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Gennaio 2016

Dal Family Day un avvertimento ai politici.
È ora di cambiare
di Salvatore Sfrecol
Chissà se si saranno sentiti a disagio, almeno un po’, i politici intervenuti al Family Day, e quelli che comunque vi hanno aderito pur essendo rimasti lontani dal Circo Massimo, di fronte alla marea festante e determinata di coppie giovani e anziane, con figli e nipoti al seguito, che rivendicava quelle politiche familiari sempre promesse e mai neppure avviate in Italia. Perché quelle famiglie sul prato dell’antico stadio romano delle bighe non sono contro altre possibili forme di convivenza, ma chiedono che lo Stato faccia la sua parte e consideri finalmente i figli un investimento per la società, come altrove in Europa, come nella vicina Francia, dove da qualche anno i nati superano i morti, come nelle più lontane Norvegia o Svezia, non cattoliche e apertamente progressiste, dove lo stato facilita i compiti della famiglia sostenendola concretamente, assicurando ai figli una scuola gratuita (libri compresi), dall’asilo all’università, in vari modi, con sussidi mensili consistenti e varie agevolazioni fiscali.
L’Italia, invece, non solo non aiuta la famiglie ma anzi rende loro difficile la vita penalizzandole sul piano fiscale e dei servizi. Con la conseguenza che alcune convivenze fuori dal matrimonio non rivelano precarietà di sentimenti ma una scelta utilitaristica indotta dal sistema fiscale e dalle regole di gestione di alcuni servizi per cui è il reddito complessivo della famiglia che decide l’ammissione o l’esclusione dagli asili nido e fissa l’importo delle tasse universitarie. Infatti i figli dei “separati fiscali” hanno precedenza negli asili e pagano meno tasse all’università.
Sono situazioni note a tutti ma non  si fa nulla di concreto, neppure un piccolo passo, per far intendere che si vuole cambiare. Neppure a livello di annunci, nei quali il Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico solitamente eccelle, si sentono dire cose nuove per la famiglia che, come hanno ricordato gli intervenuti al Circo Massimo, è, secondo le parole della Costituzione (art. 29), una “società naturale fondata sul matrimonio”, che non è necessariamente il matrimonio religioso ma un impegno personale forte, basato su una condivisione di valori e di progetti per la coppia ed i loro figli.
Non c’è dubbio che non ha giovato alla famiglia la considerazione, diffusa e sbagliata, che i valori che essa incarna siano esclusivamente religiosi, più esattamente cattolici. Un errore grossolano che, tuttavia, fa comodo ai politici per poter dire che la materia è controversa e “divisiva”, come oggi di usa dire. Un errore che la società italiana paga caro perché la famiglia è al centro della società e della vita economica e deve essere al centro delle politiche economiche e sociali. Perché la famiglia è formata da lavoratori, aspiranti lavoratori, risparmiatori e consumatori. Ed è nel risparmio e nei consumi il motore dell’economia che ha bisogno di investimenti e di interventi sul mercato interno perché solo attraverso queste attività la produzione tiene e si espande e, con essa, l’occupazione. Più consumi, più produzione, più occupati e il circolo diventa sempre più virtuoso e produttivo di effetti positivi per le famiglie. E per il fisco. Dovrebbe ben saperlo il Ministro dell’economia Padoan che sa fare di conto. Ma se il fisco incombe e falcidia i redditi, i risparmi ed i consumi ne risultano compressi e contenuti la produzione e l’occupazione.
Sentiamo ogni giorno ripetere della crisi economia e della difficoltà di uscirne pienamente. Ed è evidente che finché non si attuerà una sollecitazione degli investimenti pubblici e privati l’economia è destinata a battere il passo, come dimostrano i dati che tuttavia il Premier Renzi enfatizza ad ogni piè sospinto, quello zero virgola che sale e scende e non tranquillizza gli italiani.
Ecco, dunque, che i politici, i quali hanno prestato il loro assenso alla manifestazione del Circo Massimo, se non voglio perdere la faccia  dovranno da domani fare proposte concrete impegnandosi ad attuarle rapidamente, anche con misure graduali e prudenti ma tali da far comprendere il senso di una svolta decisa e nella direzione giusta. Le famiglie aumenteranno perché non sarà più conveniente separarsi “in nome del fisco” per lucrare vantaggi. Così quella società naturale che chiamiamo famiglia, luogo di affetti ma anche di iniziative economiche e culturali per i figli cittadini e professionisti di domani, potrà contribuire a far prospero il Paese e rinsaldare le sue radici culturali e spirituali.
Altre convivenze potranno avere la loro regolamentazione integrando, ove occorra, il codice civile in relazione alla specificità dei rapporti ed al ruolo che possono assumere nella società. Le coppie dello stesso sesso, per definizione sterili, potranno tenere i figli naturali ottenuti con un partner dell’altro sesso, esclusa l’adozione da parte del partner sopravvenuto perché il bimbo ha un padre ed una madre naturali titolari di diritti inalienabili. Ma soprattutto lo Stato deve tener conto, in primo luogo, dei diritti dei bambini ai quali nessuno chiede se gli va bene avere due papà o due mamme, bambini deboli di fronte all’egoismo dei grandi e ad essi soggetti perché in stato di bisogno.
31 gennaio 2016

A proposito delle statue velate
E il politico lasciò il funzionario col cerino in mano
di Salvatore Sfrecola

L’espressione “restare con il cerino in mano”, si legge nello “Scioglilingua”, la rubrica del Corriere della Sera a cura di Giorgio De Rienzi e Vittoria Haziel, significa “rimanere nella situazione di potere essere biasimato e incolpato da tutti per qualcosa che è successo”. È la prova della colpevolezza. Ma a volte col cerino in mano resta, incolpevole, chi viene destinato ad assumersi una responsabilità di altri che non vuole o non può apparire. Di solito un politico. La storia ci ricorda che più volte, specialmente ai tempi di Giolitti o di Mussolini, prefetti e questori sono stati rimossi per aver eseguito disposizioni poi rinnegate dal Presidente del Consiglio o dal Ministro dell’interno, quando le reazioni dell’opinione pubblica o delle opposizioni parlamentari erano diventate difficili da gestire.
È quel che si vorrebbe oggi dopo la brutta figura delle statue romane e greche, nudi femminili di straordinaria bellezza, esempio di un’arte eccelsa, “velate” in occasione della visita a Roma del Presidente iraniano Rouhani, per non offendere la sensibilità dell’ospite islamico, come si è detto e scritto. Forse esagerando, considerato che l’ospite è persona di cultura che certamente conosce e apprezza l’arte greco-romana e occidentale in genere. E siccome la vicenda ha destato ilarità planetarie e reazioni indignate tra chi ha visto violate identità culturale e dignità, oltre che il buon senso, si è andati – italico more – alla ricerca del colpevole che si è ritenuto di dover individuare nel responsabile del Cerimoniale di Palazzo Chigi, la dottoressa Ilva Sapora. Ne ha scritto, in particolare, il Corriere della Sera del 27 gennaio con un articolo a firma di Marco Galluzzo, un bravo giornalista che si è fatto prendere dal gusto del gossip, senza pensare alle conseguenze che certe sue considerazioni avrebbero determinato sulla persona e sull’Istituzione. Un articolo che mi ha disturbato per la faciloneria, di cui non credevo capace Galluzzo, con la quale tratta un tema delicato che è quello della professionalità e competenza di un alto dirigente dello Stato, in un articolo che chiude, come vedremo, sul livello di conoscenza dell’inglese e del francese della dottoressa Sapora.
In sintonia con gli inquilini di Palazzo Chigi negli ultimi anni, sempre accanto al Presidente del Consiglio che la televisione ci ha mostrato introdurre con garbo nei luoghi e con le persone, sempre sorridente, un abbigliamento sobrio, secondo le circostanze, Ilva Sapora dirige il Cerimoniale di Palazzo Chigi dal 2013. In precedenza ne era il vicario, sempre mantenendo la direzione dell’Ufficio onorificenze ed araldica, un settore estremamente delicato che ha informatizzato e gestisce con grande rigore. In passato, infatti, più di qualcuno aveva mormorato sui “meriti” di chi era stato insignito delle decorazioni dell’Ordine al Merito della Repubblica, spesso segnalati da politici di tutti gli schieramenti desiderosi di un “riconoscimento” alla fedeltà di amici e clientes non sempre muniti di adeguati curricula.
Ed ecco “l’incidente” dei nudi occultati agli occhi del Presidente iraniano che rischiano di oscurare, verso la fine della carriera, l’immagine di un funzionario di elevata professionalità ovunque riconosciuta. Dunque “è difficile che possa avere preso la decisione di coprire i nudi del Campidoglio in totale autonomia”, scrive Galluzzo che trascura l’ipotesi, più semplice, che se a decidere fosse stata la dirigente, forse avrebbe immaginato un diverso percorso museale con esposizione di altre opere d’arte.
Ilva Sapora ha garbatamente rifiutato, attraverso la sua segreteria, una telefonata del Corriere per “ragioni di etica professionale”. E così al giornalista non è restato altro che andare a scrutare nel curriculum pubblicato sul sito della Presidenza del Consiglio dove il dirigente ammette una scarsa conoscenza delle lingue straniere: un inglese a livello elementare, un francese a livello intermedio. Come, o forse più dei suoi predecessori. Ma tant’è. E così Galluzzo si chiede in chiusura “se il capo dell’ufficio del Cerimoniale di un Paese come l’Italia possa permettersi di avere un dirigente che dichiara di non saper parlare l’inglese, almeno ad un livello decente. Ma questa è un’altra storia. Forse”. Lo stesso avrebbe potuto dire del Presidente del Consiglio, spavaldo oratore in inglese e francese che Twitter e Face Book hanno fatto conoscere al mondo intero, mentre gli astanti sorridono ironici e imbarazzati.
Diciamo che Galluzzo non è stato garbato con una signora “raffinata ed elegante, che indubbiamente spicca, nella delegazione del governo, non solo per meriti estetici”. Dunque una che fa bene il suo difficile lavoro. Punto.
30 gennaio 2016

La vicenda dei “furbetti del cartellino” e la latitanza della dirigenza
Perché l’Amministrazione italiana non si riforma dell’interno
di Salvatore Sfrecola

