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Febbraio 2016

Importante contributo alla ricerca della verità
Il “caso Moro”: “Identikit di un omicidio”
in un libro di Filippo de Jorio*
di Salvatore Sfrecola

Alla sua seconda edizione, aggiornata ed ampliata, “Identikit di un omicidio – il caso Moro”, un saggio storico – politico che ha la fondata ambizione di fornire nuovi strumenti di lettura dei drammatici eventi del sequestro e della uccisione dello statista democristiano, viene presentato a Bari, nella splendida cornice del Circolo dell’Unione, a fianco del teatro Petruzzelli, con gran presenza di giornalisti e antichi amici del professore che nel capoluogo pugliese aveva iniziato la sua carriera universitaria e la scalata ai vertici del partito, la Democrazia Cristiana.
Con questo libro, al quale hanno decretato successo, fin dalla prima edizione presentata a Roma e a Montecarlo nel 2014, politici, giornalisti e storici, Filippo de Jorio, politico, docente universitario, avvocato, ha voluto mantenere fede ad un antico impegno nei confronti dello statista tragicamente scomparso. Un impegno con sé stesso, prima di tutto, contratto nel gennaio del 1978, quando Aldo Moro, per il tramite di un suo fedelissimo, Raniero Benedetto, consigliere comunale di Roma e poi della Regione Lazio, gli chiese se fosse vero il sospetto della “origine democristiana” dell’attentato che de Jorio aveva subito qualche tempo prima. La risposta fu laconica quanto perentoria: “sì”, quell’attentato che poteva costargli la vita Filippo de Jorio riteneva di poterlo attribuire ad ambienti criminali che, in qualche modo, era possibile ricollegare ad esponenti del suo partito. Una indicazione che certamente contribuì a preoccupare Moro, il quale si era accorto che proprio in quel periodo il suo ufficio privato, nella centralissima via Savoia, era sorvegliato ed era stato perquisito. Intromissioni che facevano percepire a Moro di non essere adeguatamente tutelato dalle forze di sicurezza, lui che aveva ricoperto prestigiose cariche politiche, di partito e di governo, giungendo a ricoprire per sei volte il ruolo di Presidente del Consiglio. E in atto era il Presidente della Democrazia Cristiana, partito di maggioranza con la responsabilità del governo.
L’attenzione di Moro, uomo integerrimo, per l’avvocato de Jorio, che aveva dovuto abbandonare l’Italia per essere stato ingiustamente accusato (come risultò immediatamente nel corso delle indagini) di aver addirittura tramato contro la sicurezza dello Stato, gratifica l’esule rifugiatosi nel Principato di Monaco e lo avvicina allo statista con il quale pure non aveva avuto una sintonia politica, in quanto i due erano schierati in diverse, e per certi versi opposte, correnti del grande partito cattolico. La stima supera le divisioni politiche, e de Jorio riversa su Moro l’affetto che nutriva per il suo collaboratore “persona preparata e perbene”, della quale ancora oggi è amico.
E così, all’indomani del sequestro e dell’uccisione di Moro, Filippo de Jorio si sente impegnato a ricercare la verità, quella che invoca da anni Giovanni Moro, da sempre contrario a rincorrere le dietrologie alimentate in questi anni da giornalisti e politici. Passano 36 anni e vede la luce la prima edizione del libro per la cui stesura de Jorio si avvale della collaborazione di Giada Pacifici e di Antonio De Pascali, psicologa, la prima, e quindi impegnata nell’interpretare il profilo psicologico di Moro, come desumibile dalle lettere scritte nella prigione delle Brigate Rosse, giornalista, il secondo, puntuale nella ricostruzione degli avvenimenti che hanno contraddistinto i giorni della detenzione.
In questo libro accurato nella scelta delle fonti, puntuale nella interpretazione dei fatti, c’è tutta la personalità di Filippo de Jorio, la sua passione politica al servizio allo Stato e della Comunità con il rigore dell’uomo delle istituzioni, erede di una antica consuetudine familiare di servitori dei sovrani del Regno di Napoli, sempre in posizione di elevata responsabilità amministrativa. È la tradizione della nobiltà di toga cresciuta a fianco dei Re di Napoli per servire prima di tutto lo Stato. E c’è anche il fervore della fede nel diritto e nei valori della legalità, insegnata nell’Ateneo e praticata nel Foro, con quell’impeto proprio di chi crede negli ideali che affondano le loro radici nella storia giuridica di questo nostro Paese. Una passione che ritrovo nei nostri frequenti colloqui tra politica, storia e diritto, sempre impegnato nel ricercare le ragioni della legge e di coloro i cui diritti difende nei Tribunali e nelle Corti.
Questo libro è, dunque, una lunga, argomentata e appassionata arringa dell’Avvocato de Jorio che corre lungo i fatti che hanno caratterizzato quei terribili giorni, tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, traendo spunto dalle lettere di Moro, dalle iniziative del Governo, dalla posizione assunta dai partiti e dalle indagini di polizia che non riuscirono ad individuare il carcere delle Brigate Rosse, dalle testimonianze che, anche successivamente, sono state raccolte da studiosi, politici e giornalisti. Per dire che lo statista DC fu abbandonato. In una parola che non lo si volle salvare. Per molte ragioni, tutte politiche – è la tesi – perché il Presidente della Democrazia Cristiana era da tempo fautore di una intesa di governo tra cattolici e comunisti, ostacolata anche nel suo partito, che lo aveva relegato in un ruolo tutto sommato formale. La sua iniziativa politica, inoltre, era vista con preoccupata diffidenza da alcuni nostri alleati, in particolare negli U.S.A. (c’è stato anche chi ha collegato le morti cruente di Kennedy e di Moro, entrambi disponibili ad un’apertura “a sinistra”), sicché più di qualcuno sarebbe stato favorevole comunque all’uscita di scena di Moro. Alla sua fine politica, non necessariamente alla sua morte, come sembra dedursi dalle parole, che leggeremo più avanti, di Steve Pieczenik, rappresentante del Governo USA in Italia per partecipare ai lavori del Comitato di crisi istituito dal Ministro dell’interno Francesco Cossiga.
Comunque si voglia interpretare l’intera vicenda, il caso Moro è certamente uno dei più oscuri misteri della storia d’Italia. Se ne sono occupati più giudici. Uno, Ferdinando Imposimato, ha scritto in proposito due libri (“Doveva morire”, con Sandro Provvisionato, pubblicato nel 2008 con Chiarelettere, e “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia – perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera”, Roma, 2013, Newton Compton Editori). Due Commissioni parlamentari d’inchiesta hanno cercato anch’esse la verità. Come le indagini giornalistiche e le trasmissioni televisive, i saggi, i romanzi, le autobiografie ed i film. Un mistero per molti aspetti, al quale le lettere di Moro aggiungono sempre nuove prospettive, specialmente se rilette alla luce delle successive “rivelazioni”, mentre restano alcuni punti non chiariti, come quello della struttura del commando che rapì lo statista il 16 marzo 1978 in via Fani, della presenza di agenti dei Servizi sul posto dell’agguato, o delle influenze straniere che ancora oggi aprono interrogativi importanti sui quali questo libro s’interroga desumendone, come ho detto, che non si sia voluto salvare la vita di Moro.
Misteri e lati oscuri hanno alimentato un filone di ricostruzioni le più varie, a cominciare da quelle che definiscono intenzionali le “clamorose inadempienze e le scandalose omissioni da parte degli apparati dello Stato”, come scrive Imposimato, terreno fertile per innestare ulteriori teoremi che possono avere anche distolto dall’individuazione della verità. Lo stesso Giovanni Moro ha più volte messo in guardia da certe divagazioni non sorrette da ancoraggi documentali verificati, tra veri o presunti interventi di Servizi “deviati”, P2, Gladio, Servizi tedeschi e “consulenti” americani, via via confermati e smentiti.
La vicenda è senza dubbio complessa, molto complessa, con variegati risvolti politici e tecnici. “Come in una tragedia greca – ha osservato Agostino Giovagnoli (Il caso Moro – una tragedia repubblicana, Edizioni de Il Giornale, 2005) – anche durante il sequestro Moro si è scatenata una tempesta morale, che ha improvvisamente svelato profonde incertezze etiche nella società italiana” che già da anni “conviveva con un terrorismo dai molteplici volti, moralmente inaccettabile, per i tanti innocenti colpiti, e politicamente inquietante, per i suoi fini occulti. Ma fino a quel momento il fenomeno era stato sottovalutato e soltanto da allora si cominciò a pensare che poteva colpire a morte non solo singole vittime, ma anche le istituzioni di un’intera collettività, mentre, a loro volta, tali istituzioni potevano non essere più in grado di difendere la vita dei singoli cittadini da una simile minaccia” (pagina 10).
