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Aprile 2015

Italia, torna ad essere un paese normale! *
Risvegliati Italia! Il futuro non puó più attendere
di Giuseppe Valditara **

Il 21 aprile ricorre il giorno che nella tradizione ricorda la fondazione di Roma, celebriamo dunque le radici dell’Occidente. A proposito chiariamoci subito: l’Occidente, a dispetto di chi lo dileggia, nasce nel 32 a.C. con il giuramento di fedeltà ad Ottaviano e ai valori della civiltà romana fatto spontaneamente dai popoli occidentali dell’impero contro la minaccia di una satrapia orientale.
Da più parti si auspica anche la costruzione di un grande movimento nazionale capace di far rinascere l’Italia.
Proviamo dunque ad immaginare come potrebbe essere idealmente un nuovo soggetto politico capace di rappresentare e quindi di riunire la maggioranza morale degli italiani, quelle tante persone per bene, quel grande ceto di produttori che sono la spina dorsale della repubblica. Produttori di ricchezza materiale o spirituale, contro approfittatori e parassiti, questa la prima grande distinzione. Persone per bene riunite senza più steccati ideologici divisivi, quegli steccati che hanno contrapposto per troppo tempo i cittadini come le fazioni medioevali o i tifosi sportivi, complicando la soluzione dei problemi.
Le persone per bene devono riunirsi invece attorno alle necessità del reale. Basta con Hegel, meglio Locke. Il che non significa affatto rinunciare ad alcuni principi fondamentali.
La storia di Roma e la storia dell’Occidente sono un punto di riferimento.
È una grande storia di libertà, con arretramenti, con momenti di stanca e di rassegnazione, ma vi è una costante: l’idea della libertà. La lotta delle città greche contro l’invasore persiano per difendere la loro sovranità. La lotta della plebe romana per affermare i propri diritti. La lotta dei martiri cristiani per affermare primi nella storia la libertà di credere nel loro Dio senza rinnegare l’autorità dello stato e i suoi valori. La lotta delle città medioevali in nome della propria autonomia. La magna charta libertatum, i padri pellegrini, i rivoluzionari del tea party, la liberté della grande Rivoluzione, i Risorgimenti, la lotta contro i totalitarismi. I martiri di Cefalonia, quelli di Budapest e di Praga. La libertà è il valore per eccellenza dell’Occidente. La libertà va difesa contro chi la minaccia. La libertà presuppone la volontà di reagire anche con la forza contro ogni aggressore.
La libertà presuppone la sicurezza, senza sicurezza non c’è libertà. La certezza della legge, la certezza della pena, l’insegnamento fin dalle scuole della cultura della regola, iniziando per esempio con l’insegnamento della grammatica e della sintassi, per finire con la punizione dello studente che pretende di fare il bullo arrogante e violento o il lavativo menefreghista. Legge e ordine, a iniziare dalla repressione della microcriminalità, come ci ha insegnato un grande sindaco: Rudolf Giuliani e come ci hanno insegnato i teorici delle “finestre rotte”, quella corrente criminologica che ha consentito di liberare alcune città americane da teppisti e delinquenti. E poi obbligo di lavori sociali per i detenuti: basta vedere i carcerati che stanno fra quattro mura a non far nulla! La rieducazione passa attraverso il lavoro in favore della società.
Il ripristino della disciplina e l’autorevolezza delle istituzioni sono i pilastri su cui si fonda da duemila anni la libertà: legum servi sumus ut liberi esse possimus. Autorevolezza che non c’entra nulla con autoritarismo. È l’auctoritas delle magistrature repubblicane. Autorevolezza che si è persa, che va ricostruita e rispettata. Non a caso l’azione corrosiva di una certa magistratura di sinistra per decenni si è scagliata contro il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, per farne dichiarare la illegittimità costituzionale.
La libertà presuppone una nuova stagione dei doveri: i doveri civili, e non solo i diritti civili. Ci vuole un movimento che sappia essere coerentemente il movimento dei doveri civili, oltrechè dei diritti.
La libertà presuppone la proprietà. Non esiste libertà senza esseri liberi di possedere e disporre dei propri beni, non esiste vera libertà quando vi è l’invadenza opprimente dello stato nella gestione dei nostri beni e dei nostri affari. Lo avevano intuito i Gracchi: una repubblica forte presuppone una proprietà diffusa. Lo sviluppo dell’Occidente passa sempre attraverso il dinamismo di ceti proprietari, fossero i contadini della repubblica romana, o i mercanti dei comuni, o i borghesi artefici della rivoluzione industriale, gli imprenditori del sogno americano o del miracolo economico post bellico. Solo la nostra costituzione sotto l’influenza delle sinistre ha messo prima la proprietà pubblica di quella privata e ha subordinato questa a finalità sociali.
La liberazione dalla oppressione del fisco e dalla tirannia di lacci e lacciuoli, dalla tirannia di controlli levantini, di cavilli fastidiosi, di regolamenti incomprensibili, di autorizzazioni insensate, è il cemento unificante di chi vuole federare gli italiani. si deve abbattere il carico fiscale su tutti gli italiani, non dare una elemosina clientelare soltanto a qualcuno.
Ci sono due valori per eccellenza che discendono dall’esempio di Roma:  buona fede ed equità. La buona fede era considerato il valore di Roma. Pensate che in un passo dell’Antico Testamento che risale al II sec. a.C. sta scritto che i Romani erano conosciuti ovunque come il popolo della buona fede. Buona fede significa rispettare la parola data. Significa correttezza nei comportamenti umani. significa non ingannare. significa non dire una cosa e farne un’altra. È l ‘antico valore della stretta di mano, è la gogna pubblica e la emarginazione sociale e politica verso il furbo disonesto, il cialtrone, il mentitore.
Ci vuole una classe politica che abbia a cuore gli interessi di tutti gli italiani, e che mantenga ciò che promette, ci vuole una politica ispirata alla buona fede.