La riforma della Pubblica Amministrazione, annunciata ripetutamente dal premier e dal ministro Madia, attende di essere perfezionata. La delega, infatti, generica come tutte le deleghe in questa stagione della Repubblica, richiede i provvedimenti di attuazione, i decreti legislativi (delegati, appunto) che scendono nel dettaglio della normativa che deve essere comunque conforme ai “principi direttivi” della delega, come afferma l’articolo 76 della Costituzione. Altrimenti sono guai. Infatti il mancato rispetto dei limiti della delega è motivo di incostituzionalità della normativa delegata.
Intanto scoppia l’ennesimo caso di assenteismo, i cosiddetti “furbetti del cartellino” un’antica vergogna italiana denunciata dai filmati di Carabinieri e Guardia di Finanza che riprendono impiegati pubblici di varie amministrazioni, dello Stato e degli enti locali, che timbrano all’ingresso per altri o che, dopo aver timbrato, vanno altrove, per un secondo lavoro o per esigenze personali. Il governo interviene, prevede sanzioni più severe e immediate. Annuncia un licenziamento in 48 ore, assolutamente impossibile, occorrendo comunque la contestazione degli addebiti, anche nei confronti del dipendente colto in flagranza. Forse si potrà nell’immediato provvedere solamente alla sua sospensione, per iniziare un procedimento disciplinare da concludere in tempi brevi.
Il governo del grande comunicatore cavalca abilmente il giusto sdegno dei cittadini, anche per distrarre l’opinione pubblica dal pressing che parte della stampa sta conducendo, in particolare il Fatto Quotidiano, sulla vicenda di Banca Etruria, che vede coinvolto il padre del Ministro Maria Elena Boschi, delle tasse e delle tariffe che aumentano, mentre l’economia non dà significativi segnali di miglioramento. Comunque fa bene il Governo ad intervenire. Forse le norme previste sono confezionate un po’ approssimativamente (ne parleremo nei prossimi giorni, quando saranno conosciute nel dettaglio) e questo potrà rallentare la loro applicazione. Il Professore Luca Antonini, ordinario di Diritto costituzionale a Padova ha commentato su Face Book la performance televisiva del Ministro della pubblica amministrazione intervenuta a Piazza Pulita con queste parole: “Spiegate alla Madia la sua riforma. Non la conosce”.
Questa vicenda, tuttavia, richiede qualche riflessione su un aspetto al quale ho dedicato più di un intervento. Perché – mi sono ripetutamente chiesto – la pubblica amministrazione italiana deve essere riformata “da fuori”, anche se dal governo che, per definizione, è il vertice dell’Amministrazione, anziché trovare nel suo interno le regole da applicare e applicarle? La Corte dei conti in una memorabile relazione al Parlamento sullo stato dell’esercizio del potere disciplinare denunciò alcuni anni fa una situazione terrificante di gravissima trascuratezza. Procedimenti male impostati e quindi destinati a chiudersi senza gli effetti che ci si attendono, protratti nel tempo in modo di giungere all’archiviazione. Procedimenti mai iniziati. Anche in presenza di reati, spesso gravissimi con responsabilità accertate con sentenza passata in giudicato a fronte delle quali la sospensione è stata inflitta in misura ridicola, a volte un solo giorno. Niente licenziamenti, neppure in presenza di violenze sessuali perpetrate da docenti su loro alunni, una negazione del ruolo proprio dell’insegnante, “maestro” di cultura e di vita.
Una vergogna. Perché i dirigenti non avviano i procedimenti disciplinari o non li portano a conclusione rapidamente adottando le decisioni che il caso richiede? Varie le cause: norme di incerta interpretazione, intervento dei sindacati, troppo spesso a tutela di chi non lo merita, incapacità della politica di assumersi le proprie responsabilità anche quella di far funzionare le regole. Che dirigenti e amministratori abbiano la coda di paglia, le loro mancanze da nascondere?
Questa situazione di gravissima trascuratezza, che lede pesantemente l’immagine della pubblica amministrazione agli occhi dei cittadini deve finire e fa bene il governo ad agire. Ci saremmo attesi da tempo uno scatto di orgoglio della dirigenza pubblica, a dimostrazione che quel ruolo non è puramente figurativo, non è un’etichetta da affiggere fuori della porta dell’ufficio né da esibire sulla carta da visita, ma identifica un ruolo, funzioni e responsabilità. Non cambierà molto in Italia se i dirigenti della pubblica amministrazione non sapranno riappropriarsi del loro ruolo, quello che un tempo, nell’Italia liberale, ne faceva servitori dello Stato con la “S” maiuscola, capaci di governare l’amministrazione e di farne agli occhi dei cittadini una delle eccellenze del Paese. Quell’Amministrazione che ha fatto l’Italia dopo l’unificazione nazionale e che l’ha ricostruita dopo la prima e la seconda guerra mondiale. Anche oggi ci sono molte macerie negli apparati, ma non si intravede chi abbia la capacità di ricostruire e di gestire per dare all’Italia un’amministrazione degna di uno stato moderno, efficiente e, pertanto, capace di avere un ruolo positivo nello sviluppo economico e sociale. Purtroppo l’efficienza di pochi non può compensare l’inefficienza dei molti.
24 gennaio 2016

Dalla parte della Storia
Buon Compleanno Maestà Carlo III di Borbone
(Il buon “antico” e i danni dell’età moderna)
di Dora Liguori

Il 20 gennaio 1716 nasceva a Madrid, figlio di Filippo V e Elisabetta Farnese, colui che avrebbe rappresentato par Napoli, anche a detta di Benedetto Croce, l’ “età dell’oro”; insomma un periodo che nulla avrebbe avuto da invidia-re all’elisabettiana “età dell’oro” inglese.
Questo buon re, nato in Spagna, amò tanto profondamente Napoli da voler, una volta giuntovi giovanissimo, dopo una lunga diatriba sul come dovesse chiamarsi: Carlo VI, VII o VIII (a seconda dei punti di vista francesi, spagnoli o austriaci ) finire col decidere d’essere, semplicemente, e tanto per non far torto a nessuno, Re di Napoli e Sicilia. Co-munque, una volta acclarato il titolo, non rivendicò il ruolo del conquistatore o del figlio raccomandato, causa i vari accordi intessuti da sua madre, la temibile Farnese, ma con estrema umiltà volle, da subito, capire il popolo che anda-va a governare, e per farlo decise di prendere lezioni, ogni mattina, di lingua napoletana (si badi bene: lingua non dia-letto).
Sul piano della politica interna, poi, dopo aver ricostruito, grazie ad un’ottima riforma, le finanze del regno, tanto per non farsi mancare nulla, impegnò i maggiori ingegni dell’epoca per la costruzione della reggia di Portici (omaggio alla diletta consorte Maria Amalia che amava particolarmente il luogo) e della reggia di Capodimonte, ove artistica-mente fece ricca Napoli trasferendoci la famosa collezione Farnese, di proprietà materna. Inutile, pertanto, fare l’e-lenco di tutte le benemerenze del buon Carlo, basti dire che, a parte una serie infinita di altre iniziative positive, quella che potrebbe avergli fatto davvero guadagnare il paradiso (ammesso che esista) consiste nella sua volontà ( impegno che dovrebbe essere di tutti i governanti) di soccorrere i poveri, gli infermi, gli orfani, i disoccupati, insomma i reietti della società. E per farlo il re s’affidò all’architetto Fuga chiedendogli di creare quello che ancora oggi rimane il più grande complesso assistenziale che la storia europea, e forse mondiale, ricordi: il cosiddetto “Real albergo dei poveri”. Una struttura davvero monumentale, dai costi notevolissimi, volta, però, almeno agli inizi a un intendimento sociale fra i più impegnativi e avanzati, non dicasi del settecento, ma, ahimé, anche di oggi. Infatti, pensando all’odierna assistenza, nel paragone, ci sarebbe davvero di che vergognarsi, ammesso che i responsabili di determinati sfaceli riescano anche a vergognarsi.
In ultimo, per chi ama la musica, creò quel prodigio del Teatro San Carlo che, per oltre due secoli e mezzo, è stato non solo il più bel teatro del mondo, ma anche quello con la migliore acustica. E, a tale proposito, ancora… ahimé! In-fatti, se è vero che ogni tempo ha i suoi barbari, anche il San Carlo, qualche anno addietro, ha avuto la sventura d’in-contrare i suoi. Gente che a definirla barbara gli si fa un complimento poiché costoro, più che procedere ad una ristrutturazione (necessaria solo ai loro intendimenti), hanno, invece, proceduto ad una distruzione, se non altro acustica del teatro. E se ancora non bastasse, corre notizia che nel palco reale siano state anche sostituite le antiche poltrone con delle “bellissime” sedie in plexiglas o similari. Complimenti!
Buon compleanno Maestà e, visto come è andata dopo di lei, mi consenta una piccola raccomandazione: se mai le sovvenisse idea di passare da Napoli, a sostegno delle sue coronarie, la prego, eviti di entrare al… San Carlo.