Sono molto grato, dunque, all’amico professor de Jorio per avermi coinvolto ancora una volta nella presentazione di questo suo bel libro che ci chiama a riflettere su alcuni aspetti della vicenda dal punto di vista politico ed anche, sulla sua personalità del leader democristiano e sui rapporti con il suo e con gli altri partiti, come traspare dalle lettere di Moro.
Ho detto di una tragedia italiana di proporzioni enormi, un passaggio cruciale della vita politica che qualcuno ha paragonato alle vicende dell’8 settembre 1943 quando qualche studioso di storia e di politica ha addirittura parlato di “Morte della Patria”. Galli della Loggia ne ha scritto nel 1993, tema ripreso da Renzo De Felice, in un suo libretto – intervista intitolato Il Rosso e il Nero, che ha fatto molto discutere, dove ha riassunto le sue interpretazioni intorno alla perdita del senso di identità nazionale degli italiani quando, appunto con l’8 settembre 1943, si sarebbe consumata, nella coscienza popolare, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di Nazione che avrebbe “minato per sempre la memoria collettiva nazionale” (R. De Felice, 1995, 33). Anche se la fine doveva intendersi dello Stato e non della Patria, c’è chi ha rifiutato l’alternativa sostenendo che, in realtà, in molti non si era ancora realizzata quella comunità degli italiani che Massimo d’Azeglio aveva auspicato quasi un secolo prima.
Momenti diversi, tempi diversi e diversi i protagonisti. Ma se durante il sequestro Moro la discussione si concentrò intorno ad un dilemma, difesa dello Stato o salvezza della vita umana, e l’Italia si divise tra i sostenitori della fermezza e i fautori della trattativa, non c’è dubbio che gli uni e gli altri erano alla ricerca di valori ai quali ancorare le rispettive posizioni. Un conflitto che coinvolse lo stesso papa Paolo VI, dolorosamente combattuto tra l’affetto per l’amico, del quale voleva salvare la vita, e le preoccupazioni per l’Italia e per la tenuta delle istituzioni.
Non c’è dubbio che una chiave di lettura della vicenda vada ricercata anche nelle conseguenze della tragedia del rapimento, della detenzione e della uccisione di Moro, cioè nella sconfitta delle Brigate Rosse, nel loro isolamento, proprio per effetto degli interrogativi etici e civili che l’azione criminale aveva suscitato in un dibattito pubblico che in passato non c’era stato perché la crisi delle ideologie, stoltamente esaltata con conseguente affievolimento delle ragioni dell’appartenenza politica, aveva trascurato ogni approfondimento delle ragioni ideali del diritto e dello Stato.
Da quel 16 marzo 1978 l’etica tornò ad alimentare il dibattito della politica impegnata a contrastare il terrorismo ma anche a preoccuparsi della sorte dell’uomo.
Non c’è dubbio, ad esempio, che la tragedia abbia influito su un passaggio fondamentale nella vita politica nazionale allontanando il Partito Comunista Italiano da posizioni fortemente influenzate da condizionamenti esterni portandolo ad avere una maggiore fiducia nelle istituzioni democratiche nelle quali veniva coinvolto, abbandonando quel pesante fardello ideologico che aveva caratterizzato la sua presenza politica negli anni dell’immediato dopoguerra. Nei giorni tragici del sequestro, tra il marzo e il maggio 1978, quella forza politica, egemone nella Sinistra, avviò concretamente un cambiamento importante sul piano culturale e umano con effetti politici rilevanti. Passando dalla filosofia dello Stato che-si-abbatte-e-non-si-cambia ad una scelta, che oggi chiamiamo riformista, stimolata proprio dal pensiero illuminato e profetico dello statista pugliese. Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con la scelta contraria alla trattativa, significativamente patrocinata, invece, dal socialista Craxi proteso a scardinare proprio l’incipiente “compromesso storico”, delusero i brigatisti che ritenevano di poter fomentare uno scontro aperto in tutto il Paese. Perfino l’ala più dura del sindacalismo di sinistra dimostrò di essere impermeabile alle istanze dei brigatisti, assumendo posizioni più vicine a quelle dialoganti con le imprese di cui era portatore Guido Rossa, dirigente sindacale all’Italsider, che, individuato come un “traditore” della classe lavoratrice, fu ucciso a Genova dalle BR il 24 gennaio 1979.
C’è poi tutto il capitolo delle operazioni di polizia, sicuramente inadeguate, la cui insufficienza ha alimentato il dubbio della volontà di non liberare l’ostaggio, trascurando, perché dobbiamo contestualizzare la vicenda, che l’Italia, come gran parte dei paesi occidentali, non era in quel momento abituata a contrastare il terrorismo e i rapimenti politici. Le forze dell’ordine non erano addestrate a fronteggiare i terroristi clandestini che ancora oggi non è agevole individuare, come insegnano le vicende dell’aggressione dell’ISIS ai pacifici abitanti di Parigi il 13 novembre 2015. E non possiamo non ricordare che, per motivi politici, sui quali forse si dovrebbe ulteriormente indagare, i servizi di intelligence erano stati smantellati a seguito di vere o presunte loro deviazioni. A partire dal 1967, con la denuncia del cosiddetto “scandalo SIFAR” (lo scandalo per la verità stava nelle cose che il Servizio aveva scoperto a carico di personalità della politica, come attestò in Parlamento il Ministro della difesa Tremelloni) e poi successivamente con lo scioglimento della struttura antiterrorismo denominata SDS, le organizzazioni che avrebbero dovuto fronteggiare il terrorismo erano state sostanzialmente azzerate dopo che, a seguito dell’arresto dei capi storici dell’organizzazione che aveva rapito il giudice Sossi, si ritenne che il problema Brigate Rosse fosse stato sostanzialmente risolto.
In sostanza, quel che appare oggi a volte inverosimile con l’esperienza di sistemi informativi basati sull’uso di sofisticate strumentazioni all’avanguardia della tecnologia, si pensi soltanto alle intercettazioni ambientali ed alla capacità di seguire il movimento delle persone attraverso le celle della rete della telefonia mobile, all’epoca era pura fantascienza. Non che le forze di polizia non avessero personale di elevata professionalità, ma non è dubbio che l’addestramento fosse diretto ad affrontare altre emergenze, in particolare il pericolo rappresentato dai movimenti sovversivi di massa.
E, ancora, si è molto dubitato dell’attività del Comitato di crisi, nel quale pure sedeva il Sottosegretario al Ministero dell’interno, l’On. Nicola Lettieri, moroteo, delegato dal Ministro Cossiga, Comitato la cui azione “era basata sull’inerzia totale e sull’intralcio della Procura di Roma, per legge incaricata delle indagini”, come scrive il giudice Antonio Esposito nella prefazione al libro di Imposimato “i 55 giorni”.
Se consideriamo che l’assassinio di Moro costituì per le Brigate Rosse l’inizio della fine, noi dobbiamo ritenere che la linea della fermezza, indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno suggerita, ha dato ragione a chi l’ha portata avanti ed ha evitato all’Italia una stagione di plurimi, ripetuti sequestri in un ricatto continuo nei confronti dello Stato che non poteva essere accettato. In questa valutazione concorrono la mia formazione giuridica ed anche la mia attenzione per gli studi di storia che, congiuntamente, mi convincono che mai lo Stato può trattare con i sovversivi se non attribuendo loro una inammissibile legittimazione politica. Uno Stato sovrano non viene a patti con chi si è posto al di fuori della legalità, come dimostrano gli eventi odierni nel Medio Oriente, dove inglesi e americani non hanno mai accettato il ricatto dei sequestratori dei loro concittadini catturati, per la liberazione dei quali era stato richiesto un compenso. Né può essere un precedente valido, per un giudizio di valore sulla scelta contraria alla trattativa, il caso del sequestro Cirillo, Consigliere regionale democristiano della Campania, spesso richiamato, gestito da ambienti del suo partito e che non ha coinvolto direttamente lo Stato.
Nella vicenda Moro le Brigate Rosse fecero prevalere la logica della violenza sulle ragioni della politica ed in questo senso esse appaiono un’espressione della transizione dal mondo della guerra fredda a quello della apertura che porterà alla caduta del muro di Berlino.
Infatti, diversamente dalle previsioni di molti, compreso lo stesso Moro, dopo il suo assassinio non esplose quella violenza generalizzata che i terroristi auspicavano ma si verificò una parabola discendente delle Brigate Rosse messe in difficoltà dalla fermezza dello Stato. D’altra parte manca la controprova, cioè che il cedimento alle pretese dei terroristi avrebbe salvato la vita del prigioniero e non destabilizzato le istituzioni.
