La revisione della Costituzione:
le parole e i fatti – 3
Per D’Alimonte serve una “conoscenza basata sui fatti”. Che poi ignora
di Salvatore Sfrecola
La premessa è pienamente accettabile: “per far vincere paura e strumentalizzazioni serve conoscenza basata sui fatti”. È il titolo della pagina che il Sole 24 Ore oggi dedica al dibattito sul referendum nella quale le ragioni del SÌ sono affidate a Francesco Clementi, quelle del NO a Valerio Onida. L’apertura è di Roberto D’Alimonte, politologo, che imposta il tema del dibattito “meno umori, più contenuti”. Come non si potrebbe essere d’accordo? Sennonché i veri contenuti, secondo D’Alimonte, sembrano essere riferiti più che altro a quello che la legge di revisione costituzionale non cambia “di una virgola”, i poteri del presidente del Consiglio, quelli del presidente della Repubblica, della Corte costituzionale. Perché “quello che la riforma fa è importante ma limitato. Cambia la composizione e il ruolo del Senato. Ridisegna i rapporti tra le regioni e lo Stato. Introduce nuovi meccanismi di democrazia diretta. Modifica la procedura per la scelta del presidente della repubblica”.
Poco importa se “poteva essere fatta meglio”, votata da “una maggioranza più ampia”. Insomma, “pur con tutti i suoi limiti” è “un passo avanti”, “dopo trenta anni e passa di immobilismo istituzionale”. Gli elettori “non dovranno decidere se questa è una riforma perfetta Non lo è”. Infine, “non è il metodo che conta”. “Meglio una riforma approvata a maggioranza che nessuna riforma”, tanto per rispondere a coloro che ritengono che, come nel 1947, la Costituzione – come ovunque nelle democrazie occidentali – debba essere approvata a larghissima maggioranza perché è la legge fondamentale dello Stato, quella nella quale gli italiani si devono poter riconoscere per anni, per decenni, come ovunque nel mondo dura una Costituzione.
Insomma D’Alimonte ripete oggi la tesi che porta avanti da tempo, “meglio questa che niente”, tradotto nel linguaggio comune. Di fronte all’immobilismo di oltre un trentennio (Renzi aveva provato a sostenere che la sua riforma era attesa da settant’anni, poi gli hanno spiegato che la Costituzione non aveva quella anzianità, per cui ha ripiegato su un minore lasso di tempo) qualcosa si doveva fare e quel qualcosa è la legge di revisione costituzionale che gli italiani dovranno leggere e capire per poi votare nel referendum. Che ho chiamato una “truffa”, perché il testo è complesso e non chiaro, tanto da non trovare concordi nella interpretazione neppure illustri giuristi. Pretendere che gli elettori possano decidere SÌ o NO con piena consapevolezza è una autentica presa in giro.
Non sconvolge il professore D’Alimonte che questa riforma “con tutti i suoi limiti” non è una leggina qualunque che è possibile modificare con un semplice emendamento in occasione del primo provvedimento normativo all’ordine del giorno di Camera e Senato. Questa è la Costituzione della Repubblica Italiana, la legge fondamentale degli italiani. Quella e questi meritano rispetto, il massimo rispetto. La Carta non si deve modificare nella consapevolezza della sua insufficienza e non si deve raccontare agli italiani che votarla non è “un attentato alla democrazia” perché nessuno l’ha detto. L’attentato, infatti, non è nella legge costituzionale ma nell’effetto che sul funzionamento delle istituzioni e sull’equilibrio dei poteri e sugli istituti di garanzia avrà la legge elettorale, quella giornalisticamente definita Italicum. E mi sono chiesto spesso perché mai si usi la lingua che a tutti ha insegnato il diritto per designare una legge a misura dell’interesse del partito oggi di maggioranza perché la mantenga, la consolidi e l’ampli per poter nominare ad libitum il Presidente della Repubblica, i giudici della Corte costituzionale, i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nella mancanza di contrappesi sta il pericolo per la democrazia, in Italia come ovunque negli stati costituzionali. Un pericolo che senza mezzi termini è evidente già oggi nell’impegno che in prima persona ha assunto Giorgio Napolitano (chiamato dai giornali “Re Giorgio”, senza pensare che quella espressione certifica la lesione della democrazia parlamentare) intestandosi la riforma e sostenendo financo che il prevalere del NO avrebbe sconfessato la sua eredità. Ma ci rendiamo conto di quel che significa questa intrusione del Capo dello Stato in iniziative che neppure il Presidente del consiglio avrebbe dovuto intestarsi, come insegnano da Calamandrei in poi coloro che distinguono tra le funzioni dei Governi e le attribuzioni del Parlamento.
Altro che umori, caro Professore D’alimonte, e non è vero che “non è il metodo che conta”. Perché quel metodo “ancor m’offende”. A cominciare dalla circostanza, non evocata nel Suo articolo, che a votare questa riforma della Costituzione è stato un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale per l’abnorme premio di maggioranza. Camere che avrebbero dovuto rimanere in carica il tempo minimo solamente per garantire la “continuità dello Stato”. E che, invece, resistono da due anni e mezzo e si permettono addirittura di riformare la Costituzione.
In qualunque altro paese democratico i cittadini sarebbero inorriditi. Altro che umori!
Dimenticavo, il Professore D’Alimonte è esperto di sistemi elettorali. Difende l’Italicum incurante dei sui effetti sulle istituzioni.
31 luglio 2016
Le ferie dei deputati e quelle dei magistrati: 40 a 30
di Salvatore Sfrecola
“Stremati dal lavoro”, come scrive Il Fatto Quotidiano oggi, i nostri parlamentari si prendono 40 giorni di ferie. In pratica torneranno al lavoro a metà settembre. Il giornale dà conto della produttività di alcuni deputati e senatori, delle loro assenze e della assiduità con la quale alcuni seguono i lavori parlamentari, si impegnano nelle discussioni e nella presentazione di iniziative legislative, mentre altri denunciano assenze superiori al 99%. E viene spontaneo richiamare quella vicenda, che ha occupato le cronache dei giornali due anni fa, sulle ferie dei magistrati che il Presidente del consiglio si era impegnato a ridurre, ed ha ridotto, secondo la sua tecnica di colpire in anticipo i suoi avversari o presunti tali.
In pratica, con questa vicenda delle ferie, che spiegheremo subito, il Presidente del consiglio ha voluto additare ai cittadini italiani i magistrati quali fruitori di un congedo feriale più lungo di quello degli altri lavoratori del pubblico impiego, in questo modo cercando di danneggiarne l’immagine agli occhi della gente che li avrebbe dovuto ritenere poco assidui. E probabilmente c’è riuscito, perché i giornali e le televisioni non hanno spiegato come stavano le cose.
In realtà i magistrati italiani hanno sempre avuto un periodo di ferie di 30 giorni, come tutti gli altri dipendenti pubblici. La legge precisava che i magistrati che sono addetti agli uffici giudiziari, cioè quelli che tengono udienza nei Tribunali, nelle Corti d’appello e in Cassazione, a differenza dei loro colleghi che prestano servizio al Ministero della Giustizia, usufruiscono di altri 15 giorni, periodo destinato alla redazione delle sentenze e degli altri atti giudiziari di competenza del magistrato.
Avviene, infatti, ma la gente non lo sa, che le udienze nei tribunali negli altri luoghi dove si amministra la giustizia si tengano fino alla fine di luglio, cioè immediatamente prima dell’inizio del periodo feriale che corrispondeva ai 45 giorni di sospensione dei termini, che non serviva soltanto ai magistrati ma anche agli avvocati. Oggi la “sospensione feriale” è ridotta a 30 giorni, coincidenti con il mese di agosto, cosa non gradita al Foro che si trova a dover riprendere subito dopo la conclusione delle ferie misurandosi con le relative scadenze processuali.
La disciplina di questi 15 giorni non è illogica perché se un magistrato, avendo tenuto udienza a fine luglio, fosse partito per le ferie il giorno successivo, non essendo possibile pretendere che impegnasse parte delle ferie per lavorare, avrebbe dovuto redigere la sentenza al ritorno, con evidente aggravio, dovendo procedere alla completa rilettura di atti che avrebbe avuto ancora freschi in mente all’indomani dell’udienza e della Camera di consiglio nella quale sono state decise le motivazioni che hanno indotto il collegio a decidere in un certo modo. Tutto questo poi si inserisce in un dibattito ampio, del quale si è avuta contezza anche alcuni giorni fa a In Onda, la trasmissione serale di approfondimento de La7, con l’intervento di Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), sulla tipicità dell’attività giudiziaria, cioè della preparazione e la gestione in udienza e nella successiva redazione di atti giudiziari, ordinanze o sentenze, non paragonabile a quella di qualunque altro ufficio pubblico. Gli uffici amministrativi, infatti, adottano provvedimenti di vario genere, anche complessi, ma che sono per la maggior parte dei casi standardizzati, spesso ancorati a precedenti.