I  10 PUNTI DEL NO DEL CENTRODESTRA ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE

1) NO PERCHE’ NON SI CAMBIA LA COSTITUZIONE CON UN COLPO DI MANO DI UNA FINTA MAGGIORANZA.
Questa è la riforma di una minoranza che, grazie alla sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza solo sulla carta. Una simile maggioranza non può spingersi fino a cambiare, con un violento colpo di mano, i connotati della Costituzione.
2) NO PERCHE’ QUELLA ITALIANA ERA LA COSTITUZIONE DI TUTTI.
Il metodo utilizzato nel processo di riforma è stato il peggior modo di riscrivere la Carta di tutti: molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato nelle Aule di Camera e Senato spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo al voto finale con una maggioranza racimolata e occasionale. Quello stesso Parlamento la cui composizione è deformata e alterata da un premio di maggioranza illegittimo, e che ha visto in quasi tre anni ben 244 membri (130 deputati e 114 senatori) cambiare Gruppo principalmente per sostenere all’occorrenza la maggioranza, ha infatti portato avanti la riforma, su richiesta dell’Esecutivo, utilizzando gli strumenti parlamentari acceleratori più estremi, delineando un vero e proprio sopruso nei confronti delle garanzie e delle prerogative riconosciute all’opposizione.
3) NO PERCHE’ IL REFERENDUM NON POTRA’ SANARE NE’ COMPENSARE UN VIZIO DI ORIGINE
Alla mancanza di legittimazione della riforma in atto non potrà sopperire nemmeno il referendum. Quest’ultimo infatti non può essere sostitutivo di una deliberazione viziata nel suo fondamento. Soprattutto se la riforma è stata costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale, come confermato dall’enfasi che è stata posta dallo stesso Presidente del Consiglio sul futuro risultato referendario, che ha grottescamente trasformato il referendum su una Costituzione che dovrebbe essere di tutti in una sorta di macro questione di fiducia su se stesso.
4) NO PERCHE’ LA COSTITUZIONE DEVE UNIRE E NON DIVIDERE.
La Costituzione costituisce l’identità politica di un popolo. E’ stato così nel miracolo costituente del 1948, con una Costituzione approvata quasi all’unanimità e che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo del nostro Paese. Certamente quell’impianto necessitava di riforme, che si inseguono invano da decenni, ma questa riforma costituzionale per il suo codice genetico e per i suoi contenuti destituisce il meglio della tradizione democratica del nostro Paese: divide anziché unire, lacera anziché cucire, porta le cicatrici di una violenza di una parte sull’altra. Questa riforma nasce già fallita.
5) NO PERCHE’ IL COMBINATO DISPOSTO CON LA LEGGE ELETTORALE PORTA A UN PREMIERATO ASSOLUTO
La sommatoria tra riforma costituzionale e riforma elettorale spiana la strada ad un mostro giuridico che travolge i principi supremi della Costituzione. L'”Italicum”, infatti, aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del Senato e al centralismo che depotenzia il pluralismo istituzionale, l’indebolimento radicale della rappresentatività della Camera dei deputati. Il premio di maggioranza alla singola lista consegna la Camera – che può decidere senza difficoltà, a maggioranza, in merito a tutte o quasi tutte le cariche istituzionali – nelle mani del leader del partito vincente (anche con pochi voti) nella competizione elettorale.
6) NO PERCHE’ SALTANO PESI E CONTRAPPESI
E’ il modello dell’uomo solo al comando. Nascerebbe una sorta di “Premierato assoluto” che, come sottolineato da tanti esperti in materia, diventerebbe privo degli idonei contrappesi. Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm.
7) NO PERCHE’ IL NUOVO SENATO E’ SOLO UN PASTICCIO
Le funzioni attribuite al nuovo Senato sono ambigue e il modo di elezione dei nuovi senatori è totalmente confuso, prevedendo peraltro che siano rappresentati enti territoriali (regioni e comuni) con funzioni molto diverse. Non potrà funzionare.
8) NO PERCHE’ NON FUNZIONA IL RIPARTO DI COMPETENZE STATO-REGIONI-AUTONOMIE LOCALI.
Il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni non porterà affatto alla diminuzione dell’attuale pesante contenzioso. Piuttosto lo aumenterà. La tecnica elencativa di ciò che spetta allo Stato o, invece, alle Regioni, è infatti largamente imprecisa ed incompleta. Non è vero che la competenza concorrente è stata eliminata: in molte materie, come quella “governo del territorio” rimane gattopardescamente una concorrenza tra “norme generali e comuni” statali e leggi regionali. Inoltre, siccome i poteri legislativi del nuovo Senato sono configurati in maniera confusa, nasceranno ulteriori conflitti di legittimità costituzionale riguardo ai diversi procedimenti previsti nella riforma.
9) NO PERCHE’ SI SOSTITUSCE IL CENTRALISMO AL PLURALISMO E ALLA SUSSIDIARIETA’, E SI CREA INEFFICIENZA.
La stessa riforma del Titolo V della Costituzione, così come riscritta, tornando ad accentrare materie che, nel riordino effettuato nel 2001, erano state assegnate alle Regioni, matura l’eccesso opposto, ovvero un centralismo che non è funzionale all’efficienza del sistema. Aumenterà la spesa statale, e quella regionale e locale, specie per il personale, non diminuirà. Ci si avvia solo verso la destituzione del pluralismo istituzionale e della sussidiarietà. Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, che è clamorosamente smentito dal farraginoso procedimento legislativo e da un rapporto Stato-Regioni che non valorizza per nulla il principio di responsabilità e determina solo un inefficiente e costoso neo-centralismo. Se proprio si voleva ragionare sul taglio dei costi, e sulla riduzione degli eletti, andavano magari fatte scelte più drastiche, come l’accorpamento delle Regioni, la costituzionalizzazione del divieto di istituire società partecipate, i costi standard anche per i Ministeri.
10) NO PERCHE’ NON SI VALORIZZA IL PRINCIPIO DI RESPONSABILITA’.
Lo Stato attraverso la clausola di supremazia (una vera e propria clausola “vampiro”) potrebbe riaccentrare qualunque competenza regionale anche in Regioni che si sono dimostrate più virtuose e responsabili dello Stato stesso, contraddicendo tanto l’efficienza quanto il fondamentale principio autonomistico sancito all’articolo 5 della Costituzione, secondo il quale si dovrebbero riconoscere e promuovere le autonomie locali.

Quei no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi che stupisce siano tanti
di Salvatore Sfrecola

Non avrebbe dovuto stupire Angelo Panebianco, intervenuto sul Corriere della Sera del 17 gennaio (Quel club anomalo anti riforma), se, in vista del referendum costituzionale di ottobre, il fronte del “NO” issa più bandiere che in politica identificherebbero schieramenti opposti. È proprio della Carta fondamentale dello Stato, infatti, una convergenza più ampia di quella che oppone destra e sinistra sulle politiche pubbliche, in particolare nel settore economico e sociale. Come fu in Assemblea costituente tra il 1946 e il 1947 quando le forze politiche in campo, dai cattolici ai comunisti ai liberali individuarono compromessi diretti ad assicurare una base solida al futuro assetto delle regole della Repubblica. E vollero che si continuasse così stabilendo, all’art. 138, che non si sarebbe fatto ricorso al referendum popolare se la riforma fosse stata “approvata nella seconda votazione di ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”, quella che si usa definire maggioranza “qualificata”. Perché in questo caso, sostenne l’on. Perassi che l’aveva proposta, si deve fondatamente presumere che la  riforma risponde ad esigenze sentite dalla maggioranza del Paese.
Ed è anche nella realtà delle variegate espressioni del pensiero politico istituzionale che su alcuni aspetti possano ritrovarsi esponenti di orientamenti diversi, per una volta accomunati dalla condivisione di principi fondamentali della forma di stato e di governo. Per cui appare sterile l’osservazione del Professore che taluni siano “per lo meno coerenti con la propria storia”, altri no. E che scendano in campo due comitati per il no, l’uno guidato dal Professor Alessandro Pace, l’altro vicino agli ambienti del Centrodestra cui aderiscono Annibale Marini, già Presidente della Corte costituzionale, Renato Brunetta, Gian Marco Centinaio, Luca Antonini che si presenta giusto oggi alla stampa in Senato nella Sala Nassiria.
Ma veniamo alla sostanza delle critiche alla riforma voluta dal governo Renzi, circostanza che la dice lunga sul ruolo strumentale alle esigenze del governo dacché le riforme costituzionali sono state sempre iniziativa del Parlamento e dei partiti e non dell’Esecutivo. Una riforma che va giudicata anche in rapporto all’Italicum, la legge elettorale voluta dallo stesso premier ed approvata a colpi di mozioni di fiducia.
Viene in primo luogo la questione dell’abolizione del bicameralismo paritetico o perfetto o paritario (due Camere con uguali poteri), tema sul quale da tempo ampia è la convergenza delle forze politiche e degli studiosi. Non solamente di coloro che ricordano i tanti casi in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. Anche in occasione della recente riforma della scuola ricordo che il relatore, al quale in un dibattito televisivo era stato fatto notare un errore nella formulazione di una norma, se ne uscì dicendo “rimedieremo alla Camera”.
Il fatto è che superare il bicameralismo come oggi è previsto si poteva realizzare in tanti modi come insegna la dottrina costituzionalista che ha immaginato varie soluzioni, essenzialmente basate su una distinzione di materie affidate alla seconda Camera ed una limitazione dei provvedimenti sui quali attuare una doppia lettura. Ad esempio i decreti legge, da convertire necessariamente in 60 giorni. E visto che parliamo di tempi è anche da smentire la vulgata, che fa molto presa nell’opinione pubblica, secondo la quale le lungaggini dell’approvazione delle leggi sarebbero state una costante nell’esperienza parlamentare di questi anni, mentre è noto che, quando si è voluto, le due Camere hanno deciso spesso in poche ore o in pochi giorni. Si è anche detto di un Senato più attento ai controlli sulla finanza, al sistema delle autonomie e alla normativa europea. Sempre con numeri ridotti. Ed è singolare che, mentre riduce giustamente i senatori da 315 a 100, la riforma Renzi lascia 630 deputati.
C’è poi da dire che desta forti perplessità l’abolizione delle Province (“che avevano tradizioni e dignità amministrativa”, scrive Panebianco, ma direi anche un ancoraggio alla storia, all’economia e alle tradizioni del territorio) anziché quei carrozzoni burocratici, inutili e costosi, che sono le Regioni, alle quali, invece, è attribuito un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato, che i maligni ritengono previsto per assicurare ai futuri “senatori-consiglieri regionali” l’immunità parlamentare. “Critiche legittime anche se non dirimenti – scrive Panebianco: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario?” Ed aggiunge: È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il “complesso del tiranno” da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i “contrappesi” ma in cui mancava il “peso” di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi”. Richiamo pedissequamente le parole del Professore Panebianco, una icona del pensiero liberale, che possono essere contraddette ma il suo argomentare deve essere rigorosamente rappresentato.
A questo punto mi chiedo perché si debba individuare la scorciatoia del depotenziamento del Parlamento e dei gruppi parlamentari per far funzionare meglio il Governo quando in un paese sicuramente democratico come il Regno Unito l’esecutivo ha tradizionalmente la necessaria autorevolezza senza che il Parlamento risulti oscurato nel suo ruolo di espressione della rappresentanza popolare. Dovremmo molto imparare da quella esperienza politico istituzionale che, a suo tempo, fu presa ad esempio da Montesquieu per disegnare il moderno costituzionalismo nel rispetto dell’idea che i parlamentari sono portatori per mandato popolare.
L’esperienza negativa del governo Berlusconi tra il 2001 e il 2006 nel quale, nonostante una rilevante maggioranza parlamentare, non riuscì a gestire le politiche pubbliche nell’interesse generale, tanto da perdere le elezioni, dimostra che il nodo nevralgico nella determinazione della legislazione e nell’impegno governativo va ricercato nella gestione dei gruppi parlamentari, nella loro selezione, sul piano politico e dell’esperienza, e nella loro coesione in sede di votazione. Le scorciatoie sono sempre pericolose e l’esperienza insegna che la limitazione del ruolo del Parlamento è gravemente pregiudizievole della democrazia, come dimostra la legge Acerbo del 1924 che, in mancanza di contrappesi ad una maggioranza parlamentare coesa ed energicamente guidata, aprì la strada alla dittatura fascista. E in quel caso c’era un Re che, in qualche modo, ha tentato di frenare, nell’assenza dei partiti antifascisti, la deriva autoritaria ciò che nella Germania di Hitler non fu possibile avendo quel regime assorbito anche la carica di capo dello Stato.
Un uomo solo al comando, si sente dire spesso come effetto della riforma costituzionale che, in uno alla legge elettorale, consentirebbe alla maggioranza di dominare Camera e Senato, di eleggere il Presidente della Repubblica e parte dei giudici costituzionali. Scommetto non piacerebbe al Professore Panebianco. Ma è questo sullo sfondo ed oggi viene trascurato.
20 gennaio 2016

