La riforma Renzi: dietro uno slogan il caos
“Ricambio generazionale”? Macché, “vuoto generazionale”
di Salvatore Sfrecola
Chi sarebbe contrario al “ricambio generazionale”, cioè all’ingresso di forze giovani nel mondo del lavoro in sostituzione di più anziani, destinati ad un pensionamento anticipato? Nessuno, a cominciare dai padri e dai nonni che assistono ai tentativi, spesso frustrati, di figli e nipoti di conquistare un posto di lavoro. Lo deve aver pensato anche il Presidente del Consiglio, abile comunicatore, che ne ha fatto uno slogan che fa bella mostra di sé, oltre che nel programma di governo, anche nella rubrica, cioè nel titolo, dell’articolo 1 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90. Riguarda la Pubblica Amministrazione e la magistratura, settori dove il Governo è il dominus delle proposte e delle realizzazioni, con il consenso del Parlamento, s’intende.
Tuttavia, come spesso è accaduto da quando Matteo Renzi è al governo, dietro lo slogan niente. Anzi accade il contrario. “Ricambio”, ci spiega il Vocabolario della Lingua Italiana Treccani (vol. III**, a pagina 1401), nel settore del lavoro “traduce l’ingl. labour turnover usato per indicare il complesso degli spostamenti interprofessionali, interaziendali, territoriali e soprattutto internazionali di mano d’opera”. Dunque uno spostamento, definito “generazionale”, nel senso che se ne vanno alcuni ed altri entrano nel mondo del lavoro. Proposito certamente nobile, come si è detto, perché destinato ad assicurare lavoro a chi ne è privo. Ma saggezza politica e senso della realtà devono considerare che il cambio non può essere in contemporanea, nel senso che uno esce ed uno entra, e neppure a costo zero, perché chi esce ha certamente un trattamento di pensione superiore allo stipendio del giovane che entra. Ma questo è un costo sociale ed è indubbiamente meritevole di essere sopportato. Quel che va tenuto in considerazione è, invece, l’effetto dell’esodo, un vuoto di organico che naturalmente crea problemi che possono anche essere gravi se le carenze riguardano alcuni importanti “servizi” di pubblico interesse, dalla sicurezza alla giustizia. Anche perché escono quelli con più esperienza che dovrebbero, secondo la logica che ha governato fin qui la provvista di personale, affiancare ed istruire i nuovi, come avviene, in magistratura, per gli “uditori” giudiziari.
È di tutta evidenza, infatti, che mentre è facile mandare a casa da oggi a domani dirigenti, civili e militari, e magistrati, non è con identica celerità che si acquisiscono forze fresche. Servono concorsi. “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, si legge nell’art. 97, comma 3, della Costituzione. Ci vuole del tempo, anche perché serietà esige una selezione ed i candidati sono certamente più, molti più, dei posti messi a concorso.
Ho detto che in alcuni settori, ad esempio, della sicurezza e della giustizia, il ricambio può creare grossi problemi. Nelle Forze di Polizia, ad esempio, l’invecchiamento per effetto del blocco delle assunzioni, ha abbassato il livello di capacità di reazione degli apparati. Un tempo le pattuglie di Polizia e Carabinieri erano composte da giovani capaci di un impegno fisico con energumeni delinquenti o drogati. L’età media si è elevata e la risposta non può essere la stessa. Una cosa è un conflitto a fuoco, che ben può impegnare agenti di 35-40 anni, altro è il confronto fisico che richiede un giovane di 20-25 anni, adeguatamente addestrato.
Vediamo la magistratura. Le associazioni dei magistrati hanno convenuto con l’abbassamento della età da 75 (opzionale, a richiesta e con il consenso degli organi di autogoverno) a 70. Ma come applicato con immediatezza il nuovo limite di età falcidia i vertici di Corti, Tribunali e Procure immediatamente, mentre l’immissione di nuovi magistrati passa attraverso concorsi selettivi che, anche per questo, richiedono parecchi mesi.
Questo vuoto di organico è la prova della incapacità della classe politica di simulare gli effetti delle norme che adotta, a meno che non si sia voluto depotenziare il sistema giudiziario. Quel che i maligni dicono della “rivoluzione” di Renzi, tagliare le teste per portare ai vertici persone fedeli.