Nella trasmissione televisiva, nella quale si è confrontato con Parenzo e Labbate, Davigo ha ricordato che i magistrati, a meno che siano titolari di uffici direttivi (presidenti di Tribunali o Corti d’Appello, presidenti di sezione della Cassazione) non dispongono di un ufficio personale, nel quale mantenere le carte e lavorare alla stesura degli atti. Questa attività essi svolgono da sempre a casa. Infatti negli uffici giudiziari esistono delle sale arredate con armadietti dedicati ad ogni magistrato nei quali vengono conservate la toga, i documenti e i fascicoli. E dove normalmente c’è un tavolone sul quale i giudici si appoggiano per scrivere. È evidente che in queste condizioni è possibile lavorare bene esclusivamente a casa, in un locale destinato allo scopo, dove nel silenzio (i giovani magistrati hanno figli piccoli e spesso, ovviamente, rumorosi), con i loro codici ed i testi di dottrina (regolarmente pagati in proprio dal magistrato e non detraibili dal reddito, come accade per gli avvocati), in collegamento via internet con le banche dati che da alcuni anni assistono i magistrati a cura dell’amministrazione della giustizia. Lì scrivono i loro atti. Che non sono mai semplici. La ricostruzione del fatto, necessaria per ristabilire le responsabilità e motivare la sentenza richiede sempre alcune ore. E se i cittadini sapessero che i nostri magistrati, i quali, per dato fornito dall’Unione europea, risultano i più produttivi, sono chiamati a redigere annualmente molte centinaia di atti, si renderebbero conto delle difficoltà della giustizia per la quantità di cause che non ha nessun paese al mondo e per la scarsità di personale addetto. Pensate che mancano oltre a molti magistrati circa 10.000 cancellieri e senza un cancelliere non si può tenere udienza. In queste condizioni, che conosce chiunque in qualche modo è stato interessato ai problemi della giustizia, è chiaro quali sono i veri problemi da risolvere. Matteo Renzi, specialista nel giocare di anticipo aggredendo spesso gratuitamente, ha fatto intendere agli italiani che i problemi della giustizia fossero in quei 15 giorni nei quali magistrati, attaccandoli alle ferie, scrivono le sentenze relativi ai giudizi discussi nelle udienze tenute nei giorni precedenti. Questo approccio al tema giustizia non solo è scorretto, perché cerca di danneggiare l’immagine di una categoria essenziale per il buon funzionamento della vita civile, che se ha difetti non sono certo quelli della produttività, ma confonde le idee agli italiani, cosa che nessun politico dovrebbe fare e mai il Presidente del consiglio dei ministri che non è un quisque de populo ma è il Capo del governo, con precise responsabilità nei confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica che deve correttamente informare. Mi auguro che queste considerazioni nate da un titolo “sparato” in prima pagina sulle “onorevoli ferie” di deputati e senatori serva a restituire agli italiani il senso delle cose in un settore molto delicato perché la giustizia civile è gravata da una quantità enorme di procedimenti che la rendono lenta, per cui gli imprenditori cercano di evitare di entrare nei conflitti e gli stranieri si guardano bene dall’investire in Italia. Questi sono i problemi che Presidente del consiglio avrebbe dovuto affrontare, non con la barzelletta delle ferie dei magistrati, che ha difeso a spada tratta ancora di recente con quel suo tono spavaldo ed arrogante che ormai gli italiani conoscono bene, che è un suo limite e probabilmente la causa del costante calo della popolarità che segnalano gli istituti demoscopici i quali monitorizzano la opinioni dei cittadini.
31 luglio 2016
Revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 2
Un testo “non privo di difetti e discrasie” (lo confessano i fautori del SÌ)
di Salvatore Sfrecola
“Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate (per esempio in materia di forma di governo: l’Italia rimane una repubblica parlamentare!) o antidemocratiche”. Questa frase, in chiusura del documento dei fautori del SÌ al referendum sulla legge di revisione costituzionale (Unità.tv@unitaonline 24 maggio 2016, in http://www.unita.tv/focus/il-manifesto-dei-costituzionalisti-che-spiega-le-ragioni-del-si/) che interessa ben 47 (su 139) articoli della Costituzione vigente, è la prima cosa che mi ha colpito e, devo dire, non poco turbato, nel mettere in ordine documenti, articoli di giornale, interviste televisive e più austeri scritti scientifici raccolti nel corso del dibattito parlamentare e, poi, in vista del referendum. E se Angelo Panebianco, un eminente politologo liberale, uno di quelli che tiene bene a mente i principi dello stato di diritto, scrive sul Corriere della Sera del 10 maggio che “la Riforma non è perfetta, ma i suoi nemici hanno torto”, evocando i “molti interessi che alimentano la coalizione del no”, in primo luogo delle Regioni che perdono attribuzioni, vuol dire comunque che qualcosa di importante non va in una legge che modifica più di un terzo della Costituzione e della quale fin d’ora si ammette la necessità di successive modifiche, considerato che “la riforma presenta anche punti che avrebbero potuto essere meglio precisati o previsti”, come scrive su Civiltà Cattolica il gesuita padre Francesco Occhetta che, preannuncia, voterà SÌ. Non una legge qualsiasi, badate, per la quale ad eventuali “difetti e discrasie” si può porre rimedio con un semplice emendamento al primo decreto-legge in conversione, ma la legge fondamentale dello Stato, punto di incontro tra le generazioni passate, presenti e future, ad un tempo il frutto di una volontà di convivere e di continuare ad esistere. Per questo essa vive di legittimazione: giuridica, politica e culturale. Così è stato per la Costituzione del 1948, approvata quasi all’unanimità e che per questo è stata la Costituzione di tutti.
Educato, dunque, a considerare, da cittadino e da giurista, la Carta fondamentale un punto di riferimento dotato della massima autorevolezza, anche se certamente non immodificabile, ove emergesse l’esigenza di farlo, mi sono avvicinato con estrema serenità alla legge di revisione (“disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”), per capire prima di giudicare. Quello che per Luigi Einaudi è stato il “conoscere per deliberare”. E mi sono immediatamente chiesto come si possa approvare una revisione della Costituzione nella consapevolezza dell’esistenza di “difetti e discrasie”. Una legge portata avanti volutamente ignorando studi autorevoli, messi a punto solo pochi mesi prima a livello di Presidenza del Consiglio (come ricorda Luca Antonini, costituzionalista, tra i professori a suo tempo incaricati da Enrico Letta), approvata a colpi di maggioranza, con “l’utilizzo di svariati strumenti (“canguro” “tagliola”, per citarne due), tesi a ridurre, o tout court escludere, gli emendamenti presentati dalle opposizioni e i tempi degli interventi di ciascun gruppo parlamentare” (come scrive Alessandra Algostino, Un progetto contro la democrazia, in “Io voto NO”), compresa la sostituzione nelle commissioni parlamentari di chi era contrario (nel luglio 2014 furono rimossi dalla Commissione affari costituzionali del Senato Mauro e Mineo), aggregando gruppi politici disomogenei, conseguenza di cambi di partito che nel corso dell’esame parlamentare ha riguardato oltre 150 tra deputati e senatori. Ciò che non costituisce ovviamente un giudizio di valore sull’operato dei singoli nel Paese in cui il “trasformismo” ha attraversato periodi significativi della storia politica, ma una constatazione obiettiva, non smentita ma giustificata dalla finalità perseguita i cui effetti, come vedremo, sono essenzialmente condizionati dalla nuova legge elettorale contestualmente approvata.
Insomma, una sorta di “fine che giustifica i mezzi” di machiavelliana memoria, anche se quella frase il Segretario fiorentino non l’ha mai scritta. Ma proprio per questo siamo di fronte ad una riforma che divide, il contrario di come nascono e vivono le costituzioni.