Circolo di Cultura ed Educazione Politica
“REX”
68° Ciclo di Conferenze
Inaugurazione Seconda Parte

Domenica 24 gennaio 2016 ore 10.45
Roma Via Marsala 42
Casa Salesiana San Giovanni Bosco,
Sala Uno nel Cortile

Conferenza del Sen. Prof. Domenico Fisichella
sul tema
“Il sistema politico italiano fra le due guerre”
***
 Ingresso libero”

Sempre attiva la lobby degli amministratori di società pubbliche
Non si vuole che sia la Corte dei conti
a perseguire i danni da cattiva gestione
di Salvatore Sfrecola

C’è un “intento lobbistico” dietro l’esclusione della giurisdizione della Corte dei conti dalla disciplina della responsabilità degli amministratori delle società a partecipazione pubblica all’o.d.g. di un prossimo Consiglio dei ministri? Sono in molti ad esserne convinti dopo che l’art. 3 della legge n. 220/2015 ha aggiunto nel decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (T.U. della radiotelevisione), l’art. 49-bis (Responsabilità dei componenti degli organi della RAI-Radiotelevisione italiana Spa) il quale prevede al comma 1 che “L’amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della RAI-Radiotelevisione italiana Spa sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”.
Tradotto in parole semplici, nei confronti degli organi di gestione della RAI come delle altre società pubbliche (la riforma che il Consiglio dei ministri si appresterebbe ad adottare sulla scorta di tale precedente) l’azione di responsabilità per danno non potrà essere esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei conti (che nel 2010 aveva convenuto in giudizio e ottenuto la condanna per oltre 10 milioni di euro dell’intero Consiglio di amministrazione della RAI) ma nelle forme ordinarie delle società di capitali. Quale la differenza? Sostanziale. L’azione sociale di responsabilità per il risarcimento del danno è promossa a seguito di deliberazione dell’Assemblea (art. 2393, c.c.) o del collegio sindacale o dai soci che rappresentano un quinto del capitale (art. 2393-bis, c.c.), quindi da coloro che hanno nominato quegli amministratori con scelta politica ampiamente discrezionale tra soggetti “di area”. Un’azione che oggi, come insegna l’esperienza, non viene esercitata. Solamente l’attribuzione ad un organo pubblico – il pubblico ministero appunto – tenuto all’esercizio dell’azione (obbligatoria) garantisce l’effettività della tutela del socio pubblico. Un esempio, il caso ATAC a Roma, di cui abbiamo letto nelle cronache giudiziarie penali, era stato oggetto di una citazione in giudizio da parte della Procura regionale della Corte dei conti per il Lazio che aveva individuato un rilevante danno erariale nell’acquisto e nella manutenzione delle vetture. Ma su ricorso dei presunti responsabili le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che il danno rilevato dal P.M. contabile non era all’ente (Comune di Roma) ma all’azienda, con esclusione quindi della giurisdizione contabile. Un orientamento giurisprudenziale, il quale si basa sulla natura “privata” dell’azienda che gestisce denaro “pubblico”, che i cittadini contribuenti, tartassati anche a causa degli sprechi degli enti pubblici, hanno sempre più difficoltà ad accettare. Il Comune di Roma, infatti, è socio unico di ATAC ed è evidente che solo formalmente il danno è alla società perché in effetti è al comune che, in qualche modo, dovrà ripianare le perdite di gestione.
È quanto con molto garbo fa osservare in un comunicato l’Associazione Magistrati della Corte dei conti che, nel prendere posizione critica sull’imminente approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del T.U. in materia di società a partecipazione pubblica, manifesta “ancora una volta, forte preoccupazione per le predette disposizioni che incidono negativamente sulle funzioni giurisdizionali e di controllo in materia”. E “nel ribadire che la Corte dei conti ha sempre denunciato gli sprechi, le cattive gestioni ed i gravi abusi che si sono verificati nel settore con danni per diversi milioni di euro, adoperandosi efficacemente per il recupero delle risorse pubbliche ed il risarcimento dei danni, richiama l’attenzione sulla circostanza che molti dei settori affidati alle predette società, come quello dei rifiuti e del loro smaltimento, sono particolarmente esposti a fenomeni di corruzione e di malaffare”.
Osserva ancora l’Associazione che “nell’attuale situazione nella quale, a causa della limitatezza delle risorse si comprimono bisogni essenziali della collettività è imprescindibile l’esigenza, anche per realizzare quell’indispensabile effetto di deterrenza, che la tutela sia posta in essere attraverso un’azione efficace a carattere pubblico, quale è quella del PM contabile, sì da evitare che lo schema ed il modello privatistico diventino il mezzo attraverso il quale venga meno, sostanzialmente, il risarcimento, spesso di rilevante entità, del danno erariale che resterebbe affidato, esclusivamente all’azione dei soci”.
La lobby degli amministratori pubblici messi in campo dai politici, dunque, ha colpito ancora. E all’Associazione non rimane che sensibilizzare l’opinione pubblica facendo conoscere i risultati fin qui raggiunti, sia in sede giurisdizionale che di controllo, nonostante le esigue forze in campo.
18 gennaio 2016

L’introduzione del Prof. Domenico Gallo *
La riforma costituzionale è la madre di tutte le battaglie

Non sfugge a nessuno l’importanza di questa giornata. Con la votazione di questo pomeriggio alla Camera viene a compimento la prima lettura della riforma costituzionale Boschi Renzi, quindi il testo di questa riforma diventa definitivo, non più contentibile, non più negoziabile.
Questa giornata ci annuncia una cattiva novella: che attraverso una profonda riforma della Costituzione  il modello di Repubblica definito dai Padri costituenti è stato decretato obsoleto e mandato in archivio, con grandi espressioni di giubilo da coloro che hanno dichiarato che aspettavano questa riforma da 70 anni.
Per dirla con le parole di Maurizio Viroli, la cattiva novella è questa: “il 2016 consacrerà la fine della Repubblica nata 70 anni fa e il consolidamento del principato renziano. Il regime renziano – precisa Viroli – è un principato perché con l’entrata in vigore dell’Italicum e della riforma costituzionale Renzi avrà sul Parlamento, ridotto ad una sola camera deliberativa (..) un potere di fatto senza limiti. A restringere il potere della maggioranza restano il Capo dello Stato e la Corte Costituzionale, ma sono deboli argini.”

In effetti l’impostazione di fondo che c’è dietro questo progetto di grande riforma (comprensivo della riforma elettorale), non è quello della revisione della Costituzione, ma del suo superamento, cioè dell’abbandono del progetto di democrazia costituzionale prefigurato dai padri costituenti per entrare in un nuovo territorio, dove le decisioni sono più “semplici”, perché, per legge, il governo è attribuito ad un unico partito, sciolto dagli impacci di dover mediare con partiti e partitini di una coalizione; dove il Parlamento è ridotto ad un’unica Camera (che legifera e dà la fiducia, mentre l’altra Camera, il Senato, ha un ruolo sostanzialmente decorativo), sottoposta ad un ferreo controllo da parte del Governo del partito unico, al quale la legge elettorale garantisce  una maggioranza assicurata e la riforma costituzionale garantisce il controllo dell’agenda dei lavori parlamentari, dove le istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale) sono deboli e non possono interferire con l’esercizio dei poteri di governo che, invece, sono “forti”.

Se questa è la cattiva novella, noi non siamo venuti qui a strapparci le vesti e a piangere sulla Repubblica tradita, noi siamo convenuti qui per annunciare una buona novella.