Resta, tuttavia, l’interrogativo se si poteva fare di più e di meglio nello spazio della iniziativa autonoma dello Stato, tra fermezza o clemenza, senza cedimenti.
Non va trascurato in quel momento che alcuni i quali volevano trattare vi erano indotti dalla convinzione che il terrorismo avesse già vinto ed erano portati ad operare in un terreno ambiguo di trattative non sappiamo con quanto reale interesse per la salvezza del leader democristiano. Quella che ha prevalso è stata la logica delle istituzioni nonostante il comprensibile dolore degli amici e degli estimatori dell’onorevole Aldo Moro che, come il professor de Jorio, sentono soprattutto la perdita dell’uomo di valore, dello studioso, del politico profetico che ha dato, in un momento difficile della vita politica italiana, aperture che, anche quando non condivise, hanno offerto al dibattito importanti occasioni di approfondimento che saranno riprese negli anni successivi.
Per educazione, per il ruolo professionale che rivesto, e per una certa dimestichezza con gli studi storici, coltivati insieme a quelli giuridici, io sono da sempre restio a ricercare dietrologie se non vi sono elementi probanti. Il libro ritiene di averne individuati alcuni, tratti da testimonianze assunte in contesti diversi, dalle lettere, spesso struggenti di Moro. Lettere dalle quali peraltro la personalità dello statista risulta in parte oscurata, certamente per l’effetto psicologico della costrizione nella quale si trovava. Un aspetto rilevato eppure rimosso o contestato da quanti hanno ritenuto che la personalità dello studioso e del politico non fosse stata intaccata dalla prigionia. Encomiabile la stima e l’affetto per l’uomo,  ma insufficiente la considerazione, per gli effetti che la costrizione e l’isolamento possono avere anche su una personalità che ha forti riferimenti ad ideali religiosi e civili.
Una cosa è certa, non si può chiedere ad un uomo di essere diverso da se stesso, non si può chiedere ad un filosofo della politica, ad un uomo del “dialogo” e del “compromesso storico”, al teorico delle trattative, di esprimere una forza di volontà che lo porti a dire lo Stato innanzitutto, la legge innanzitutto, nessun cedimento alla violenza, neppure per evitare il pianto della moglie e dei figli e il dolore degli amici.
Il libro offre uno spaccato significativo delle lettere più importanti di Moro e le sue riflessioni politiche con l’accorata protesta nei confronti dei colleghi di partito che, a suoi dire, lo lasciavano in mano ai terroristi, quasi un agnello sacrificale che lui immagina scelta strumentale ai loro interessi personali. de Jorio richiama un suo articolo di quei giorni dal titolo significativo “Il Giuda è tra noi”, a dimostrazione di quell’atmosfera, dai tratti sicuramente equivoci, che definisce “di inferno e di orrore, così come da più di 2000 anni ispira il comportamento di Giuda”.
L’idea del complotto è sposata in qualche modo anche da uno dei magistrati che hanno indagato sul sequestro Moro, Ferdinando Imposimato. Anche lui parla de “I giorni di Giuda”, riflessioni indotte dalle indagini e dalle lettere di Moro che sospetta dei suoi compagni di partito.
Il racconto dà anche conto di posizioni politiche che in qualche modo avrebbero accettato una soluzione cruenta rispetto al timore della liberazione di Moro. Ho sempre ritenuto che l’uccisione dello statista pugliese sia stato nell’ottica “politica” delle Brigate Rosse, come ho detto, un errore perché nei fatti è stata la certificazione della fine della loro strategia rivoluzionaria ed ho sempre ritenuto che, nell’ottica eversiva che esse perseguivano, sarebbe stata molto più sconvolgente la sua liberazione accompagnata ad esempio da un comunicato stampa che affermasse l’inutilità di una ulteriore detenzione, nel presupposto che il parlamentare democristiano avesse detto tutto quello che i brigatisti da lui si attendevano. Avrebbe avuto un effetto dirompente nel mondo politico perché Moro non avrebbero potuto difendersi, non avrebbe potuto gridare la propria innocenza, ed avrebbe inutilmente affermato che nulla aveva detto dei segreti politici, interni ed internazionali, dei quali, per la sua lunga esperienza di capo del governo e di ministro degli esteri, aveva certamente conoscenza.
A sottolineare l’ipotesi che vi fossero interessi politici alla fine cruenta della prigionia di Moro – in sostanza la tesi del complotto, per cui, come scrive Imposimato, riprendendo nelle conclusioni la tesi di Rosario Priore, “il governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni potere nella gestione del sequestro, perché il caso era stato avocato a sé dalla rete Gladio della NATO” – Filippo de Jorio ricorda una frase del diplomatico americano Steve Pieczenik, consulente del Comitato di crisi, che, dopo molti anni di silenzio, ha affermato che era stato “manipolato rigidamente il caso Moro al fine di stabilizzare la situazione in Italia”. In sostanza per il governo americano sarebbe stato forte il timore che, alla fine, Moro venisse rilasciato. “Mi aspettavo che le Brigate Rosse si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo (nel programmare la sua uccisione) e che lo liberassero, mossa questa che avrebbe fatto fallire il mio piano”. Per de Jorio una esplicita confessione, che peraltro contrasta con altre parti della dichiarazione dello stesso Pieczenik, quando afferma che il suo compito era di cercare di salvare l’ostaggio senza cedere alle pressioni dei terroristi (a pagina 291 del libro di Imposimato) tanto che – in relazione all’andamento delle indagini – egli se ne è andato via “prima del previsto”. In sostanza smentendosi. Un personaggio sulla cui attendibilità, dunque, è lecito nutrire dei dubbi in ordine al ruolo avuto nella vicenda dal nostro più importante alleato internazionale, considerato che appaiono singolari le dichiarazioni di un diplomatico che, sia pure a distanza di anni, attesta di una intromissione gravissima negli affari interni di un paese alleato, per di più con una finalità sicuramente illecita. Per poi rifugiarsi in un ruolo di osservatore che, deluso dall’esautoramento del Comitato di crisi, torna a casa.
Non c’è dubbio, comunque, che la confusione fu tanta, a livello politico e investigativo, da alimentare i sospetti di una macchinazione nella quale probabilmente, tra inefficienze di ogni genere, si sono inseriti degli autentici millantatori ritenuti affidabili anche da chi, per motivi politici, aveva interesse a creare e ad alimentare contrapposizioni tra Moro e i vertici del suo partito in un contesto internazionale ancora dominato dall’ombra di Yalta, come dimostrano le successive inchieste giudiziarie legate all’attentato al Papa Giovanni Paolo II, che hanno rivelato un intreccio di interessi particolarmente complesso.
Il libro di Filippo de Jorio costituisce un apporto significativo alla conoscenza dei fatti e ad una riflessione approfondita della psicologia dello statista pugliese attraverso una riconsiderazione delle sue lettere dal carcere che rivelano, ad un tempo, la sua umanità e la sua fede, religiosa e civile. Moro è un cattolico, di quelli della sinistra democristiana, più di altri legati ad una tradizione nella quale prevale la concezione sociale, meno quella istituzionale. In realtà proprio dalle sue lettere, nelle quali mai sono richiamati principi dello Stato, si percepisce quel distacco dalla storia nazionale conseguenza del non expedit con il quale Pio IX, per contestare l’annessione di Roma al Regno d’Italia, ha tenuto i cattolici fuori dalla fase di formazione dello Stato unitario, così impedendo loro, che avevano costruito una presenza significativa nel contesto economico e sociale delle varie regioni italiane, basti rileggere in proposito L’opposizione cattolica di Giovanni Spadolini, di concorrere, nella fase delicatissima della nuova legislazione del Regno, alla definizione delle politiche pubbliche nelle quali si identifica uno Stato democratico e liberale dei nostri tempi.
Paghiamo ancora oggi quella lontananza dei cattolici dal pensiero democratico liberale che ha animato lo spirito unitario del Risorgimento, nel quale sono confluiti significativi apporti del più vasto pensiero politico laico e religioso, da Mazzini a Gioberti, compresi quanti avevano visto con favore che il papalino Generale Durando si fosse schierato, nel marzo del 1848, a fianco dei piemontesi del Re Carlo Alberto contro l’imperial regio esercito austro-ungarico.
28 febbraio 2016

