Site icon Un sogno Italiano

Agosto 2016

Rottamo, non rottamo, rottamo ma non troppo
I magistrati e la margherita di Renzi
di Salvatore Sfrecola

Tutto inizia con il decreto-legge numero 90 del 2014 nel quale il Presidente del consiglio, sotto una rubrica accattivante che parla di “ricambio generazionale”, ha previsto la soppressione delle norme che consentivano il trattenimento in servizio di coloro che avessero superato il limite di età. Si tratta di una norma antica che, in relazione al limite di età previsto per i magistrati, prima ha previsto il trattenimento in servizio fino a 72 anni e successivamente al compimento del 75º anno di età. Per i funzionari dello Stato il trattenimento era previsto per due anni, quindi da 65 a 67.
È stato fatto osservare in quei giorni al Presidente del consiglio ed al Ministro della giustizia che questa norma avrebbe falcidiato immediatamente i vertici dei Tribunali delle Corti d’appello e delle Procure generali e posizioni similari al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti. Naturalmente la norma era ben vista da coloro che seguivano in ruolo le persone che avrebbero perduto il posto di funzione. Abilissimo, dunque, Matteo Renzi a giocare su questa rivalità per dividere diversamente interessati anche all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Poi si è reso conto o gli hanno fatto capire, considerata la sua scarsa esperienza, che l’abolizione immediata dell’istituto del trattenimento in servizio avrebbe causato danni agli uffici giudiziari. Così, dopo aver in un primo tempo fissato al 31 ottobre 2014 l’applicazione della norma l’ha rinviata al 31 dicembre 2015. Successivamente, soltanto per la Corte dei conti, ha previsto una ulteriore proroga al 30 giugno 2016 sulla quale molti hanno malignato, considerato che il presidente al momento in carica sarebbe stato in ogni caso collocato in pensione ai primi di luglio.
Adesso si parla con insistenza di una ulteriore proroga e della determinazione al 72º anno di età, a regime, del termine del pensionamento.
Renzi, dunque, sfoglia i petali della margherita, rottamo, non rottamo, rottamo forse, dimostrando ancora scarsa conoscenza della situazione degli uffici giudiziari nei quali il carico di lavoro è spesso determinato da fattori estranei all’impegno professionale dei magistrati, che tra l’altro denunciano la più alta produttività accertata dall’osservatorio europeo sulla giustizia, quali le norme processuali della mancanza di personale di cancelleria e gli archivio.
Questa vicenda, dunque, in qualche modo si conclude. Rimane l’immagine di un Presidente del consiglio avventato, che si impegna in una vicenda che all’evidenza non conosce e che molto probabilmente gli è stata suggerita, sulla quale si intestardisce e che propone all’opinione pubblica come una soluzione diretta al ricambio generazionale, scelta anche condivisibile purché fosse stata disciplinata in modo adeguato all’esigenza, graduando le uscite e gli ingressi. Perché, se è evidente che il ricambio generazionale non si può fare contestualmente, uno esce e l’altro entra, considerati anche i tempi necessariamente non brevi delle procedure concorsuali, va sempre ricordato che l’operazione presta il fianco a critiche e in particolare al sospetto che essa sia stata immaginata per alcune persone scomode da togliere da alcuni uffici.
Concludendo, vorrei ricordare ai nostri attenti lettori che il tema della giustizia è troppo serio e complesso per essere affidato ad iniziative estemporanee ed avventate. E non sia considerata una presa di posizione preconcetta, perché il Presidente del consiglio ha dimostrato di non conoscere la materia quando ha insistito nel voler modificare la disciplina delle ferie dei magistrati facendo intendere ai cittadini che fossero superiori a quelle degli altri dipendenti pubblici e che giudici e pubblici ministeri fossero imputabili di scarso rendimento. Invece era chiaro che, per i magistrati addetti agli uffici giudiziari, erano di 15 giorni superiori a quelle riservate ai colleghi del ministero della giustizia (30 giorni) allo scopo di consentire ai giudici di redigere le sentenze e le ordinanze relative alle ultime udienze tenute prima delle ferie. Essendo evidentemente illogico e ingiusto pretendere che un giudice debba scrivere sentenze mentre è in vacanza.
Un’improvvisazione inaccettabile ovunque nel mondo.
26 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 9
Il neocentralismo e la mortificazione delle regioni
di Salvatore Sfrecola