È la conseguenza di un orientamento politico secondo il quale alla revisione si doveva comunque pervenire, altrimenti non si sarebbe modificata la Costituzione chissà per quanti anni. Ma modificarla perché e come? Naturalmente autorevoli giuristi ne tessono le lodi, in ragione di riforme ritenute necessarie e non più eludibili, come Giuliano Amato, Francesco Clementi, Sabino Cassese e Stefano Ceccanti, tra i più attivi sul fronte del SÌ. E c’è chi non manca di evocare opinioni di personalità della politica e del diritto non più in vita (da Togliatti a Dossetti), espresse anni addietro, spesso molti, e che, pertanto, non sappiamo se le hanno confermate successivamente sulla base dell’esperienza della Costituzione repubblicana, che dal 1948 durante gli anni, ha consentito importanti riforme ed assicurato agli italiani democrazia e libertà. Né poteva mancare chi è andato a rileggere discorsi e scritti di chi aveva criticato la legge costituzionale sulla devolution, voluta da Berlusconi, al grido di “salvare la Carta” con l’accusa, che oggi viene mossa all’attuale maggioranza: “ancora una volta emerge la concezione, che è propria di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni e ne è proprietario” (Sergio Mattarella richiamato da T G. Roselli, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016, a pagina 6). Le preoccupazioni di oggi, con riferimento alla nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum come sbrigativamente è stata battezzata nel dibattito politico-giornalistico. Del resto erano i dubbi di Bersani, riferiti dal Corriere della Sera del 9 aprile 2014, secondo il quale quella legge va cambiata o chi vince prende tutto.
Né va trascurato che se molte delle aspettative di efficienza e semplificazione che hanno mosso l’iniziativa riformatrice sono ampiamente condivise esse si potevano perseguire attraverso la modifica dei regolamenti parlamentari, leggi ordinarie adeguate, con i relativi provvedimenti di attuazione, nonché con le direttive amministrative agli uffici che costituiscono spesso l’unico ed il più efficace strumento per perseguire le politiche pubbliche. Forse è mancata l’esperienza o, come sostengono alcuni, l’obiettivo autentico della legge è la sostanziale, anche se surrettizia, modifica della forma di governo “introducendo il presidenzialismo senza dichiaralo”, come ha scritto Michele Ainis (Nella riforma di Renzi c’è un pericolo nascosto, L’Espresso, 5 ottobre 2015), assegnando a questo, in ragione degli effetti della nuova legge elettorale sulla formazione della maggioranza, un potere molto più vasto dell’attuale, una sorta di “premierato forte” il quale, nelle costituzioni che lo prevedono, è limitato da contrappesi significativi. È questo un punto certamente dirimente sul quale il dibattito è sollecitato anche da una anomalia segnalata particolarmente dai fautori del NO, l’essere la riforma iniziativa del Governo in una materia propria del Parlamento, come dimostra l’esperienza dell’Assemblea costituente nella quale il Presidente del consiglio, De Gasperi, mai è stato presente al banco del Governo. Lo andava ripetendo Calamandrei, uno dei padri costituenti più spesso citati in questo periodo: “quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti”. Travaglio e Truzzi (Perché NO) hanno richiamato un intervento in aula del Senatore Walter Tocci, storico esponente della Sinistra romana: “mai il governo aveva imposto una revisione costituzionale, mai il relatore era stato costretto a presentare un testo che non condivideva quasi nessuno, mai i senatori erano stati destituiti per motivi di opinione”.
Poi c’è il capitolo della incostituzionalità della legge elettorale sulla base della quale sono entrati in Parlamento gli attuali “costituenti”. Alla prossima puntata.
30 luglio 2016
ASSOCIAZIONE MAGISTRATI
DELLA CORTE DEI CONTI
COMUNICATO STAMPA
Il Presidente e una delegazione della Giunta dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti sono stati sentiti in data odierna dalle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, relativamente allo schema di decreto legislativo recante il codice della giustizia contabile (Atto del Governo n. 313).
Nel corso dell’audizione l’Associazione Magistrati della Corte dei conti, pur prendendo atto del necessario intervento di riordino normativo del processo contabile attuato dal Governo, ha espresso forti preoccupazioni in ordine all’abnorme incremento delle cause di nullità degli atti del pubblico ministero e alla riduzione del termine prescrizionale per l’azione di risarcimento. Le disposizioni in questione indeboliscono le funzioni del pubblico ministero e rendono più arduo il recupero delle risorse pubbliche a seguito di danno erariale.
L’Associazione ha, peraltro, sottolineato la doverosità e l’irrinunciabilità dell’azione risarcitoria in quanto posta a tutela delle pubbliche risorse, nell’interesse del contribuente.
Ha chiesto anche misure più efficaci per l’esecuzione delle sentenze di condanna e per il potenziamento delle misure cautelari, fra le quali l’accesso all’anagrafe dei conti, per i danni procurati da funzionari o amministratori infedeli, con dolo o colpa grave.
In un momento in cui emergono fatti gravi di spreco del pubblico denaro e di corruzione, secondo l’Associazione, occorre dare alla magistratura contabile adeguati strumenti affinché, nel rispetto delle garanzie del giusto processo, sia comunque assicurato il ristoro integrale dei danni prodotti all’erario.
Roma, 27 luglio 2016
A In onda
i ragionamenti di Ciriaco De Mita
e gli slogan di Alessia Morani
di Salvatore Sfrecola
Istruttivo, ieri sera a In Onda, la trasmissione serale di approfondimento de La7 condotta da David Parenzo e Tommaso Labate, il dibattito tra Ciriaco De Mita e Alessia Morani. La storia ed i ragionamenti dell’anziano ma lucidissimo leader democristiano e gli slogan inconsistenti della giovane esponente del Partito Democratico, un confronto inframmezzato da richiami ad un precedente intervento, nella stessa trasmissione il giorno precedente, di Massimo D’Alema, impietoso nei confronti del Presidente del Consiglio, Renzi, e della revisione della Costituzione. D’Alema con in mano il libretto che riproduce la legge di revisione costituzionale ne sottolinea la complessità e la farraginosità e, pertanto, la difficoltà per il cittadino di decidere. Quello che noi abbiamo riassunto in una parola “truffa”, perché si chiama a votare chi non è in condizione di comprendere a fondo il testo e le sue conseguenze sul funzionamento delle istituzioni e sulla vita democratica del nostro Paese.
Ma torniamo al dibattito De Mita – Morani. Di fronte alla parlamentare del PD che continuava ossessivamente a ripetere gli slogan di Renzi sulla semplificazione e la governabilità, che sarebbe assicurata dalla revisione della Costituzione senza spiegare perché e come, un De Mita a tutto campo dimostra il contrario, la vitalità della vita democratica negli anni passati e la capacità di quei governi e di quei parlamenti di innovare coraggiosamente, anche in tempi brevissimi. Ed ha ricordato il caso della “riforma agraria” varata dalle Camere un paio di mesi dopo la presentazione del relativo disegno di legge da parte di De Gasperi. E, poi, il metodo del confronto, costantemente praticato da Aldo Moro con tutti coloro dei quali desiderava la convergenza, come al tempo della previsione di un’apertura a sinistra. Palese confronto con Matteo Renzi che, invece, non dialoga, soprattutto con i sindacati e le altre parti sociali se non è scontata, in anticipo, l’adesione alle sue iniziative che impone senza adeguata riflessione, sicché il malessere è vasto e la popolarità del giovane leader del Governo e del Partito Democratico in costante discesa.
Istruttivo il confronto tra due modi di concepire la democrazia, quello del confronto e della riflessione e quello dell’imposizione, che assume la novità come un bene per definizione indipendentemente dal contenuto del nuovo. E così, a furia di mozioni di fiducia, il premier ci inonda di norme a suo giudizio dagli effetti taumaturgici quando, invece, denunciano la estrema modestia delle nuove disposizioni, spesso confuse e inconcludenti, come in materia di pubblica amministrazione dove i nodi cruciali sono ancora irrisolti, come i tempi dell’azione amministrativa, un fardello che grava su cittadini ed imprese. Mentre mancano iniziative dirette alla crescita del Paese che annaspa in una crisi economica che avrebbe richiesto un colpo d’ala, una strategia di impiego di grandi risorse pubbliche e private per invertire il tratto negativo della crisi economica per perseguire obiettivi di sviluppo, il che vuol dire nuova occupazione ed incremento dei consumi. Due elementi dell’economia che si condizionano vicendevolmente, nel senso che l’aumento dei consumi facilita l’incremento della produzione che, se stabile, determina nuovi posti di lavoro dai quali discende naturalmente una ulteriore sollecitazione ai consumi. Ma anche al risparmio
20 luglio 2016
Integrazione: un pericoloso confronto tra comunità
di Salvatore Sfrecola
Siamo alla “guerra civile”. In Francia, naturalmente, come si legge sui giornali, anche italiani, da La Repubblica a Il sole 24 ore, dopo la strage orribile di Nizza, una ferita profonda, difficile da rimarginare, non soltanto nel cuore dei francesi. E non perché fra i morti molti sono dei bambini, morti in un modo crudele mentre il terrore s’impadroniva di genitori, nonni ed amici convenuti sul famoso lungomare nizzardo, la Promenade des anglais, per assistere ad uno spettacolo che prende grandi e piccini, una selezione di fuochi artificiali per festeggiare la Repubblica francese nel giorno che ricorda il 14 luglio 1789, la presa della Bastiglia e l’inizio della rivoluzione, il passaggio dall’ancient regime all’era dei diritti individuali e collettivi al grido di Liberté, Egalité, Fraternité.