Infatti, sarebbe stato possibile, nello stabilire il nuovo limite di età, definire una disciplina transitoria che impedisse il “vuoto generazionale” graduando l’esodo in relazione ai nuovi, possibili ingressi. Ad esempio consentendo la permanenza in servizio di coloro per i quali era stata già autorizzata la proroga.
Emblematico il caso della magistratura in primo piano nella lotta agli sprechi ed alla corruzione, la Corte dei conti, di recente gravata di ulteriori compiti di controllo in relazione alla verifica del rispetto degli equilibri di bilancio degli enti locali in grave carenza di entrate. Negli ultimi 5 anni sono cessati 98 magistrati. Per cui la dotazione organica pari a 613 unità, risulta coperta per meno del 70%. Attualmente sono in servizio 426; 2 andranno a riposo prima della fine dell’anno (ne rimarranno 424); 37 andranno a riposo dall’1.1.2016 (ne rimarranno 387); 11 andranno a riposo nel 2016, a partire già dal 2 gennaio (ne rimarranno 376). Per 26 ministeri, 20 regioni, oltre 100 province, più di 8000 comuni. Se in ognuno di questi enti c’è anche solo uno sprecone o un corrotto c’è da temere per le casse dello Stato.
Intanto l’unico concorso autorizzato è a 18 posti. Esattamente diciotto.
Ad oggi, dunque, è all’orizzonte solo un “vuoto generazionale”.
30 giugno 2015
Io la vedo così. Dopo il Family Day: la famiglia, tra poche idee ed errori di comunicazione
di Senator
Sono convinto da tempo che la sacrosanta battaglia per la famiglia italiana sconti errori antichi e più recenti. Soprattutto di comunicazione. Lo si deduce anche dai titoli dei giornali e dagli articoli che hanno commentato la manifestazione di sabato pomeriggio a Roma, a piazza San Giovanni. La dimostrazione nella didascalia che accompagna la foto sulla prima pagina del Corriere della Sera di domenica: “a sostegno della famiglia tradizionale e contro le unioni civili”. Mentre Il Fatto Quotidiano titolava “risorge la destra bigotta”.
In sostanza i giornali, e quanti hanno contestato la manifestazione, interpretano l’iniziativa esclusivamente come contro le unioni civili e “l’educazione di genere”. Tutto questo mi fa dire, come ho affermato iniziando, che alla base del confronto c’è anche un difetto di comunicazione. E un po’ di confusione di idee, da una parte e dall’altra. Anche perché manca una proposta alternativa al disegno di legge Cirinnà per cui si combatte sul terreno avverso, un modo sicuro per perdere, come insegna il calcio ma anche l’arte della guerra.
Cominciamo daccapo per capire come siamo arrivati al Family Day.
In primo luogo è facile constatare come siano del tutto insufficienti le politiche sulla famiglia intesa laicamente come una piccola comunità fondata sull’amore di due persone di sesso diverso, la quale ha un ruolo fondamentale nella società, in quanto costituita da lavoratori, aspiranti lavoratori, risparmiatori, aspiranti risparmiatori e consumatori. Ne deriva che lo Stato debba avere attenzione per la famiglia sotto tutti questi profili e curarne la prosperità, perché dalle disponibilità economiche delle famiglie discende la natalità e l’attitudine ad intervenire sul mercato interno attraverso l’acquisto di beni e servizi. Constatiamo invece, non da oggi ma da lunghi anni, fin da quando erano al governo dello Stato personaggi di manifesta fede cattolica, che le leggi, a cominciare da quelle tributarie, penalizzano gravemente la famiglia e inducono coppie felici a non sposarsi od a separarsi “legalmente” per “difendersi” dal fisco. Con la conseguenza che le coppie sposate che resistono alla pressione tributaria sono svantaggiate, rispetto a coppie che non hanno formalizzato il loro vincolo, in tanti momenti della vita sociale, dall’iscrizione alla scuola, in particolare agli asili, all’università, dove il reddito considerato ai fini delle tasse universitarie sarà dimensionato su quello della madre o del padre che ha in carico lo studente.
Credo, pertanto, da sempre, che la prima cosa che dovrebbe fare uno stato è quella di disciplinare i rapporti di coppia in modo tale che vi sia uguaglianza di diritti e di doveri in qualunque modo sia stato formalizzato il rapporto matrimoniale religioso o civile. Ugualmente ritengo debbano essere definiti i rapporti tra coppie conviventi togliendo loro l’alibi di utilità e vantaggi derivanti da una fittizia separazione.