Equità a me piace molto, è un termine più concreto di giustizia, che sa troppo di morale: equità richiama l’idea della bilancia, della non discriminazione, della difesa del più debole contro l’approfittamento del più forte, del trattamento eguale per situazioni eguali e diverso per situazioni diverse. L’equità richiama l’eguaglianza dei punti di partenza, non quella dei punti di arrivo, che è iniqua. Le diversità sono il sale dello sviluppo. Dobbiamo sottrarci alle lusinghe socialiste di redristribuzione della ricchezza, dobbiamo invece rendere concreta la prospettiva di una opportunità per tutti: costruiamo una vera mobilità sociale in una Italia ancora arcaica, un’Italia che attua la vera discriminazione sociale dove il figlio dell’operaio ha molte più probabilità di continuare a fare l’operaio che nella gran parte degli altri paesi europei e dove posizioni di privilegio si trasmettono in via ereditaria più che in ogni altro paese occidentale.
E poi l’humanitas, un termine sconosciuto presso altri popoli antichi e tipicamente romano, un valore che faceva considerare persona anche lo schiavo, nel mondo antico trattato come un mezzo di produzione, e che invece a Roma, una volta liberato, diventava cittadino, e poteva persino occupare le più alte cariche dell’impero. E a questo proposito ho provato nausea verso quelle frasi sui social network che deridevano e insultavano i poveri morti annegati nello stretto di Sicilia: gli imbecilli che non sanno provare pietà per altri esseri umani sono estranei al concetto che noi abbiamo di Civiltà.
Questi principi fondavano la nostra identità fino a quando il cancro del relativismo, del marxismo, del radicalismo libertario ha corroso le nostra fondamenta valoriali.
C’è un altro punto decisivo. Roma non è mai stata razzista. L’identità non sta nella razza, ma nella condivisione di valori, e in una cultura. Noi italiani abbiamo tante origini etniche. Ex pluribus unum si adatta perfettamente alla nostra identità. Roma nasce dall’incontro fra popoli diversi i sabini e i latini e poi persino gli etruschi che parlavano una lingua incomprensibile. Nella leggenda delle origini di Roma ci stanno un asiatico Enea e una italica Lavinia. Roma ha avuto imperatori spagnoli, illirici, nordafricani, tedeschi e persino arabi. Nel sangue degli italiani c’è di tutto. Quando qualcuno 77 anni fa scrisse la carta della razza e poi istituì il tribunale della razza e altre simili corbellerie inauguró in modo drammatico una politica cialtrona oltrechè criminale che non solo portó alla morte di migliaia di italiani diversi solo per religione, ma che è stata anche la causa principale del trionfo successivo della sinistra e della damnatio memoriae per troppo tempo delle idee cosiddette di destra.
Mi piace piuttosto ricordare Claudio, l’imperatore saggio, che testimoniava come solo a Roma poteva succedere che un popolo alla mattina nemico, alla sera era accolto come cittadino. O il greco Elio Aristide che celebrava la straordinaria apertura di Roma, unico popolo antico capace di accogliere e integrare gli stranieri. Un esempio commovente quello di Marco Porzio Iesuchtan un semita comandante di una guarnigione romana del Nord Africa che portava con orgoglio un nome romano ed era pronto a morire per Roma. O del gigantesco barbaro Carriettone, brigante franco, poi affascinato dal mito di Roma e morto eroicamente per difendere la sua nuova patria.
Ma non ogni straniero veniva accolto: proprio Elio Aristide chiarisce: voi avete accolto chiunque per coraggio, virtù, capacità, influenza, ricchezza potesse essere utile al destino di Roma, ma avete respinto chi non ne fosse degno. E già il cisalpino Livio scriveva che i Romani avevano espulso senza troppi complimenti persino i Latini, quando erano diventati troppi e rischiavano così di condizionare la politica romana. Alcuni secoli dopo il senatore romano ma nordafricano di razza e di origine Aurelio Vittore concluderà: gli imperatori che hanno spalancato le porte ai barbari hanno creato le premesse per la decadenza di Roma e perchè i barbari potessero comandare su noi romani. Nessuno nella antica repubblica poteva avere due cittadinanze: o si condividevano i valori di Roma o si era stranieri.
La convivenza e il progresso necessitano la condivisione di alcuni valori essenziali da parte di chiunque viva all’interno della comunità. Noi dobbiamo chiedere a chi viene in Italia di condividere i nostri valori fondamentali, di sottoscriverli e chi li viola o li combatte deve essere espulso anche se nel frattempo è diventato cittadino. L’integrazione non si fa modificando i nostri costumi e le nostre leggi per venire incontro a chi viene a casa nostra. L’integrazione presuppone che si accettino solo coloro che riconoscono e condividono i nostri valori fondamentali.In Gran Bretagna si sta diffondendo una aberrazione: si sta tornando al principio della personalità del diritto per cui ogni popolo su uno stesso territorio segue regole sue. Gli Inglesi hanno ammesso e riconosciuto la sharia per settori importanti come il diritto di famiglia, le successioni, persino la disciplina di certi reati che avvengono all’interno delle famiglie. Questo è inammissibile, questo è regredire di secoli, quando non di millenni.
Chi viene in Italia deve dichiarare solennemente di riconoscere la completa parità fra uomo e donna, di ripudiare l’idea della guerra santa che è una roba barbarica, di accettare come legittima qualsiasi religione. E se con parole o atti violerà quel giuramento deve essere cacciato a pedate.
La cittadinanza si dà solo a chi se la merita e si revoca a chi non se la merita. Parlare oggi di ius soli è pura irresponsabilità.
Gli immigrati sono benvenuti purchè vengano qui con buone intenzioni, per lavorare onestamente e costruire un’Italia più prospera. L’immmigrazione deve essere utile, deve servire allo sviluppo della nostra nazione. Noi non abbiamo un dovere di accoglienza. L ‘Italia non puó essere un ente di assistenza sociale per i diseredati del mondo intero. Basta con politiche idealisteggianti, occorre tornare ad un sano realismo: Mare nostrum e Triton non sono real Politik. Sono un disastro sociale e umanitario, servono solo a ingrassare chi gestisce il traffico degli essere umani, qualcosa che nel mondo frutta 35 miliardi di dollari.