A Nizza molti hanno aperto gli occhi su una realtà che sembra difficile da interpretare e da definire se non come “guerra civile” in Francia. Come fa Enrico Letta, che sulle rive de La Senna ha avviato una stagione di insegnamento e di studio alla guida del prestigioso Jacques Delors Institut – NOTRE EUROPE, think tank fondato dall’ex Presidente della Commissione Europea Jacques Delors, con sede anche a Berlino. “Guerra civile”, un’immagine, ha scritto su Il sole-24 ore del 16 luglio Vittorio Emanuele Parsi, Professore di Relazioni Internazionali nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ricorrente “in molti commenti ed evoca lo spettro che possa ridursi lo spazio della tolleranza reciproca all’interno delle nostre società”. Gli fa eco lo stesso giorno su Il Fatto quotidiano Jean-David Cattin, dirigente di Generation Identitarie, per il quale “l’immigrazione è la causa di tutto, fermiamola”. Perché l’integrazione “è una balla”. Parole forti, che vanno in senso opposto a quanto auspicato da molti in Italia. Cattin chiede di chiudere le moschee radicali che a Nizza, dice, “sono legate ai Fratelli musulmani, lo stesso movimento che in Egitto è fuorilegge”. Ed osserva, alla domanda del perché ad attaccare sono francesi di seconda o terza generazione, che “la situazioni della vecchia immigrazione è grave come per chi arriva ora. Non ci sono generazioni integrate né in Francia né in Europa. Anche chi è nato qui, pure di terza generazione, non si sente francese. Sono più legati ad altri paesi piuttosto che alla Francia. Non è una cosa nuova”. Né imprevedibile.
Del resto, ricorda Bernardo Valli su La Repubblica del 16 luglio, Patrick Calvar, Capo dei Servizi segreti interni (DGSI) ha dichiarato di recente dinanzi alla Commissione di inchiesta parlamentare sugli eventi del 13 novembre a Parigi (la strage del Bataclan), aveva previsto, dinanzi ad ulteriori attentati, “un confronto tra comunità”. A sua conoscenza, riferisce il giornale, “alcuni gruppi (di estrema destra) erano pronti a rispondere al terrorismo islamista con un’identica violenza rivolta verso la comunità musulmana”.
Lo abbiamo scritto anche noi più volte. Gli islamici mantengono la loro cultura e le loro tradizioni, sono legati alle loro radici che vivono con orgoglio all’interno di ambienti nei quali è difficile l’integrazione che probabilmente neppure cercano, convinti, come sono, della superiorità dell’insegnamento del Corano, della moralità delle loro donne, che non mostrano le chiome corvine che attirano gli uomini, che occultano i segni della femminilità che tanto, invece, ostentano le occidentali, espressione di una società corrotta, fatta di apparenze, in un tripudio di sesso, anche quando ad essere pubblicizzate sono le scarpe o un rossetto per le labbra.
Questo sentirsi puri in una società che li emargina rafforza negli immigrati e nei “nuovi” francesi l’orgoglio delle loro radici e genera ribellione fino all’estremo della partecipazione a progetti che possono esplodere in atti terroristici, giustificati se non stimolati dall’insegnamento di Iman fuori controllo che la cui predicazione infiamma i cuori ed obnubila le menti.
Era prevedibile che accadesse in Francia. È possibile che accada altrove in Europa, anche in Italia, in una società dal pensiero debole che ha da tempo allentato i legami con la propria storia e, conseguentemente, il senso della propria identità.
L’integrazione presuppone, come ha spiegato Giuseppe Valditara scrivendo dell’immigrazione nell’antica Roma, due regole essenziali, il rispetto delle regole della società che accoglie e, in qualche misura, la condivisione della sua storia e delle prospettive che essa pone a se stessa in coerenza con le proprie radici culturali. Integrarsi significa, in pratica, abdicare, almeno in parte, alle abitudini della società di provenienza per non rimanere isolati. E questo i musulmani non sono disposti a farlo, come dimostrano nei rapporti con le loro donne, costrette a sottostare ad usanze non compatibili con le libertà dell’Occidente, e con la religione cristiana della quale spesso offendono e distruggono i simboli. Infatti, rimangono ancorati alle loro credenze per cui, sempre più isolati, covano la ribellione contro l’Occidente ricco e corrotto. Una condizione nella quale è facile che maturino ribellioni, come quella che ha guidato chi era al volante del camion che ha fatto strage di pacifici turisti in gioiosa ammirazione dei fuochi artificiali sul lungomare di Nizza. Non basta dire “un folle”, né analizzare se affiliato e guidato dallo stato islamico in guerra con l’Occidente. È obiettivamente un nostro nemico che, solo, comandato o internet dipendente ha maturato l’idea di farci del male. Questo conta e questo deve indurci a prevenirlo e combatterlo. Né ci deve sfuggire che quel “combattente” è obiettivamente un soldato di un esercito che in proprio o per conto di poteri neppure tanto occulti sta conducendo una guerra che va definita senza mezzi termini “terza guerra mondiale”, una guerra combattuta non con eserciti contrapposti ma con azioni terroristiche che stanno destabilizzando gli amici dell’Occidente, gli Stati islamici che si sono allontanati dall’estremismo jhadista per cercare una dimensione democratica e civile nel contesto difficile di popoli per troppo tempo governati da satrapi violenti e rissosi in contesti economici che non hanno distribuito ricchezza, anche quando le condizioni locali avrebbero consentito migliori condizioni di vita. Queste masse diseredate sono facilmente preda della violenza, non riescono a concepire un rapporto con gli altri Stati e con l’Occidente che non sia di contrapposizione culturale.
Che sia una guerra fondata sulla contrapposizione di interessi economici lo dimostrano gli effetti sull’economia, in particolare turistica, dei paesi dove più crudele si è espressa l’azione terroristica, dalla Tunisia all’Egitto, alla Turchia, le cui economie tanto hanno dovuto negli anni scorsi alla presenza di vacanzieri. Chi visiterà quest’anno le belle spiagge di Sharm Ed Sheik, di Hammamet o di Antalya, i villaggi o gli splendidi hotel della compagnie internazionali?
Una guerra, dunque, fatta di ricatti e di attentati, una sorta di Spectre, che manovra immense risorse finanziarie, solo in parte provenienti dal petrolio venduto fuori dai circuiti legali.
19 luglio 2016
ASSOCIAZIONE MAGISTRATI
DELLA CORTE DEI CONTI
COMUNICATO STAMPA
L’Associazione Magistrati della Corte dei conti si unisce allo sdegno per la barbara rimozione di un ingentissimo numero di magistrati turchi, con arresti in corso.
Nel manifestare vicinanza e solidarietà nei confronti dei colleghi turchi, sollecita le autorità italiane e le istituzioni internazionali ad intervenire, con la massima urgenza, sulle autorità turche affinché siano ripristinati, quanto prima, lo stato di diritto ed i principi di legalità, di indipendenza dei giudici e del giusto processo.
Roma, 18 luglio 2016
In assenza di idee e di ideologie
torniamo alla storia, alla nostra identità
per guardare al futuro
di Salvatore Sfrecola
Dopo aver esaltato la fine delle ideologie ci siamo accorti che sono finite anche le idee, intese come linee guida dell’azione politica e sociale dei partiti e dei movimenti che hanno l’ambizione di agire nella società. Accade così che, a corto di idee, la politica sia vittima di interessi economici o personali, interni o internazionali, comunque di indicazioni che non sono contenute all’interno di una visione equilibrata e prospettica della società e dello Stato.