Credo che questo dovesse essere fatto da tempo. Cioè, prendendo atto che esistono rapporti di coppia derivanti da una unione religiosa, civile o di fatto, le leggi dello Stato avrebbero dovuto individuare una disciplina comune di diritti e di doveri, come ho detto poc’anzi.
Se questo fosse stato fatto per tempo oggi non ci troveremmo a discutere, in un unico contesto, di unioni civili eterosessuali e di unioni omosessuali, avendo sullo sfondo la preoccupazione dell’apertura alla adozione di queste ultime, per la semplice considerazione che nessuno chiederebbe al bimbo adottando se preferisce essere accolto da una coppia eterosessuale ovvero omosessuale.
Ritengo un grave errore da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico di avere combattuto una battaglia, evidentemente perduta, contro le coppie di fatto eterosessuali. La soluzione dei problemi di queste ultime avrebbe emarginato la richiesta delle coppie omosessuali di equiparazione al matrimonio, così facendo emergere in modo non equivoco la differenza fra una coppia eterosessuale, naturalmente destinata alla procreazione (con tutto il rispetto per le coppie sterili che hanno identica dignità), e quelle omosessuali per definizione inidonee alla procreazione.
Questo errore antico, dovuto a certa astrattezza dell’impostazione di ambienti cattolici che sembra abbiano la vocazione al martirio, nel senso che sembra cerchino la sconfitta, oggi lo paghiamo perché si fa di ogni erba un fascio ed abilissima è la propaganda di provenienza di ambienti omosessuali nelle confondere le idee alla politica e alla gente, sostenendo che non si vuole riconoscere dei diritti. Com’è quello, cui si fa riferimento frequentemente perché colpisce, del compagno o della compagna di un omosessuale ricoverato in ospedale che chiede di poter visitare ed assistere l’infermo. Ritengo che opporsi a siffatta richiesta sia sciocco ed anche poco cristiano. Non riconoscendo un siffatto diritto si danneggia la famiglia la quale è, invece, messa in grave difficoltà nel significato primo della convivenza dalla disparità di trattamento di coppie eterosessuali che devono essere messe nella condizione di fruire di identici diritti e di essere tenute a rispetto dei medesimi doveri, qualunque sia il tipo di vincolo giuridico riconosciuto dallo Stato, se un matrimonio religioso o civile o una convivenza legalizzata.
Questa deve essere la battaglia per difendere veramente la famiglia, pretendendo dallo Stato una specifica attenzione per il ruolo che svolge nella società, un ruolo morale ma anche economico importantissimo perché la salute delle famiglie è un indice della salute della società e dello Stato.
Solo se prenderà questo indirizzo la grande manifestazione di piazza San Giovanni del 20 giugno 2015 potrà essere considerato un punto di partenza efficace per ricostituire questa cellula fondamentale della società che non a caso la Costituzione definisce “società naturale” fondata sul matrimonio, un vincolo che ben può essere interpretato da regole uniformi, indipendentemente dall’origine religiosa o civile che alla base.
In questo modo sarà possibile delimitare il riconoscimento di diritti a coppie omosessuali, esclusa evidentemente l’adozione, per il rispetto che si deve al bambino che nessuno si propone di interpellare. E contestualmente respingere al mittente l’ipotesi di educazioni che, in una fascia di età nella quale sentimenti e propensioni personali vanno rispettati e tutelati, si esprime con una violenza che ne vorrebbe condizionarne lo sviluppo.
In conclusione la battaglia del Family Day va condotta su una idea forte, non sulle ipotesi Cirinnà perché, ripeto, combattere sul terreno dell’avversario significa perdere la partita. Come nel calcio quando si gioca “di rimessa”.