Premetto che sono fortemente ostile all’istituto regionale in quanto considero quegli enti inutili e costosi. Avrei, dunque, abolito le regioni e seguito una indicazione del 1862 del Ministero dell’interno Marco Minghetti che propose la costituzione di “consorzi di province”, enti più vicini alla gente, espressione della cultura, dell’economia e dell’ambiente delle comunità dislocate su territori omogenei quanto meno sotto il profilo storico. Invece sono state soppresse le province.
Rimaste le regioni nondimeno va convenuto con il Comitato per il NO al referendum costituzionale che la riforma sostituisce nei rapporti Stato-regioni al pluralismo e alla sussidiarietà un esasperato centralismo destinato inevitabilmente a conflitti e, quindi, inefficienze. La stessa riforma del Titolo V della Costituzione, così come riscritta, tornando ad accentrare materie che, nel riordino effettuato nel 2001, erano state assegnate alle Regioni, matura l’eccesso opposto, ovvero un centralismo che non è funzionale all’efficienza complessiva del sistema (Ritorno al centralismo, La Repubblica, 16 maggio 2016, 9). Aumenterà la spesa statale, e quella regionale e locale, specie per il personale, non diminuirà. Colpiti, dunque, il pluralismo istituzionale e la sussidiarietà espressione della partecipazione dei cittadini all’attività pubblica, un retaggio della dottrina sociale della Chiesa, recepita nei Trattati dell’Unione europea e trasfusi nella Costituzione vigente all’art. 118.
Non basta, infatti, l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, che è clamorosamente smentito dal farraginoso procedimento legislativo e da un rapporto Stato-Regioni che non valorizza per nulla il principio di responsabilità e determina solo un inefficiente e costoso neo-centralismo.
Intanto, come ha ricordato Roberta Calvano, ricercatore di Diritto costituzionale nell’Università di Roma, il fitto contenzioso nato all’indomani della riforma del 2001 a causa della previsione di competenze concorrenti fra stato e regioni è stato in gran parte superato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, cito alla lettera, ha determinato un “assestamento che rendeva il sistema dei rapporti tra centro e periferia abbastanza stabile”. Semmai sono proprio le equivoche formulazioni utilizzate nella Renzi-Boschi che genereranno nuovo contenzioso. È d’altro canto ora di fare chiarezza: non tutte le regioni hanno governato male e per quanto riguarda molte regioni del Nord, ma anche del Centro, l’efficienza dei loro governi è senz’altro superiore a quella dello stato centrale. G. Valditara, Le ragioni del NO, cit.. Merita particolare attenzione in ordine alla gestione delle risorse da parte degli apparati regionali le ricerche citate nel testo, in particolare quella di Unimpresa, che ha rilevato come negli ultimi due anni il debito di comuni e regioni italiani sia calato di 15 miliardi, mentre quello delle amministrazioni centrali è salito di quasi 100 miliardi, a seguito dell’aumento delle spese, cresciute del 4%: il rosso degli enti locali è dunque diminuito del 14% mentre il debito delle amministrazioni centrali è salito del 5%, e quella di Scenari Economici oltre alle relazioni della Corte dei conti in tema di costi del personale.
Non è dunque un riaccentramento di competenze la strada corretta per una riduzione della spesa pubblica, ma l’attuazione di un sistema che responsabilizzi i territori premiando quelli virtuosi. Si favoleggiava anni addietro di federalismo fiscale perché i cittadini fossero vicini al decisore politico e ne controllassero le scelte in regime di risorse disponibili che, essendo sempre meno, esigono comportamenti virtuosi. Questo è il punto vero della questione italiana: ognuno deve essere responsabile di come usa le risorse pubbliche e i trasferimenti per esigenze di solidarietà e coesione nazionale devono essere finalizzati e vincolati per esigenze reali, concrete, trasparenti e quindi verificabili e verificate nella massima trasparenza.
La riforma, invece, trasforma le regioni in super province. Si mantengono intatti i loro costi e le loro burocrazie, ma si riducono grandemente le loro competenze, centralizzando anche materie di dettaglio come mai si è fatto in 70 anni di storia repubblicana. Tutto ripasserà dunque dai ministeri, creando peraltro alcune potenziali sovrapposizioni di ruoli fra stato e regioni. La riforma dà inoltre al governo e alla sua maggioranza parlamentare il potere di intervenire anche nelle residue competenze delle regioni laddove lo richiedano la “tutela dell’unità giuridica ed economica della repubblica” e “l’interesse nazionale”. Ciò non solo rischia di realizzare un centralismo mai visto prima, ma, siccome la definizione di “interesse nazionale” e di tutela delle esigenze unitarie non può essere discrezionalmente stabilita una volta per tutte dal governo (ché altrimenti sarebbe un grave vulnus alla democrazia), trattandosi di un concetto talmente fumoso “da autorizzare qualunque governo a immischiarsi in qualsiasi materia che anche la legge di revisione lascia ancora in mano alle Regioni” (M. Travaglio – S. Truzzi, Perché votare NO), è certo che si scatenerà un nuovo contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale. Come, del resto ha scritto Valerio Onida constatando come l’autonomia legislativa delle Regioni venga praticamente ridotta a zero, senza nemmeno il beneficio di una maggiore chiarezza nel riparto di competenze. Si pensi, a questo riguardo, all’oscurità insita in norme come quelle che riservano alla competenza “esclusiva” dello Stato materie tipicamente regionali, quali il governo del territorio, ma limitandola al compito di dettare “disposizioni generali e comuni”. Che vuol dire “disposizioni generali e comuni”, al di là dell’ovvietà per cui le norme legislative sono “generali e astratte”, non contengono provvedimenti concreti e “valgono in tutto il territorio nazionale”, si è chiesto Valditara?
Senza contare i problemi che potranno determinarsi nel settore della sanità. Alle regioni spetteranno solo compiti di organizzazione dei servizi sanitari entro le norme generali e comuni fissate dallo Stato, che esse dovranno rispettare ed attuare. Se tutto questo si accompagna alla riforma Madia, che attribuisce al ministro la nomina dei vertici della sanità delle singole regioni, il loro ruolo è praticamente azzerato. Naturalmente un giudizio di merito è legato alla concezione centralista o articolata (più o meno federalista) dello Stato.
Prendiamo poi l’istruzione e la formazione professionale. Persino la Costituzione del 1948 le attribuivano alla competenza regionale, pur nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. La riforma del 2001 ha assegnato formazione e istruzione professionale alla competenza esclusiva delle regioni. Adesso persino la formazione professionale passa alla competenza dello Stato centrale. Carlo Cattaneo, che nel 1838 definiva l’istruzione professionale pilastro dello sviluppo di un territorio, si rigirerà nella tomba. Tutto questo è compatibile con il principio fondamentale dell’autonomia scolpito nell’art. 5 della Costituzione? È lecito dubitarne. Torniamo allo stato ottocentesco, risorgimentale. Ma dov’è un Cavour?
Intanto, mentre gli italiani chiedevano la riduzione dei privilegi delle regioni a statuto speciale, si aumenta invece in modo del tutto sproporzionato e ingiustificato lo squilibrio fra regioni a statuto speciale a cui sono mantenute tutte le attuali prerogative e le regioni a statuto ordinario (S. Calzolaio, Quella ingiustificata e inutile asimmetria delle Regioni speciali, in Guida al Diritto, 34-35, 13 agosto 2016, 52).
Se, poi, le modifiche al Titolo V della Costituzione sono state immaginate per arginare una cattiva gestione dei fondi aumentando le competenze dello Stato centrale, Zagrebelsky si dice contrario perché servirebbe, piuttosto, limitare la potestà legislativa esclusiva dello Stato alle sole materie necessarie a tutelare e garantire l’omogenea applicazione delle fondamentali funzioni dello Stato nazionale, delegando alle Regioni l’autonomia legislativa su tutte le altre materie. Soltanto le amministrazioni più vicine ai cittadini possono comprendere appieno specifici bisogni e necessità della popolazione ed indirizzarvi in maniera razionale le risorse. Soltanto questa soluzione permette un vero risparmio sulla spesa pubblica. La Lega lo aveva già proposto nella devolution, in cui si prevedeva un vero federalismo fiscale basato su un modello di rifermento virtuoso di fabbisogni e costi applicato in tutto il territorio nazionale, senza dimenticare le specificità di ogni regione. Purtroppo i governi che ci hanno succeduto non hanno ancora compreso appieno le potenzialità di quella riforma, rimasta in parte inattuata, motivo per cui non ha potuto  dispiegare appieno i suoi effetti.
Quanto al superamento del bicameralismo perfetto in funzione del Senato delle autonomia un gruppo di costituzionalisti, tra i quali Antonio Baldassarre, Francesco Paolo Casavola, Enzo Cheli, Ugo De Siervo, Valerio Onida, in un documento “Sulla riforma costituzionale” (si può leggere integralmente in L. Mazzella nel suo Riflessioni varie sul referendum costituzionale, in La riforma costituzionale ai raggi X, 27-32), ritengono che l’obiettivo “sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato”. Infatti, “invece di dare a una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni”. L’effetto che si ritiene ne derivi è quello di un “assetto regionale? fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni  viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono no mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stati riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”
20 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 8
Il pasticcio della nuova disciplina della legislazione
di Salvatore Sfrecola

Tanto per “semplificare”, parola chiave della narrazione renziana sulla legge di revisione costituzionale, l’articolo 70, che riguarda la legislazione, a leggerlo, anche a non essere raffinati giuristi, è un pasticcio difficilmente immaginabile. Una complicazione verbale e concettuale evidente: intanto il nuovo testo passa dalle 9 parole dell’attuale formulazione a ben 451 parole, mentre il nuovo procedimento legislativo, che oggi ha 4 variabili, prevede una serie di percorsi sui quali i costituzionalisti si interrogano, incerti se siano 8 o più, in relazione a possibili variabili non necessariamente d’obbligo. Infatti c’è chi ne conta 9 avvertendo che siamo di fronte “ad un numero di procedimenti non ben definito” per cui “ogni classificazione ha margini di discrezionalità elevati” (Emanuele Rossi, “Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale”, PISA University press, 2016, 83).
Procedimenti comunque da ripartire in due grandi classi: le leggi che seguono un procedimento bicamerale paritario, quelle che seguono un tipo monocamerale, con la competenza generale e finale della Camera dei deputati e la possibilità per il Senato di esaminare il testo approvato dalla Camera e deliberare proposte di modifica. Non finisce qui perché, come vedremo, vi sono altre variabili, anche solo eventuali, quelle numericamente incerte cui si è fatto cenno.
I fautori del SÌ spiegano che “i procedimenti legislativi vengono articolati in due modelli principali, a seconda che si tratti di revisione costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di raccordo fra Stato e autonomie, dove Camera e Senato approvano i testi su basi paritarie, mentre si prevede in generale una prevalenza della Camera politica, permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte le leggi, impedendo eventuali colpi di mano della maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l’ultima parola. La questione della complicazione del procedimento legislativo non va sopravvalutata, poiché non appare diversa la situazione di tutti gli Stati composti: in ogni caso, e di nuovo in continuità con le esperienze comparate, la riforma prevede la prevalenza della Camera politica”.
Non è una buona riforma. Innanzitutto è scritta malissimo, ridondante e in molti passaggi è di equivoca interpretazione. Ci sono incongruenze non solo lessicali e autentiche perle di cattiva legislazione, ma anche contraddizioni grossolane, con un risultato che “non appare del tutto convincente”, in particolare in relazione alla “proliferazioni di variazioni procedimentali”, anche se “potrebbe crearsi un meccanismo virtuoso nella prassi applicativa capace di migliorare il procedimento stesso” (Malaschini). Quel che si è sempre detto: la strada maestra era quella di operare sui regolamenti parlamentari. Senza bisogno di scomodare la Costituzione.
Insomma un pasticcio. Mutato profondamente il procedimento legislativo: la partecipazione paritaria delle due Camere (ma non si doveva abolire il Senato per tagliare i costi?) sarà circoscritta ad un numero limitato ma non irrilevante di leggi bicamerali (leggi costituzionali e leggi in materia di elezione del Senato, referendum popolare e ordinamento degli enti territoriali, “le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”). E scusate se è poco, considerato che in materia amministrativa già oggi la normazione europea è fortemente invasiva. Per tutte le altre il Senato potrà solo proporre modifiche sulle quali la Camera si pronuncia in via definitiva. Ma se il Senato, con deliberazione, adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiede alla Camera di esamiare un disegno di legge, “la Camera dei deputati procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato” (art. 71, comma 2). È introdotto il giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali delle Camere: è riconosciuta ad un terzo dei senatori o ad un quarto dei deputati la possibilità di sottoporre alla Corte Costituzionale le leggi elettorali prima della loro promulgazione. Un evidente pasticcio perché è da chiedersi se la decisione della Corte costituzionale in questo esame preventivo esclude o meno un eventuale giudizio di costituzionalità sollevato incidenter tantum da un giudice nel corso di un processo. Probabilmente l’intento è quello di escludere un giudizio di costituzionalità, quello, per intenderci, che ha messo fuori legge il Porcellum e ha all’esame l’Italicum.
L’iter di formazione delle leggi, come abbiam accennato, si complica: dall’unico oggi previsto saranno una decina le diverse modalità previste dalla riforma per  approvare una legge. È consistente il rischio di aumentare il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Saranno i Presidenti di Camera e Senato a risolvere i (prevedibilmente numerosi) casi controversi, ovvero se seguire l’uno o l’altro iter di formazione.
L’esame dei disegni di legge è avviato dalla Camera che, dopo l’approvazione, trasmette immediatamente il testo al Senato che, se decide di esaminarlo, può proporre modifiche al testo e la Camera può scegliere se accoglierle o meno. Le proposte di modifica riferite a progetti di legge in cui è prevista la “clausola di supremazia” (in ragione dell’interesse nazionale), adottate dal Senato a maggioranza assoluta, sono superabili dalla Camera solo con maggioranza assoluta. L’esame da parte del Senato dei disegni di legge in materia di bilancio e di quelli con cui è prevista la “clausola di supremazia” è necessario, ma i tempi del procedimento sono ridotti. Nel procedimento legislativo sono introdotti specifici termini per singole fasi: nella (spesso) eventuale o (raramente) necessaria fase senatoria i termini si riferiscono alla deliberazione se discutere o meno sul testo inviato dalla Camera e (in caso affermativo) a quello di approvazione delle modifiche (che possono non essere prese in considerazione dalla Camera). Anche per il procedimento di conversione dei decreti -legge se il Presidente della Repubblica chiede una nuova deliberazione alle Camere di un disegno di legge  di conversione di un decreto – legge, il termine per la conversione in legge è differito di ulteriori 30 giorni (60 + 30).
Introdotti alcuni vincoli alla decretazione d’urgenza – peraltro oggi già fissati dalle leggi ordinarie e dai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – la possibilità di ricorso al decreto-legge è espressamente esclusa per le leggi in materia costituzionale ed elettorale, le deleghe al Governo, l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, l’approvazione di bilanci e il ripristino di norme che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime. Una elencazione non necessaria. È già così, ma forse nessuno l’aveva detto alla Boschi.
Una perla è la possibilità data al Governo di chiedere il “voto a data certa” per assicurare una corsia preferenziale (votazione entro 70 giorni) ai disegni di legge essenziali per l’attuazione del suo programma, con l’esclusione di alcune tipologie di leggi (leggi ad approvazione paritaria di Camera e Senato, leggi in materia elettorale, leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto e legge che reca il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri per l’equilibrio di bilancio). Questo comporta che il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro 5 giorni dalla richiesta, che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno; il disegno di legge dovrà essere sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di 70 giorni; sono ridotti della metà i termini già esigui per la deliberazione di proposte di modificazione da parte del Senato. Ma poiché il termine finale può essere differito fino a 15 giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della Commissione nonché alle complessità del disegno di legge”, l’approvazione da parte della sola Camera può arrivare a 90 giorni (tre mesi).
C’è da rimanere senza parole.
18 agosto 2016