Venturini sul Corriere parla di 500.000 migranti che nei prossimi mesi si abbatteranno sull’Italia e forse sono pochi: in una sola settimana ci sono stati 13.500 sbarchi; la procura di Palermo afferma che un milione si sta apprestando a partire: una invasione. Il pericolo per la stabilità, la sicurezza e il benessere dell’Europa viene da invasioni bibliche e dai terroristi dell’Isis. Dobbiamo imparare a difendere i nostri interessi e a tutelare la vita di tanti disperati. I responsabili della strage del canale di Sicilia sono coloro che non hanno ancora fatto niente di fronte alla necessità di un intervento duro contro scafisti e islamisti. Ci vuole il controllo militare delle coste libiche, ci vogliono navi che stazionino nelle acque libiche impedendo ai barconi di partire, ci vogliono operazioni di intelligence che facciano saltare le barche degli scafisti quando sono ormeggiate nei porti. E se sarà necessario  ci vuole un’occupazione militare della costa da parte di forze sovranazionali.
Pur nella consapevolezza che i principi umanitari ci impongono di aiutare chi soffre, ma solo chi soffre realmente, l’obiettivo prioritario di uno stato è quello di tutelare la qualità della vita dei suoi cittadini. Sotto questo aspetto un tema fra i più importanti è anche quello dell’ambiente e della salute del cittadino. Un altro tema è quello della ricerca e delle infrastrutture. Il futuro di un paese passa ormai innanzitutto per la qualità del suo sistema di ricerca, nel saper essere all’avanguardia. È la drammatica necessità di una Italia più moderna e più competitiva.
Un altro punto decisivo. Dobbiamo ridare sovranità al popolo. Non possiamo accettare una legge elettorale che rischia di trasformare una anche piccola minoranza in una maggioranza bulgara. Ci vogliono propinare un senato di non eletti. Vogliono rendere più difficili i ddl di iniziativa popolare. Se poi a questo si accompagna il progressivo e metodico svuotamento del ruolo del Parlamento a vantaggio della giurisprudenza come nuova fonte del diritto ci rendiamo conto che la democrazia rischia di diventare una presa in giro.  Questo processo iniziò 55 anni fa con un giudice costituzionale che era stato prima presidente del tribunale della razza, poi capo di gabinetto di Togliatti e infine presidente della Corte costituzionale. Questo signore invitó i giudici ad applicare direttamente la Costituzione ai casi concreti disapplicando le leggi, poi arrivò Magistratura democratica e il pasticcio fu completato. Oggi alcuni giudici pretendono di decidere persino il contenuto di un contratto. Vi è stata una socialistizzazione strisciante della società italiana senza alcuna legittimazione democratica.
Infine è arrivata l’Europa. Io credo nell’Europa, ma non in questo modello di Europa. Il vero pericolo di questa Europa sono quelle Corti che senza alcuna rappresentatività popolare pretendono di dirci cosa dobbiamo fare. Ora salta fuori questa sciocchezza del reato di tortura che non serve dato che l’ordinamento italiano ha già norme adeguate. I giudici europei grazie anche a due sentenze del 2007 della Corte costituzionale hanno ormai licenza di creare diritto in molti settori della vita italiana. Intollerabile è pure la burocrazia europea con tutti quei cavilli pretestuosi, quei regolamenti fatti apposti per favorire le economie nordiche, quei regolamenti, fastidiose zecche che succhiano il sangue della nostra libertà. Un’Europa che sugli sbarchi ha lasciato drammaticamente sola l’Italia.
Si deve ridare la parola al popolo. La storia si ripete. Come 2500 anni fa ancora oggi vi è una oligarchia, finanziaria, burocratica, culturale. Ci vuole la elezione diretta del presidente della repubblica, disegni di legge di iniziativa popolare su cui il parlamento abbia l’obbligo di pronunciarsi, la possibilità che 300.000 elettori ricorrano direttamente alla Corte, giudici della Corte costituzionale nominati soltanto da una Camera nazionale, da un Senato delle regioni, e dal Presidente della Repubblica. Ci vuole un Csm in cui i rappresentanti dei magistrati siano i giudici di Cassazione più anziani. Nella magistratura conti il merito e l’esperienza e non le correnti politicizzate che vanno sbaraccate e che offendono l’alta dignità di giudici e procuratori della Repubblica, alta dignità che discende tuttavia dalla loro percepita imparzialità.
Chi sono questi italiani che dobbiamo riunire in un grande sogno di sviluppo, di crescita, di prosperità? Sono le persone di buon senso. Il buon senso è la principale categoria della politica. Il vero scollamento oggi è fra i sentimenti della maggioranza morale degli italiani e i sentimenti delle sue classi dirigenti. Noi abbiamo un drammatico bisogno di ribaltare il pensiero unico marxista, cattocomunista, giacobino, sessantottino, liberal, radical chiamatelo come volete. quel pensiero che in Italia  più che altrove ha creato una cultura negativa,la cultura del declino. Solo in Italia chi produce ricchezza lecita e onesta deve vergognarsi e scusarsi, solo in Italia la proprietà viene considerata quasi un furto e i ladri non vengono invece perseguiti, solo in Italia chi non lavora viene protetto e magari premiato e chi merita viene ignorato e umiliato, solo in Italia il corrotto sta sempre al suo posto e l’onesto viene considerato un fesso,  solo in Italia per un malinteso sentimento umanitario un governo finisce con l’aiutare gli scafisti a fare il loro sporco mestiere, solo in Italia si consente a coloro che vogliono vivere di reati o di espedienti di esercitare la loro prepotenza impunemente, solo in Italia i graffitari possono sporcare a loro piacimento,  la microcriminalità è tollerata e perdonata, le forze dell’ordine sono sempre messe sotto accusa, gli insegnanti hanno sempre torto, la legittima difesa è punita etc.