22 giugno 2015
Accademie e conservatori,
un’eccellenza italiana trascurata
di Salvatore Sfrecola
“Accademie e conservatori, un’eccellenza italiana trascurata”. Non ho trovato titolo migliore di quello con il quale ieri questo giornale ha dato notizia del Convegno, promosso dall’Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione e dall’Unione degli Artisti, che si è tenuto nella splendida Sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato, alla presenza dell’Avvocato Generale, Massimo Massella Ducci Teri. Con il concorso di eminenti studiosi di diritto (Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di Diritto costituzionale a “La Sapienza”, gli avvocati Roberta Bortone e Giuseppe Leotta e l’avvocato dello Stato Paola Maria Zerman) e di docenti di musica, compresi i direttori di importanti Conservatori, è emersa la consapevolezza dei relatori sulla grave trascuratezza del potere politico per un settore importante della nostra cultura, un’eccellenza italiana apprezzata in tutto il mondo. Ed hanno approfondito il da farsi, di fronte ad una normativa che non dà piena attuazione a precise disposizioni costituzionali sulla autonomia delle istituzioni musicali. Perché quando la legge si avvicina all’obiettivo, come la n. 508 del 1999, ci pensano i decreti legislativi di attuazione, emanati dal Governo, a frenare ed a confondere le idee, nonostante la Costituzione non lasci dubbi in proposito. Come ha sottolineato il Prof. Caravita riandando alle disposizione costituzionali sulla promozione dello sviluppo della cultura, come si legge nell’articolo 9 della Costituzione, e sul diritto delle istituzioni del settore e delle accademie di darsi un ordinamento autonomo, secondo l’ultimo comma dell’art. 33, che si apre con l’affermazione che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.
Torna, dunque, inevitabilmente di attualità la distinzione di Bobbio tra “politica della cultura” e “politica culturale”, la prima intesa come “politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura”, la seconda come “pianificazione della cultura da parte dei politici”, per cui il filosofo torinese riteneva solamente la prima in sintonia con i principi dell’ordinamento liberale, mentre la seconda rivela una volontà di asservimento di ciò che la Carta fondamentale dichiara essere espressione massima della libertà.
E, se è vero il messaggio che ci consegna il titolo del bel libro di Andrea Carandini, “Il nuovo dell’Italia è nel passato”, è evidente che anche il futuro del nostro Paese si alimenta della cultura che nel corso dei secoli ha accompagnato l’evoluzione del pensiero degli artisti in quel mosaico straordinario di esperienze unitarie e locali, preziosa espressione del genio e della fantasia della nostra gente come dimostra la varietà di poesia e musica, dalle Alpi al Lilibeo.
E così, nel corso dei secoli le scuole italiane vengono riconosciute come centri di alta formazione al di qua e al di là degli oceani. In migliaia vengono per imparare e specializzarsi. Eppure a livello politico scarsa è l’attenzione, quasi che l’interesse fosse solo dei docenti e degli studenti e non del Paese intero, perché chi si diploma in una scuola italiana si fa portatore della nostra cultura in terre lontane, è un ambasciatore dell’Italia nel mondo.
Purtroppo esigenze di bilancio, in un contesto di insufficienza delle risorse finanziarie destinate alle “politiche della cultura”, che non sempre sono state oggetto di adeguata comparazione con le necessità di altri settori, e senza che fossero apprezzati gli affetti riflessi della spesa, hanno penalizzato le istituzioni della cultura, tanto da far dire a Riccardo Muti, uno straordinario direttore d’orchestra, una icona della musica italiana nel mondo, che siamo di fronte ad “una situazione tragica e ignominiosa, siamo ormai all’uccisione squilibrata, vile, assurda della nostra identità nazionale”. Parole durissime, pronunciate pubblicamente in un’occasione straordinaria, quella della rappresentazione del Nabucco, l’opera risorgimentale per eccellenza, a Roma nell’ambito dei festeggiamenti dei 150 anni dell’unità d’Italia. Ed aggiungeva: “I signori del governo dovrebbero rendersi conto che la cultura anche economicamente può essere importantissima”. Una risposta a quanti, in più occasioni, avevano affermato che “con la cultura non si mangia”. E per la verità va dato atto del Ministro Dario Franceschini, responsabile dei beni e delle attività culturali, cui opportunamente è stato associato il turismo, che di cultura si alimenta in misura rilevante, di aver ripetutamente rivendicato il valore economico del settore di governo a lui affidato. E non c’è dubbio che dalla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e dalle iniziative che possono essere assunte nelle singole realtà locali, penso al recente concerto di Assisi, ma non solo, possano venire al nostro Paese stimoli per ulteriori flussi turistici con apporto significativo alla ripresa economica e all’occupazione.