La buona novella è che la fine della Repubblica nata 70 anni fa non è per niente scontata, questo progetto può essere arrestato e rovesciato nel suo contrario. Grazie alla lungimiranza dei Costituenti l’ultima parola, quando nel Parlamento non vi è concordia sulle scelte di revisione, spetta al popolo sovrano.
Sono sempre valide le considerazioni di Raniero La Valle in occasione della riforma Berlusconi del 2005: “Cadute le linee di difesa del patto costituzionale, venuti meno i pastori posti a presidio dei cittadini, il popolo rimane ora l’ultimo depositario della legittimità costituzionale e l’ultima risorsa, l’ultima istanza in grado di salvare la democrazia rappresentativa nel nostro paese. Esso non dovrà semplicemente “difendere” la Costituzione del 48, ma dovrà instaurarla di nuovo. Non dovrà solo sottrarla all’oscuramento cui oggi è condannata, ma riscoprirla ed illuminarla come mai ha fatto finora.”
La buona novella è che è stato costituito il Comitato per il No al referendum costituzionale, che questo Comitato, che raccoglie i più autorevoli esponenti della cultura democratica, oggi inizia il suo percorso pedagogico mettendo a fuoco il discorso sui valori ed i principi della democrazia costituzionale, discorso che deve animare la battaglia che le associazioni, i soggetti politici e sindacali condurranno per convincere i cittadini italiani a votare No.
Quello a cui saremo chiamati è un referendum sui valori della Repubblica, sulla democrazia costituzionale, non sul Governo o sulla sorte di un Capo politico.
Bisogna respingere       questa mistificazione, evitare che i contenuti del voto siano oscurati e che il referendum venga trasformato in un plebiscito volto ad acclamare un Capo politico.
Per questo il Comitato ha scritto a tutti i parlamentari invitando coloro che si oppongono alla riforma e votano no ad impegnarsi a chiedere, immediatamente, un minuto dopo la votazione finale, il referendum previsto dall’art. 138 Cost, in modo che sia chiaro che si tratta di un referendum oppositivo, chiesto dall’opposizione per chiamare il popolo a bocciare la riforma.
Deve essere respinto il mantra del conflitto fra riformatori (che vogliono modernizzare le istituzioni) e conservatori (che vogliono difendere i privilegi della casta).
Solamente la cancellazione della memoria può consentire di far passare come innovazione delle riforme istituzionali che tendono a restaurare forme di potere autocratico superate dalla storia. Soltanto attraverso la cancellazione della memoria si può far passare per innovativa una legge elettorale che restaura gli stessi meccanismi manipolatori della legge Acerbo.

E qui veniamo al secondo aspetto del dilemma che abbiamo dinanzi. La grande riforma si compone di due capitoli che costituiscono due facce dello stesso progetto: la revisione della Costituzione e la riforma elettorale.
Se possiamo dare per scontato  che il popolo sarà chiamato a pronunciarsi sul referendum relativo alla riforma costituzionale, non è per niente scontato che il popolo possa pronunciarsi con un referendum anche sulla legge elettorale.
Per questo, un gruppo di cittadini ha depositato in Cassazione la richiesta di due referendum abrogativi relativi all’Italicum. Il primo quesito è volto ad abrogare il meccanismo dei capilista bloccati e delle pluricandidature, restituendo ai cittadini italiani la facoltà di scegliere i loro rappresentanti, il secondo quesito è volto ad abrogare il premio di maggioranza ed il ballottaggio, restaurando l’eguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto di voto e la rappresentatività delle assemblee elettive.
Quindi si è costituito il Comitato promotore per i due referendum abrogativi dell’Italicum che in primavera raccoglierà le firme necessarie. Se l’iniziativa avrà successo il popolo italiano sarà chiamato, attraverso il referendum costituzionale ed il referendum abrogativo dell’italicum a restaurare la sovranità che in questi anni gli è stata sottratta.
E’ questa la seconda buona novella.
Il Presidente del Consiglio ha detto che “la riforma costituzionale è la madre di tutte le battaglie”.
Siamo perfettamente d’accordo con lui.
E’ bene che si ricordi l’esito che ebbe quella battaglia per quel capo politico che adoperò per primo quest’espressione.

·        All’Assemblea dell’11 gennaio 2016

Le ragioni del NO nelle parole del Prof. Alessandro Pace, Presidente del Comitato per il No *

1. Per evitare che il silenzio serbato dal Capo dello Stato, nel discorso di fine anno, relativamente alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, assumesse un significato negativo per il Governo, l’Unità del 4 gennaio ha pubblicato un commento al  discorso del 21 dicembre del Presidente Mattarella, limitatamente al passaggio nel quale aveva affermato che se la  riforma Renzi non dovesse giungere a compimento in questa legislatura, subentrerebbe un senso di incompiutezza che «rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere».
Beninteso, il Presidente Mattarella ha sottolineato di non voler entrare «nel merito di scelte che appartengono alla sovranità del Parlamento». Pertanto non  sembra corretto interpretare tale passaggio, come ha fatto il commentatore, nel senso di una scelta di campo in favore della riforma Renzi-Boschi. E’ tuttavia vero che la frase del Presidente registra un sentimento di incompiutezza che qualsiasi Capo dello Stato avvertirebbe di fronte ad un prolungato impegno parlamentare non conclusosi positivamente.
Ciò premesso è però opportuno fare chiarezza su due punti del passaggio.
Il primo punto è che la vittoria del No, proprio perché il referendum ha sempre un significato bidirezionale, non sarebbe priva di significato. Se, come noi auspichiamo, la riforma Renzi verrà respinta dagli elettori, ciò vorrebbe dire che non noi, ma la Costituzione del 1947 ad aver vinto ancora, come già avvenne nel referendum confermativo del 2006, quando il 65 per cento degli elettori respinse la riforma Berlusconi, che prevedeva il “Premierato assoluto”, antesignano della riforma Renzi.
Tale sconfitta non produsse né incertezze né conflitti. Anzi, la netta vittoria del No fu salutata da Leopoldo Elia – vicino culturalmente e affettivamente al Presidente Mattarella come io lo fu a lui – come la legittimazione popolare che finalmente aveva coronato la Costituzione del 1947.
Ma c’è di più. Il referendum costituzionale è previsto e disciplinato dalla nostra Carta fondamentale come una “garanzia” della Costituzione (v. il Titolo VI intitolato “Garanzie costituzionali”), nel senso cioè che esso è stato studiato e previsto per “opporsi” alle modifiche della Carta che non siano votate dai due terzi delle Camere. E quindi è un espediente truffaldino che il Governo si faccia promotore del referendum, come già anticipato da Renzi, al fine di distorcerne il senso e le finalità “oppositive”, per trasformarlo in un plebiscito in favore del Governo.
Il secondo punto è che l’auspicabile fallimento della riforma Renzi sarebbe tutt’altro che immotivato, perché essa privilegia la governabilità sulla rappresentatività;  elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sei o sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai cinque inutili senatori rappresentanti pro-tempore del Presidente della Repubblica in carica, ai difficili raccordi del Senato delle autonomie sia con lo Stato, sia con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) sia infine con l’Unione europea? 

2. Ma come si è potuti pervenire a questo risultato a dir poco confuso e contraddittorio? Sulla base di quali accadimenti storico-politici ciò è stato possibile?
Ciò dipende da due accadimenti tra loro contrastanti: da un lato la sentenza n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità della legge elettorale in forza del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.
Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum,  consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra  limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!
Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette  nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però del tutto evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti» [il Fatto Quotidiano, 3.1.15, p. 4; Trasformismo in Parlamento in Repubblica.it, 4.1.16; S. Settis, Metamorfosi del deputato, ne L’Espresso, n. 1 del 7.1.16, p. 59; Il puzzle dei cambi di partito ne il Corriere della sera, 7.1.16, p. 12 s.].
Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ne ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato ( e non solo!).

3. Il 29 dicembre, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo e non del Parlamento, come invece dovrebbe essere e come è sempre stato finora (con l’eccezione della riforma costituzionale Letta, altrettanto criticabile).
Il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, il quale si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.
Se ciò è vero, gli accadimenti occorsi sia in commissione sia in aula, che qui di seguito ricorderò, non costituiscono delle discrepanze procedurali. Sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale. Mi limito a citarne quattro.
Primo. La rimozione, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione. Venne però eccepito, dall’allora vice capo gruppo del PD al Senato, che la libertà di coscienza non poteva essere invocata perché «Tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato», evidentemente qualificando come una semplice modifica del sistema elettorale lo stravolgimento in atto del ruolo e delle funzioni del Senato.
Secondo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613  la sen. Finocchiaro  assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate. Eppure si trattava di un procedimento di revisione costituzionale di cui la minoranza è parte necessaria.
Terzo. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi[1], strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Il sen. Mineo giustamente lamentò che l’emendamento Cociancich avrebbe impedito all’Assemblea di «migliorare in ordine alla competenze del Senato» e avrebbe ristretto «ancora di più il dibattito trasformandolo soltanto in un sì o in un no rispetto a ciò che vuole il Governo». E così è stato.
Quarto. La versione definitiva del futuro art. 57 Cost., di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B, prevede, nel momento in cui scrivo, due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso finirebbe per violare l’art. 1 Cost. che garantisce l’elettività diretta degli organi titolari della potestà legislativa.
Per la verità la via per uscire da questa contraddittorietà era addirittura ?un’autostrada! La Giunta del Regolamento della Camera, Pres. Napolitano, il 5 maggio 1993, nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale» (e quindi in considerazione del doveroso rispetto nei confronti della Costituzione!), aveva infatti correttamente ritenuto ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).
Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, ha affossato tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.
Argomenti entrambi inesatti. E’ infatti falso che il conferimento agli eletti della titolarità del rapporto fiduciario consegua dall’elettività del Senato, costituendo piuttosto una mera scelta di diritto positivo spettante al legislatore costituzionale. Altrettanto falso è che l’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe precluso l’intera riforma Renzi. Se esso fosse stato favorevolmente votato, la sola conseguenza sarebbe stata la riconferma dell’elettività diretta del Senato. Nulla di più.

·        All’assemblea dell’11 gennaio 2016 nell’Aula dei Gruppoi parlamentari

[1] «Al comma 1, capoverso «articolo 55 della Costituzione», sostituire il quinto comma con il seguente:  «5. Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».

Le ragioni del NO nel referendum sulla riforma costituzionale *
di Gustavo Zagrebelsky, Presidente onorario del Comitato per il No

Coloro che, la riforma costituzionale, la vedono gravida di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è “la più bella del mondo”. Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole “democrazia” e  “lavoro” che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Qui c’è la ragione del contrasto, che non riguarda né l’estetica (su cui ci sarebbe peraltro molto da dire, leggendo i testi farraginosi, incomprensibili e perfino sintatticamente traballanti che sono stati approvati) né soltanto l’ingegneria costituzionale (al cui proposito c’è da dire che nessuna questione costituzionale è mai solo tecnica, ma sempre politica).