Allarme in USA ed Europa per l’economia italiana.
Ma non c’entra l’ipotesi della vittoria del NO
di Salvatore Sfrecola

Molto risalto sui giornali italiani e sulle televisioni per alcuni articoli comparsi a Ferragosto su Wall Street Journal, New York Times, Financial Times e El Pais a commento dei dati ISTAT sulla crescita zero del secondo trimestre. La Repubblica, per la firma di Federico Rampini, dedica un paginone ai commenti formulati al di qua e al di là dell’Oceano, sui pericoli per l’Italia e per l’Europa se Renzi dovesse perdere, come si profila in molti sondaggi, la sfida del referendum sulla legge di revisione costituzionale e lasciare la guida del Governo. Dovizia di ipotesi su quanto sarebbe necessario per rimettere in moto la crescita e dubbi che ciò possa avvenire in caso di crisi politica e mancando gli strumenti di una accelerazione rimessa alle nuove procedure legislative previste dalla riforma costituzionale, incuranti tutti che i migliori costituzionalisti le abbiano bollate come confuse e pasticciate e niente affatto acceleratrici dell’iter delle leggi, in teoria e in pratica, avendo il premier portato a casa tutte le norme che voleva facendo violenza sulle Camere con reiterati ricorsi al voto di fiducia.
Venendo al pratico, a questi giornalisti della migliore stampa economica internazionale e della sinistra spagnola dovremmo fare alcune osservazioni. In primo luogo che il dottor Matteo Renzi governa indisturbato da oltre due anni e mezzo, avendo “rottamato”, secondo il suo eloquio elegante alti dirigenti dello Stato, magistrati e grand commis. Di più, ha presieduto, anche se praticamente nessuno ne ha potuto valutare le conseguenze, l’Unione europea, compito sul quale aveva, alla vigilia, manifestato intenzioni guerresche, prefigurando una serie di iniziative dirette a restituire smalto alle istituzioni europee e vantaggi per le economie, come la nostra, che hanno patito i rigori di Bruxelles. Non è accaduto niente di tutto questo ed oggi, ricordando che il Financial Times ha sostenuto che Renzi “deve ottenere libertà di manovra dall’Unione europea”, Rampini scrive che “molti osservatori ricordano che Bruxelles ha già dimostrato tolleranza verso la Francia, la Spagna e il Portogallo quando non hanno rispettato i vincoli di bilancio”. In queste parole sta la condanna, senza appello, del giovane premier di Rignano sull’Arno, sbarcato a Roma senza altra esperienza che quella di aver svolto funzioni di sindaco di una meravigliosa Città d’Arte con una popolazione inferiore al più piccolo dei municipi della Capitale, con molta spocchia, circondato di avventurosi uomini d’affari variamente vestiti e modestissimi compagni di governo.
Sta qui il problema italiano. Nella incapacità di un leader, che pure inizialmente è stato visto con qualche simpatia, di guardare lontano al di là degli slogan a volte gustosi, tipici del popolino toscano, per puntare alla crescita che non poteva, come forse immaginava, essere promossa dagli 80 euro erogati a pioggia e poi a carico di molti recuperati. L’Italia ha bisogno di altro, soprattutto ad iniziativa dell’autorità pubblica, in presenza di una classe imprenditoriale modesta, che oggi tramite Confindustria si schiera opportunisticamente con il SÌ, non rischia quasi mai in proprio, che ha una visione provinciale dell’economia che soffrirebbe ancora di più se non vi fossero alcuni imprenditori del settore manifatturiero e di quello che rappresenta l’eccellenza italiana a tirare la carretta e a battere i mercati esteri con grande determinazione.
Non temano per l’economia italiana Wall Street Journal, New York Times, Financial Times, El Pais e La Repubblica, ipotizzando una sconfitta di Renzi in Italia e in Europa. Non è questo il governo che serve al Paese, come ha dimostrato in due anni e mezzo ed oltre di permanenza a Palazzo Chigi, un periodo suggellato da una crescita zero prevista e prevedibile da tutti, tranne dai funzionari di via XX Settembre, indottrinati ed allineati.
17 agosto 2016

Italia crescita ZERO.
Renzi chiede flessibilità in Europa. E c’è da essere certi che cercherà di convincere Bruxelles e gli italiani che la merita per le riforme costituzionali che con la crescita non c’entrano
di Salvatore Sfrecola