*Discorso pronunciato il 21 aprile 2015 al Salone Margherita di Roma
**Il  Prof. Giuseppe Valditara è ordinario di Diritto pubblico romano nell’Università di Torino ed è animatore del Gruppo “Crescita e Libertà” – www.facebook.com/groups/crescitaliberta

Riflessioni a margine del 25 aprile
A quando una Festa “della Nazione”?
di Salvatore Sfrecola

Il 25 aprile, appena ricordato nel settantesimo anniversario dell’insurrezione contro i tedeschi invasori e la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), è senza dubbio una ricorrenza che nella storia d’Italia è certamente più importante di quanto sia stata e sia vissuta nella contrapposizione politica che l’ha caratterizzata per essersene, fin dall’inizio, impossessati alcuni partiti, in particolare il Partito Comunista Italiano. Sarebbe stato tutto sommato più semplice ricondurre la rivolta e la sua conclusione nei termini esatti che certamente gli storici, negli anni a venire, le riconosceranno come una reazione, diffusa in vasti strati delle popolazioni del Nord Italia, contro l’occupazione tedesca e il Governo di Salò. Variegate sono state, infatti, le componenti del movimento partigiano, in parte riconducibili a partiti, il comunista e il democristiano, in primo luogo, altre più “patriottiche”, come quelle che Eugenio Scalfari su La Repubblica di ieri definisce “monarchiche”, che più semplicemente si riferivano allo stato nazionale, strumentalmente definito “Regno del Sud”, più esattamente il Regno d’Italia. Erano reparti formati da militari che non avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana e che, mantenendo fede al giuramento prestato al Capo dello Stato, si erano mobilitati sulle montagne per sfuggire ai bandi di arruolamento della RSI e combattere gli invasori. Reparti sui quali si è tentato di stendere il velo del silenzio, proprio perché non riferibili a partiti politici, nonostante il loro sia stato un apporto certamente significativo alle operazioni militari per l’ovvia ragione che erano gli unici inquadrati ed addestrati all’uso delle armi.
In una visione realistica e corretta degli avvenimenti che hanno preceduto la rivolta contro gli invasori e la Repubblica di Mussolini (del cui ruolo gli storici scriveranno ancora per ricordare le azioni violente delle Brigate Nere, ma anche per segnalare che la repressione tedesca è stata in qualche misura condizionata e a volte frenata dalla presenza dell’alleato fascista), non si può fare a meno di riandare a quel 25 luglio del 1943 quando il Re mise fine al Governo fascista dopo un voto del Gran Consiglio sull’ordine del giorno Grandi concordato, com’è noto, con il Ministro della Real Casa, Duca d’Acquarone e con lo stesso Sovrano che il suo ministro aveva autorizzato a trattare con i dissidenti del regime.
Il fatto ha un ruolo cruciale nella dinamica degli avvenimenti successivi. Perché se l’Italia non avesse avuto un Re che, nonostante fosse stato abbandonato dalle forze politiche antifasciste fin dal 1922, impersonava comunque lo Stato e manteneva l’autorità suprema sulle forze armate, la defenestrazione di Mussolini non ci sarebbe stata. Se, cioè, l’ordinamento costituzionale fosse stato come quello della Germania nazista, con un Capo dello Stato asservito completamente al regime, anzi espressione del regime, l’Italia non avrebbe potuto giungere all’armistizio e definire una pace separata con gli alleati. In proposito vale la pena di ricordare le ricorrenti sollecitazioni di Hitler a Mussolini di “sbarazzarsi” della monarchia.
Questo quadro sfugge a molti perché non fa comodo, perché a quanti (Sturzo, Turati) non avevano voluto, alla vigilia della Marcia su Roma, assumersi la responsabilità di un governo che fermasse la rivoluzione fascista, è tornato agevole far ricadere su Vittorio Emanuele III le loro responsabilità, fino a definire “fuga” l’abbandono di una Roma militarmente indifendibile e possibile oggetto di rappresaglie degli anglo-americani e dei tedeschi. Anche dal Vaticano, oggi è accertato, erano venute significative sollecitazioni perché il Sovrano ed il Governo lasciassero la Capitale per evitare di farne un campo di battaglia che avrebbe portato alla distruzione dei più straordinari monumenti della civiltà romana e della cristianità.
Ma quella bandiera ammainata a Roma è rimasta a sventolare nei territori non occupati dai tedeschi e, ben presto è tornata a sventolare al Nord dove i reparti dell’esercito avevano formato le prime formazioni della resistenza antinazista. È un dato storico che non può essere ignorato e, del resto, nei giorni scorsi i documentari con i quali le televisioni hanno ricordato gli eventi di 70 anni fa, molti dei reparti che sfilavano a Torino, a Milano, a Bologna erano preceduti dalla bandiera nazionale, quella delle guerre del Risorgimento e della liberazione di Trento e Trieste. Ed anche dai balconi delle città in festa sventolava la stessa bandiera.
Queste considerazioni inducono a riflettere sulla circostanza che l’Italia, a differenza di altri nazioni, non ha una festa nazionale ma ricorda tante diverse occasioni della storia, il 25 aprile, ad esempio, il 4 novembre, ribattezzato festa delle forze armate, il 2 giugno, data del referendum che ha data la vittoria alla repubblica. Solamente nel 2011, nel centocinquantesimo dell’unità d’Italia fu ricordato il 17 marzo 1861, data della proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. Quella deve essere la Festa della Nazione Italiana perché quel giorno il Parlamento subalpino, divenuto italiano, ha votato la legge che ha proclamato la costituzione dello Stato nazionale unitario succeduto agli stati che avevano disegnato la geografia politica della penisola dopo il Congresso di Vienna.
Quella data, solo quella, può dare il senso dell’unità della Nazione, così contribuendo a superare i particolarismi culturali ed economici che negli anni successivi al 1861 e ancora oggi alimentano contrapposizioni, anche di interessi, che è necessario superare in un’ottica di sviluppo economico e sociale all’interno dell’Unione Europea.
27 aprile 2015