·        Dalla presentazione del 12 febbraio 2016 al Circolo dell’Unione di Bari

Circolo di Cultura ed Educazione Politica
“REX”
68° Ciclo di Conferenze      

Domenica 28 febbraio 2016 ore 10.45
Roma Via Marsala 42
Casa Salesiana San Giovanni Bosco, Sala Uno nel Cortile

Conferenza del Prof. Don Ennio Innocenti
sul tema:
“Stato e Chiesa sorpresi ed impreparati alla Grande Guerra”

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Ingresso libero

Italia 1915-1918: l’economia e la finanza.
Riflessioni su una guerra
che doveva durare poco
di Salvatore Sfrecola

C’è un dato che accomuna un po’ tutte le guerre, la previsione, alla vigilia, che sarebbero durate e costate poco. Così la prima guerra mondiale, così la seconda. Previsioni basate, nel 1914, sull’esperienza delle guerre dell’Ottocento, tutte di pochi mesi, al massimo un anno. Nel 1866 da guerra dell’Italia e della Prussia contro l’Austria, iniziata a giugno, era finita ad agosto. In precedenza la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, aveva impegnato gli eserciti da aprile a luglio, la prima (1848) da marzo ad agosto. Tutte guerre combattute con l’impiego di molti uomini a piedi ed a cavallo e un po’ di artiglieria da campagna.
Nel frattempo la guerra era cambiata. In America, la guerra di secessione aveva visto in campo in modo massiccio una nuova arma, la mitragliatrice, che aveva decretato la fine della cavalleria e degli assalti all’arma bianca, tipici delle guerre napoleoniche. Contemporaneamente ad un impiego sempre più massiccio dell’artiglieria non più solamente ippotrainata ma trasportata da treni dai quali spesso era utilizzata per colpire le linee nemiche e, ove possibile, da pontoni, lungo i fiumi ed in vista delle coste.
In quella guerra aveva esordito anche il mezzo aereo, sia pure in forma di mongolfiere, per scrutare dall’alto l’esercito avversario e così indirizzare il tiro dell’artiglieria ed il dispiegamento dei reparti. Un uso che aveva sperimentato anche il Corpo di spedizione italiano in Libia nel 1911.
Ma, si sa, spesso si dimentica presto.
Solamente inglesi e tedeschi avevano previsto una strategia di più ampio respiro, peraltro prevalentemente marinara, tanto da attuare già da anni un progressivo potenziamento della flotta, i primi per garantirsi il controllo del mare ai fini dei necessari approvvigionamenti di materie prime e di derrate alimentari, i secondi per isolare il Regno Unito ed impedire quegli approvvigionamenti. Intanto, gli uni e gli altri, più di Francia e Italia avevano potenziato le industrie metalmeccaniche nazionali nei settori strategici a fini militari e civili, anche per non dipendere dall’estero, in particolare da paesi che potevano schierarsi dalla parte opposta.
Inoltre doveva essere evidente ai governi europei che la guerra, com’era accaduto in America, non sarebbe stata alimentata da requisizioni nei territori occupati e dal bottino, cui tutti erano ricorsi in passato, ma avrebbe richiesto un rilevante impegno finanziario a causa dell’esigenza di sviluppare un’industria degli armamenti sempre più costosa, e misure, anche di carattere tributario, per acquisire le risorse necessarie, regolare l’economia in genere e venire incontro alle esigenze della popolazione civile.
La guerra dunque era cambiata nel 1914, ma pochi se ne erano accorti negli stati maggiori e nei governi. Con la conseguenza che un po’ tutti gli eserciti entrarono nel conflitto con una preparazione assolutamente inadeguata, quanto all’armamento individuale e dei reparti, all’abbigliamento, ai mezzi di trasporto divenuti essenziali, a cominciare dai treni. In Italia solamente la Marina, comandata dall’Ammiraglio Thaon di Revel aveva adottato mezzi nuovi e studiato strategie adatte al prevedibile conflitto. Si penso all’uso del M.A.S., il motoscafo antisommergibile, che infliggerà pesanti perdite all’imperial regia marina austro-ungarica.
L’impreparazione degli eserciti è apparsa palese, fin dai primi mesi di guerra, sui campi di battaglia francesi che presto si coprirono dei corpi dei fantaccini, ancora con le divise blu e rosse dell’800, falciati dalle mitragliatrici tedesche che non avevano difficoltà ad individuare le uniformi colorate di soldati che, tra l’altro, non avevano ancora un elmetto.
Se i generali francesi erano rimasti all’Ottocento ed alle tattiche che in quelle battaglie ancora si giustificavano, anche il nostro Comando supremo non aveva percepito le novità, tanto che Cadorna, il 25 febbraio del 1915, teorizzava con la circolare 191 assalti all’arma bianca e il successivo impiego della cavalleria (sarebbe divenuto un volumetto do sessantadue pagine dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”). Con il risultato di quelle inutili carneficine delle quali impietosamente ci danno conto i filmati dell’epoca, stragi assurde davanti ai reticolati presidiati dalle mitragliatrici. Come nel famoso film “Orizzonti di gloria” con Kirk Douglas, un bravo colonnello francese costretto da un generale incapace ad assaltare una collina irta di mitragliatrici tedesche.
Sul campo, tuttavia, rifulge il sacrificio e l’eroismo dei combattenti e, impietosamente, è sempre più evidente l’inadeguatezza del Comando supremo fino alla rotta di Caporetto (24 ottobre 1917) la cui responsabilità Cadorna cercò di addebitare ai soldati (“Gli uomini non si battono, non hanno abbastanza slancio”). Il governo lo corresse e il bollettino fu modificato (“La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni reparti della Seconda armata?). L’8 novembre 1917 il Re ne chiese le dimissioni.
Abbiamo ancora memoria dei nomi e del ruolo dei comandati delle armate schierate e delle divisioni sotto l’occhio vigile di Vittorio Emanuele III, che per questa sua costante presenza al fronte si è guadagnato l’appellativo di “Re soldato”. Del quale ricordiamo anche la determinante presenza a Peschiera dove rivendicò il valore dei “suoi” soldati dinanzi agli alleati perplessi sulla nostra capacità di resistenza dopo la crisi dell’ottobre 1917.
Con il nuovo Comandante cambia tutto. Armando Diaz si mostra subito un generale moderno, capace e attento alle esigenze dei suoi uomini, al loro armamento, al vestiario, al morale, in continua intesa con il Re (che con Cadorna aveva avuto un rapporto solo formale) e con le autorità politiche a Roma. Riuscirà presto a riordinare i reparti ed a definire nuove modalità di impiego portando le armi italiane alla vittoria. Non a caso Diaz è stato paragonato all’americano Eisenhower, un grande organizzatore che consentirà, nella seconda guerra mondiale, alle armate angloamericane di imprimere una svolta decisiva al conflitto dopo quattro anni di combattimento organizzando lo sbarco di centinaia di migliaia di uomini e migliaia di mezzi in Normandia.
All’esordio delle operazioni militari nel maggio del 1915 l’esercito aveva scontato antiche e più recenti trascuratezze e la disattenzione dei governi. Significativa, al riguardo, una considerazione di Luigi Einaudi: “era mancato un Cavour”. Colui che aveva preparato il piccolo Piemonte alla occorrenza, potenziando l’esercito, l’industria militare e le comunicazioni, senza trascurare l’intera economia del Regno di Sardegna e il benessere delle popolazioni.
Infatti, l’economia di guerra, quella strategia economico-finanziaria che prende in considerazione tanto il finanziamento delle spese militari quanto le esigenze della popolazione civile, è parte dell’economia generale e assume il complesso delle iniziative occorrenti in un difficile, ma necessario, impegno di un’intera Nazione. Anzi immagina per tempo ogni tipo di esigenza, anche curando l’industria di più agevole adeguamento alle esigenze dell’impegno militare, così preparando un intero paese a soddisfare i bisogni delle sue forze armate mediante la loro organizzazione secondo le esigenze di tempo e di luogo, dal vestiario all’armamento, avendo presenti le tecniche di combattimento note e quelle prevedibili sulla base della evoluzione dell’industria degli armamenti e meccanica. Tenendo presente che prevedibilmente la guerra avrebbe richiesto importanti innovazioni tecnologiche e l’uso di mezzi di trasporto nuovi. Sia per le truppe che per il traino dei cannoni. Anche le ferrovie entreranno, dunque, nel conflitto per le esigenze degli approvvigionamenti di materiale bellico, di sostentamento delle truppe e assistenza (si pensi ai treni ospedale) e della popolazione civile.
Economia di guerra significa, infatti, “preparare animi e mezzi, fin dal tempo della pace” (G. Stammati), immaginando ed adottando all’occorrenza e con i tempi utili un complesso di misure volte a finanziare l’impegno militare attraverso prestiti, interni ed internazionali, ed imposte, per acquisire risorse e regolare i consumi privati, in alcuni casi attraverso calmieri in relazione alle esigenze delle popolazioni cittadine e delle campagne.