Ha riscosso particolare interesse la relazione conclusiva dell’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman, la quale è partita dalla considerazione che l’art. 33 della Costituzione costituisce non solo un punti di partenza, ma anche un “punto di arrivo”. Sottolineando come la legislazione di attuazione debba essere indirizzata a promuovere l’autonomia delle Istituzioni di alta Cultura, senza cadere nella tentazione dell’omologazione di tali eccellenze con l’insegnamento secondario, che tradirebbe una storia che ha reso grande il Paese. Ed ha aggiunto che l’assimilazione degli studi presso le Accademie e i Conservatori, in quanto istituzioni di alta cultura, al livello universitario, si pone come condizione necessaria per la circolazione degli artisti e dei musicisti in Europa, dove entrambi gli insegnamenti sono impartiti a livello universitario, e quindi nella logica della armonizzazione dei sistemi di istruzione di livello universitario (Convenzione di Lisbona, ratificata dall’Italia con legge n. 148 del 11 luglio 2002).
In questa ottica la legge n. 508 del 21 dicembre 1999 esplicitamente afferma che il sistema di alta formazione e specializzazione artistica e musicale è costituita dalle Accademie e dai Conservatori di musica trasformati in Istituti superiori di studi musicali e coreutici (anteriormente il T.U. 297/94 equiparava i Conservatori agli istituti di istruzione secondaria, pur riconoscendo personalità giuridica e autonomia organizzativa).
La legge istituisce anche il Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale (CNAM), inserito nel MIUR. Tuttavia il d.P.R. n. 132 del 28 febbraio del 2003 (di attuazione della legge 508), nel recare i “criteri per l’autonomia statutaria, regolamentare e organizzativa delle istituzioni scolastiche e musicali” e prevedere un ampio potere di organizzazione, da esercitarsi tramite statuto e regolamento interno, non segue il modello universitario. Prevede un Presidente e un Direttore, il primo di nomina ministeriale (a differenza del Rettore delle università).
È il contrario di una effettiva autonomia.
Anche il reclutamento del personale docente segue le modalità della scuola secondaria, non dell’università. In particolare non tiene conto che la peculiarità dell’insegnamento della musica è strettamente connesso al livello artistico dei docenti. Oggi nella carriera conta solo l’anzianità, non l’esperienza maturata componendo o svolgendo attività concertistica.
È un nodo centrale. La legge 508 del 1999 rimanda ad un regolamento di attuazione, che dal 1999 i governi non hanno trovato il tempo di predisporre.
Tra omissioni ed attuazioni parziali continua, dunque, l’impegno dei docenti perché questa eccellenza italiana abbia un assetto adeguato al ruolo che gli studiosi e gli amanti della musica, in Italia e nel mondo, riconoscono a Conservatori ed Accademie.
Il convegno vuole essere un tassello di questo impegno di uomini di cultura e di politici lungimiranti. Infatti, è stato fatto notare dal Segretario generale dell’UNAMS, Dora Liguori, il Parlamento è stato sempre più vicino alle istituzioni musicali di quanto abbiano fin qui dimostrato i governi.
19 giugno 2015
Se ne parla domani 18 giugno in Avvocatura Generale dello Stato
Le Accademie e i Conservatori di musica,
un’eccellenza italiana trascurata
Delle Accademie e dei Conservatori di musica, un’eccellenza italiana da tempo trascurata, nonostante l’art. 33 della Costituzione riconosca loro il “diritto di darsi un ordinamento autonomo nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”, si parlerà domani 18 giugno, a partire dalle 15,30, nella splendida sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato di Roma, in via dei Portoghesi 12, alla presenza dell’Avvocato Generale dello Stato Massimo Massella Ducci Teri, che porterà il saluto dell’Istituzione all’importante Convegno.
Dei profili costituzionali dell’ordinamento delle “Istituzioni di alta cultura”, come si esprime la nostra Carta fondamentale, parlerà il Prof. Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, mentre l’Avvocato Roberta Bortone tratterà de “La giusta retribuzione del personale AFAM”, e l’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman della legislazione riguardante l’ordinamento delle Accademie e dei Conservatori.
I lavori saranno aperti da Salvatore Sfrecola, Presidente di Sezione della Corte dei conti e Presidente dell’Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione (www.giuristidiamministrazione.com), mentre la Professoressa Dora Liguori Segretario Generale dell’Unione degli artisti (UNAMS) parlerà dell’arte nella storia.
Le conclusioni sono affidate all’on. Avv. Francesco Paolo Sisto, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera.
Al termine un breve passaggio musicale, un quartetto di archi che eseguirà musiche di Mozart e di Verdi.