Il piano è chiaro. Di fronte alla crisi economica, che secondo i dati ISTAT relativi al secondo trimestre del 2016, registra una crescita zero, il peggiore risultato in Europa, Renzi si appresta a chiedere maggiore flessibilità a Bruxelles sostendendo questa sua perorazione dicendo che sta facendo le riforme. Ma quali? Non quelle che ci chiedono da tempo realmente i nostri partners europei, della pubblica amministrazione, che strozza cittadini e imprese, della giustizia, che dissuade italiani e stranieri ad investire, del fisco, predatorio, che disincentiva i consumi. Per Renzi “le riforme” sono essenzialmente quella della Costituzione che con la crescita non ha niente a che fare, che non darà nessuna ulteriore opportunità all’Italia se non più potere al premier ed al suo partito. Che non c’è scritto ovviamente nella Carta fondamentale. Ma se vincesse alle prossime elezioni, avrebbe, in virtù del premio di maggioranza assicurato dall’Italicum (340 seggi alla Camera su 630 deputati), un potere senza precedenti, distorsivo delle regole democratiche che prevedono che gli istituti di garanzia, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura siano eletti con il più ampio concorso parlamentare, cioè d’intesa con le minoranze, come è accaduto finora. Con quella maggioranza potrebbe nominarli da solo.
Renzi oggi fa di tutto, dopo aver sostenuto per mesi che il referendum era in realtà un plebiscito sulla sua politica (“se perdo me ne vado, lascio la politica”), per tenere distinto il governo e lui stesso dalla scelta sul referendum ed insiste che la legge elettorale non c’entra. Invece, come si è visto, “il sistema di voto è parte integrante dell’assetto istituzionale”, come ha osservato Gaetano Quagliariello, aggiungendo: “è difficile immaginare il sistema inglese o francese senza la rispettiva legge elettorale” (“Perché è saggio dire NO”, Rubettino, a pagina 31).
Un nuovo inganno, dunque, materia nella quale il premier è espertissimo da quando propina agli italiani ogni giorno, 24 ore su 24, considerati i notiziari notturni, una narrazione della sua azione politica che non corrisponde alla realtà di quello che il Paese può constatare facilmente. Un Paese bloccato, inondato di leggi inutili, tutte o quasi approvate con ricorso al voto di fiducia che mortifica il Parlamento, leggi che non fanno fare un passo avanti all’Italia che pure avrebbe bisogno di più flessibilità, non in Europa, ma qui, per intraprendere e, quindi, accrescere la produzione e l’occupazione e, quindi, i consumi.
Invece il Paese è ingessato a le scelte attuate sono deleterie. Un esempio per tutti? Proprio in questa stagione di vacanze viene da pensare alla tassazione delle seconde case, di cui si è anche parlato stamattina ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, una tassazione che impoverisce quel patrimonio immobiliare, come dimostra la stasi delle transazioni, e confonde un bene, spesso modesto, lasciato in eredità da genitori e nonni, in un indice di ricchezza. Ho anche scritto altra volta che il deperimento del valore delle seconde case, molte delle quali abbandonate e trascurate anche nelle opere di manutenzione, danneggia l’economia locale. La danneggia, anche in conseguenza della volontà predatoria dei sindaci che si accaniscono su quel patrimonio immobiliare, perché disincentiva l’acquisto e la costruzione di nuovi immobili e le opere di manutenzione che impegnano mano d’opera locale, una delle poche occasioni di lavoro nelle piccole realtà al mare o ai monti nelle comunità che poco altro hanno da offrire. Ed anche dove ristorazione e artigianato reggono l’economia locale, la riduzione del numero dei vacanzieri interni danneggia certamente quelle comunità.
Un esempio tra i tanti che si potrebbero fare con riferimento ad una azione di governo della quale il premier si riempie la bocca mentre si vuotano le tasche degli italiani. I quali spesso, anche in passato, si invaghiscono di leader dalla parola dagli slogan facili fino a quando non ne pesano le concrete capacità di soddisfare le esigenze della comunità. Intanto gli unici che sono soddisfatti dell’azione governativa di Matteo Renzi sono i suoi amici e gli amici dei suoi amici, tutti accuratamente sistemati in posti di potere laddove il potere del premier consente di allocarli.
16 agosto 2016

Riflessioni a margine di un nuovo anglicismo
Job Posting,
il lavoro a portata di mouse
ovvero una selezione trasparente
di Salvatore Sfrecola

Leggo sul Il Fatto Quotidiano di ieri un trafiletto che parla del Job Posting, cioè del lavoro a portata di mouse, come spiega internet, che permette ai dipendenti di candidarsi direttamente per le posizioni lavorative vacanti interne ad una amministrazione, ad una azienda. “Un sistema di selezione trasparente”, richiamato dal giornale a proposito della vicenda della RAI tenuta, prima di procedere ad assunzioni esterne, a pubblicizzare tramite il suo circuito internet le cariche da occupare, in modo che coloro i quali ritengono di avere i requisiti richiesti possano farsi avanti e partecipare al bando. Un modo che permette di velocizzare i processi di selezione di nuovo personale e ai dipendenti di cogliere nuove opportunità di crescita.
Per la verità alcune amministrazioni già operano attraverso avvisi che segnalano i posti da coprire e i requisiti di professionalità richiesti. Si chiamano “interpelli”, pubblicizzati nei siti internet, modalità da estendere perché la pratica della previa indicazione dei posti da affidare non è così diffusa e non è così trasparente come dovrebbe essere, nonostante efficienza e rispetto delle persone e delle professionalità interne dovrebbe sempre consigliarla. Perché è assurdo e ingiusto, oltre che fonte di danno e di malessere interno, andare a ricercare una personalità esterna per ricoprire un posto in un ministero, in un ente o in una azienda ove quella professionalità esista all’interno della forza lavoro. Con effetti positivi, in quanto la scelta verrebbe a premiare le eccellenze interne (che sarebbero così stimolate) con l’effetto di mettere in campo immediatamente chi vanta un’esperienza specifica che non ha certo un esterno anche se dotato di un curriculum universitario e post universitario ed esperienze importanti.
Purtroppo la politica ha bisogno di sistemare i “suoi” uomini, incurante del fatto che i pubblici dipendenti e tutti coloro che operano all’interno delle pubbliche amministrazioni, sono “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.) e non del partito al governo, del sindaco o assessore di turno. Per cui accade che l’interpello vada deserto nel senso che nessuno dei candidati viene ritenuto idoneo, così aprendo la strada a chiamate dirette, di interni o di esterni.
In sostanza troppo speso non c’è trasparenza, parolina magica tanto evocata in Italia quanto poco praticata come regola dell’agire nelle amministrazioni e nelle aziende pubbliche. E qui mi piace ricordare un recente intervento di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in occasione di un convegno alla Corte dei conti proprio sugli illeciti, quando ha ricordato la risposta che gli aveva dato il Ministro della funzione pubblica del Regno di Svezia il quale, alla domanda di come contrastassero la corruzione in quel paese, gli aveva risposto “trasparenza totale”. Quando riusciremo in Italia a raggiungere un tale standard di comportamento?
Non posso chiudere, tuttavia, senza dire ai miei lettori che se la trasparenza è ovviamente importante e il job posting prezioso, l’espressione inglese è fastidiosa, come, in genere, l’uso delle parole straniere diffuso oltre ogni ragionevolezza, in particolare dai politici che dovrebbero dare il buon esempio e parlare italiano. Lo ha sottolineato anche l’Accademia della Crusca nel tentativo di frenare un po’ l’anglomania italica frutto di un antico eccesso di provincialismo che per molti costituisce una esibizione stucchevole, a volte per confondere le idee, come fanno alcuni politici che ci inondano, in particolare dalla televisione, di Job act, spending review, et similia (è latino, e va bene) quasi che contratto di lavoro o revisione della spesa non siano idonei ad individuare il contenuto di leggi o di iniziative governative, che invece gli italiani capiscono benissimo. Anglicismi troppo numerosi che rischiano di mortificare una lingua, l’italiano, straordinariamente ricca di sostantivi ed aggettivi che tutto riescono a descrivere ed a valorizzare. Senza aggiungere che un uomo pubblico dovrebbe sentire il dovere di parlare un buon italiano mentre molti indulgono nell’uso del dialetto che con gli anglicismi realizza un misto perverso fastidiosissimo. Quando dovrebbero riservare il dialetto, che ha un suo valore, una sua storia ed una sua letteratura spesso pregevolissima, ai conversari privati. Un romano come me riconosce in Trilussa e Belli lo spirito dei quiriti, ironici e sbruffoni, quando si ricordano della propria grandiosa storia fatta di cultura politica e di straordinaria capacità di organizzare la vita civile attraverso infrastrutture ancora oggi ineguagliate, strade, acquedotti, fognature, dove si misura la civiltà di una società, un po’ meno quando trascurano o non s’indignano per un presente fatto di inefficienza, sprechi e sporcizia.
15 agosto 2016

Intollerabile malagestione che mortifica lo Stato
Il dovere del governo: restituire prestigio ai suoi funzionari
di Salvatore Sfrecola