Molte volte sono state chiarite le radici storiche e ideali di quella concezione, perfettamente conforme alle tendenze generali del costituzionalismo democratico, sociale e antifascista del II dopoguerra, tendenze riassunte nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, di cui la nostra Costituzione contiene numerose anticipazioni, perfino sul piano testuale. Quelle, le radici della Costituzione che c’è. E quelle della Costituzione che si vorrebbe che fosse, quali sono?

Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un “non detto” e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale (risparmiare sui costi e sui tempi delle decisioni). Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la “riforma” come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.

Ciò si spiega, per l’appunto, con il “non detto”. Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come suo punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in “tempi esecutivi”! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in Parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che a spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-politica  corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare “la sera stessa delle elezioni” il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il Parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche. L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva.

Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro Paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello Stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa (“ce lo chiede l’Europa”) sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli “analisti” della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni antifasciste del II dopoguerra (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione ha protestato) hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature. La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il “non detto” è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a “portare a casa” il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica. La chiamiamo “riforma costituzionale”, ma è una “riforma esecutiva”. Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.

I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato. A parte la lingua, a parte la tecnica più da “decreto mille proroghe” che da Costituzione (si veda il modo di elencare le competenze del nuovo Senato), non si arretra né di fronte alle leggi della matematica e della sintassi, né alle esigenze della logica. Si prenda quello che viene presentato come il cuore della riforma, il nuovo Senato: 95 senatori che rappresentano Regioni e Comuni, più cinque che “possono essere nominati” dal Presidente della Repubblica. Quale logica regga un mélange come questo che poteva spiegarsi nel vecchio Senato che portava tracce di storia costituzionale pre-repubblicana, sfugge. Ogni Regione “ha” (sic!) almeno due senatori, e così anche le Province di Trento e Bolzano. Se si ritiene (ma non è chiaro) che tra i due non sia compreso il sindaco, che dunque si deve aggiungere al numero fisso minimo per ogni Regione, il conto è presto fatto: le Regioni sono 20; venti per 2 fa 40. A ciò si aggiungono 4 senatori per le Province anzidette, e fa 44. Si aggiungono i 22 senatori eletti tra i sindaci, uno per ciascuno dai consigli regionali e provinciali e fa 66. 95 meno 66 fa 29. Questi 29 seggi senatoriali dovrebbero servire a garantire la “ripartizione proporzionale” tra le Regioni, secondo le rispettive popolazioni! 29/20! Se si fa qualche calcolo, risulta tutto meno che la proporzionalità che pure è prevista dal IV comma dell’art. 2. Non cambia di molto il risultato, se il sindaco entra a far parte del numero due garantito a ogni regione. È un guazzabuglio di logiche diverse: la garanzia di almeno due posti in Senato corrisponde all’idea della rappresentanza degli Enti regionali, ma la distribuzione proporzionale dei seggi ulteriori corrisponde invece all’idea che, a essere rappresentate sono le popolazioni. Per non parlare del caso del Trentino Alto Adige che si troverebbe ad “avere” 6 senatori, due per ciascuna Provincia e due per la Regione (a meno che si sostenga, contro ciò che dice lo Statuto speciale, che il Trentino non è una Regione, ma è semplicemente la risultante delle due Province, nel qual caso avrebbe comunque quattro senatori). Anzi, forse ne avrebbe 7, calcolando il sindaco fuori del numero minimo di due, garantito alla Regione. Qual è il filo conduttore ha seguito il legislatore costituzionale? Ma c’è un filo conduttore o siamo allo sbando?

L’art. 2 avrebbe dovuto superare lo scoglio su cui, per un certo periodo, sembrava doversi incagliare la riforma: l’elezione indiretta o diretta. È storia parlamentare nota e non merita d’essere raccontata ancora una volta. Si è creduto di superare l’ostacolo lasciando ferma l’elezione da parte dei Consigli regionali e provinciali: dunque, elezione indiretta, aggiungendo però, in un comma (il V) che tratta di tutt’altro (la durata del mandato dei senatori), lo shibbolleth: eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” dei Consigli regionali e provinciali. Bel rompicapo! Se “in conformità” significa che i Consigli non dispongono di poteri di scelta autonoma, l’elezione non è più un’elezione ma è una ratifica. Se possono operare scelte, è la “conformità” a essere contraddetta. In più, il II comma stabilisce che i Consigli “eleggono con metodo proporzionale”: presumibilmente, in proporzione alla consistenza dei gruppi consiliari. Ma gli elettori si esprimono sulle persone. I gruppi consiliari si formano dopo. Come può esserci “conformità” quando non c’è omogeneità delle volizioni? Come può esserci proporzionalità, inoltre, se si tratta di assegnare due posti o pochi di più?

Questo articolo 2 è esempio preclaro del modo con cui si è giunti all’approvazione della riforma. Essendo prevalsa l’opinabile opinione secondo la quale nella “lettura” del Senato si sarebbe potuto intervenire solo su norme modificate dalla Camera, si è sfruttata la circostanza che alla Camera, in quel V comma, si era sostituito un “nei” con un “dai” per appiccicarci “la conformità”, oltretutto con una virgola e un inciso sintatticamente scorretti. Tutte queste difficoltà dovranno essere affrontate in una legge di attuazione. Ma, ci può essere attuazione di contraddizioni?

Queste considerazioni precedono la discussione circa l’opportunità di superare il c.d. bicameralismo perfetto, opportunità peraltro da gran tempo largamente condivisa. Ma, una cosa è il cambiare, un’altra è il come cambiare. Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma – innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro –  e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?

·                  Discorso per l’assemblea del Comitato per il NO nell’Aula dei gruppi parlamentari, 11 gennaio 2016

Va prendendo forma lo schieramento del “NO” alla riforma costituzionale
di Salvatore Sfrecola

C’erano quasi tutti i “professoroni” sui quali si era appuntata nei mesi scorsi l’ironia di Maria Elena Boschi ieri pomeriggio alla Camera dei deputati al numero 78 di via di Campo Marzio, nell’Aula dei Gruppi parlamentari, per la presentazione del Comitato che inviterà gli italiani a votare “NO” al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi ed approvata nuovamente dall’assemblea di Montecitorio proprio nelle stesse ore. Un fuoco di fila di critiche serrate a quella che è stata definita, senza mezzi termini, una riforma liberticida, che dice addio alla democrazia parlamentare per aprire la strada ad una “democrazia dell’investitura plebiscitaria”, come ha detto Stefano Rodotà, uno dei più applauditi fra gli intervenuti. A dire che la riforma Renzi-Boschi modifica la forma di governo e in qualche modo la forma di stato, ricordando come in Assemblea costituente fu netta la distinzione tra ruolo del governo e ruolo dei costituenti e dei partiti che li avevano espressi. Una critica della prima ora, da quando il Presidente del Consiglio si è intestata una revisione della Carta fondamentale che è naturalmente delle assemblee parlamentari e dei partiti. In questo è già in nuce l’opzione direttoriale del premier sottolineata da quell’appello al popolo che è stato al centro di tutte le esternazioni del Presidente del Consiglio Segretario del Partito Democratico il quale guarda all’appuntamento referendario alla ricerca di una investitura plebiscitaria di fatto snobbando le elezioni comunali, espressione autentica del consenso popolare rispetto alla gestione della politica del territorio laddove i cittadini si confrontano con il grado di rispondenza della classe dirigente locale alle esigenze della vita quotidiana. È un po’ la “fuga dal Parlamento” di cui aveva parlato Leopoldo Elia, una sorta di “rottamazione” della sovranità popolare.
Presenti i massimi esponenti dell’intellighenzia della sinistra nelle sue varie sfumature, da Fassina a Landini, da Ingroia a Salvi, da Maddalena (Paolo, l’ex Giudice costituzionale) a Flick, a Di Pietro, i lavori, dopo una introduzione di Domanico Gallo, li aveva aperti Alessandro Pace, costituzionalista e Presidente del Comitato, con una non velata critica ai Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per non aver messo alle strette le Camere all’indomani della sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale che ha dichiarato la illegittimità del porcellum, perché varassero in tempi brevissimi una nuova legge elettorale e tornare al voto. Ma anche Sergio Mattarella si è preso la sua dose di critiche per essersi riferito a “ciò che vuole il Governo”, così convalidando in qualche modo l’anomala iniziativa di Renzi di intestarsi la riforma costituzionale.
Molto applauditi anche Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale a Roma, (“va bene modificare il bicameralismo perfetto, ma non a favore di questo bicameralismo confuso”) e Felice Besostri, l’Avvocato che ha difeso alla Consulta la tesi della incostituzionalità del Porcellum il quale ha definito “deforme” queste di Renzi che mettono in pericolo la democrazia. Ed ha fatto l’esempio delle province, svuotate proprio della struttura democratica, il Consiglio provinciale.
Applauditissimo anche l’appassionato intervento di Lorenza Carlassare, già Giudice costituzionale, secondo la quale se passasse la riforma avremmo un capo del governo che diventerà “l’unto del Signore di berlusconiana memoria. Dopo, sarà difficile ripulirlo”. Chiudendo con “auguri alla nostra Costituzione”, incisa anche da una riforma che potrà far vincere anche chi supera la soglia minima di consensi che, in presenza del calo di partecipazione al voto, certamente preoccupa. Un concetto ribadito anche da Gianni Ferrara che prefigura un premio ad una minoranza un po’ più forte delle altre. Anche Massimo Villone è impietoso, a cominciare da quelli che ha ricordato essere degli autentici strafalcioni del premier e di quanti la Costituzione provano a cambiarla “da settant’anni, da quando ancora non era in vigore”.
I lavori avrebbe dovuto chiuderli Gustavo Zagrebelsky, Presidente onorario di “Libertà e Giustizia”, già Presidente della Corte costituzionale rimasto nella sua Torino a causa della classica influenza di stagione. Oggi Il Fatto Quotidiano pubblica un suo articolo dove afferma che “una cosa è cambiare, un’altra è come cambiare. Il superamento del bicameralismo perfetto è largamente condiviso, ma siamo di fronte a un testo incomprensibile e al ritorno a condizioni pre-costituzionali”. “La posta in gioco – continua – è la concezione della vita politica e sociale che la costituzione prefigura e promette sintetizzandola nelle parole “democrazia” e “lavoro” che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Qui c’è la ragione del contrasto, che non riguarda né l’estetica (su cui ci sarebbe peraltro molto da dire, leggendo i testi farraginosi, incomprensibili e perfino sintatticamente traballanti che sono stati approvati) né soltanto l’ingegneria costituzionale”.
Insomma, una serie di critiche non formali ma sostanziali con riferimento alla funzionalità delle istituzioni, in particolare del nuovo Senato, con sullo sfondo le preoccupazioni per la democrazia parlamentare che dal combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale esce di scena per formare un corpo di legislatori proni al volere del premier in assenza di un bilanciamento dei poteri, secondo le regole del sistema liberal-democratico delineato da Montesquieu che lo aveva desunto dall’osservazione di quanto accadeva nel Regno Unito dove la governabilità è stata sempre assicurata. Un argomento da sempre cavalcato da Renzi e, prima di lui, da Berlusconi per travolgere le libertà parlamentari, non essendo stati in grado di dominare i gruppi parlamentari.
Di governabilità non si è parlato ieri nell’aula dei gruppi parlamentari. E questo è senza dubbio un errore di quanti si apprestano a convincere gli italiani a respingere la riforma costituzionale Renzi-Boschi perché l’argomento è fortemente sentito, come quello del risparmio e della lotta alla casta. È un problema di capacità di comunicazione oggi essenziale e che potrebbe nascondere le buone ragioni di coloro che si oppongono alla riforma e che devono tener conto della capacità del premier di semplificare i concetti e di entrare in sintonia con la gente. Sarebbe un grave danno per la democrazia se il linguaggio dei professori e dei politici non fosse in condizioni di far percepire dall’opinione pubblica le difficoltà che la democrazia incontrerebbe ove fosse approvata dal referendum la riforma che un premier non eletto ed un Parlamento delegittimato hanno voluto e approvato stravolgendo l’assetto delle istituzioni parlamentari e del governo.
12 gennaio 2016

