiama iniziando il Manifesto dei conservatori di Giuseppe Prezzolini, un classico della letteratura politica, nel quale l’autore formulò l’espressione “la destra che non c’è” per indicare il pesante deficit culturale che caratterizzava quel periodo della vita politica italiana. Il conservatorismo prezzoliniano, scrive Sangiuliano, era “sobrio e moderno, saldo nei valori e nelle identità, ispirato a Machiavelli, Vico, Hobbes, ai grandi tradizionalisti francesi, a Dostoevskij e Heidegger, con un richiamo alla destra storica che governò l’Italia post unitaria”. Un riferimento culturale che mette ancora più in risalto l’attuale “panorama di rovine, abitato da figure improvvisate, mediocri, tragicomiche, che connota oggi il centro-destra italiano”.
Analisi lucidissima di una tragedia annunciata lungo gli anni del berlusconismo ridanciano, incapace di un’offerta credibile sia sul piano dei valori, completamente dimenticati, che su quello della concreta capacità di governo della quale già ho scritto in “Un’occasione mancata” (Nuove Idee editore, Roma, 2006).
Intendiamoci bene. Il mondo dei moderati, dei liberali e dei cattolici è dotato di personalità ben inserite nel mondo della cultura e delle professioni. Tuttavia manca la proposta e, soprattutto, il proponente, cioè colui che sappia essere l’interprete politico di un pensiero che affonda le radici in una cultura di respiro europeo, quella alla quale si ispirarono i nostri grandi del Risorgimento (ricordiamo Cavour statista europeo). Manca, come dicevo richiamando all’inizio di questa breve riflessione le parole di Sangiuliano, chi traduca le idee in programmi credibili, facilmente comprensibili, idonei ad aggregare consenso. Quel che è riuscito a fare Matteo Renzi che peraltro è rimasto alle enunciazioni, agli slogan riassuntivi spesso del niente, ma che hanno coinvolto vasti strati della popolazione, anche se il dato elettorale più recente segnala un forte assenteismo nella sinistra.
L’analisi di Sangiuliano è perfettamente in linea con quella di un pensatore solido della destra italiana, Domenico Fisichella, il quale scrivendo su Opinioni Nuove, un periodico bimestrale e si pubblica a Padova in ambienti monarchici, ha scritto che “all’Italia serve una forza politica che riscopra a rinnovi i suoi antichi valori risorgimentali e unitari”. Una destra “attendibile” e autorevole per recuperare “la rivendicazione dell’unità dello Stato nazionale, che significa forza contrattuale e di persuasione nel contesto europeo”.
Poche volte abbiamo letto una affermazione così profonda e importante, riferita al ruolo dello Stato nazionale nel contesto europeo laddove paghiamo lo scotto di un confuso e velleitario regionalismo che ci rende deboli nel confronto con gli altri Stati dell’Unione europea. Per cui ce la prendiamo sempre con qualcuno, con la Merkel di turno o con l’euro per nascondere la nostra incapacità di essere partner credibili in un contesto difficile ma che è l’unica speranza nel mondo globalizzato per l’Europa nel suo complesso e per gli Stati associati.
28 novembre 2014
I dolori del giovane Renzi
di Senator
Non nascondo che io, uomo di destra, ho avuto una istintiva simpatia per Matteo Renzi quando è comparso all’orizzonte della politica nazionale, in occasione delle primarie per la leadership del Partito Democratico perdute con Piergiorgio Bersani. Ne apprezzavo il giovanile entusiasmo, il linguaggio efficace, la capacità di coinvolgere le persone nella enunciazione di riforme da fare, necessarie per la ripresa economica del Paese, con istituzioni parlamentari più efficienti, meno burocrazia, meno tasse, una scuola migliore, una giustizia più veloce nel tutelare i diritti dei cittadini. Nell’era di Twitter, che impone di dare un senso il più possibile compiuto ad un pensiero in 140 caratteri Renzi comunicava efficacemente con italiani stanchi delle liturgie di una politica che poco ha fatto per rispondere alle esigenze delle persone e delle imprese.
Ho atteso che dalle parole si passasse ai fatti. E qui ho avuto i primi dubbi sulle prospettive del suo governo. L’idea di una riforma al mese, dall’amministrazione al fisco, dalla giustizia al lavoro, alla scuola sarebbe stata affascinante se la squadra di governo non si fosse immediatamente dimostrata inadeguata rispetto alla mole delle cose da fare per avviare concretamente le riforme enunciate.