Pressoché all’unanimità i giornali di ieri, a proposito del decreto legislativo sulla dirigenza pubblica esaminato dal Consiglio dei ministri hanno parlato di norme sulla valutazione e la licenziabilità degli alti funzionari dello Stato. Ed hanno attribuito il rinvio dell’approvazione al dissenso che sarebbe stato manifestato in varie ambienti, ministeriali e sindacali, in sostanza “alle resistenze dell’alta burocrazia ministeriale rispetto agli incarichi a termine ed al ruolo unico”. Così riassume le “voci” che si ricorrono Nuova Etica Pubblica che, al riguardo, “ribadisce le preoccupazioni già manifestate in occasione del varo della legge delega e torna ad affermare la necessità che il decreto contenga la previsione del diritto all’incarico. Ovvero, che ogni dirigente pubblico, alla cessazione dell’incarico rivestito, in assenza di una valutazione negativa sul suo operato ha diritto ad un nuovo incarico di importanza equivalente a quella del precedente, come previsto dal Contratto collettivo nazionale di lavoro tuttora vigente”. Il presupposto è che vanno realizzate “valutazioni indipendenti, serie e perciò credibili” (Sergio Rizzo, Corriere della sera ). “Senza le quali, non può accadere che, nel gioco dell’assegnazione dei nuovi incarichi, un dirigente possa restare fuori e finire nel ruolo unico anche se il suo operato precedente non ha dato luogo a censure”.
La polemica sconta mali antichi che si trascinano, tra riforme e controriforme, lungo una strada inclinata che porta l’Italia lontano dalle democrazie nelle quali l’efficienza del settore pubblico è la regola, nel rispetto della legalità e della trasparenza. Stentano, infatti, i partiti ed i governi a comprendere che il perseguimento degli obiettivi contenuti nell’indirizzo politico, parlamentare e di governo, sono inevitabilmente affidati all’efficienza degli apparati pubblici i quali, per funzionarie secondo le aspettative, hanno bisogno di norme precise e facilmente percepibili, procedure che le rendano applicabili, e funzionari che “al servizio esclusivo della Nazione”, secondo l’articolo 98 della Costituzione siano dotati della occorrente professionalità.
Se analizziamo queste affermazioni alla luce della realtà lo scoramento è assicurato. Le leggi che disciplinano le materie attinenti all’esercizio delle funzioni pubbliche sono spesso inadeguate rispetto all’effettivo perseguimento degli obiettivi, in particolare per quanto concerne i tempi che sono un valore generalmente trascurato. Un valore per il sistema amministrativo, per i cittadini e le imprese che operano nelle professioni e nella produzione di beni e servizi, con inevitabili aggravi che incidono sull’economia e sui consumi. Queste situazioni di incertezza determinano spesso un contenzioso pesante e lungo in sede civile e amministrativa che costituisce esso stesso un costo e dissuade dall’intraprendere italiani e stranieri. La giustizia lenta, infatti, non è solamente quella civile. Spesso si ha la sensazione che si provochino i ritardi per evitare il soddisfacimento dei diritti.
In questa incertezza, che è essa stessa malamministrazione, si inseriscono comportamenti criminali nella gestione degli appalti, dalla fase di deliberazione a contrattare con la individuazione dei bandi di gara “non di rado” (è notoriamente un eufemismo) costruiti a misura delle caratteristiche dell’impresa che dovrà vincere l’appalto, in assenza di adeguati controlli in corso d’opera e finali, sulle opere e sulle forniture.
Tutto questo avviene molto spesso alla luce del sole perché funzionari ed amministratori sono in combutta tra loro, come dimostrano le cronache giudiziarie, che hanno messo in risalto decisioni amministrative anomale rese possibili dalla assenza di un potere politico capace di dare direttive e di controllarne la attuazione. A volte i funzionari operano di loro iniziativa, a volte sono sollecitati e costretti ad agire dai politici ai quali (l’aspetto negativo dello spoil system) devono la nomina, la conferma e la determinazione dell’ammontare del trattamento economico accessorio. In più gli incarichi di rappresentanza dell’amministrazione presso enti e aziende, posizioni di potere non indifferenti che, al di là di spesso lauti appannaggi, consentono di sistemare parenti e affini propri o del politico che, poi, mostrerà riconoscenza.
A questo punto è evidente che il punto nodale è l’indipendenza della dirigenza pubblica, perché sia effettivamente “al servizio esclusivo della Nazione” e non del politico di turno. Perché si realizzi questa elementare regola è necessario che i dirigenti, come tutti i pubblici dipendenti del resto, siano reclutati mediante concorso pubblico (e serio), come prescrive l’articolo 97, comma 3, della Costituzione, non con “riconoscimento” di mansioni svolte o selezioni addomesticate, per inserire nelle amministrazioni amici degli amici e clientes vari il cui unico merito è quello di aver operato da portaborse o da consulenti, nella migliore delle ipotesi, nelle segreterie di partito e di ministri e sottosegretari, sindaci e assessori, presidenti di regioni e via discorrendo. Questa gente non va inserita nelle pubbliche amministrazioni. Se utile alle esigenze dell’attività politica rimane a lato, per il tempo della durata dell’incarico politico cui accedono, con un trattamento economico predeterminato dalla legge in relazione alle professionalità ed ai titoli di studio. L’inserimento di queste persone nella pubblica amministrazione, molto spesso incompetenti, privi di esperienza quanto arroganti, è stata causa di gravi disfunzioni, a cominciare dalla mortificazione del personale di carriera che, ovviamente, si defila quando non rema contro. Questa prassi deve assolutamente finire per restituire al pubblico dipendente quel prestigio del quale deve essere circondato in uno stato di diritto.
Da ultimo deve essere chiaro che il pubblico dipendente il quale è un professionista che spesso ha scelto di operare in una pubblica amministrazione, civile o militare, per il desiderio di prestare servizio allo Stato per tradizioni familiari od altro deve essere remunerato secondo quanto richiede la sua professionalità ed il suo impegno. Vale per tutti, dal più piccolo al più grande. A cominciare dai docenti di ogni ordine e grado, perché nella scuola si formano i cittadini ed i professionisti di domani. La scuola è un investimento per uno stato serio, un investimento che deve consentire la selezione dei migliori ed il loro continuo aggiornamento. Un docente che, di fronte ad un libro del costo di trenta o quaranta euro che consentirebbe un importante aggiornamento della sua cultura, da riversare ai suoi studenti, rinuncia perché non può permetterselo è un delitto contro la società.
I lettori troveranno in queste mie riflessioni un impegno ed una passione che è tratta dall’esperienza, da quel che ho visto nelle amministrazioni dove ho svolto funzioni di consulente ministeriale, in quelle che ho controllato o sulle quali ho indagato per accertare la responsabilità di danni erariali spesso assai rilevanti. È anche la ribellione di un cittadino di fronte all’inconsistenza di una classe politica che da troppo tempo trascura i veri problemi di un Paese che, infatti, non cresce, anche per la pesantezza assurda e inutile dei suoi apparati, per la mancanza di prospettive offerte ai suoi giovani che devono andare all’estero per ottenere il giusto apprezzamento di una professionalità raggiunta sui banchi di una scuola che mantiene, grazie al sacrificio di molti docenti, una sua dignità, nonostante le ripetute “riforme” ne abbiano alterato i caratteri e la capacità di approfondimento in una rincorsa assurda a togliere o ridurre insegnamenti, a volte per sembrare più “moderni” per inseguire esperienze, o presunte tali, di paesi che, invece, apprezzano la nostra cultura di base e specialistica, come dimostra il successo dei nostri “cervelli in fuga” ovunque nel mondo.
13 agosto 2016