L’involontario sarcasmo di Michele Emiliano
Renzi come Napoleone?
di Senator

Certamente Michele Emiliano, baldanzoso candidato alla Presidenza della Regione Puglia, non deve aver valutato il rischio che la sua affermazione, “Renzi ha caratteristiche napoleoniche”, ripetutamente trasmessa da La7 nella pubblicità de L’aria che tira, avrebbe fatto sorridere più di uno. Non tanto per l’evidente piaggeria nei confronti del Segretario del suo partito che, giusto un anno fa, lo aveva clamorosamente escluso da capolista alle elezioni europee, quanto nel paragone che richiama alla mente la satira, scritta e soprattutto disegnata in quelle vignette dove campeggia un omino con l’inevitabile lucerna in testa e la mano destra infilata nel panciotto, a significare velleità autoritarie sproporzionate.
Ormai il confronto è sul tappeto e non è possibile sottrarsi ad alcune considerazioni, tra storia e cronaca. Renzi è come Napoleone?
Chi ha qualche dimestichezza con la storia non sempre maestra di vita, ma certamente utile per capire il presente e in qualche modo per scrutare il futuro, deve concludere che il confronto è assolutamente improponibile e riporta alla mente altre incaute affermazione di chi si era definito il “più grande” presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni!
Quali somiglianze e quali differenze, dunque, tra l’Uomo di Ajaccio (15 agosto 1769) e il giovanotto nato e cresciuto in quel Rignano sull’Arno (11 gennaio 1975), popoloso centro agricolo dell’interland fiorentino?
Cominciamo con qualche dato anagrafico. L’età? No. Napoleone Bonaparte era molto più giovane quando ha iniziato la scalata al potere. Tenente colonnello a 23 anni, Generale a 26, Primo console a 30 imperatore a 35. Renzi, laurea in giurisprudenza nel 1999, una formazione scout, modesta esperienza lavorativa nella società di servizi del “su babbo”, comincia la propria attività politica durante gli anni del liceo. Nel 2001 diventa segretario provinciale del Partito Popolare e quindi de La Margherita, Presidente della Provincia, diventa a 34 anni Sindaco di Firenze, la Città meravigliosa che è nel cuore degli italiani e non solo. Ma l’esperienza amministrativa di Renzi è modesta, i fiorentini sono assai meno dei romani del più piccolo dei municipi della Capitale. A 39 è Presidente del Consiglio.
Torniamo a Napoleone, considerato il più grande stratega di tutti i tempi dallo storico militare Basil Liddel Hart (per Evgenij Tàrle è “l’incomparabile maestro dell’arte della guerra” e “il più grande dei grandi”). È anche un grande uomo di stato. E grande fa la Francia, che governerà larga parte dell’Europa continentale. Esporta gli ideali rivoluzionari di rinnovamento sociale arrivando a controllare numerosi Regni tramite persone a lui fedeli. La sua riforma del sistema giuridico (confluita nel Codice civile) introduce chiarezza e semplicità nelle norme e pone le basi per la moderna giurisdizione civile. La riteneva la sua opera più importante, quella che sarebbe passata alla storia più delle tante battaglie vinte.
L’avventura codicistica prende avvio l’11 agosto 1799 quando istituisce la commissione incaricata di redigere il codice civile (un presidente e quattro avvocati). Spesso la presiede lo stesso Napoleone, che dai verbali risulta non facesse mancare le sue osservazioni sul progetto..
Spregiudicato, ma sempre prudente, rischia più volte nel corso della Rivoluzione. Il 5 ottobre 1795 per decisione di Barras è Comandante della piazza di Parigi, con l’incarico di salvare la Convenzione Nazionale dalla minaccia dei monarchici (realisti). Riesce nell’intento e assume il grado di Generale del Corpo d’armata dell’Interno.
Risoluto, si circondava dei migliori. Non temeva, infatti, concorrenza.
Già da Primo Console Napoleone inizia la ricostruzione della Francia con una struttura amministrativa fortemente accentrata ma così funzionale che è rimasta tale fino a oggi: la Francia si articola in dipartimenti, distretti e comuni, rispettivamente amministrati da prefetti, sottoprefetti e sindaci.
Nel campo dell’istruzione, Napoleone istituisce i licei e i politecnici, per formare una classe dirigente preparata, e un esercito efficiente.
“Uom fatale” per Manzoni, affascina anche il grande compositore Ludwing van Beethoven che gli dedica la sinfonia n. 3, l'”Eroica”.
Renzi, invece, si circonda di persone modeste e, ovviamente, molto presuntuose, soprattutto a livello di governo ed inizia subito, con una improntitudine degna di miglior causa, una guerra contro tutto e tutti che gli fa guadagnare inimicizie di ambienti e di persone che inizialmente lo avevano visto con simpatia, quando parlava di rottamazione del vecchio e di riforme necessarie, individuando temi di sicuro interesse ma portati avanti poi con estrema superficialità, con un affollamento delle assemblee legislative ed un uso forsennato di decreti-legge, che ha indignato molti costituzionalisti e comunque tutti coloro i quali credono nella supremazia delle Camere in una Repubblica parlamentare.
Da ultimo è impegnato in una riforma elettorale dal chiaro sapore autoritario, che assicurerebbe al Segretario del partito Presidente del consiglio un potere incontrastato, in ragione del premio di maggioranza attribuito al partito che, pur vincendo le elezioni, rappresenta comunque una minoranza degli elettori e dei votanti.
Certo le intuizioni di Renzi in ordine alla necessità che il governo abbia maggiori strumenti operativi è reale, ma l’uomo non la inserisce in un sistema che dia garanzie di un efficace controllo di legalità, fondamentale in una Repubblica parlamentare. Le premesse sono preoccupanti. Finora ha governato annullando le funzioni del Parlamento attraverso il ricorso sistematico alla mozione di fiducia che impedisce emendamenti e discussioni.
È un passaggio delicato nella storia d’Italia, nel quale le preoccupazioni di molti per la deriva autoritaria non possono essere trascurate proprio nel giorno che ricorda il 70° della sconfitta militare degli invasori nazisti. Perché la democrazia l’aveva già ripristinata Re Vittorio Emanuele III congedando il Cavalier Benito Mussolini il 25 luglio 1943.
25 aprile 2015

Nel Documento di economia e finanza
Disabili: ipotesi fumose, danni certi
di Salvatore Sfrecola

“Una tendenza o una tentazione”, scrive Stefania Rossini su l’Espresso, a proposito di ipotesi di risparmio di bilancio che colpirebbero le persone affette da disabilità in conseguenza della “razionalizzazione” della spesa per le invalidità prevista dal Documento di Economia e Finanza (DEF). Risparmi da realizzare a danno di persone deboli, come sono, per definizione, i disabili, persone che hanno bisogno di essere aiutate, certamente più di quanto avviene oggi.
Destinatari di una “indennità” di poco più di quattrocento euro mensili, coloro che hanno disabilità avrebbero bisogno di maggiore aiuto da parte dello Stato. Se gravi e assistiti in famiglia limitano in modo significativo le possibilità di lavoro di chi si occupa di loro. Se hanno esigenza di essere aiutati da un assistente (un badante), e ciò accade il più delle volte, devono sborsare non meno di mille euro mensili, ma il fisco non consente di detrarre dal loro reddito altro che i contributi pagati all’INPS, non il compenso, che pure è soggetto ad imposizione fiscale a carico del lavoratore.
“Razionalizzazione”, una parola che si è sentita altre volte. A leggere un vocabolario è concetto positivo, che indica un miglioramento di una situazione, mediante migliore utilizzazione delle risorse disponibili, soprattutto quando scarse. In realtà come insegna l’esperienza, spesso si razionalizza trasferendo oneri da un soggetto ad un altro o, come nel caso che muove i timori dai quali siamo partiti, togliendo ad uno prospettando una diversa utilità proveniente da un servizio pubblico.
“Si può capire – scrive la Rossini – che un governo di giovani e belli sia poco sensibile a queste tematiche, ma è insopportabile l’ennesimo gioco delle tre carte: si dice che si toglierebbero le indennità per offrire maggiori servizi”. Una illusione, “quando sono già noti i tagli alle Regioni, che quindi dovranno risparmiare ancora sulla spesa sociale e sanitaria”.
Una evidente ipocrisia di chi ha pensato a questa “razionalizzazione” della spesa sociale sanitaria, certamente necessaria. Ma partire dai disabili ed anche solo immaginarlo nel marasma dell’inefficienza di molte strutture italiane è veramente segno di mancanza di umanità, di gravissima incapacità di comprendere un dramma personale purtroppo diffuso nelle famiglie italiane.
È in queste cose che si misura il livello di civiltà di un popolo e di capacità della classe di governo di rispondere alle domande di giustizia sociale che provengono dalla gente.
25 aprile 2015