Intanto Paolo Becchi se ne va
Forza e debolezza del Movimento 5 Stelle
di Senator

Paolo Becchi, il filosofo del diritto dell’Università di Genova, a lungo considerato l’ideologo del Movimento 5 Stelle, l’ispiratore delle sue iniziative sui temi istituzionali, se ne va. È deluso. “Il Movimento si sta trasformando in un partito ibrido e ha stretto con il Pd un nuovo patto dopo quello del Nazareno facendo da stampella al governo Renzi”, sostiene in una intervista a Formiche.net. Un patto ripetutamente negato. Ma che nei fatti si è materializzato in occasione dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale. Nelle scelte e nei veti. Per Augusto Barbera, prima criticato, poi votato, contro Francesco Paolo Sisto, ad esempio, per essere l’avvocato di Berlusconi e di Fitto, e poi contro Raffaele Squitieri, Presidente della Corte dei conti, che si dice fosse fortemente voluto da Renzi, ostacolato, sembra, su ispirazione di Imposimato, molto ascoltato su questioni che attengono alla giustizia. Dopo 30 inutili votazioni l’accordo è fatto nella logica dei partiti, osserva Becchi, originariamente estranea ad un Movimento “anti-sistema”, come è nato e si proclama ancora. Un aiuto a Renzi in grosse difficoltà per la fronda interna e le divisioni su molti dei temi cardine della sua politica sui quali le molte anime della sinistra nelle sue varie sfumature si dividono. La prova dell’accordo sarà evidente se riguarderà anche il ddl Cirinnà sulle unioni civili. Ancora una “stampella” al PD in grosse difficoltà. Poi lo ius soli. Un abbraccio mortale per Renzi, del quale il premier si è reso conto al punto da non sollecitare l’iter parlamentare.
Per Becchi, Grillo inoltre non avrebbe più il controllo pieno del Movimento, sconfessato dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, addirittura sul Financial Times al quale ha detto che i 5 Stelle non sono favorevoli all’uscita dell’Italia dalla NATO, come aveva sostenuto Grillo. E se da un lato condiziona Renzi, è anche la prova delle difficoltà del Movimento cresciuto sulla base della protesta contro il malcontento della gente, sul preannuncio di una rivoluzione dal basso, come una “seria alternativa alla casta”, scrive Michele Monina (Il perché di una vittoria – Il Movimento 5 Stelle), per l’ambiente, la mobilità sostenibile, lo sviluppo la connettività, il reddito di cittadinanza. E poi la rinuncia a parte delle indennità per finanziare il mediocredito alle piccole imprese. Temi che i 5 Stelle portano avanti da subito anche grazie alla competenza e all’esperienza di alcuni. Si sono formati presto nel confronto parlamentare, al punto che, ad un anno dal loro ingresso in politica, è venuto meno il divieto di partecipare alle trasmissioni televisive di approfondimento. Una scelta iniziale di Grillo per nascondere non tanto le ingenuità dei neofiti quanto le diversità degli orientamenti dovuti alla varietà delle posizioni ideologiche, quelle che potrebbero costituire nei prossimi mesi il tallone di Achille del Movimento. Di Maio, Di Battista, la Ruocco bucano lo schermo. La loro popolarità cresce nei sondaggi e se ne parla per incarichi di governo e per candidature amministrative, nonostante il divieto statutario. Cresce, in particolare, Di Maio, un argomentare composto anche quando polemico, un atteggiamento rassicurante che piace ai moderati e fa dimenticare che tra i 5 Stelle c’è chi vorrebbe le adozioni delle coppie omosessuali. La sua intervista al giornale inglese era inimmaginabile qualche tempo addietro. Adesso è stata ripresa dal blog di Grillo.
Insomma, senza dirlo, il Movimento si trasforma in partito, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche nella formulazione delle scelte. Per cui si registrano forme di distacco dalla rete. Inizialmente una forza quasi misteriosa è divenuta un peso per il Movimento che vi ricorre quando non è necessario assumere una decisione particolarmente importante e rapida. Come a Bologna dove, secondo Becchi, si vuole lottare “per vincere davvero”. Lo vedremo quando dovranno essere definite le candidature per le prossime amministrative. I sondaggi danno il M5S in forte crescita, eppure secondo Becchi il Movimento sembra abbia paura di vincere, anzi che non voglia vincere, come a Roma, una sfida che fa veramente tremare i polsi dopo decenni di inefficienza dell’apparato amministrativo e delle aziende dei servizi.
“Dal Movimento liquido di Grillo al partito ibrido di Casaleggio” è il titolo di un articolo del Professor Becchi per Monto Operaio, un partito che ignora le regole d’un tempo, come per l’espulsione della senatrice Serenella Fucksia che, al di là delle motivazioni, non è stata decisa da un’assemblea di parlamentari, con voto poi ratificato dalla rete.
Il fatto è che il Movimento, partito con il vento in poppa della contestazione ai potenti di turno ha eletto in Parlamento soggetti provenienti da esperienze diverse, portatori di valori diversi, spesso confliggenti, come nel caso delle unioni civili o dello ius soli dove il soccorso “5 Stelle” a Renzi rischia di far perdere consensi e forse pezzi dei gruppi parlamentari. È evidente, infatti, che mentre per un partito di governo il dissenso può essere ricomposto nella spartizione del potere, per un movimento “alternativo” è solamente un motivo di debolezza, ragione di possibile appannamento dell’immagine agli occhi dell’elettorato che sui temi “sensibili” si riappropria immediatamente dei propri valori e rientra nei ranghi.
Perché non si lancia una forte campagna di opposizione alla riforma costituzionale in vista del referendum sul quale Renzi punta tutto quest’anno? Si chiede Becchi che giudica “opposizione di facciata” quella sul caso della mozione di sfiducia alla Boschi su Banca Etruria. Insomma, a giudizio del Professore, il Movimento sta diventando opportunistico, nel senso che cerca di guadagnare qualcosa in ogni situazione. E per la verità al momento ci riesce benissimo. La democrazia diretta è stata da tempo accantonata e sostituita dalla democrazia eterodiretta da Casaleggio.
“Becchi, è deluso?” chiede l’intervistatore di Formiche.net. La risposta è decisa: “Sì, tanto che il 31 dicembre ho cancellato la mia iscrizione al Movimento al quale avevo aderito con grande convinzione e entusiasmo; l’ho fatto perché non corrisponde più a quella speranza dell’inizio”. Forse, è la sua opinione, anche Grillo sta provando “un po’ di delusione? è sempre più politicamente assente”. Ed aggiunge che il suo discorso di fine anno “era uno spot pubblicitario al suo spettacolo, un intervento teatrale nel quale dice che tutti siamo ologrammi ma, ahimè, è diventato un ologramma pure lui. Forse era inevitabile che il Movimento si istituzionalizzasse, ma il sogno è finito”. Sembra di tornare ai commenti dei politologi in vista della dissoluzione dell’Uomo Qualunque di Giannini che fu inevitabile quando vennero al pettine i nodi delle questioni di fondo, istituzionali e ideali, quelle che dividono, da sempre.
6 gennaio 2016

Il 13 gennaio il Coordinamento romano
“Noi con Salvini” alla prova della Capitale
di Senator