Capi dello stato o capi di un partito?
di Domenico Giglio

Barak Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti quale candidato del Partito Democratico, ed è logico che speri che anche il prossimo presidente provenga dal suo partito, ma è in ogni caso rappresentante di tutti i cittadini statunitensi siano essi democratici o repubblicani o di qualsiasi altra ideologia o che non ne abbiano nessuna. E infatti dopo ogni elezione il candidato vincente dichiara che vuole essere il presidente di “tutti”, specie perché in tutte queste elezioni le maggioranze sono sempre minime ed in questi stati, non solo gli USA, ma anche la Francia e recentissimamente l’Austria, l’elettorato appare diviso a metà, specie dopo campagne elettorali sempre più costose, come negli USA, e sempre più violente e volgari nel linguaggio e nei metodi. Ora nelle recente Convention del partito democratico che ha visto la nomina a candidato ufficiale del partito della signora Hillary Rhodam, maritata Clinton, il presidente Obama non si è limitato ad inviare un messaggio di saluto, ma ha prima mandato come oratrice e sostenitrice della Hillary, la propria consorte, che non ha nessuna carica, ma solo il merito di essere la moglie del presidente, e poi è pesantemente intervenuto personalmente a favore della candidata senza che questo intervento di parte, cioè “partigiano”, suscitasse sdegno o scandalo. A questo punto mi sembra necessario ed opportuno un riscontro: sono veramente capi e rappresentanti di tutti i cittadini questi eletti? Anche nel caso che invece di repubblica presidenziale si tratti di repubblica dove l’elezione avvenga indirettamente con il voto dei deputati o altri delegati non è sempre eletto l’esponente di un partito o di uno schieramento politico più o meno ampio, che non dimentica né la sua origine né chi lo ha proposto e sorretto?. E tutto questo in entrambi casi porta poi a nomine negli organismi statali da parte degli eletti non certo per meriti obiettivi, ma di parte, e dove, specie negli USA importanti incarichi, ad esempio, di ambasciatori vengono assegnati come compenso per l’appoggio dato al candidato, risultato vincente, quando invece sarebbe necessario personale appositamente istruito e competente, come è stato, ad esempio, senza falsi orgogli nella ultracentenaria storia d’Italia. Ben diversa infatti è la figura, il ruolo ed il significato degli ultimi, purtroppo non numerosi Sovrani, che invece rappresentano l’unità del popolo e dello stato, nella sua storia e nelle sue tradizioni, e che esercitano questo ruolo “super partes”, in virtù del principio ereditario che fa dire “è morto il Re, o la Regina, viva il Re o la Regina”, perché se negli USA l’eventuale successo della signora Clinton, significherebbe essere la stessa prima donna, dal 1789 e dopo 44 presidenti, ad assurgere al ruolo presidenziale, nelle monarchie le donne “regine”, esistono da migliaia di anni dalla mitica Didone, alla storica Zenobia, per non parlare di Elisabetta I e della Elisabetta II, che nel suo lungo regno ha visto l’alternarsi di decine di primi ministri conservatori e laburisti!
Quando abbiamo scritto “purtroppo”, al numero ridotto di monarchie oggi esistenti, pensavamo a tutti gli stati in Europa ed in altre parti del mondo, dove la caduta di questa istituzione millenaria non ha visto seguire nessun miglioramento nella vita dei popoli, cominciando dall’impero russo che si stava aprendo alle istituzioni parlamentari ed è stato sostituito sanguinosamente dal regime comunista, ai regni balcanici, Jugoslavia, Bulgaria e Romania, che nel 1945 subirono la stessa sorte, ed ora restituiti alla libertà, pur rimanendo repubbliche, hanno accolto con tutti gli onori gli esponenti delle dinastie, regnanti a suo tempo, restituendo alle stesse i beni confiscati, ed onorando i loro rappresentanti, sia vivi che morti, e, caso Bulgaria e Romania, rimettendo la corona nello stemma statale, e se non è avvenuta una restaurazione, la stessa non è escluso possa avvenire in futuro, perché in questi paesi non esiste nella loro costituzione l’articolo 139! Non parliamo poi delle monarchie extra europee, dalla Libia del Senusso, cui seguì Gheddafi e l’attuale caos, l’Egitto di Farouk, cui seguirono la dittatura nasseriana e l’attuale di Al Sissi, l’Iran che dallo Scià passò a Komeini, poi Kamenei, all’Irak dove la dinastia fu massacrata, per poi avere i Kassem, Saddam Hussein e l’attuale caos, come infine accaduto nello Yemen! L’unico paese, l’impero ottomano, dove il regime susseguito, la repubblica laica turca di Kemal Pascià, Ataturk, aveva costituito un indubbio progresso civile, economico e sociale, dopo la morte del suo fondatore, non ha certo visto ulteriori miglioramenti!
Considerazioni tutte che non trovano spazio nella pubblicistica e nella stampa attuale, mentre invece andrebbero approfondite, perché se la storia è maestra di vita, cancellarla impedisce la vera crescita culturale e politica dei popoli, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
12 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 7
I rischi di un premierato assoluto
di Salvatore Sfrecola

Revisione costituzionale e riforma elettorale spianano la strada a quello che per i contestatori della riforma è un autentico “mostro giuridico” che travolge i principi supremi della Costituzione e della democrazia parlamentare. “In effetti l’impostazione di fondo che c’è dietro questo progetto di grande riforma (comprensivo della riforma elettorale) – ha detto il Professore Domenico Gallo nella sua introduzione all’atto della presentazione del Comitato per il NO -, non è quello della revisione della Costituzione, ma del suo superamento, cioè dell’abbandono del progetto di democrazia costituzionale prefigurato dai padri costituenti per entrare in un nuovo territorio, dove le decisioni sono più “semplici”, perché, per legge, il governo è attribuito ad un unico partito, sciolto dagli impacci di dover mediare con partiti e partitini di una coalizione; dove il Parlamento è ridotto ad un’unica Camera (che legifera e dà la fiducia, mentre l’altra Camera, il Senato, ha un ruolo sostanzialmente decorativo), sottoposta ad un ferreo controllo da parte del Governo del partito unico, al quale la legge elettorale garantisce una maggioranza assicurata e la riforma costituzionale garantisce il controllo dell’agenda dei lavori parlamentari, dove le istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale) sono deboli e non possono interferire con l’esercizio dei poteri di governo che, invece, sono “forti””.
Aggiungendo di ritenere “sempre valide le considerazioni di Raniero La Valle in occasione della riforma Berlusconi del 2005: “Cadute le linee di difesa del patto costituzionale, venuti meno i pastori posti a presidio dei cittadini, il popolo rimane ora l’ultimo depositario della legittimità costituzionale e l’ultima risorsa, l’ultima istanza in grado di salvare la democrazia rappresentativa nel nostro paese. Esso non dovrà semplicemente “difendere” la Costituzione del 48, ma dovrà instaurarla di nuovo. Non dovrà solo sottrarla all’oscuramento cui oggi è condannata, ma riscoprirla ed illuminarla come mai ha fatto finora”.
Le considerazioni ulteriori sono molto dure: “solamente la cancellazione della memoria può consentire di far passare come innovazione delle riforme istituzionali che tendono a restaurare forme di potere autocratico superate dalla storia. Soltanto attraverso la cancellazione della memoria si può far passare per innovativa una legge elettorale che restaura gli stessi meccanismi manipolatori della legge Acerbo”. Per chi ha studiato poco la storia o ha scarsa memoria il riferimento è alla legge che consentì a Mussolini di dilagare nelle elezioni alla Camera dei deputati nel 1924.
È la preoccupazione di Gustavo Zagrebelsky. Per il presidente emerito della Corte costituzionale, uno dei massimi giuristi del diritto pubblico, la riforma del Senato sommata all’Italicum (legge elettorale della Camera) “realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie” (Il mio No per evitare una democrazia svuotata, La Repubblica, 19 gennaio 2016).
L’Italicum, infatti, aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del Senato e al centralismo che depotenzia il pluralismo istituzionale, l’indebolimento radicale della rappresentatività della Camera dei deputati. In particolare, il premio di maggioranza alla singola lista consegna la Camera nelle mani del leader del partito vincente – anche con pochi voti (minoranza dell’elettorato e ancor più minoranza in relazione agli aventi diritto al voto) – nella competizione elettorale, secondo il modello dell'”uomo solo al comando”, come indicato nel dibattito politico giornalistico. Ne derivano effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura. E ne esce indebolita la stessa Costituzione. Il sistema complessivo dei bilanciamenti, ovvero di quei pesi e contrappesi necessari per garantire l’equilibrio politico istituzionale tra poteri, e tra le diverse forze politiche in campo, è ordinato a piena garanzia del popolo sovrano. In sostanza un rischio evidente per la democrazia, un cambiamento surrettizio della forma di governo che rapidamente porterebbe ad una sorta di “Premierato assoluto” denunciato senza mezzi termini di Michele Ainis (Nella riforma di Renzi c’è un pericolo nascosto, L’Espresso, 5 ottobre 2015). Un modello che, come sottolineato da molti osservatori, potrebbe avere effetti preoccupanti. In proposito vale la pena di sottolineare che, nella sentenza che ha giudicato illegittima la legge elettorale, la Corte costituzionale ha chiaramente sottolineato che le ragioni della governabilità non devono comunque prevalere su quelle della rappresentatività. In particolare, il fatto che il nuovo sistema conceda il premio di maggioranza ad una sola lista, e che la Camera, con i suoi 630 deputati, possa senza difficoltà decidere, a maggioranza, in merito a tutte o quasi tutte le cariche istituzionali. Per questo motivo, si sostiene, il Premier ha ridotto i senatori ma lasciato un numero abnorme di deputati, superiore a quelli di ogni altra democrazia occidentale, compresi gli Stati Uniti d’America che, con una popolazione di oltre 381 milioni di abitanti, hanno 435 deputati. Lì, secondo i critici, sta la prova della strumentalità della scelta “riformatrice”.
La nuova legge elettorale, inoltre, mantiene un numero rilevante di nominati dai partiti (i “capilista” almeno 100 deputati, ma potenzialmente di più) e garantisce un notevole premio in seggi ad una lista che al primo turno potrebbe aver ottenuto solamente il 30% (o meno) dei voti. Con il 30% al primo turno, una lista che si affermi al ballottaggio, può dunque avere ben 340 seggi, vale a dire il 54% del plenum dell’Assemblea di Montecitorio.
11 agosto 2016

Col referendum il Premier non si può sottrarre ad un voto sulla sua persona: la riforma costituzionale e l’Italicum se li è intestati lui e sono intimamente connessi (e già che ci sono gli italiani giudicheranno anche l’azione del governo)
di Salvatore Sfrecola