Eritrea, Somalia, Libia, gli errori dei governi italiani
di Salvatore Sfrecola

I profughi che giungono in Italia, salvati in mare dalle unità della Guardia costiera, della Marina militare e della Guardia di Finanza provengono da terre a noi ben conosciute, l’Eritrea, colonia italiana già alla fine dell’800, la Somalia, che abbiamo avuto in amministrazione fiduciaria ancora fino al 1960, e la Libia sottratta all’Impero ottomano nel 1911, in un contesto di aspettative economiche e sociali (“La grande proletaria si è mossa” commentò Giovanni Pascoli lo sbarco del nostro contingente a Tripoli “bel suol d’amore”).
Conosciamo quelle facce. Chiunque di noi ha un po’ di cultura storica alimentata anche da letture e documentari televisivi riconosce facilmente i volti di un eritreo, le fattezze eleganti delle donne di quella regione del Corno d’Africa, come riconosce i somali e i libici che molti di noi fin da bambino hanno visto nelle nostre città, a Roma in particolare, ex ascari soprattutto, le truppe coloniali.
In quelle regioni, dalle più lontane come l’Eritrea e la Somalia, ma anche in Etiopia e in Libia ci sono situazioni di grave degrado politico e sociale. Capi tribù che lottano tra loro usando armi messe a disposizione da europei interessati a mantenere in quei paesi uno stato di anarchia, povertà e difficoltà di ogni genere che provocano l’esodo cui assistiamo, per motivi politici e di sopravvivenza rispetto a situazioni di conflitto ed a condizioni economiche difficili per le quali non si intravede un barlume di speranza.
In queste poche righe si delinea una grande responsabilità del nostro Paese. Per tutte le colonie che avevamo tenuto, non da rapinatori, come si sono comportati gli altri europei in Africa e altrove, ma con la consueta disponibilità italiana a stabilire rapporti di collaborazione culturale ed economica, noi avremmo dovuto non già andarcene da un giorno all’altro ma preparare il passaggio all’indipendenza investendo in cultura e in economia, in modo da mantenere un rapporto antico utile al nostro ed al loro futuro. La Somalia, ad esempio, una regione stupenda con una natura rigogliosa avrebbe potuto aprire la strada a proficue collaborazioni con le popolazioni locali sotto il profilo del turismo. Invece di dare armi e denaro ai capi tribù, gli italiani avrebbero dovuto coinvolgere questi personaggi, certo non facili da trattare, in iniziative economiche turistiche, ripeto, che avrebbero assicurato ricchezza alle popolazioni e vantaggi ai nostri tour operator. Ugualmente la Libia che fu romana ed uno dei granai dell’Impero doveva rimanere legata all’Italia da interessi economici coincidenti e giovare a quelle popolazioni e al nostro Paese.
Nulla di tutto questo. Incapaci do mantenere relazioni nate da tempo, consolidate in regioni dove diffusissimo era l’uso della lingua italiana, i nostri governi non hanno saputo fare. Insomma una delle tante occasioni perdute che caratterizzano da un po’ d’anni a questa parte la politica italiana all’interno e all’esterno.
I nostri governanti ai quali non è sfuggito a parole il ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo non hanno operato di conseguenza. Considerato che si tratta di un ruolo naturale, per essere il nostro Paese un promontorio disteso sul male e per aver avuto l’Italia una storia di rapporti culturali ed economici che datano dall’antica Roma, come dimostrano le meravigliose città che arricchiscono le coste dell’Africa mediterranea. Di più, l’Italia avrebbe dovuto far valere questa sua posizione privilegiata per far comprendere all’Europa continentale che le coste italiane sono una porta aperta all’Oriente, un luogo di confronto civile tra culture alimentato dalla storia, che avrebbe potuto assicurare la pacifica convivenza all’interno dell’area mediterranea perché siamo i naturali interlocutori di queste popolazioni. Non l’Europa senza l’Italia, non gli Stati Uniti d’America, senza l’Italia e l’Europa.
Ci ricordiamo, in modo un po’ maldestro, di essere la frontiera sud dell’Europa, oggi nel momento in cui una crisi paurosa affolla il Mar Mediterraneo e ne fa a giorni alterni un cimitero di disperati. Popolazioni che se l’Italia avesse svolto il ruolo cui innanzi si è fatto cenno sarebbero rimaste nei loro territori e lì avrebbero prosperato. Perché l’Italia, con tutti i difetti che le riconosciamo, è anche il Paese capace di realizzare in Africa, come è accaduto al tempo delle colonie, opere pubbliche e iniziative culturali e di carattere economico e industriale. Sarebbe facile immaginare come da una sinergia fra Italia, Eritrea, Somalia e Libia sarebbe potuta realizzarsi un’area economica preziosa per noi e per quei paesi.
Il tempo passato non si recupera, non si recupera mai. Ed oggi un governo che non è riuscito a battere un colpo al tempo della presidenza italiana dell’Unione va col cappello in mano a Bruxelles nella speranza che il timore di una invasione che non lascerebbe indenni i paesi dell’Europa centrale, faccia allargare i cordoni della borsa e immagini qualche operazione umanitaria, magari in divisa, per trattenere, in condizioni di civile sopravvivenza, coloro che oggi affollano le carrette del mare e sono reclutati dalla malavita che si arricchisce alle spalle di quei poveri diseredati che guardano all’Italia con speranza e fiducia.
23 aprile 2015