Nulla, invece, era stato pianificato, pur essendo già allora evidente che era tramontato per sempre il tempo nel quale le guerre si sostenevano con limitate risorse materiali, finanziate prevalentemente con le entrate fiscali.
Pesarono sui ritardi nella preparazione alla guerra la debolezza del governi e l’incertezza delle maggioranze parlamentari.
Illuminanti, in proposito, le parole di Antonio Salandra, il Presidente del Consiglio che preparò l’ingresso dell’Italia in guerra (nel suo libro L’intervento) il quale descrive, con accurato puntiglio, l’affannosa ricerca del necessario al momento della mobilitazione. La insufficiente dotazione di mezzi di ogni genere, dal vestiario agli armamenti, in una condizione dell’industria italiana di grande arretratezza. In particolare, l’Italia era dipendente dall’estero per l’artiglieria, che veniva fornita dalla tedesca Krupp, ma anche per bende e medicinali per il Servizio Sanitario, oltre che per il frumento. Mancavano medici e infermieri, esigenze in parte soddisfatte dalla Croce Rossa Italiana e dalle unità del Sovrano Militare Ordine di Malta. Mancavano ingegneri ed architetti per l’artiglieria da fortezza, per il genio e per gli stabilimenti di costruzioni e riparazioni. Mancavano i cavalli per la cavalleria e per il trasporto dei cannoni. Dovemmo comprarli negli Stati Uniti, con non poche difficoltà nel trasporto.
Tuttavia va dato atto che il Paese si è poi mobilitato con grande impegno, attuando un’enorme riconversione industriale (nel 1917 la produzione dell’Italia in alcune categorie di armi era già diventata imponente scrive D. Stevenson, La Grande Guerra, Corriere della Sera, 2014, Vol. I, 392). In quel contesto emersero “uomini politici, alti burocrati e imprenditori in grado di trovare soluzioni per problemi del tutto nuovi” (La Banca d’Italia e l’economia di guerra 1914-1919).
La guerra ha avuto da subito un costo elevato. Per ogni arma, per ogni pallottola o bomba. Il soldato doveva essere pagato, anche se poco, vestito e nutrito e trasportato avanti e indietro dal fronte; curato, se ferito o malato. Alle famiglie dei soldati erano assegnate indennità, gli invalidi e le vedove avevano bisogno di sostentamento, come le migliaia di rifugiati. Poiché per fortuna gran parte della popolazione viveva sopra il livello minimo di sussistenza poté essere dirottata dagli scopi civili a quelli militari una maggiore percentuale delle entrate pubbliche rispetto alle guerre precedenti.
Il costo della guerra non ebbe un andamento uniforme durante i quattro anni del conflitto. Nel 1915 le spese belliche furono pari, grosso modo, all’aumento del prodotto interno lordo. Il 32 nel 1916, il 40 nel 1917, il 46 nel 1918.
Il totale delle spese raggiunse, dall’esercizio 1914-15 al 1918-19, 75.707 milioni di lire a prezzi correnti e il debito 51.471 milioni (68,0 per cento del totale dell’incremento delle risorse finanziarie), a fronte di 12.312 milioni di lire per le entrate tributarie pari al 16,3 per cento delle risorse finanziarie. Il 15,8 per cento ha riguardato la circolazione di Stato e la circolazione bancaria a favore dello Stato.
L’indebitamento interno ed estero fornì circa i due terzi delle nuove risorse necessarie. Si ricorse per la sottoscrizione anche a sollecitazioni morali. Einaudi si chiedeva “chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria?” Fu convogliato sui prestiti circa il 30% del reddito nazionale.
L’Italia chiese un prestito di 50 milioni di sterline sulla piazza di Londra, una somma limitata, perché il Governo non voleva che si indebolisse il nostro potere contrattuale nei negoziati territoriali che, definiti nel memorandum di Londra, dovevano essere confermati al momento della pace.
 “Troppi furono gli errori inutili e le improvvisazioni”, è il lapidario giudizio di Einaudi, in materia economica e finanziaria. Tardive e a volte confuse, soprattutto le scelte fiscali, spesso con effetti nulli o contrari a quelli programmati. Come per le imposte sui sovraprofitti di guerra, che favorirono la creazione di impianti inutili e spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile.
Non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte e si dovette perciò ricorrere all’emissione di carta moneta, il metodo più semplice. Una scelta che apparentemente non costa nulla, almeno immediatamente, allo Stato. Ma fu la causa del deprezzamento della lira. La circolazione passò, infatti, dal 1914 al 1918 da 2 a 12 miliardi, con un tasso di inflazione che fu tra i più alti dei paesi belligeranti.
Altre misure furono azzardate. Come il dazio sul frumento, inutile dovendosi utilizzare in farina. E fu abolito. Poi il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento ritenne di dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico, con perdita per l’erario.
Dalla parte della domanda le spese ingenti dello Stato determinarono una maggiore offerta di beni necessari alla guerra, che si traducessero in maggiori salari e maggiori profitti dei produttori e in maggiori interessi dei risparmiatori, e maggiori prezzi.
Ne risentirono le condizioni di vita delle popolazioni che peggiorarono progressivamente, per l’inflazione che falcidiava stipendi e salari e innalzava il costo della vita (già alla fine del 1916 i prezzi dei generi alimentari di prima necessità erano cresciuti del 50%). Le condizioni materiali differivano a seconda che la popolazione risiedesse nelle città o nelle campagne, dove, a prezzo di non pochi sacrifici, i membri delle famiglie contadine riuscirono a supplire ai vuoti lasciati da coloro che erano partiti per il fronte ed a non far diminuire di molto il precedente tenore di vita, anche se i calmieri e le requisizioni a prezzi non remunerativi produssero ingenti danni ai produttori. La situazione era comunque diversa da regione a regione. Nel Sud le condizioni peggiorarono nettamente-anche per effetto dell’emigrazione
Nelle città il livello di vita era assai più basso a causa della carenza di prodotti e dell’aumento dei prezzi, per cui i consumi crollarono drasticamente, soprattutto a partire dal secondo anno di guerra. Tra il 1917 e il 1918 in alcune città le quantità di pane furono ridotte anche sotto il 200 grammi al giorno. Aumentarono la mortalità infantile e le malattie polmonari. Diminuì la natalità. Le condizioni di vita si avvicinarono pertanto più a quelle degli imperi centrali, ridotti quasi alla fame dal blocco navale della flotta britannica, che non a quella dei paesi alleati occidentali.
Delle difficili condizioni di vita nelle città risentirono fortemente anche le classi medie il cui tenore di vita si livellò verso il basso, per avvicinarsi sempre più a quello di alcuni settori specializzati della classe operaia. Peggiorarono le condizioni dei professionisti, molti dei quali videro fortemente ridotta la propria attività, e le cui famiglie, in caso di richiamo al fronte, dovevano accontentarsi di una retribuzione il cui livello, per gli ufficiali di complemento, rimase sempre assai basso. Furono, invece, favoriti dall’economia di guerra industriali e commercianti che si giovarono del repentino aumento dei prezzi (oltre che, non di rado, delle opportunità di guadagno attraverso il mercato nero). Naturalmente non mancarono gli illeciti arricchimenti di industriali senza scrupoli, frodi e corruzione.
Quanto alla condizione della classe operaia, sebbene l’accresciuta richiesta di lavoro avesse assicurato un salario certo, le retribuzioni rimasero sempre molto basse e falcidiate nel potere d’acquisto.
La necessità di manodopera portò nelle fabbriche e nei servizi le donne che alla fine della guerra raggiunsero quasi le 200.000 unità. È famosa nell’iconografia di quegli anni la guidatrice tram. Importante, altresì, l’opera di assistenza attuata nelle città dai comitati femminili.
L’atteggiamento popolare verso la guerra, dopo un primo periodo di tranquillità grazie al riassorbimento totale della disoccupazione, mutò con l’approssimarsi dell’inverno 1916. Tutta la penisola fu interessata da una serie di manifestazioni popolari, a cominciare dalle campagne, protagonisti le donne, i vecchi ed i ragazzi, quasi sempre per motivi contingenti, dal ritardo nella devoluzione del contributo statale alla mancanza di pane, più tardi alle requisizioni. Alcune manifestazioni furono violente: scontri con le forze dell’ordine, saccheggio di forni o altre forme di ostilità nei confronti del governo, come aggressioni alle case dei notabili e invasioni di municipi.
Dopo Caporetto ed un primo smarrimento il Paese reagì con grande impegno. La “cura Diaz” ristabilì fiducia tra soldati e popolo e l’effetto fu evidente ben presto. L’esercito riprese i territori abbandonati sotto la spinta degli austro-tedeschi e giunse Vittorio Veneto.
15 febbraio 2016