Va riconosciuto a Renzi, almeno all’inizio della campagna referendaria, un tratto di onestà intellettuale quando ha invitato a votare SÌ perché il prevalere del NO avrebbe significato la bocciatura della sua iniziativa politica per cui si sarebbe ritirato dalla vita politica. Così riconoscendo, avendo proposto la riforma costituzionale e quella della legge elettorale (l’Italicum), che l’insuccesso nel referendum avrebbe bocciato più che le leggi la sua politica. Infatti revisione della Carta fondamentale e nuova legge elettorale, intimamente connesse, costituiscono elementi di un piano complessivo diretto all’occupazione solitaria del potere.
Il Segretario del Partito Democratico voleva la revisione della Costituzione e la nuova legge elettorale. Certamente legittima aspirazione di un politico. Sennonché è antica tradizione che il Governo non assuma quelle iniziative che, come si dice, “appartengono al Parlamento”. Piero Calamandrei, che il Premier cita frequentemente, era stato esplicito: quando si discute di Costituzione i banchi del governo devono rimanere vuoti. Avrebbe potuto affidare l’iniziativa legislativa in entrambi i casi a parlamentari del suo partito, solitamente i Presidenti dei Gruppi parlamentari. Invece ha voluto intestarsi queste iniziative e, pertanto, deve essere pronto a subirne le conseguenze. Anzi il giudizio, che sarà inevitabilmente su di lui, riguarderà anche la sua politica, essendo evidente che, essendo fortemente criticato sulla politica complessiva del governo, come si deduce da alcuni sondaggi, per la mancata riduzione delle imposte, l’inadeguatezza della azione governativa per la crescita e l’occupazione, la politica dell’immigrazione, l’inesistenza dell’Italia negli scenari dell’Unione Europea, tanto per fare qualche esempio, gli italiani lo riterranno anche inadeguato a modificare la Carta fondamentale dello Stato, tra l’altro portata avanti con forzature che attestano la sua propensione a prevaricare gli oppositori interni ed esterni senza mai accettare confronti. E si amplierà la platea di quanti ritengono che, in realtà, il Presidente-comunicatore sia un missus di poteri che non stanno nei partiti né in Parlamento.
Renzi si è accorto del pericolo e, già da alcune settimane ed ancora ieri in occasione di una Festa dell’Unità, ha voluto separare il giudizio sul governo da quello sul referendum e e sull’Italicum ribadendo che la riforma costituzionale e la legge elettorale non sono collegate. E qui sbaglia perché è evidente che gli effetti del voto, così come sarebbero determinati dalle regole dell’Italicum, avrebbero conseguenze pesanti sulla stessa forma di governo quale conseguenza del potere incontrollato che una minoranza avrebbe in ragione del premio “di maggioranza” che assicurerebbe al partito che risultasse vincitore, per aver ottenuto il 40% dei voti o se prevalesse nel ballottaggio, di eleggere il Presidente della Repubblica, i Giudici costituzionali e i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura. Va detto, al riguardo, che il quoziente attribuito in sede di ballottaggio, è rapportato agli elettori che potrebbero diminuire rispetto al primo turno in ragione dell’assenteismo spesso determinato dall’assenza di partiti che erano stati votati nel primo confronto.
Renzi dice che non cambia nulla nella forma di governo. Non è vero. Questa capacità di scegliere legittimamente, in forza della sua maggioranza, il Capo dello Stato e i giudici Costituzionali altera l’equilibrio dei poteri. Lo si è visto con l’impegno profuso da Napolitano, molto al di là del ruolo che tradizionalmente hanno rivestito i capi dello Stato che ha indicato a Renzi la riforma nei sui dettagli, l’ha difesa e la difende strenuamente definendola la sua “eredità”. Contemporaneamente il Presidente del Consiglio, ricorrendo in continuazione alle mozioni di fiducia nel corso della discussione di importanti provvedimento legislativi (compresa la legge elettorale) ha mortificato il ruolo delle Camere costrette a votare senza la possibilità di vedere discussi emendamenti parlamentari, di fatto incidendo su una delle caratteristiche del nostro Stato, la natura parlamentare, nel senso che la sovranità che, ai sensi dell’art. 1, “appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” viene di fatto trasferita all’Esecutivo. Quella sovranità il popolo la esercita in maniera diretta, con le elezioni ed il referendum, e indiretta, attraverso i suoi rappresentanti. Ed è evidente che se i Rappresentanti del popolo subiscono gravi limitazioni nell’esercizio delle loro funzioni parlamentari, quello di votare le leggi, si incide su uno dei requisiti fondamentali della Repubblica parlamentare. Aggiungo, in un clima di intolleranza come dimostrato dalla iniziativa del Ministro Boschi che ha criticato pesantemente chi fa propaganda per il NO perché in tal modo “non rispetta il lavoro fatto dal Parlamento”. In nessun paese democratico un ministro avrebbe osato tanto. E se lo avesse fatto sarebbe stato garbatamente invitato a dimettersi.
Gli italiani, dunque, giudicheranno Renzi e la sua politica. Anche sotto un altro aspetto. Ritenere che i limiti della politica vadano ricercati nella Costituzione è un abuso della credulità dei nostri concittadini i quali sanno bene che vantaggi e svantaggi li subiscono per leggi inadeguate, per una burocrazia che applica regole superate, per una classe politica e di governo estremamente modesta. E qui un ruolo lo ha la televisione che porta alla ribalta personaggi della politica che meglio potrebbero svolgere altre funzioni. Un tempo si diceva “braccia sottratte all’agricoltura”. Un po’ offensivo per la nobilissima professione dell’agricoltore. Ma rende bene l’idea. È gente che dovrebbe fare un altro mestiere.
10 agosto 2016

Segnali preoccupanti di intolleranza
Il Ministro Boschi disprezza l’elettorato che vota NO
di Salvatore Sfrecola

“Chi propone di votare no al referendum e buttare via due anni di lavoro in Parlamento, vuol dire che non rispetta il lavoro fatto dal Parlamento”. Lo ha detto il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, alla presentazione della rivista ‘Strade’ dedicata alle ragioni del Sì per il referendum costituzionale. Il Ministro, infatti, ha sottolineato che in Parlamento “c’è stato un dibattito vero” e che la riforma è stata “votata democraticamente. Noi – ha sottolineato – abbiamo scelto di rispettare l’art. 138 della Costituzione e non abbiamo scelto strade alternative, gruppi ristretti o assemblee costituenti”, mettendo anche in evidenza che “i parlamentari hanno votato 120 modifiche rispetto al testo portato dal governo. Ora con i referendum – ha ricordato – questa scelta del Parlamento può essere votata dai cittadini. Siamo tutti noi a dire Sì o No al cambiamento che stiamo proponendo al Paese”.
“Stavolta credo che potremo riuscire a cambiare passo con il Sì al referendum. L’appello fatto dal governo è per un voto che riguarda il futuro del Paese. Non per i prossimi sei mesi ma per i prossimi trent’anni”, ha proseguito il ministro. “A prescindere dalla simpatia o dall’antipatia che si può avere per questo governo – ha aggiunto – si tratta di un voto per la democrazia e per le prossime generazioni del nostro Paese. Mi auguro che nel 2026 non si debba ancora discutere dell’ennesimo tentativo non andato a buon fine”.
“Non è la riforma ideale ma per i suoi pregi è positiva e fa fare passi avanti al Paese”, ha ammesso. “Inoltre – ha spiegato – incide anche economicamente, può essere la base per lo sviluppo del Paese e per il miglioramento dei nostri conti. E non solo per i risparmi che oggettivamente ci sono, 500 milioni di risparmio ogni anno come dice la Ragioneria dello Stato”.
Ho voluto riportare integralmente il passo di huffingtonpost.it con la sola eccezione del termine “ministra”, che a me non piace, per dar conto di una impostazione che, sulla bocca di un membro del governo, dimostra ignoranza ed intolleranza gravissime per le regole della democrazia. Ignoranza perché una persona laureata in giurisprudenza dovrebbe sapere che il referendum in tutte le sue forme è espressione di democrazia diretta con la quale le costituzioni attuano una forma di controllo, affidata al popolo, delle decisioni assunte in Parlamento dai rappresentanti di quello stesso popolo. In sostanza il referendum è teso a verificare l’esistenza dell’assonanza tra popolo e parlamentari. È, pertanto, uno strumento di democrazia nei confronti del quale occorre rispetto, il massimo rispetto.
È, dunque, il Ministro Boschi a mancare di rispetto nei confronti degli italiani chiamati dalla Costituzione a votare. Una mancanza di rispetto intollerabile.
Ma vi è di più, come dicono gli avvocati quando in una memoria di costituzione in giudizio vogliono insistere su un concetto che ritengono dimostri la validità della loro tesi. Quella legge di revisione costituzionale è stata votata non “con larga maggioranza”, come sostengono i documenti del comitato per il SÌ, perché si può definire “larga” solamente “se la legge è approvata nella seconda votazione di ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”, come si legge nell’art. 138, comma 3, della Costituzione. Quindi non solamente una questione di diritto, perché è evidente che un’uscita come quella del Ministro Boschi, incompatibile con un ruolo istituzionale, è anche la dimostrazione che la tensione sale e salgono le preoccupazioni per le previsioni non proprio favorevoli alla scelta del SÌ raccolte dagli istituti di rilevazioni demoscopiche.
In ogni caso sarebbe auspicabile un intervento del Presidente della Repubblica perché la campagna referendaria, pur nella naturale vivacità del dibattito e delle polemiche che lo accompagneranno, mantenga comunque rispetto per le persone e per le istituzioni.
9 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 6
Quel bicameralismo presunta fonte di tutti i mali. Non è così ma pare vero
di Salvatore Sfrecola