Via i politici degli affari sporchi. Ritorna lo Stato
Per fortuna c’è un Prefetto a Roma
di Salvatore Sfrecola
Crolla la politica, quella sporca, del malaffare, delle aste truccate, delle tangenti, dello sfruttamento dei denari dei cittadini. E torna lo Stato. Di fronte allo sfacelo di amministratori pubblici corrotti, conniventi o disattenti, lo Stato ricorre ad uno dei suoi uomini migliori, ad un funzionario titolato di esperienza e prestigio, Franco Gabrielli, Prefetto di Roma. Sarà, a quanto si dice, il Commissario della Roma incapace di camminare da sola sulla strada della legalità e dell’efficienza. Infatti manca l’una e l’altra e i romani se ne sono accorti da tempo e scherzando dicono che nello stemma della Città alla lupa che allatta i gemelli andrebbe sostituita una vacca da mungere.
Forse non avrà il titolo ufficiale di Commissario che dà molto fastidio a Marino. Sembra, dunque, che prevalga l’idea di affidargli un “coordinamento”, modello Expo’, delle attività amministrative in vista del Giubileo e della utilizzazione degli ingenti fondi, quasi mezzo miliardo di euro, destinati allo straordinario evento. Una somma sulla quale certamente avevano immaginato di arricchirsi i vari personaggi che da mesi ormai vediamo sfilare a Piazzale Clodio davanti al Procuratore della Repubblica per dar conto degli illeciti più diversi, tutti finalizzati a lucrare sui soldi dei cittadini.
Commissariato o Coordinato il Comune di Roma sarà comunque agli occhi dei romani e degli italiani un ente dimezzato nella sua autonomia, guidato per mano perché dimostratosi incapace di programmare e realizzare ma anche di controllare come gli appalti di beni e servizi nei vari settori venivano gestiti. È una immane tragedia sul piano morale. He colpisce una Città che nel mondo ricorda il più grande impero di tutti i tempi, capace di offrire alla storia una organizzazione civile e militare straordinaria che ha dato il senso della civiltà, attraverso opere pubbliche di grandissima utilità sociale, dagli acquedotti alle fognature (gli uni e le altre mancano ancora oggi in alcune città italiane), alle terme. Eppure anche l’antica Roma, come ci dicono le cronache, non era immune dalla corruzione che aveva coinvolto personaggi i quali hanno lasciato un segno nella storia civile e militare e della cultura della res publica e dell’impero. Eppure a quei grandi personaggi, sfiorati dal sospetto o dalla certezza di aver comprato o di essere stati comprati, la storia ha saputo perdonare vizi e difetti perché hanno comunque fatto grande la Città e nel nome di Roma hanno conquistato le menti e i cuori degli uomini lungo i secoli. Quanta differenza con le volgarità che leggiamo sui giornali e sentiamo delle intercettazioni ripetutamente mandate in onda dalle televisioni! Uomini piccoli, circondati da altri uomini piccoli che non controllavano che non avevano neppure il sospetto che gestioni all’evidenza disinvolte nascondessero interessi di parte, una vera e propria ruberia ai danni dei bilanci pubblici. Una situazione che non consente a nessuno di dire io non c’ero, io non sapevo. Neppure al sindaco, neppure se gli riconoscessimo una ingenuità che non è consentita a coloro che si candidano a svolgere funzioni di amministratori pubblici, né a coloro che li hanno scelti a rappresentare idee e programmi.
Crolla una classe politica, non solo quella coinvolta negli illeciti ma anche quella che stava a guardare incapace di intervenire. E non c’è da distinguere fra destra e sinistra. Tutti hanno mancato, a cominciare dal Sindaco Marino evidentemente inadeguato a quel ruolo che solo la sua immensa presunzione poteva indurlo a ricoprire. E così lo Stato che, nonostante tutto, ancora dispone di uomini di valore, onesti e di grande professionalità, interviene per cercare di rimediare alla bruttissima figura che l’Italia, attraverso Roma e non solo, sta facendo a livello internazionale. E questo dovrebbe far riflettere quanti hanno mostrato disprezzo verso la burocrazia statale, certo in grande difficoltà per gli interventi della politica che da Bassanini e poi ha dilapidato un patrimonio di professionalità attraverso assurdi riordinamenti di carriere che hanno mortificato la diligenza e massacrato letteralmente i quadri. Eppure c’è un funzionario a Roma, come c’era un giudice a Berlino e certamente riuscirà a far funzionare la malandata macchina della burocrazia capitolina.