·    Dalla conferenza tenuta al Circolo di cultura ed educazione politica Rex il 14 febbraio 2016

Circolo di Cultura ed Educazione Politica
“REX”
68° Ciclo di Conferenze

Domenica 14 febbraio 2016 ore 10.45
Roma Via Marsala 42
Casa Salesiana San Giovanni Bosco,
Sala Uno nel Cortile

Conferenza del Prof. Salvatore Sfrecola
sul tema:

“Italia 1915-1918:
 l’economia e la finanza di guerra”

***
Ingresso libero

Il “conflitto di interessi” dal Regno d’Italia alla Repubblica,
da Quintino Sella a Maria Elena Boschi
di Salvatore Sfrecola

Il tema del “conflitto di interessi” ricorre di frequente nella polemica politica e giornalistica per additare all’attenzione dell’opinione pubblica situazioni che si ritengono contrarie all’interesse primario dell’esercizio di pubbliche funzioni quando, in forme diverse, le autorità politiche e/o amministrative non sarebbero potenzialmente neutrali in vista di decisioni con effetti su realtà economiche pubbliche e private.
Diciamo subito che di conflitto di interessi si può parlare in rapporto alle norme che lo disciplinano, la legge 20 luglio 2004, n. 215 (c.d. legge Frattini, dal Ministro della funzione pubblica che aveva presentato il relativo disegno di legge) ed il decreto legislativo 8 aprile 2013, numero 39, che detta norme anticorruzione in materia di pubblico impiego. Al fine di valorizzare quella che viene chiamata “cultura dell’integrità”, attraverso l’applicazione di valori, principi e norme nelle attività quotidiane delle organizzazioni pubbliche che vanno anche oltre l’attuazione delle misure anticorruzione. In proposito, la Commissione ministeriale (della pubblica amministrazione) ha rimarcato che l’integrità “costituisce… un principio che sottende tanto le politiche di prevenzione della corruzione quanto le misure di etica pubblica, quali, ad esempio, i codici di condotta, le discipline della stabilità, incompatibilità e ineleggibilità, i limiti al conflitto di interesse”. Con la conseguenza che le norme presenti nell’ordinamento costituiscono un sistema di misure finalizzate anche ad incidere in quelle aree “grigie” che, pur non giungendo a situazioni di illegalità, vengono normalmente considerate come moralmente inaccettabili e potenzialmente idonee a degenerare in pratiche corruttive. Da questo punto di vista il conflitto di interessi “percepito” dall’opinione pubblica, come avviene per la corruzione, va molto al di là delle fattispecie espressamente previste dalla legge, perché la sensibilità della gente su questi temi è particolarmente acuita da una diffusa diffidenza nei confronti della politica.
Ne dà dimostrazione il dibattito parlamentare e giornalistico sulla vicenda di Banca Etruria e sul comportamento tenuto dal Ministro per le riforme e i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, in ragione della circostanza che il padre della stessa era, al momento della crisi dell’istituto di credito, vice presidente. Nessuna incompatibilità normativamente percepibile. Tuttavia il fatto che un membro del governo si sia assentato nel corso di un Consiglio dei ministri destinato ad adottare misure tese a salvare la banca, insieme ad altre nelle stesse condizioni di crisi, se può soddisfare una valutazione di stretta legalità costituisce, agli occhi dei cittadini, certamente una situazione quanto meno inopportuna per chi è titolare di una altissima funzione governativa. Infatti l’espediente di assentarsi nel corso di un Consiglio dei ministri che discute, per adottarle, misure in favore di un istituto di credito al cui vertice siede il familiare di un ministro evidentemente non soddisfa quelle ragioni di etica istituzionale che debbono presiedere all’esercizio di una funzione pubblica. In ragione della circostanza che il ministro, temporaneamente assente, è comunque partecipe di una riflessione comune ai membri del Gabinetto che si realizza attraverso l’adozione di quelle misure di sostegno alle banche che formalmente non approva.
Ugualmente è stata oggetto di attenzione, da parte del Fatto Quotidiano, citiamo dal titolo del 5 febbraio, la vicenda dell’ex Amministratore di EXPO’, oggi candidato Sindaco di Milano: “Sala e il vicesindaco che gli dà le varianti e poi gli fa la villa”. Si parla della ditta di Michele Sacco, numero due in comune a Zoagli fino al 2014. Il figlio, Assessore al patrimonio, dice: “Uno che costruisce non può stare in politica?” Certo che può stare in politica, ma ne trarrebbe solamente un danno in quanto dovrebbe astenersi ogni volta che la sua attività politica sfiora, anche indirettamente, gli interessi professionali propri o della categoria di appartenenza, cioè assai spesso. E se sta in politica – pensa la gente – è perché sa di poterne trarre qualche vantaggio, quanto meno in termini di conoscibilità che, anche quando non illecito, è pur sempre un interesse che può collidere con decisioni assunte o da assumere nell’interesse della Comunità amministrata: siano di carattere fiscale, urbanistico o dirette alla disciplina del commercio.
È materia, questa, molto delicata che in altri ordinamenti, fortemente permeati di valori etici, non danno neppure luogo a discussione. Chi si trova in una situazione anche solamente “imbarazzante” non entra in politica e se il conflitto è sopravvenuto, normalmente deve abbandonare l’incarico pubblico. Un imbarazzo che può nascere dall’attività professionale, oltre che propria  di un coniuge o di un parente stretto. O dal possesso di importanti partecipazioni in attività imprenditoriali che forniscono beni o servizi per le amministrazioni o gli enti pubblici. In genere è considerato in potenziale conflitto chiunque è titolare di una rilevante attività imprenditoriale perché facilmente si trova a decidere di questioni che direttamente o indirettamente lo interessano. E questo è sempre più evidente a mano a mano che si sale nelle responsabilità do governo della cosa pubblica, dal comune alla regione allo stato.