In questa condizione è sempre più necessario ricostruire un tessuto morale che faccia capo a valori nei quali la società italiana si è riconosciuta nel tempo attraverso l’azione di uomini politici e di cultura, di storici, filosofi, scienziati i quali hanno fatto grande il nostro Paese, ricordati ovunque nel mondo, spesso molto più che in Italia. Sono i valori che disegnano la nostra identità come popolo.
È necessario dunque, riandare alla nostra storia, al nostro passato perché, come ha scritto Andrea Carandini, archeologo e storico dell’arte greca e romana, “Il nuovo dell’Italia è nel passato” (Laterza, Bari, 2012), chiedendosi come si possa progettare un futuro, anche il più audace e tecnologicamente spregiudicato, se non si è consapevoli del passato che ci ha preceduto ma che tuttavia perdura in noi. I beni culturali sono, con l’istruzione e la ricerca non la ciliegina sulla torta, bensì la torta stessa dell’Italia futura. “Il nostro paesaggio – ha scritto – sono gli avi, siamo noi, e il futuro dei nostri figli. Soltanto 83 generazioni ci separano dalla fondazione di Roma: sono queste generazioni le simboliche autrici delle nostre campagne e città. Non possiamo annientarle distruggendo in poco tempo millenni di fatiche e di ingegno”.
Che senso hanno queste considerazioni oggi nel 2016 per i giovani dei quali questa Italia spesso è matrigna perché non consente loro di esprimere, attraverso il lavoro che costituisce l’espressione delle loro aspettative professionali maturate nei lunghi anni trascorsi sui banchi di scuola? La consapevolezza della nostra storia deve costituire un obiettivo concreto, alla base di una progettualità attuale nella gestione di questo immenso patrimonio fatto non soltanto di ruderi illustri, sia pure straordinaria evocazione di uomini e di fatti, di opere d’arte e della storia del Paese non è molto spesso nella conoscenza dei giovani ed anche dei meno giovani. E conseguentemente non c’è la consapevolezza della necessità di valorizzare e di rafforzare il legame fra loro, noi e il nostro territorio. Perché l’Italia se veramente è Il Bel Paese, come è stato riconosciuto lungo i secoli per le caratteristiche dell’ambiente naturale è anche di una bellezza variegata in relazione alle diverse condizioni climatiche delle varie aree geografiche, in conseguenza della specifica configurazione orografica, della vicinanza al mare, della presenza dei laghi e dei fiumi. Sicché ognuno di noi, pur nella consapevolezza della bellezza dell’intero territorio nazionale e della storia che l’ha caratterizzato è anche chiamato a riflettere ed a ripensare sulle storie e sulle bellezze del territorio nel quale vive. Di questa consapevolezza si notano, per la verità, alcuni esempi che ci sono dati da alcune realtà locali che, anche se a fini prevalentemente turistici, valorizzano antiche manifestazioni risalenti nel tempo, quali giostre di vario genere e di varia denominazione come le varie Quintane. Ma altre sono le iniziative che potrebbero essere assunte anche con riferimento agli episodi storico politici e militari oppure a ricorrenze collegate alla vita e all’opera di pittori, di poeti, di musicisti che ovunque hanno vissuto e operato.
L’invito dunque è alle giovani generazioni perché si impossessino della loro storia, della storia delle loro contrade che sono la ricchezza di questo Paese e ne assumano la consapevolezza in una proiezione futura, non soltanto di gestione e fruizione dei beni culturali e della storia a fini economici ma anche come base di una elaborazione di idee che consentano di migliorare il futuro d’Italia e degli italiani, soprattutto dei giovani dai quali ci si attende l’indicazione di prospettive di sviluppo per crescere e per essere presenti nel contesto delle nazioni con la consapevolezza della tipicità del nostro Paese. Questa consapevolezza arricchisce l’Europa perché le sue radici stanno nella storia dei singoli paesi, nella cultura greco romana, nell’elaborazione del pensiero che lungo i secoli ha prodotto opere di straordinaria importanza nell’affermazione dei diritti delle persone e delle formazioni sociali nelle quali, come afferma la nostra Costituzione, si svolge la personalità degli italiani.
È la sfida del nostro tempo, è la risposta civile al tentativo di confondere le storie dei popoli agevolata da una immigrazione incontrollata la quale non ha la consapevolezza della civiltà nella quale pure tenta di inserirsi esclusivamente per motivi di carattere economico e forse politico se, come taluno teme, dietro questo grande esodo dall’Africa e dall’Oriente, si può intravedere una strategia di penetrazione dell’Occidente che ha perduto la consapevolezza delle sue radici storiche. Lo stesso fatto che gli attentati in Francia o nel Belgio siano stati posti in essere da soggetti residenti, cittadini di seconda o terza generazione, dimostra la difficoltà della integrazione di culture diverse, talune orgogliose delle proprie radici altre, le nostre, che hanno svenduto la propria identità. Sicché l’Occidente corrotto stimola, soprattutto negli islamici, l’azione violenta in una ribellione che ha alla base il disprezzo per chi non è consapevole della propria storia.
16 luglio 2016
Revisione della Costituzione: le parole della campagna referendaria – 1
Per il SI: Una riforma attesa da molti anni
Per il NO: approvata da un Parlamento delegittimato
di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito sulla revisione costituzionale che saremo chiamati a votare, secondo le ultime ipotesi, tra fine ottobre ed i primi di novembre, emergono alcune “parole chiave” che riassumono le posizioni del SI e del NO, parole e slogan destinati a convincere, offrendo una riassuntiva illustrazione di uno o più aspetti delle norme che sostituiranno una parte non trascurabile della Costituzione vigente, ben 45 articoli su 139.
Parole chiave, quelle che nel linguaggio della comunicazione usata dal Presidente del Consiglio riassumono esigenze, proposte, indicano obiettivi. Parole importanti, non solo per il loro autentico contenuto ma per quello che evocano. E difatti tornano nelle discussioni tra le persone, nei fondi degli opinionisti e nella cronaca delle tante discussioni aperte in Italia nelle più svariate sedi, politiche e scientifiche. Come nei conversari al bar o nei circoli.
Sono parole che la cui forza evocatrice è indubbia, anche quando espressione di un luogo comune, di un’opinione tramandata, ripetuta pedissequamente perché suona bene o semplicemente perché nella opinione della gente si è affermata la convinzione che sia così, come per le parole “risparmio”, “semplificazione”, “governabilità”.
Ecco, dunque, in primo luogo “riforma”, naturalmente “necessaria”, per di più “attesa da anni”, che realizza notevli risparmi, riforma, varata in Parlamento “con una larga maggioranza” (in realtà approvata da una maggioranza raccogliticcia e variabile; se fosse stata approvata con i 2/3 delle Camere non sarebbe stato necessario il referendum) per affrontare “efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. “Emergenze”, come le alluvioni che coinvolgono parti importanti del Paese non adeguatamente tutelato sotto il profilo idraulico. Emergenza, per indicare la necessità di superare il “bicameralismo paritario” ed assicurare la “governabilità”, in tandem con la legge elettorale entrata in vigore il 1° luglio 2016, l’Italicum, come sbrigativamente è stata battezzata nel dibattito politico-giornalistico. Invece si afferma che la Governabilità va individuata nel fatto che superato “l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato” si prevede “un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo”. È inevitabile che fosse così. Una camera non elettiva non può votare la fiducia. Anche il Senato del Regno, di nomina regia, non votava la fiducia. Nessuno lo ha mai dubitato.
Una riforma, si sostiene, che “ci chiede l’Europa”, che il Presidente della Repubblica Napolitano ha posto come obiettivo dell’agenda del Governo, come ripetutamente affermato dal Ministro Boschi. Una indicazione che il Presidente, sappiamo, non poteva dare. L’indirizzo politico discende dalle indicazioni dell’elettorato (che non ne ha date) e dal voto delle Camere che approvano le dichiarazioni programmatiche del Governo. Per cui la lettura “presidenzialista” della Costituzione è fuori della Costituzione.
E, poi, ancora “semplificazione ed efficienza” e “competitività per il nostro Paese” in ragione del fatto che, a seguito della riforma del bicameralismo, le leggi “saranno approvate più velocemente” (affermazioni indimostrata; anzi i dati indicano il contrario, semmai è il Governo a rallentare l’adozione dei provvedimenti delegati di propria competenza). Inoltre “risparmi”, di miliardi, e ovviamente, “meno politici”, perché si ha l'”abolizione” del Senato (che poi diventa modifica delle sue competenze) “220 parlamentari in meno (i senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro indennità resta quella dell’ente che rappresentano)” e “delle province”, più esattamente con “la soppressione di qualsiasi riferimento alle province quali enti costitutivi della Repubblica”, meno spese per le regioni. Cioè le province vivono come enti intermedi non previsti in Costituzione.