Una tavola rotonda in vista della riforma della dirigenza pubblica *
La tutela della legalità negli enti locali: il ruolo del Segretario Comunale
di Salvatore Sfrecola

“Conoscere per deliberare”, scriveva Luigi Einaudi in apertura delle sue “Prediche inutili”. Aggiungendo, più avanti, “non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare”. Conoscere, dunque, e cercare per riformare, si potrebbe dire oggi mentre affrontiamo la riforma della dirigenza statale e specificamente di quella degli enti locali nel suo vertice storico, il segretario comunale, che il disegno di legge delega n. 1577, all’esame del Senato, prevede sia soppresso, nonostante l’esperienza indurrebbe a mantenerlo, anzi a rafforzarne il ruolo.
Come assai spesso accade in tema di attribuzioni e ordinamento delle amministrazioni pubbliche e di disciplina del personale, in particolare di quella della dirigenza, il dibattito assume quasi la caratteristica di una contrapposizione ideologica, anziché di una attenta valutazione, alla luce dell’esperienza, delle esigenze che si ritiene di dover perseguire. Quell’esperienza che dovrebbe sempre guidare Governo e Parlamento perché il passato ci aiuta a delineare il futuro. È la regola dei buoni amministratori della cosa pubblica, soprattutto del saggio legislatore. Non cambiare tanto per cambiare. Sarebbe una brutta riforma che farebbe male alla stessa politica. “Non possiamo permetterci di sbagliare” ha detto Maria Carmela Lanzetta, già Ministro degli affari regionali, una lunga esperienza di sindaco.
Ogni intervento innovatore, dunque, deve considerare ciò che è, e che è stato, per cogliere quel che di positivo va conservato e quanto, invece, è necessario cambiare al fine di perseguire nuovi e attesi obiettivi di efficienza. Invece troppo spesso il dibattito mette in campo stereotipi e modelli preconfezionati immaginati funzionali alle finalità istituzionali, indipendentemente da ogni simulazione degli effetti, prassi normale altrove, costantemente trascurata nel nostro Paese, come dimostra l’impraticabilità di alcune innovazioni normative accompagnate, alla nascita, da preannunciati effetti taumaturgici.

I segretari comunali, dalla storia all’attualità
Per quel che riguarda i segretari comunali, sui quali si sofferma oggi la nostra attenzione, questa figura professionale, conosciuta fin dalla legislazione preunitaria, è stata oggetto di una prima disciplina nella legge comunale e provinciale del Regno d’Italia del 20 marzo 1865 n. 2248, allegato A), che ne ha fatto un funzionario in posizione di vertice con le connesse responsabilità riferite a tutte le attività dell’ufficio comunale. Nel tempo sono accresciuti prestigio ed attribuzioni, con una progressiva accentuazione della stabilità e dell’indipendenza “del proprio ruolo rispetto ai particolarismi locali, fino alla richiesta esplicita del riconoscimento della dipendenza statale” (C. MEOLI, Segretario comunale e provinciale, in Enciclopedia del diritto, Vol. LXI, 1007).
Per questa funzione di impulso, indirizzo e coordinamento in tutti i settori dell’amministrazione, a garanzia della legalità e dell’efficienza dell’azione amministrativa, i Segretari comunali costituiscono la spina dorsale delle amministrazioni locali che, non va dimenticato, nelle realtà medio piccole rappresentano quasi sempre l’unico funzionario dotato delle necessarie conoscenze giuridiche, contabili e finanziarie. E, pertanto, responsabile anche dei controlli interni. Tanto che nella legge anticorruzione, il Segretario comunale, come hanno ricordato Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e il Prof. Antonio Saitta, è individuato “di norma” quale responsabile della prevenzione della corruzione (art. 1, comma 7, nella legge n. 190/2012). Con una scelta che va nella direzione giusta, perché la corruzione si abbatte in primo luogo attraverso il buon funzionamento degli apparati, l’analisi e la congruenza dei progetti, la corretta esecuzione delle procedure di aggiudicazione, i controlli in corso d’opera ed i collaudi, attività che ben possono vanificare le aspettative dell’imprenditore corruttore di ottenere illeciti guadagni allungando i tempi attraverso perizie di variante non necessarie, fonte di aumento dei costi, o realizzando l’opera non nei termini contrattuali e secondo le regole dell’arte. Un guadagno illecito, funzionale a recuperare l’importo di una tangente od a conseguire il guadagno atteso messo in forse da un assurdo ribasso del prezzo dell’appalto. Ugualmente nelle forniture di beni e servizi.
Alla vigilia di questa tavola rotonda, ad Otto e mezzo, la trasmissione serale de La7, condotta da Lilly Gruber, Paolo Mieli ha detto che avrebbe ricercato un caso di opera costata quanto previsto mostrando tuttavia forte scetticismo in proposito. E sono certo anch’io che avrà molte difficoltà.

Ancora una delega “in bianco”?
In presenza di una classe politica caratterizzata da una diffusa ostilità nei confronti del controllo di legalità (come dimostrano le ricorrenti tensioni con la magistratura) la proposta soppressione del segretario comunale, sollecitata dai sindaci, rivela in molti una volontà di avere “mani libere” e denuncia significativi punti critici nella proposta governativa. Preoccupa, in particolare, una delega legislativa troppo ampia, che non delinea nettamente quei “principi e criteri direttivi” che ai sensi dell’art. 76 della Costituzione devono caratterizzare la legge che affida al Governo il dettaglio di una riforma complessa. Francesco Paolo Sisto, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera è stato molto critico al riguardo, censurando una prassi legislativa in progressiva espansione, che elude il precetto della Carta fondamentale appena ricordato, cui si è fatto ricorso ancora di recente, ad esempio in materia di disciplina dei rapporti di lavoro, per la sua genericità, al punto che si è parlato di delega “in bianco”.