Così accade dappertutto nei paesi ad elevata moralità pubblica, così accadeva all’inizio dello Stato nazionale. In proposito vale la pena di riandare ad un episodio che ha riguardato un famoso Ministro delle finanze del Regno d’Italia, Quintino Sella, proprio al momento di decidere sulla richiesta di entrare a far parte del governo. Siamo nel 1862, Presidente del Consiglio incaricato è Urbano Rattazzi. Quintino Sella, ingegnere idraulico a venti anni, presto professore di geometria applicata e mineralogia a Torino, poi di matematica, una passione per i minerali dei quali sarà un  esperto internazionalmente riconosciuto, appartiene ad una potente famiglia piemontese, attiva nel biellese nel settore della lavorazione della lana fin dal 1600, impegnata nell’800 in una significativa meccanizzazione del settore. In seguito avrà un istituto bancario ancora oggi di rilievo, la Banca Sella. Insomma attività industriali per le quali la famiglia aveva vinto gare di appalto per l’attribuzione di commesse pubbliche. Accade dunque che, richiesto dal Presidente del Consiglio di entrare a far parte del governo come Ministro delle finanze (lo sarà per tre volte con alcuni intervalli fino al 1873) il giovane Quintino (classe 1827, aveva, dunque, 35 anni) abbia indirizzato al nonno, il patriarca della famiglia, una lettera nella quale gli chiedeva un consiglio se accettare l’incarico ministeriale  facendo presente che, in caso di accettazione, dal momento del giuramento le imprese di famiglia avrebbero dovuto ritirarsi dagli appalti pubblici. La risposta del nonno è esemplare. Per la famiglia l’incarico di ministro del Re sarebbe stato un grande onore e conseguentemente dal giorno del suo giuramento le imprese di famiglia si sarebbero ritirate dagli appalti pubblici.
È stato un grande Ministro delle finanze, esponente di primo piano della Destra storica, anche se conosciuto dai più per l’aumento delle imposte e, in particolare, di quella, odiosa, sul macinato. Il Ministro che ha portato al pareggio il bilancio dello Stato e immaginato ed avviato un grande progetto di investimenti pubblici utili allo sviluppo economico e sociale del Paese, tanto da essere definito un keynesiano ante litteram.
Successivamente qualche polemista, tra quanti amano denigrare il proprio Paese “a prescindere” dalle vere responsabilità, una genia mai scomparsa, ebbe a definire “italietta” quella che visse il difficile avvio dell’unità d’Italia, che portava sotto un unico governo realtà storiche, culturali ed economiche tanto diverse con problematiche antiche e pesanti, come dimostra la realtà di molte regioni meridionali le quali pure avrebbero avuto la possibilità di raggiungere condizioni di benessere in relazione al valore economico dell’agricoltura, dell’industria di trasformazione, dell’immenso patrimonio ambientale oltre che storico artistico che una intelligente valorizzazione sarebbe stata capace di sfruttare in termini di ricchezza per le imprese e di occupazione. Basti pensare che oggi la Regione siciliana a statuto speciale, anzi specialissimo, vive in condizioni non molto distanti da quelle del tempo del Principe di Salina, che tutti conosciamo attraverso Il Gattopardo, lo straordinario romanzo storico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Duole veramente che, per rimarcare l’esigenza di una gestione corretta del potere, si debba tornare indietro negli anni per individuare personalità della politica integerrime per le quali il sacrificio di carriere e ricchezze per servire lo Stato era la regola. Una regola non giuridica, di quelle che i cittadini onesti sentono istintivamente come necessarie e logiche. Il politico, l’amministratore pubblico devono farsi da parte quando le funzioni esercitate sfiorano situazioni nelle quali il fare o il non fare influenzano i mercati e/o la gestione e l’economia delle imprese. Per cui non è sufficiente, come si legge nell’art. 2 della legge n. 215/2004, definire come incompatibile la posizione di un titolare di cariche governative con l’assunzione di impegni all’interno di Consigli di Amministrazione, di amministratore delegato o direttore generale, e più in generale di svolgere l’attività di imprenditore. Fino al sostanziale divieto ad esercitare il diritto di voto in assemblea nel momento in cui il governante sia socio di un’impresa. Né che (art. 3) il conflitto d’interessi sia definito in rapporto ad un’incidenza, derivante da un atto od omissione del soggetto, sul proprio patrimonio, su quello del coniuge, o su quello dei parenti entro il secondo grado, con danno per l’interesse pubblico.
Infatti il testo è stato duramente criticato anche sotto il profilo punisce il conflitto d’interesse, senza però prevenirlo.
Secondo alcuni pareri i principali punti di criticità sono rappresentati dal fatto che la legge non prevede l’ineleggibilità di un soggetto in potenziale conflitto di interessi, ma solamente l’incompatibilità nell’assumere incarichi differenti da quelli di governo, o nell’adottare atti od omissioni da cui deriverebbe “un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio”.
Quest’ultimo aspetto è definito come conflitto d’interessi solo quando da un atto od omissione deriverebbe un “danno per l’interesse pubblico”. Inoltre un secondo punto di particolare problematicità risiede nel fatto “che la legge 215 non ricomprende la “mera proprietà” di un’impresa né tra le ipotesi di incompatibilità né tra le ipotesi di conflitto di interessi”.
Un altro argomento di critica è rappresentato dalla determinazione del “danno per l’interesse pubblico”, valutazione sostanzialmente politica che è arduo definire in termini di consentano un’efficace intervento dell’Autorità giudiziaria.
8 febbraio 2016

Presentato oggi all’Istituto Sturzo
Libro intervista di Pino Nano
 ad un Grand Commis
Giuseppe Borgia, una vita al servizio dello Stato
di Salvatore Sfrecola