Prende il via la settimana prossima, con ogni probabilità il 13, il nuovo Coordinamento romano di “Noi con Salvini”, ridisegnato dal Senatore Gian Marco Centinaio, Presidente del Gruppo parlamentare della Lega a Palazzo Madama, il Commissario per Roma e per il Lazio voluto da Matteo Salvini per dare slancio al Movimento sulla “piazza” difficile della Capitale, la città delle pubbliche amministrazioni e dei servizi, della cultura internazionale. Azzerate le cariche precedenti, Centinaio ha quasi ultimato il nuovo Esecutivo cittadino, l’organo collegiale che dovrà guidare l’impegno di “Noi con Salvini” confrontandosi con le altre componenti del Centrodestra, in particolare con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che non nasconde l’ambizione di riconquistare alla destra il Campidoglio. L’impegno è anche quello di acquisire forze nuove non compromesse con i vecchi partiti che con i loro errori hanno perduto credibilità agli occhi dei romani. Un impegno difficile per il senatore Centinaio, perché il successo di Matteo Salvini, in alto nei sondaggi, ha convinto molti, già impegnati nella politica cittadina e laziale a vari livelli, ad avvicinarsi al movimento che, tuttavia, vuol evitare personaggi del sottobosco romano la cui presenza potrebbe oscurare quell’aura di novità che “Noi con Salvini” intende rivendicare.
Al momento fanno parte del Coordinamento romano, diretto da Pierluigi Campomizzi, Barbara Saltamartini (deputato), Barbara Mannucci (coordinatrice nazionale Donne NcS) Souad Sbai (giornalista, docente universitario ed ex parlamentare del PdL), Iva Garibaldi (addetto stampa del Carroccio dei gruppi parlamentari) e Fabio Sabbatani Schiuma (Segretario nazionale di Riva Destra ed ex consigliere comunale).
Per completare il coordinamento romano mancano alcune pedine che, assicura Centinaio, non saranno costituite da politici professionisti. “Inseriremo un paio di elementi fuori gruppo, provenienti dall’associazionismo, sconosciuti al grande pubblico – spiega – ma impegnati soprattutto sul piano culturale e delle istituzioni”. Tra queste un rappresentante di Agorà, il Gruppo di intellettuali che fa capo al Prof. Giuseppe Valditara, ordinario di Diritto privato romano nell’Università di Torino, già senatore di Alleanza Nazionale, che ha dato vita alla rivista Logos www.logos-rivista.it, la quale vanta un Comitato scientifico formato da studiosi delle varie discipline che ha l’ambizione di mettere a disposizione della Lega e dei Gruppi parlamentari l’esperienza e la professionalità di chi insegna ed opera nei settori della pubblica amministrazione, del trasporto pubblico, aereo e ferroviario, dell’energia e della finanza. Si tratta di un gruppo consistente, del quale già ha parlato più volte Salvini come di coloro che stanno preparando il futuro programma di governo, che ha l’ambizione di mettere a disposizione di quanti saranno chiamati a compiti più squisitamente politici esperienze scientifiche e professionali di alto profilo.
Per quanto riguarda Sabbatani Schiuma, per Centinaio “Fabio è un ottimo acquisto, sarà il responsabile dell’organizzazione. Ha creduto sin da subito in “Noi con Salvini”, su di lui investiremo tanto, anche a livello mediatico e per la sua profonda conoscenza del mondo politico romano”.
5 gennaio 201
Sprechi di denaro pubblico (Crozza ricorda lo Stadio del polo di Giarre)
Quanti mancano al loro dovere.
E dietro l’angolo c’è corruzione
di Salvatore Sfrecola
Ieri 1°gennaio, in prima serata, La7 ha trasmesso nuovamente quanto Crozza aveva detto già tempo addietro a proposito di vari sprechi di denaro pubblico, soffermandosi in particolare sul caso dello Stadio del polo, capienza 20 mila posti, costruito con finanziamenti pubblici in una cittadina di 22 mila abitanti, Giarre, in provincia di Catania,  circa 4 milioni di euro messi a disposizione dal CONI su una iniziativa assunta dal Comune nel 1984. Il comico genovese aveva ripreso la notizia da un servizio di “Striscia la notizia”, il telegiornale satirico di Canale5.
Non si hanno notizie di iniziative a livello dell’ente finanziatore finanziatore dell’opera e della magistratura, in particolare della Corte dei conti, considerato che ad essa spetta, al di là degli eventuali profili penali della vicenda, esercitare l’azione pubblica di risarcimento del danno in caso di pregiudizio arrecato alla finanza pubblica con dolo o colpa grave che, nel caso, sembra “gravissima”. Immagino, conoscendo la solerzia della Procura regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana che sulla questione siano in corso accertamenti.
Al di là della vicenda giudiziaria il caso dello Stadio del polo di Giarre merita alcune considerazioni che ci consentono di riflettere su sprechi e corruzione. Sì corruzione, perché uno spreco di quelle dimensioni – Wikipedia, come ricordavo, parla di 4 milioni di euro – non può essere avvenuto senza complicità politiche, amministrative e imprenditoriali che sicuramente configurano, almeno tra alcuni partecipi un accordo illecito, molto probabilmente di natura corruttiva. Poi ci sono, o ci possono essere, “disattenzioni” delle amministrazioni interessate al finanziamento e di coloro che hanno compiti di controllo.
Cominciamo dalle regole base di un’opera finanziata con denaro pubblico. L’ente interessato riceve una proposta di esterni, ad esempio da un ente locale come nel caso o da una società sportiva, che viene valutata dagli uffici sotto il profilo della “fattibilità”, parola magica che significa che si deve considerare l’utilità dell’impianto in relazione al numero dei prevedibili fruitori (rispetto ai quali è individuata la dimensione) che non è detto debbano essere locali. Infatti un importante impianto sportivo può attirare “tifosi” dall’hinterland o dall’intera regione. Superata la fase della valutazione dell’utilità dell’opera l’ufficio che cura l’istruttoria deve considerarne l’aspetto tecnico il quale attiene alla adeguatezza dell’impianto, quanto alla capienza ed alla sicurezza rispetto al pubblico prevedibile e previsto. Una valutazione importante, basti considerare che molti degli stadi italiani costruiti per i mondiali del 1990 sono stati oggetto di numerose prescrizioni tecniche da parte dell’apposita Commissione sulla sicurezza degli impianti sportivi del Ministero dell’interno. E molti sono stati aperti al pubblico con deroga della Commissione e dei prefetti, sempre nella fiducia che tutto vada per il meglio. Ricordo, ad esempio, di aver letto che, almeno fino ad una certa data il campo dello Stadio Olimpico di Roma era inaccessibile alle autoambulanze.
Fatte queste premesse di ordine burocratico, l’ente finanziatore, valutata positivamente l’utilità dell’impianto sportivo, quanto ad ubicazione in considerazione dei prevedibili utenti (a Giarre e non a Palermo, ad esempio) e le sue caratteristiche tecniche, di affidabilità e sicurezza, ne approva l’esecuzione contestualmente individuando le risorse necessarie per la sua realizzazione. A questo punto, per semplificare, si apre il cantiere ed iniziano i lavori i quali sono affidati alla responsabilità di un apposito direttore (è previsto anche un responsabile del procedimento) e della Commissione di collaudo in corso d’opera, la quale dovrà anche redigere la relazione finale. Collaudo viene dal latino cum laude, che esprime la valutazione positiva della Commissione, nel senso che i lavori sono riconosciuti essere stati effettuati a regola d’arte e secondo le prescrizioni contrattuali, quindi anche con i costi e nei tempi previsti.
Per completezza aggiungo che ogni ente pubblico finanziatore ha una struttura di riferimento la quale verifica come i lavori sono realizzati e come le somme accantonate per quell’opera vengono spese. È anche previsto un Collegio dei revisori dei conti (in alcuni casi chiamato dei sindaci) che ha compiti di vigilanza sull’andamento del bilancio dell’ente e dovrebbe accendere un faro sulle opere più importanti e più costose monitorando l’andamento dei lavori.
Tutto questo in teoria. Se, tuttavia, è potuto accadere che in una cittadina di 22 mila abitanti sia stata prevista la costruzione di un impianto destinato a 20 mila spettatori per una disciplina sportiva in Italia non particolarmente diffusa, con prevedibile scarso afflusso di pubblico, e se quest’opera, iniziata non è stata terminata è presumibile, anzi è certo, che in alcuni dei passaggi procedimentali prima illustrati qualcuno non abbia fatto il proprio dovere. Forse chi ha valutato che l’impianto fosse importante e destinato alle previste presenze, chi lo ha finanziato, chi ha controllato – si fa per dire – l’andamento dei lavori che si sono fermati. Perché ci si è accorti che l’opera era inutile, non adeguatamente finanziata (spesso accade che in corso d’opera manchino le risorse), perché il progetto non era idoneo. In ciascuno di questi momenti c’è un responsabile o più responsabili (spesso a decidere sono organi collegiali). A questo punto chi avrebbe dovuto intervenire? Il Consiglio di amministrazione dell’ente, il Collegio dei revisori dei conti? Chi ha fatto finta di non sapere? E quando? Perché dopo le trasmissioni televisive nessuno può dire di non essere informato della vicenda e nessuno, pur non avendo partecipato alla fase della decisione (di costruire e di finanziare) può tirarsi indietro adesso che lo scandalo è consegnato alle impietose telecamere di “Striscia la notizia” ed al commento sarcastico di Crozza dinanzi ad un pubblico che unisce all’ilarità per il commento del comico l’indignazione del cittadino-contribuente che vede dilapidate somme con personale sacrificio poste a disposizione dell’autorità pubblica. E monta la rabbia perché è immaginabile che dietro una decisione come quella del campo di polo a Giarre ci sia qualche sollecitazione politica, qualche interesse elettoralistico che probabilmente si è legato ad interessi delle imprese che hanno lavorato in quel cantiere. Sollecitazione politica che deve aver seguito la trafila delle decisioni maturate lungo le fasi del procedimento. Sollecitazioni a fare ma anche, forse, a non fare. Ad esempio a non controllare la fattibilità globale dell’impianto, l’adeguatezza del finanziamento e l’esecuzione dei lavori. Per finire con il Collegio dei revisori dei conti che “non poteva non sapere”.
Ho cercato tramite Google se il CONI avesse profferito verbo in proposito. Non ho trovato nulla. Ma forse non ho saputo fare la ricerca.
Così finisce il 2015 ed inizia il 2016, un anno nel quale gli italiani saranno chiamati ad altri duri sacrifici, economici e di vivibilità nelle città dove lo spreco degli anni scorsi ha fatto esaurire le risorse per trasporto, viabilità e servizi. Così allontanando i cittadini dalla politica, come attestano i sondaggi sulla disaffezione dal voto.
Infatti non si ha notizia di iniziativa alcuna per individuare e punire i responsabili dello scempio di denaro pubblico che non è un caso isolato a Giarre (sempre nella stessa trasmissione Crozza ha mostrato le immagini di un’altra incompiuta, la piscina comunale tra l’altro fuori norma) né in Italia.
Il Presidente Mattarella ha giustamente parlato nel discorso di fine anno dell’evasione fiscale che mortifica il Paese e gli italiani costretti a pagare le tasse anche per gli evasori. Forse avrebbe dovuto far cenno allo spreco di denaro pubblico. Anch’esso pesa ingiustamente sugli italiani.
2 gennaio 2016

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