Un ruolo “unico”? E spoil system selvaggio?
Bene certamente il “ruolo unico”. Ma questo dovrà ricomprendere solamente i funzionari di vertice degli enti locali o costituire una sezione di quello dei dirigenti dello Stato? E in ogni caso non lo spoil system, criticato anche dalla Corte costituzionale in quanto ha sostanzialmente reso il pubblico funzionario “a disposizione” del politico di turno anziché, come si legge nell’art. 98 della Costituzione “al servizio esclusivo della Nazione”. Infatti, se pensiamo che, molto opportunamente, il decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993 ha previsto una separazione netta tra responsabilità politica e attività di gestione, lo spoil system esteso ad una vasta gamma di posizioni giuridiche organizzative, ha di fatto negato l’autonomia che al dirigente era appena stata riconosciuta. Infatti è l’autorità politica che sceglie il dirigente, definisce la durata del suo incarico ed il trattamento economico, anche in connessione alla fascia di livello dirigenziale attribuita. Una durata dell’incarico, è bene sottolineare, inferiore a quella della carica politica, con la conseguenza che il funzionario attende la conferma da chi lo ha nominato e questo ovviamente condiziona fortemente la sua indipendenza. Aggiungasi anche, perché questo è aspetto essenziale nella disciplina della dirigenza, che il ricorso a nomine di estranei all’amministrazione (che si vorrebbe portare dall’attuale 10% del ruolo al 30%) ha determinato l’immissione, spesso in posti di responsabilità, di soggetti di scarsa professionalità i quali all’interno delle amministrazioni hanno creato non pochi problemi di efficienza, a tacere della mortificazione dei funzionari di carriera che si sono visti scavalcare da persone sovente senza la necessaria esperienza.

Dirigenza amministrativa e autorità politica.
Quale ruolo, dunque, per i Segretari comunali, si chiameranno così o con altra formula che l’italica fantasia può mettere a disposizione del legislatore? In primo luogo va abolito il dualismo segretario – direttore generale, sollecitato anche dall’ANCI, con esatta individuazione delle attribuzioni di capo dell’amministrazione generale, a condizione che il ruolo, comunque definito e ordinato, continui ad essere alimentato con una severa ricerca della professionalità occorrente a fini di garanzia della legalità e della capacità di attuare il coordinamento della struttura dell’ente locale. Non una garanzia astratta ma concreta, per l’istituzione e per la stessa autorità politica, soggetta, non possiamo far finta di non saperlo, alle sollecitazioni dai suoi amici per non dire dai suoi clientes. Questi chiedono favori, consulenze, appalti. Che se inutili, come spesso l’esperienza insegna, o assegnati in violazione della legge sono destinati ad alimentare le indagini delle Procure della Repubblica o, più spesso, della Corte dei conti con l’imputazione di danno erariale. In proposito l’on. Sisto, penalista di lunga esperienza, ha sottolineato come un bravo segretario comunale assicuri serenità agli amministratori.
Va tenuta presente in ogni caso l’esigenza di una disciplina transitoria che non penalizzi gli attuali segretari comunali. Non è possibile, infatti, inserire in un ruolo “ad esaurimento” funzionari che oggi svolgono “con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione, un ruolo fondamentale nella gestione di rilevanti risorse pubbliche.
Concludo sul punto del rapporto tra amministratori e funzionari. La diversità dei ruoli comporta specifiche e distinte responsabilità in ordine alla formulazione dell’indirizzo politico ed alla sua attuazione. Impostare la riforma sulla base di un rapporto fiduciario tra dirigenza e politica, vanifica le diverse responsabilità con il rischio di minare il principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione.

L’indipendenza del funzionario sulle rive del Tamigi
Sento spesso citare Montesquieu il quale ha scritto in francese ciò che aveva ascoltato in inglese dai suoi interlocutori londinesi. Aveva osservato soprattutto nel governo del Regno Unito il rapporto equilibrato e di reciproci controlli esistente fra l’Autorità amministrativa, il Sovrano e il Parlamento, secondo il principio del “potere che frena il potere”, l’attenta, rispettata distinzione di ruoli tra le tre funzioni dello Stato, già delineata nella Magna Charta Libertatum della quale giusto quest’anno si celebrano gli 800 anni.
In quel paese il pubblico impiego si caratterizza tradizionalmente per essere permanente e neutrale rispetto ai partiti. Fino al personale di livello più elevato, quello di permanent secretary. E quando si è manifestata una certa tendenza alla politicizzazione delle posizioni di vertice si è di contro rafforzata l’autonomia e l’indipendenza del funzionario che è un grande valore della politica come dell’amministrazione, perché attraverso la collaborazione di un funzionario indipendente la struttura può raggiungere gli obiettivi politici indicati nel programma di governo nel migliore dei modi, nel rispetto del principio di legalità e del buon andamento.
12 aprile 2015

* Rielaborazione dell’intervento svolto durante i lavori della tavola rotonda organizzata dall’Associazione Nazionale Professionale dei Segretari comunali e Provinciali “G. B. Vighenzi”, dall’Associazione Professionale dei Segretari degli enti locali e dal Comitato per l’anticorruzione e la legalità Segretari della Puglia nella Sala della Regina di Montecitorio, con l’intervento di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Mario Palazzi, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, Umberto Ambrosoli, Consigliere regionale della Lombardia, Antonio Saitta, Professore di Diritto costituzionale nell’Università di Messina, Maria Carmela Lanzetta, già Ministro per gli affari regionali, Francesco Paolo Sisto, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati. Moderatore Giampiero Valenza, giornalista.

Convegno “La tutela della legalità negli enti locali:
il ruolo del Segretario Comunale”
Palazzo Montecitorio – Sala della Regina
Mercoledì 8 aprile 2015 Ore 14,00

Associazione Nazionale Professionale dei segretari comunali e provinciali “G.B.Vighenzi”
Associazione Professionale dei segretari degli enti locali
Comitato per l’anticorruzione e la legalità dei segretari della Puglia

Presentazione e saluto : On. Giampiero D’Alia Presidente della commissione bicamerale per le questioni regionali
Interverranno:
·                     Presidente Anac Raffaele Cantone
·                     Sottosegretario di Stato alla PCM Angelo Rughetti
·                     Presidente Corte dei Conti Umbria Salvatore Sfrecola
·                     Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Mario Palazzi
·                     Consigliere regionale Lombardia Umberto Ambrosoli
·                     Prof. Antonio Saitta
·                     Dott.ssa Maria Carmela Lanzetta
·                     Presidente Commissione I Camera dei Deputati On. Francesco Paolo Sisto
Moderatore: Giampero Valenza   Giornalista
Dibattito: Deputati e Senatori potranno intervenire e portare il proprio contributo

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