13 giugno 2015
ANDREA CARLO FERRARI, Arcivescovo e Patriota.
di Domenico Giglio
La posizione dei cattolici italiani e delle gerarchie ecclesiastiche durante la Grande Guerra, o quarta guerra d’Indipendenza, sono oggetto di ampio dibattito e la posizione logicamente favorevole alla pace da parte del Pontefice Benedetto XV, di cui tutti ricordano la frase sulla “inutile strage”, purtroppo veritiera e quasi presaga, se pensiamo alla Seconda Guerra Mondiale, scoppiata dopo un ventennio, non debbono farci dimenticare la lealtà della quasi totalità del clero nei confronti della Stato Italiano, impegnato in una guerra non provocata, né voluta, ma al limite quasi subita, per il nobile scopo di riunire al Regno d’Itala gli italiani delle “terre irredente”.
In questo quadro risulta di particolare significato la posizione, data la grande importanza della Arcidiocesi milanese, che il Cardinale Andrea Carlo Ferrari, resse dal 1894 al 1921, Diocesi prima in Italia subito dopo Roma, di cui è Vescovo il Pontefice, se solo pensiamo chi sono stati i presuli ad essa preposti, nel corso del ventesimo secolo, da Achille Ratti, a Ildelfonso Schuster, a Giambattista Montini e Carlo Maria Martini,di cui ben due divenuti Papa, Ratti e Montini rispettivamente Pio XI e Paolo VI.
Della posizione patriottica assunta appunto dal Cardinale Ferrari, per la cui attività pastorale è stato beatificato il 10 maggio 1987 da Giovanni Paolo II, credo non vi sia testimonianza migliore di quella di citare alcuni brani da suoi discorsi,
da quello tenuto in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel 1917 dopo Caporetto , nella Basilica gremita di fedeli: “?gli intrepidi nostri figli che lottano con tanto meraviglioso valore per strappare dalle mani del nemico quanto fu or ora tolto alla Patria, per conquistare quanto la Patria nostra può giustamente desiderare?..Ottieni dall’Altissimo ai petti italiani il santo coraggio,?ottieni la forza e la perseveranza nell’adempimento del loro grave dovere verso?la nostra Patria ?”
a quello tenuto alle reclute della classe 1900, che andò a trovare a Valassina, nell’agosto 1918, chiamandole la “classe della vittoria”: ” ?La Patria vi ha chiamati ed ogni autorità legittima viene da Lei. È vostro dovere difenderla e voi risponderete con volontà decisa, fedeli alla disciplina del soldato, generosi nella fatica della guerra. A compiere con entusiasmo il vostro dovere vi sorregga il canto di vittoria che giunge dal fronte di guerra?.”.
Ed a questi discorsi ed omelie il cardinale Ferrari unì l’organizzazione di Comitati d’assistenza, a sollievo dei combattenti e delle loro famiglie, le visite ad ospedali militari, coerentemente con la Sua posizione, in quanto, avendo preso il Regno d’Italia la decisione di entrare in guerra contro l’Austria, ciascuno era tenuto a compiere il proprio dovere di cristiano, di cittadino e di patriota.
13 giugno 2015
Perché la corruzione è necessariamente bipartisan
Corrotti, corruttori, oppositori “distratti”
e controllori a volte latitanti
di Salvatore Sfrecola
Al secondo giro di arresti per “Mafia Capitale” infuriano le polemiche tra il Partito Democratico, egemone del Campidoglio, e gli altri partiti che chiedono a gran voce il commissariamento del comune o le dimissioni del Sindaco Marino, ritenuto reo di non aver controllato la gestione dei suoi uffici. E le accuse si ricorrono perché i provvedimenti restrittivi della libertà personale hanno ancora una volta coinvolto amministratori appartenenti alla destra e alla sinistra e funzionari loro collaboratori, uniti in un consorzio criminale che li ha portati ad arricchirsi ai danni della finanza pubblica.
Stupisce lo stupore che non è chiaro se manifestato in buona fede o per colpevole dabbenaggine, perché è evidente che questi comportamenti corruttivi presuppongono in chi è all’opposizione connivenza oppure una colpevole distrazione rispetto al ruolo proprio di chi dovrebbe controllare il governo della cosa pubblica. Né deve stupire che siano coinvolti nell’illecito anche i funzionari, quelli che sanno far funzionare la macchina amministrativa, organizzano le gare truccate e dovrebbero controllare l’esecuzione degli appalti. Latitanti appaiono all’evidenza anche gli organi di controllo, considerato che le operazioni che gravano sulla finanza pubblica sono facilmente riconoscibili da parte di chi è chiamato a verifiche di legittimità, di regolarità contabile e di efficienza.