I conti del risparmio non tornano se si considera che, mentre gli Stati Uniti d’America, con oltre 380 milioni di abitanti, hanno 100 senatori e i deputati della Camera dei rappresentanti sono 435, la riforma Renzi mantiene 630 deputati. È presto detto. Se li avesse ridotti la revisione della Costituzione non sarebbe stata approvata.
In realtà, l’unico ad essere abolito sarà il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL)
Ripartiamo dalle parole da cui prende le mosse la narrazione dei fautori del SI, tra loro collegate: “riforma” e “ritardo”, nel senso di una riforma che interverrebbe a distanza di molto tempo da quando sarebbe emersa l’esigenza del cambiamento. La prima parola che ha accompagnato il dibattito sulla proposta di revisione costituzionale è, dunque, “riforma”. Sostantivo che indica la trasformazione di una situazione esistente, quindi naturalmente neutra, nel senso che trasformare, modificare significa solamente cambiare senza riferimento al merito e agli effetti di ciò che si riforma, che i promotori considereranno positiva, gli oppositori totalmente o parzialmente negativa. Lo conferma D’Alimonte, schierato per il SI “non esistono riforme perfette. Esiste invece lo status quo e esistono riforme che lo modificano in meglio o in peggio”. Nel linguaggio comune, tuttavia, come ne dà conto anche il Vocabolario della Lingua Italiana Dizionario della Enciclopedia “Treccani”, il sostantivo riforma ha una connotazione essenzialmente positiva. Nel senso di “trasformare dando forma diversa e migliore” (Vol. III**, 1431). Come “revisione”, “con esplicito rilievo dell’intento e dell’azione stessa di modificare quanto, a un riesame, risulta non più adeguato e rispondente alle nuove situazioni ed esigenze, spec. nel linguaggio giuridico: r. di una norma costituzionale” (Vol. III**,1389).
Accade così che i promotori della revisione della Costituzione, in primo luogo il Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico, si dicano orgogliosi di quello che hanno fatto, sostanzialmente negli stessi termini in cui esaltarono la riforma del Titolo II della Costituzione, varata in fretta e furia nel 2001, e da tempo ripudiata dagli stessi che la promossero dopo i disastri che ha provocato nei rapporti Stato – regioni. Riforma, dunque, perché migliorativa e perché “ce lo chiede l’Europa”, che ha sollecitato più volte riforme, ma non certo quelle costituzionali, ma quelle della pubblica amministrazione, della giustizia e del fisco che incidono pesantemente sulle attività economiche, dei cittadini e delle imprese. Queste riforme si fanno con leggi ordinarie. A meno che non si intenda fare riferimento a quel che compare nella famosa lettera del 5 agosto 2011, di Draghi e Trichet, il Governatore della Banca Centrale Europea entrante ed il cedente, che fu definita un dicktat allineato ad analoghi “documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e Parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese” (Zagrebelsky).
Riforma, per di più, attesa da tempo. Da settant’anni ha detto ripetutamente Matteo Renzi che, poi, ha ridotto i presunti tempi dell’attesa quando gli è stato spiegato che, in realtà, la Costituzione non aveva ancora 70 anni per cui non sarebbe potuto essere auspicata una riforma di una legge ancora nel grembo, quanto meno dell’Assemblea costituente, votata nel 1947. Il premier è convinto, dunque, di aver promosso una decisione storica non essendo stato sfiorato dal dubbio che il presunto “ritardo” sia dovuto al fatto che, nonostante molteplici studi elaborati in sede scientifica e politica e le approfondite riflessioni emerse nell’ambito delle Commissioni parlamentari bicamerali, autorevolmente presiedute da Aldo Bozzi(1983-1985), Ciriaco De Mita – Nilde Iotti (1992-1994) Massimo D’Alema (1997-1998) non si sia trovata una maggioranza disposta a condividere un testo. Perché, va ricordato, che le Costituzioni, in quanto leggi fondamentali di uno Stato, che disciplinano diritti e doveri sempre definiti “fondamentali” ed il funzionamento della democrazia attraverso la individuazione delle attribuzioni delle istituzioni fondamentali, il Parlamento, il Governo, il Capo dello Stato, gli organi di garanzia, la Magistratura, sono destinate a durare nel tempo. E quando vengono emendate i ritocchi sono limitati, anche quando significativi. Infatti quando si sente dire nel dibattito politico della Costituzione degli Stati uniti d’America e degli “emendamenti” approvati nel tempo parliamo di ritocchi non alla forma di governo ma alla migliore definizione di diritti fondamentali.
Il fatto è che “l’esperienza insegna che una riforma costituzionale – ha scritto Enzo Cheli, costituzionalista, giudice della Corte costituzionale – resta un’impresa molto difficile (se non impossibile) quando manchi una necessità storica in grado di imporre e giustificare agli occhi dell’opinione pubblica le ragioni del mutamento. Né tale necessità può essere surrogata dalla presenza di motivi di opportunità, sia pure forti e pressanti, legati alle vicende della politica contingente. Se questo accade sarà lo stesso contesto degli interessi, delle tradizioni, degli equilibri consolidatisi nel tempo a reagine ed a mettere in scacco le forze che troppo improvvidamente abbiano cercato di utilizzare la leva della riforma come strumento per aumentare, nel contingente, la sfera della propria influenza”. Infatti il premier e quanti hanno promosso e condiviso la riforma costituzionale evocano ad ogni piè sospinto l’esigenza di assicurare la governabilità che, peraltro, è affidata palesemente non alle norme della Costituzione riformata ma alla legge elettorale, il cosiddetto Italicum, pensata a misura di un consenso elettorale ottenuto dal Partito Democratico in occasione delle elezioni europee, non riprodotto nelle più recenti consultazioni per l’elezione dei sindaci. Sicché oggi si vanno manifestando dubbi sulla opportunità di mantenere quell’impianto normativo che assegna un premio di maggioranza al partito che risultasse il più votato. Legge che, di contro, vuole mantenere il Movimento 5 Stelle che, cresciuto nei consensi, immagina di poter trarre vantaggio da quel sistema.
Il premier avrebbe dovuto, dunque, comprendere che, mancando una maggioranza qualificata ed ampia ed un consenso diffuso, la riforma non si poteva fare. E comunque non una che riguardi 45 articoli di una legge che ne conta 139. Infatti la nostra è una Costituzione lunga rispetto alle altre dei paesi che con il nostro possono confrontarsi quanto a storia, tradizioni, cultura istituzionale.
La Costituzione costituisce l’identità politica di un popolo che, guardando ad essa, si riconosce come comunità unita in un destino storico. La Costituzione è il punto di incontro tra le generazioni passate, presenti e future, ed è ad un tempo il frutto di una volontà di convivere e l’origine di una volontà di continuare ad esistere. Per questo essa vive di legittimazione: giuridica, politica e culturale. Così è stato per la Costituzione del 1948, approvata quasi all’unanimità e che per questo è stata la Costituzione di tutti.
La riforma costituzionale portata avanti dal Governo Renzi, approvata da una maggioranza limitata e occasionale è, secondo il Comitato per il NO una Costituzione che divide anziché unire, che lacera anziché cucire, che porta le cicatrici della violenza di una parte sull’altra, senza approntare lo spirito per rimarginare le ferite: questa riforma ha dunque già fallito.
La riforma di una maggioranza “sulla carta”, frutto di una legge elettorale illegittima non è idonea a cambiare la Costituzione. Il rispetto della costituzione formale non è quindi in questo caso sufficiente perché questa non è la riforma di una maggioranza che, seppur limitata, potrebbe ancora risultare accettabile; questa in realtà è la riforma di una minoranza che, grazie alla sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 13 gennaio 2014 (Presidente Silvestri, Relatore Tesauro). Il Giudice delle leggi ha ritenuto che quella legge elettorale abbia “rotto il rapporto di rappresentanza”. Una maggioranza solo sulla carta avendo la Consulta fatto salvo l’attuale Parlamento, malgrado esso fosse stato eletto con una legge incostituzionale. Non perché il Parlamento fosse legittimamente composto, ma perché di fronte alla costatazione drammatica del vizio delle elezioni, un valore superiore sarebbe dovuto prevalere: quello della continuità dello Stato. Questo Parlamento, insomma, è legittimato a funzionare solo in ragione dell’emergenza di salvaguardare la vita dello Stato. Ma se questa è la ragione, la legittimazione ad esistere del Parlamento attuale non è illimitata e piena. Il mandato parlamentare è dunque limitato a conservare lo Stato, e non può spingersi fino a cambiarne, con un violento colpo di mano di una minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza, i connotati mediante l’intervento costituzionale ai massimi livelli. Questo nei fatti si traduce in un tradimento del limitato mandato che, a seguito della sentenza della Corte, grava su questo parlamento zoppo.