Giovani di belle speranze e belle ragazze collocate in posti di responsabilità in passato affidate a politici o tecnici esperti che non erano riusciti a fare un passo in avanti. Giovanotti e ragazze senza alcuna esperienza politica, senza cultura amministrativa, senza preparazione giuridica, come attesta l’Espresso in edicola che bolla impietosamente con un “bocciato in legge” il governo e le sue riforme. A partire da quella costituzionale, avviata baldanzosamente e impantanata in una revisione del Senato che non si capisce bene che ruolo avrà, al di là di apparire una sorta di dopolavoro dei consiglieri regionali in trasferta a Roma. 100 senatori mentre rimangono 630 deputati. Dimezzarli sarebbe stato il minimo da fare.
E, poi, le riforme della Pubblica Amministrazione, della Giustizia, delle procedure di spesa per le opere pubbliche, tutte decise con decreti legge convertiti sulla base di un voto di fiducia che ha mortificato il Parlamento, che, soprattutto, non ha consentito miglioramenti del testo, anche sulla base delle riflessioni che andavano maturando tra chi ha esperienza di queste cose.
Tutto con un cronoprogramma, come si direbbe con linguaggio dei contratti di appalto, inadeguato ai tempi tecnici e ad un minimo di approfondimento delle tematiche affrontate e definite evidentemente da ghost writers del “cerchio magico”, giovani professionisti del privato poco esperti di amministrazione e giustizia o di procedure di appalto se, per semplificare, è stato prodotto un decreto che riempie ben 189 pagine fitte fitte della Gazzetta Ufficiale.
E, ancora, errori politici, come quello di farsi troppi nemici, a destra e a sinistra. Tra i dipendenti pubblici, i magistrati, i pensionati, e via enumerando. Un errore che il giovane Renzi rischia di pagare caro. Anche il domatore dei circhi entra nella gabbia delle tigri avendone una che in ogni caso è disposta a difenderlo. Così, se il ridimensionamento dello strapotere dei sindacati, che poco ha portato di buono al Paese negli anni passati ingessandolo pesantemente, è stato generalmente apprezzato, non è stata una mossa intelligente manifestare un aperto disprezzo per le loro istanze. Come aveva fatto con i magistrati e gli altri che a lui si sono opposti, a volte con ragionevolezza.
“Macchè uomo solo al comando” ha replicato Renzi quando si è detto che si fosse circondato da mezze figure per poter decidere in solitudine. E adesso si trova a combattere su più fronti, circondato da critiche anche in casa, da persone che è sbagliato dire che sono venti anni indietro, come ha affermato ieri la Serracchiani riferendosi alla evocazione dell’Ulivo da parte della Bindi. Quelle istanze hanno seguito, anche se minoritario, che potrebbe ampliarsi a seguito del malessere evidente nelle elezioni regionali in Emilia Romagna, una regione dove si votava senza se e senza ma. Come in Toscana, dove nel Mugello rosso è stato votato, perché imposto dal partito, Antonio Di Pietro, un uomo che è a destra di tutti.
Insomma, Renzi si sta facendo male da solo ed ha disperso un patrimonio di credibilità che si era conquistato con slogan e slide. E con la giovane età, peraltro troppo enfatizzata. La storia conosce di primi ministri giovani, in Italia Benito Mussolini è salito al potere a 45 anni, nel Regno Unito William Pitt, aveva da poco superato i 20.
Scendendo ieri dal Colle, da dove il Capo dello Stato più volte lo ha ammonito a fare presto “e bene”, avrà riflettuto sugli errori fatti, forse, c’è da aggiungere, perché il giovane fiorentino è un po’ presuntuoso. E questo nella vita, e in politica, non porta lontano.
27 novembre 2014
In punta di penna
Disaffezione per le regioni: “È ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni fosse affidata a un referendum è probabile che la maggioranza ne proporrebbe l’abolizione”. Lo ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 25 novembre (“Il voto di chi non vota”) aggiungendo che “è inevitabile che ciò favorisca l’astensione”.
Non solo, anche il profilo di molti candidati lascia a desiderare agli occhi di elettori che hanno potuto verificare come coloro che avevano votato negli anni passati hanno dimostrato di considerare i fondi dei gruppi consiliari, finalizzati a sovvenire alle esigenze dell’attività politica e istituzionale, come un gruzzolo da usare per finalità assolutamente personali, come le cronache hanno abbondantemente dimostrato.
In proposito vale la pena di ricordare che la Corte costituzionale, con una recentissima sentenza, la n. 263 del 17 novembre, ha ribadito che l’esercizio del controllo “non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge”. E rammenta di aver già auspicato “forme di controllo più severe e più efficaci”.