Voglio dire che l’intesa criminale diretta ad acquisti non necessari od a prezzi eccessivi ovvero che si realizza in forniture scadenti, è resa palese da elementi indiziari i quali consentono al controllore interno od esterno di affondare le mani nella gestione illecita, fonte di danno.
Troppo spesso, invece, questi controlli sono formali, soprattutto quando effettuati da organismi di controllo interno che, come diceva Beniamino Finocchiaro, sono per definizione inutili quanto alla loro capacità di intercettare l’illecito. Trattasi, infatti, di organismi che vedono coinvolti soggetti dell’amministrazione colleghi di coloro i quali hanno effettuato, per disposizione o d’intensa con il politico corrotto, acquisti di beni o servizi a danno della finanza pubblica.
In questa fase nella quale l’Autorità Nazionale Anticorruzione si è andata strutturando in modo più funzionale al ruolo che le è stato affidata dalla legge 190 del 2012, con alla Presidenza un magistrato di valore, Raffaele Cantone, che può vantare una lunga esperienza di lotta alla criminalità organizzata, e che persegue i suoi obiettivi anche attraverso l’attenzione alle procedure amministrative dirette alla utilizzazione di risorse pubbliche, è evidente che l’indagine di elezione per comprendere i fenomeni di devianza dalla legalità e dalla regolarità contabile va fatta attraverso l’analisi delle procedure di appalto di lavori o servizi, la congruità dei prezzi, la verifica puntuale della corrispondenza del prodotto o del servizio fornito alle prescrizioni contrattuali.
Fatti macroscopici come quelli che vanno emergendo nella indagine della magistratura romana non possono sfuggire ad un’attenta analisi degli uffici e degli organi di controllo politici e amministrativi. Se questo avviene, se, cioè, procedure piegate a consentire illeciti guadagni passano indenni dagli uffici amministrativi e di controllo significa che qualcuno in una di queste istanze non ha fatto fino in fondo il proprio dovere e non ha saputo utilizzare gli strumenti di verifica esistenti per accertare la regolarità e la legalità nelle azioni delle pubbliche amministrazioni. Per quanto raffinati possano essere i comportamenti criminali attuati a danno delle finanze pubbliche è evidente che, al di là del profilo strettamente penale, chi è chiamato a esercitare le funzioni di controllo politico o amministrativo-contabile è in condizione di intercettare comportamenti magari formalmente corretti ma sostanzialmente in contrasto con gli interessi pubblici. Ciò che fa scattare la responsabilità per danno erariale dinanzi alla Corte dei conti con addebito delle somme illecitamente spese ai responsabili politici e amministrativi.
C’è da augurarsi che l’esperienza dell’indagine penale di cui oggi i giornali parlano e della quale si diceva da tempo nei corridori dei palazzi romani faccia scattare un campanello d’allarme, perché la classe politica più consapevole assuma le proprie responsabilità e vigili sui propri componenti che mirano ad avvantaggiarsi a fini personali utilizzando posizioni di potere ai vari livelli dell’organizzazione pubblica. È un dovere verso i cittadini che in questo momento soffrono delle gravi condizioni economiche che riducono i consumi, falcidiano i posti di lavoro e aggravano le posizioni delle famiglie. È un dovere della classe politica anche verso se stessa, per non perdere quella credibilità che è il fondamento della democrazia e che oggi appare gravemente compromessa, come dimostra la consistente disaffezione elettorale sperimentata proprio nei giorni scorsi con un assenteismo che ha sfiorato il 50 per cento.
Infine, mentre si alimenta una forte polemica nei confronti della gestione Alemanno, nel corso della quale sembra si sia sviluppata gran parte degli illeciti, non sono evidentemente esenti da responsabilità gli esponenti del Partito Democratico che, all’opposizione, non si sono accorti di nulla. E questo dimostra ancora una volta l’esattezza di quanto vado dicendo e scrivendo da tempo, il malaffare è necessariamente bipartisan, quando chi delinque spudoratamente non viene individuato per tempo da una opposizione incapace o connivente o che, molto probabilmente, attende la sua ora.
(da Gli Italiani, www.italianioggi.com, del 6 giugno 2015