Su questa realtà avrebbe dovuto vigilare il Capo dello Stato che dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale non avrebbe dovuto, come afferma ad ogni piè sospinto il Ministro Boschi, sollecitare la riforma costituzionale ma dare un tempo limitato alle Camere perché, votata una nuova legge elettorale, fossero sciolte. Così si fa nelle democrazie parlamentari. Anzi, nelle democrazie tout court. Una condizione che, cominciamo a capire, non è più del nostro Paese.
“La riforma del Titolo V della Costituzione ridefinisce i rapporti fra lo Stato e Regioni nel solco della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001, con conseguente incremento delle materie di competenza statale”. È una riduzione del regionalismo su cui incombe la “clausola di salvaguardia” che consente allo Stato centrale di riappropriarsi di qualsiasi competenza regionale. Può andare bene ma si deve capire.
“I poteri normativi del governo vengono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d’urgenza introdotti direttamente nell’articolo 77 della Costituzione, per evitare l’impiego elevato che si è registrato nel corso degli ultimi anni e la garanzia, al contempo, di avere una risposta parlamentare in tempi certi alle principali iniziative governative tramite il riconoscimento di una corsia preferenziale e la fissazione di un periodo massimo di settanta giorni entro cui il procedimento deve concludersi”. Nulla di nuovo sotto il sole. La decretazione d’urgenza ha oggi limiti ben precisi che il Governo Renzi ha sistematicamente violato in sede di conversione utilizzando la tecnica espropriativa della funzione parlamentare mettendo la fiducia su maxiemendamenti che hanno strozzato il dibattito nelle assemblee e in commissione.
“Il sistema delle garanzie viene significativamente potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. Del resto i contrappesi al binomio maggioranza-governo sono forti e solidi nel nostro paese: dal ruolo della magistratura, a quelli parimenti incisivi della Corte costituzionale e del capo dello Stato, a un mondo associativo attivo e dinamico, a un’informazione pluralista”. Parole al vento. Le leggi di iniziativa popolare sono comunque soggette alla volontà dei partiti che se sono tenuti a prenderle in esame non hanno ovviamente il dovere di approvarle, qualunque sia il numero dei proponenti.
La chiusura del documento del SÌ è pudicamente equivoco: “Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate”.
14 luglio 2016
Gli errori dei sondaggisti e la volontà autentica degli elettori
di Salvatore Sfrecola
Riordinando giornali e appunti, ho ritrovato alcuni articoli riguardanti la recente campagna elettorale per l’elezione dei sindaci, con indicazione delle percentuali rilevate nelle intenzioni di voto al primo turno dagli speciali istituti di ricerca. Viene da sorridere, con il senno del poi, ma devo dire che molti aspetti dei risultati erano stati percepiti a pelle, come si dice, in ordine al gradimento dei cittadini romani rispetto alle candidature.
Così la candidatura di Alfio Marchini, con tutti i suoi sponsor palesi ed occulti, valutata il 17 maggio al 18,4%, si è rivelata ottimistica per più della metà. Ugualmente la tenuta di Roberto Giachetti, valutata alla stessa data al 24,7% rispetto al 30,5 di Virginia Raggi dimostra che non è stata percepita nelle sue reali condizioni la disponibilità dei romani ad un cambiamento radicale, ad un rinnovamento profondo della classe dirigente capitolina.
Più attendibile la valutazione dell’attenzione dei cittadini per Giorgia Meloni stimata sempre alla stessa data del 21,1%.
Non è intenzione di chi scrive censurare i sondaggisti ed i loro metodi, ma è dimostrato a Roma, come a Torino, che la percezione che si ha del sentimento popolare è molto più interpretata dalla gente comune che da sondaggi che tengono conto di variabili le quali si basano su antiche valutazioni politiche. Ad esempio era chiarissima l’intenzione dei romani di centro destra di non condividere la candidatura di Bertolaso presentato da Silvio Berlusconi come il taumaturgo capace di risollevare la città di Roma dal suo degrado. A cominciare dalla polemica con Giorgia Meloni, da tutti ritenuta sgradevole, l’ex capo della Protezione civile si è mostrato arrogante e sprezzante nei confronti dei suoi concorrenti, al punto da riscuotere pochissimi suffragi. Un tratto personale che è stato negativo anche per Roberto Giachetti il quale ha tentato a volte di sorridere ma prevalentemente si presentava all’elettorato, almeno attraverso gli schermi televisivi, in tono sprezzante, come una sorta di predestinato alla vittoria perché supportato dal Presidente del Consiglio e Segretario del partito Matteo Renzi.
Queste brevi considerazioni inducono a ritenere che i sondaggisti debbono inserire nei meccanismi di accertamento della volontà popolare delle variabili che, a mio avviso, sono state trascurate. Come quella della simpatia personale che è un candidato è capace di esprimere e di raccogliere tra i suoi potenziali elettori. Ciò che ha giovato, ad esempio, a Giorgia Meloni che ha molto italianizzato il linguaggio romanesco in modo persuasivo condendolo con ironia e giovandosi anche del fatto che perseguiva il suo obiettivo politico in un momento particolare della sua vita a causa della gravidanza avanzata.
Nessuno poi si è soffermato a considerare il distacco tra previsioni e risultati ed a commentarli in modo non formale. In particolare nella fase del ballottaggio si è trascurato che, accanto a coloro i quali non avrebbero votato perché non avevano più il loro candidato, molti, come accade ovunque nel mondo, avrebbero espresso un voto contrario ad uno dei due protagonisti del ballottaggio. Secondo una regola antica della democrazia per la quale se non puoi votare il candidato preferito devi concorrere ad impedire che vinca quello che ti è più lontano. Ed è il sistema del collegio uninominale di stampo inglese che noi avevamo recepito con il cosiddetto Mattarellum, forse la più intelligente delle leggi elettorali proposte, se non fosse stata aggravata da una percentuale di voto proporzionale.
Concludendo va detto che l’elettorato dimostra sempre meno attaccamento ai partiti, dimostrando una mobilità misurata che comunque fa la differenza e che potrebbe riservare delle sorprese nelle prossime elezioni politiche, naturalmente se lo scenario che presenteranno loro i leader dei partiti sarà capace di stimolare libertà di aggregazioni e novità di idee.
12 luglio 2016
Il valore di un leader: da Cristiano Ronaldo a Matteo Renzi
di Salvatore Sfrecola
Chi ha assistito alla finale della Coppa d’Europa, tra Francia e Portogallo, avrà notato il ruolo di Cristiano Ronaldo, capitano dei lusitani, identificato dagli spettatori come leader assoluto della squadra non solamente per la consueta fascia al braccio. Avendo dovuto abbandonare il campo dopo appena mezz’ora per un grave infortunio che forse gli costerà la lontananza dai campi di calcio per qualche tempo, il capitano è rimasto ai bordi del rettangolo verde ad incitare i suoi giungendo, proprio nelle fasi finali dell’incontro, durante il secondo tempo supplementare, a costringere un giocatore infortunato a restare, letteralmente spingendolo in campo, ed a lottare ancora perché la squadra non perdesse un elemento importante nel suo equilibrio in un confronto decisivo, con i francesi alla disperata ricerca del pareggio.
“Ronaldo in campo”, riesumando il titolo di una fortunata commedia musicale di Garinei e Giovannini, dove il protagonista era “Rinaldo” una specie di Robin Hood siciliano, ha dimostrato ancora una volta che capi si nasce, che non basta un filetto d’oro sulla manica dell’uniforme o una stella sulla spallina perché l’autorità sia riconosciuta dai collaboratori e dai subordinati. Inoltre il capo non teme confronti, neppure con i più bravi fra i membri della squadra.
Rimanendo in Francia, e passando dal campo di gioco quello di battaglia, Napoleone non esitava a circondarsi dei migliori generali, convinto naturalmente che il suo valore fosse soprattutto quello di saper gestire comandanti di brigata e divisionari in una visione strategica degli obiettivi da raggiungere, chiedendo sempre, a chi glieli presentava, se fossero oltre che bravi anche fortunati.