Si torna a fumare di più: è una generale constatazione che, dopo un periodo nel quale, auspice il Ministro della sanità (oggi della salute) Sirchia, gli italiani si sono dimostrati virtuosi il fumo ha ripreso alla grande. Fumano, come sempre, più le donne e, purtroppo, i giovani. Basta andare nelle vicinanze di una scuola superiore per constatarlo. L’allarme delle società scientifiche è grande, come scrive Margherita De Bac sul Corriere della Sera.
Telefoninomania: ed a proposito di scuole ecco una frase colta nei pressi di un importante ginnasio liceo della Capitale, il Mamiani. “se non avessi il cellulare non saprei come passare il tempo durante la lezione”. Cattiva educazione nei confronti del docente e incommensurabile idiozia. Ma mi è tornata alla mente una frase di mio nonno, professore di italiano e latino nel liceo di Trani. “Quando un ragazzo va male a scuola nella maggior parte dei casi è colpa del docente”. Nel senso che non sa interessare e coinvolgere gli studenti. Idiozia e maleducazione a parte.
Lo ricorda Paola Italiano su La Stampa
La denuncia della pericolosità dell’amianto
in due sentenze di inizio ‘900
di Salvatore Sfrecola
Scritta a penna, com’era abitudine all’epoca, ma ancora in Cassazione nel secondo dopoguerra, spunta dal polveroso archivio del Tribunale di Torino una sentenza del 31 ottobre 1906, emanata in nome del re Vittorio Emanuele III, confermata in appello un anno dopo, nella quale si denuncia la pericolosità della polvere di amianto. L’ha ricordata Paola Italiano, che ne ha scritto su La Stampa riportando passi di quella lucida pronuncia di 120 anni fa, quando la gente cominciava a morire per la fibra killer respirata lavorando nelle fabbriche del Canavese. E fu subito uno scontro tra diritto e scienza, allora come oggi, tra chi sosteneva e sostiene la pericolosità della polvere di amianto e le imprese interessate a negarla. Nonostante, come afferma la Corte d’appello di Torino, sia “cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura che l’aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell’amianto può essere maggiormente nociva” di altre polveri. “Elementare cultura” per dire che non occorre un premio Nobel in medicina per ritenere provato il danno di chi deposita nei polmoni la polvere di silicio. Poi verranno indicazioni più puntuali sulla base dell’esperienza maturata negli ospedali della zona per patologie altrove non riscontrate.
Paola Italiano riporta alcune frasi della sentenza di primo grado: “l’avvocato Pich quando scrisse che la mortalità in genere è maggiore fra i funerali dell’amianto che fra quelli delle altre industrie; i certificati prodotti lo provano in modo veramente irreputabile”.
Quale commento a questa vicenda? Ci sarà certamente qualcuno il quale dirà che i giudici fanno politica industriale se chiudono gli impianti e impongono l’adozione di cautele per evitare emissioni inquinanti gravemente lesive della salute. Che è compito dei giudici tutelare sulla base della Costituzione che all’articolo 32 individua la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. E qui emerge la disattenzione del legislatore e dell’autorità amministrativa e la loro subordinazione ad interessi privati non meritevoli di essere salvaguardati, perché se lo sviluppo industriale è funzionale al benessere della comunità questo non può essere raggiunto a danno della vita dei lavoratori. Costringere persone che hanno bisogno di lavorare a scegliere fra il guadagno per sostenere le proprie famiglie e la salute è certamente una dimostrazione dell’incapacità della classe politica di considerare e tutelare valori fondamentali come quelli della dignità del lavoratore, della salute e dell’ambiente. Perché molte strutture industriali che producono fattori inquinanti oltre a danneggiare la salute degli addetti e delle popolazioni residenti alterano gravemente le condizioni ambientali in un Paese, l’Italia, che affida alla meravigliosa natura che ne ha fatto un tempo il giardino d’Europa anche una preziosa realtà turistica.
Eppure c’è da scommettere che in questo Paese ad alto tasso di illegalità qualcuno, senza preoccuparsi di offendere la memoria dei morti, continuerà a ripetere, senza vergognarsi, che i giudici debordano dalla funzione loro propria, che svolgono attività di supplenza, che fanno politica industriale.
26 novembre 2014
Pubblico impiego: le colpe del governo,
quelle della burocrazia e dei sindacati
di Salvatore Sfrecola
Il proclamato sciopero del pubblico impiego non può essere liquidato con qualche battutina di quelle alle quali il Segretario del