Si legge tutto d’un fiato questo libro-intervista di Pino Nano a Giuseppe Borgia, uomo delle istituzioni, un Grand Commis dello Stato, come si usa dire con un accettato francesismo che ricorda i fasti dell’amministrazione napoleonica e dell’ENA, scuola prestigiosa di funzionari e politici che hanno fatto la storia di Francia. Lo presentano oggi a Roma, nella sala Perin del Vaga dell’Istituto Sturzo, in via delle Coppelle, 35, alle 17.00, Nicola Antonetti, Presidente dell’Istituto, con Gianni Letta, Flavia Nardelli, Antonio Catricalà e Francesco Malgeri. Concluderà lo stesso Autore.
Quella di Giuseppe Borgia è una storia personale e professionale non comune, come sottolinea Pino Nano riandando alle conversazioni nel corso delle quali è stato costruito il libro. La cosa più bella, scrive il giornalista “che mi porterò sempre dentro, è la determinazione con cui quest’uomo di Stato mi ha parlato per mesi e mesi della vita, dell’amicizia, della lealtà, della riconoscenza, del rispetto, della Ragion di Stato, della Chiesa, della fede, della crisi dei valori, dei fallimenti della politica, del coraggio delle idee della libertà dal bisogno, della semplicità della gente comune, ma anche del fascino misterioso della morte”.
Nel libro si intrecciano ricordi personali, a cominciare da quelli vissuti nella patriarcale comunità della sua infanzia, tra San Procopio e Palmi, dove la famiglia si trasferisce al momento degli studi medi dei ragazzi Borgia, una scelta necessaria in quanto nella cittadina dell’Aspromonte, la terra di uno dei più bei romanzi di Corrado Alvaro, mancavano appunto le scuole superiori. Di questa stagione della sua vita Giuseppe Borgia ricorda il rapporto col padre, “una presenza forte”, e della madre, “la regina del nostro mondo, e della nostra casa”. Ricordi tenerissimi, come quelli dei nonni “il passato, il presente e il futuro di ogni famiglia patriarcale”, un sentimento comune a tutti coloro i quali credono nella famiglia, nei suoi valori civili e spirituali, nella sua storia, di sentimenti e di esperienze professionali, spesso ricorrenti nelle “buone famiglie”, quelle che un tempo identificavano la “nobiltà di toga”.
Terminati gli studi medi il giovane Giuseppe attraversa lo Stretto per ascoltare le lezioni dei più grandi docenti della prestigiosa Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina dove insegnavano Salvatore Pugliatti, Angelo Falzea, civilisti eccelsi, e Temistocle Martinez, uno dei più grandi costituzionalisti del tempo. Ne esce con un bel 110 e lode e tanta voglia di affidare allo Stato il suo impegno professionale, nel nome della legalità, alla quale l’aveva educato il padre, insegnante, con la passione per il suo lavoro. Giuseppe Borgia “sale”, come dicono i suoi conterranei, nella Capitale. Aveva pensato in un primo tempo di rivestire la toga dell’avvocato. Indosserà in seguito quella di Consigliere della Corte dei conti. Poi l’occasione del bando di selezione dell’Istituto “Luigi Sturzo” per dei corsi di specializzazione in sociologia, che, non lo nega, lo attira perché “avrebbe potuto diventare un trampolino di lancio per il mio futuro”. In tutti i sensi, perché l’incontro con Luigi Sturzo, Gabriele de Rosa e Guglielmo Negri consolida la sua formazione culturale e spirituale, soprattutto nei colloqui con il sacerdote di Caltagirone, una icona del cattolicesimo liberale. Il corso si conclude con una tesi sulla vita e la storia di Giuseppe Toniolo, il grande economista e sociologo cattolico seguito e stimato da Leone XIII. E poi l’incontro, nelle aule dell’Istituto Sturzo, con la donna della sua vita, Piera Rapelli, alla quale Borgia riserba tenerissimi ricordi di affetti sempre attuali. Figlia di Giuseppe Rapelli, Costituente, cattolico, grande esponente sindacale, vicepresidente della Camera dei deputati, con Piera è veramente un consortium totius vitae. Sembra quasi la storia dell’unità d’Italia, il giovane calabrese e la giovane piemontese si incontrano per formare una famiglia, per allevare i figli, giornalisti dei quali Giuseppe Borgia parla con non celato orgoglio.
Inizia così la sua carriera amministrativa che passerà attraverso gli incarichi più prestigiosi delle pubbliche amministrazioni, l’Ufficio studi della Cassa per il mezzogiorno, diretta dal professor Giuseppe Di Nardi, un eminente economista. Poi gli enti mutualistici al Ministero del Lavoro, alla sanità, direttore generale dell’Istituto di previdenza degli operatori agricoli, chiamato dal ministro De Michelis, la Direzione generale della previdenza, dove collabora con il ministro Tiziano Treu e con il Presidente del consiglio Lamberto Dini alla riforma previdenziale del 1996. Quindi il prestigioso incarico di Provveditore Generale dello Stato.  Infine la nomina a Consigliere della Corte dei conti, poi a componente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici di servizi e forniture (AVCP), prima della sua incorporazione nell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
Giuseppe Borgia presenta una straordinaria vicenda umana e professionale in un libro da leggere e da meditare, perché la storia di quest’uomo ci porta, attraverso il ricordo delle sue esperienze professionali e del rapporto con grandi personalità dello Stato (i suoi ricordi sono un annuario di personalità della Prima e della Seconda Repubblica, da Giulio Andreotti a Flaminio Piccoli, a Carlo Azeglio Ciampi ad Antonio Marzano, Giorgio Napolitano, Oscar Luigi Scalfaro, Clemente Mastella, Corrado Calabrò, Paolo Salvatore, Franco Frattini, Federico Tedeschini, per citare qualcuno) a conoscere amministrazioni ed enti pubblici, ad apprezzarne il ruolo, a capire come si opera al loro interno. Anche quando Borgia indica soprattutto “come si dovrebbe”, lui rigido cultore della legalità e dell’efficienza. Un libro da meditare perché nelle varie esperienze amministrative e gestionali che hanno contraddistinto la carriera di Giuseppe Borgia si individua uno spaccato delle pubbliche amministrazioni con le loro luci e le loro ombre, tra personalità di grande spessore professionale e culturale e mezze maniche. È una storia professionale unica, perché raramente un pubblico funzionario ha conosciuto tante realtà diverse in posizione di elevata responsabilità, alla direzione di importanti strutture amministrative o quale collaboratore, come consigliere giuridico o capo di gabinetto, di ministri che Giuseppe Borgia ricorda con simpatia e stima e non nascosta nostalgia per quella classe politica della cosiddetta “Prima Repubblica” che ha ricostruito l’Italia dopo le distruzioni della guerra e l’ha portata ad un grado di elevato benessere. Quella prima Repubblica nella quale le autorità politiche sapevano apprezzare le doti dei migliori funzionari, la loro cultura giuridica professionale, l’esperienza e le capacità di esprimere al meglio il ruolo istituzionale al quale erano destinati.
Leggendo l’intervista a Borgia, che si differenzia da tutte le altre per la dovizia di particolari e la capacità di interessare e di comprendere ciò che sta a cuore al cittadino-lettore, impariamo a conoscere le doti che devono caratterizzare un Grand Commis, al di là della preparazione professionale specifica, requisito minimo per questi ruoli, la capacità di coinvolgere i propri collaboratori facendo intravedere loro l’obiettivo della buona amministrazione. Questo è, dunque, un libro che dovrebbero leggere tutti i dipendenti pubblici, un libro che insegna a lavorare, a interloquire con altre amministrazioni ed enti, a gestire, e anche a comandare, perché l’arte del comando non può essere disgiunta dall’esempio e da quel tratto signorile che Borgia ci presenta nel ricordare episodi della sua vita professionale. Non gli si poteva dire di no, sia che parlasse a nome di uno dei tanti ministri con i quali ha collaborato nelle varie amministrazioni, sia che preparasse con esponenti dei partiti e dei sindacati quelle riforme che ha contribuito a disegnare nel settore del lavoro.
Lo conosco da anni. Con lui spesso ho riflettuto sul pubblica amministrazione e sulle istituzioni in genere, comprese le magistrature. Spesso partendo dalle ombre che a noi appaiono lesive, gravemente lesive, dell’immagine dello Stato e dei suoi dipendenti. Perché noi riteniamo che il pubblico funzionario sia effettivamente al servizio esclusivo della Nazione e ci rammarichiamo quando l’inefficienza e il mancato rispetto delle leggi, da parte di alcuni, oscurano agli occhi dei cittadini il ruolo super partes dell’amministrazione, strumento del buon governo, nell’interesse della comunità nazionale.
4 febbraio 2016

Circolo di Cultura ed Educazione Politica
“REX”
68° Ciclo di Conferenze

Domenica 7 febbraio 2016 ore 10.45
Roma Via Marsala 42
Casa Salesiana San Giovanni Bosco,
Sala Uno nel Cortile

Conferenza dell’avvocato Benito Panariti
Presidente Emerito del Circolo sul tema:

” Donne italiane nella Grande Guerra”

***
Ingresso libero

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