Dai campi di calcio e di battaglia al governo di una Nazione le doti di un capo sono le stesse, come l’arte del comando, che ha riempito con migliaia di pagine i libri di storia militare e politica. E qui giunti va detto che Matteo Renzi, al comando del governo italiano, a differenza di Napoleone si è circondato di mezze figure, di una modestia inusitata, che non ha conosciuto né la prima né la seconda Repubblica, “personaggetti” per dirla con Crozza, lontani dalla competenza che il ruolo affidato loro avrebbe richiesto. Non dotati di grandi conoscenze tecniche, come quelle dei “professoroni”, disprezzati da Maria Elena Boschi, giovane di belle speranze ma di nessuna esperienza politica, arrogante, come capita spesso a coloro cui vengono affidati compiti nettamente superiori alle loro possibilità.
Con persone di questa levatura Matteo Renzi, senza alcuna esperienza di governo (Firenze, della quale è stato Sindaco, è più piccola del più piccolo municipio di Roma) si è avventurato in una impresa più grande di lui. Ricordano tutti il discorso di presentazione del governo in Senato, con la indicazione puntuale delle cose da fare, che prometteva di realizzare in 100 giorni, precisando cosa avrebbe fatto di mese in mese, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola, del fisco, ecc.. Elencazione che, rispetto ai tempi indicati, una riforma al mese, doveva rendere immediatamente palese a tutti che parlava di cose a lui assolutamente sconosciute. Eppure si è udito forte e alto l’italico coro degli entusiasti, perché il giovane sembrava la persona giusta per fare ciò che da tempo si diceva si dovesse fare e non si faceva, pensando che “rottamare”, al di là della volgarità del termine usato per uomini e istituzioni, significasse un reale ridimensionamento della politica e dell’amministrazione. C’è voluto poco per capire che quella strategia di rinnovamento significava più pedissequamente “togliti di lì che ci metto i miei amici e gli amici dei miei amici”, quelli che lo avevano portato su nella fiducia di trarre vantaggi da un leader spregiudicato e disinvolto, tanto da affidare il Ministero dello sviluppo economico ad una giovane esponente dell’industria, già presidente dei giovani imprenditori, incurante che fosse in palese conflitto di interessi per essere figlia di un noto industriale che fornisce anche le pubbliche amministrazioni. Una questione di stile che evidentemente non rientra nella sensibilità del Presidente del Consiglio.
Contro tutto e contro tutti il giovane Presidente si è fatto solo nemici sì che i nodi sono venuti al pettine nel momento in cui una riforma della Costituzione, assolutamente indecente, non è sotto il tiro solamente dei “professoroni” ma anche della gente comune la quale si è resa conto che efficienza e risparmi sono solo degli slogan nel linguaggio del premier e che la legge elettorale, fatta a misura del successo ottenuto nelle elezioni europee non è replicabile, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni comunali, in particolare a Roma e Torino. Nella capitale il suo candidato, per il quale tanto si è speso, Roberto Giachetti, è stato letteralmente doppiato dalla giovane avvocato Virginia Raggi, indicata dal Movimento5Stelle, mentre nel capoluogo piemontese è crollato il consenso verso un garbato signore, Pietro Fassino, passato con sabaudo aplomb dal Partito comunista al Partito democratico. Un risultato che ci consegna un Renzi frastornato, perché, essendo fino a ieri convinto di avere tutto, comincia a capire che la strada si fa impervia, per cui immagina modifiche all’Italicum, che non gli assicura più la vittoria e la conseguente espansione del potere grazie ad una riforma costituzionale costruita in combinato disposto, mentre è in vista un referendum nel quale vanno crescendo i NO. E, infatti, comincia ad immaginare impossibili spacchettamenti.
11 luglio 2016
Dice bene Davigo,
“i politici onesti non stiano con i corrotti”
di Salvatore Sfrecola
Non c’è giornale di questa mattina che non abbia ripreso la frase di Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo la quale “i politici per bene non dovrebbero star seduti vicino ai corrotti”. Naturalmente i giornalisti hanno cercato di stuzzicare il magistrato che parlava ad Orvieto dalla tribuna dei Cattolici democratici. Nessun riferimento preciso, ovviamente. Davigo ha sempre detto di non occuparsi dei fatti oggetto di processi in corso ed ha aggiunto “a qualche politico ho chiesto se si rendeva conto che se continuava a sedersi vicino a un corrotto i cittadini sarebbero stati autorizzati a pensare che erano uguali”. La tesi del magistrato è che ove questo avvenga “chi commette reati tornerebbe a vergognarsene”. È lo sviluppo di un suo ragionamento che, all’indomani della sua elezione alla presidenza dell’ANM, irritò molti politici perché, facendo un confronto con il 1992, disse “allora erano molti che si vergognavano di essere stati sorpresi a rubare, oggi in molti continuano a rubare e non si vergognano più”. La polemica allora fu feroce anche perché il titolo di quella intervista di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera semplificava la frase e faceva intendere che i politici rubano e non si vergognano. È bastato questo equivoco ingigantito dai politici per scatenare una guerra. Mentre Davigo aveva detto chiaramente che “quelli che rubano non si vergognano più”, così facendo intendere che ovviamente ci sono politici onesti e politici disonesti. Per cui oggi riprende quel concetto suggerendo agli onesti di non stare vicino ai corrotti.
Del resto anche Sergio Rizzo sul Corriere della Sera del 25 aprile 2016 “Quando i politici provavano vergogna (e facevano bene)” ricorda che c’è stato un tempo in Italia nel quale i politici tenevano alla loro immagine, perché non fosse macchiata da eventi disdicevoli, loro che ai sensi dell’articolo 54 della Costituzione devono svolgere le funzioni pubbliche ad essi affidate “con disciplina ed onore”. E non c’è bisogno di risalire nel tempo ai primordi dell’unità d’Italia quando i politici che la governarono per molti decenni ritenevano che il servizio prestato allo Stato fosse gratuito e naturalmente comportasse pesanti sacrifici personali, anche economici. Ho sentito giorni fa su RAI-Storia di Giovanni Lanza, per un biennio Primo Ministro del regno d’Italia, che viveva a Roma in una camera mobiliata e invitava la moglie a vendere una pecora per potersi permettere un nuovo vestito con il quale dignitosamente accompagnare il sovrano, Vittorio Emanuele II, nelle occasioni ufficiali.
Più di recente ricordo che un nobile siciliano, amico di famiglia, raccontava che il nonno parlamentare prima dell’avvento del fascismo ad ogni elezione vendeva un feudo per far fronte alle spese della campagna elettorale. Chi conosce la storia e l’economia di quella regione sa che un feudo è una ampia estensione di terreno coltivato e gestito con l’apporto di animali, quindi un’azienda agricola di rilevante valore economico.
È facile l’affermazione, che ripeto anche a costo di sembrare qualunquista, che molti politici oggi, quelli che, direbbe Davigo, non si vergognano, entrano in politica senza arte né parte e si arricchiscono mentre un tempo coloro i quali dedicavano parte della loro vita alla politica e alle istituzioni si impoverivano perché costretti ad abbandonare la professione od a limitarla fortemente, vendevano beni personali e familiari per affrontare le spese delle campagne elettorali e i costi della permanenza a Roma.
Con questo non intendo dire che l’esercizio della funzione pubblica debba essere assolutamente gratuito perché ritengo che un giusto rimborso spese debba essere assicurato a chi presta servizio in favore delle istituzioni della comunità ma è certo che rivestire una carica pubblica non può giustificare assolutamente l’arricchimento proprio e della famiglia. È anche una questione di stile, perché se è vero che il figlio o il parente di un parlamentare o di un ministro non può essere svantaggiato nell’esercizio di una professione o nell’aspirazione di un posto pubblico, è anche vero che questo posto non può essere che conquistato nelle forme proprie della legge che lo disciplina.
Dobbiamo tornare a sentire l’onore dell’esercizio di una funzione pubblica e comprenderne gli oneri che sono innanzitutto quelli del rispetto delle leggi, dell’onestà e della pari condizione con tutti gli altri, nelle professioni e nei posti di lavoro, perché nessuno ottenga immeritati vantaggi dall’illustre parentela con consulenze e pretende varie né ingresso in carriera o promozioni che non siano rigidamente ancorate ai propri, personali meriti.
10 luglio 2016