Il superamento del bicameralismo paritario (o perfetto o più-che-perfetto per dirla con Giovanni Pitruzzella) è il pezzo forte della riforma costituzionale targata Renzi-Boschi. È sulla bocca di tutti. A giudizio dei fautori del SÌ “viene superato l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato, con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo. Pregio principale della riforma, il nuovo Senato delinea un modello di rappresentanza al centro delle istituzioni locali. È l’unica ragione che oggi possa giustificare la presenza di due Camere. Ed è una soluzione coerente col ridisegno dei rapporti fra Stato-Regioni. Ne trarrà vantaggio sia il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, che rimane in capo alla sola Camera dei deputati, superando così i problemi derivanti da sistemi elettorali diversi, sia l’iter di approvazione delle leggi”. Sarebbe così, favorita la governabilità  attraverso lo snellimento delle procedure legislative. Inoltre si avrebbero significativi risparmi nei costi della politica.
Molte parole che, come vedremo più avanti, non corrispondono alle aspettative.
Tra i fautori del SÌ il Professore Ceccanti, che ha lavorato al testo della riforma, richiama Costantino Mortati che considerava il Senato un inutile doppione della Camera e sottolinea come la nuova legge costituzionale lo valorizzi, visto che gli sono attribuite funzioni differenziate. “Ci sono due Camere con un ruolo diverso. In questi anni – considerate le difficoltà decisionali del Parlamento – sono stati trovati dei bypass cardiaci che hanno spostato una serie di poteri sul Governo, a cominciare dall’uso della decretazione d’urgenza. La riforma della Costituzione mira a risolvere le cause che hanno determinato questo bypass cardiaco e cerca di far funzionare la circolazione sanguigna in modo normale. Per un verso, dunque, pone alcuni limiti ai decreti per ricondurli a una dimensione fisiologica mentre, dall’altro lato, garantisce tempi certi alle iniziative legislative del governo, in modo tale che non sia costretto a fare i decreti ma faccia i disegni di legge”. Per la verità la letteratura scientifica è ricca di esempi quanto all’uso improprio, più esattamente all’abuso, dei decreti legge, reiterati più volte ancora agli inizi degli anni Novanta, prima che la Corte costituzionale fermasse questo scempio dell’art. 77 della Costituzione.
Tra chi è sceso in campo per il SÌ, l’ex Presidente del Consiglio e attuale giudice della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, intervenuto in un dibattito promosso da Formiche.it. L’esigenza, per così dire storica, di riformare la seconda parte della Costituzione è da lui pienamente condivisa: “Personalmente, ne scrissi la prima volta 40 anni fa”, ha esordito, considerando comunque positivo il semplice fatto che in Italia “ci sia una riforma costituzionale approvata e da discutere nel merito”. Da parte dei cittadini? Un azzardo logico, considerata la difficoltà di interpretare le norme e di comprenderne gli effetti. Naturalmente le opinioni di Amato hanno tutta l’autorevolezza del personaggio ma la considerazione che si viva in un sistema in cui “il governo non è così forte e il Parlamento, invece, troppo debole” va certamente corretta, restituendo alla politica, non alle istituzioni, la responsabilità della attuale, insufficiente conduzione della cosa pubblica. È la politica ad essere debole sul piano professionale ed, assai spesso, etico. L’esperienza ci presenta, infatti, partiti assai poco coesi anche sui temi di maggiore rilevanza, ideologicamente modesti, rissosi al loro interno, con un personale dotato di scarsa esperienza e qualificazione professionale facilmente guidato da lobby e interessi vari, come dimostra la cronaca, anche giudiziaria che i nostri lettori conoscono bene. Per cui se è certo utile, come si dice da anni nelle sedi più qualificate, della politica e della cultura costituzionalista, superare il bicameralismo perfetto, nel quale Camera e Senato svolgono esattamente le stesse funzioni, attribuire all’attuale legge di revisione la soluzione di tutti i problemi appare indubbiamente eccessivo. A meno che non ci si riferisca agli effetti, contestati, della nuova legge elettorale.
La decisione che solo Montecitorio voti la fiducia al governo secondo Amato “rafforzerà l’esecutivo ma non indebolirà necessariamente il Parlamento. Infatti, la previsione di una Camera “verso la quale il Governo non può porre la questione di fiducia, non è detto che non costituisca un limite per il governo stesso”. Riesce difficile comprendere come.
Altra novità fondamentale, introdotta dalla riforma, è la modifica dei rapporti tra Stato e regioni. Le autonomie saranno rappresentate nel nuovo Senato in cui troveranno posto i consiglieri regionali e i sindaci delle principali città italiane. “Sono sempre stato favorevole ad avere nella legislazione nazionale il punto di vista delle regioni”, ha commentato Amato. Sulla nuova ripartizione di competenze – con molte materie che torneranno ad essere di potestà legislativa esclusiva dello Stato – l’ex premier ha fatto chiaramente intendere tutti i limiti del sistema attuale. Il problema principale – come si osserva da più parti – è l’elevatissimo contenzioso cui l’attuale distribuzione delle competenze ha dato luogo.
Vista da Sabino Cassese, amministrativista, la riforma del bicameralismo è attuata in forma di un “monocameralismo temperato”. L’ex giudice della Corte Costituzionale – per sottolinearne i pregi – parte dai primissimi esempi di democrazia in Inghilterra, passa attraverso Montesequieu e De Tocqueville e giunge fino ai giorni nostri. Un affresco storico-giuridico che Cassese delinea per arrivare al suo commento sulla riforma voluta dal Governo. “Le vere funzioni del bicameralismo si sono esaurite”, ma non ha spiegato. L’unica esigenza che permane – un po’ sul modello americano – è quella di dare voce a livello nazionale alle regioni, che altrimenti manterrebbero una “rappresentanza amministrativa e non costituzionale”. Non è poco, ma è dubbio che i consiglieri regionali, messo il cappello del senatore, possano parlare in rappresentanza dell’ente di provenienza. Né del relativo corpo elettorale non essendo eletti.
L’obiettivo della riforma del bicameralismo è “condivisibile” dai fautori del NO e sarebbe anche condiviso sennonché, come attuato, “si rischia di creare disfunzioni istituzionali”. Le critiche si concentrano sulle competenze del Senato. In quanto il superamento del bicameralismo è stato perseguito “in modo incoerente e sbagliato” e si è configurata “una pluralità di procedimenti legislativi differenziati”, “con rischi di incertezze e di conflitti”.
Per Zagrebelsky “il Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”, e così il pensiero è messo fuori gioco” (Renzi e il referendum, il mio No per una democrazia svuotata, 26 maggio 2016, 10-11).
Si è detto che la riforma del bicameralismo sarebbe richiesta in primo luogo dalla necessità di accelerare la produzione legislativa. In realtà secondo uno studio di Valerio Di Porto l’Italia ha la più abbondante produzione legislativa d’Europa: il Parlamento approva oltre 3 volte le leggi di Spagna e Regno Unito, oltre due volte quelle della Francia e complessivamente più leggi della Germania e della Svezia. Secondo Openpolis, al 10 ottobre 2014 la media di approvazione di un disegno di legge presentato dal governo era di 77 giorni, al 13 febbraio 2015 era di 109 giorni. Nella precedente legislatura il tempo medio è stato di 116 giorni. Su molti temi, infatti, il nostro Parlamento è velocissimo. Sempre secondo Openpolis, dati ripresi anche da L’Espresso, quando si parla di imprese e giustizia i tempi medi di approvazione di un disegno di legge sono di 46 giorni, un record europeo. Interventi sul territorio, economia, cultura e finanza impiegano rispettivamente 52 e 53 giorni. Il decreto cosiddetto Svuotacarceri è stato approvato in 38 giorni, il decreto lavoro in 40 giorni, il decreto competitività in 44 giorni, velocissima la riforma costituzionale relativa all’art. 81, una norma chiave in materia di bilancio e di copertura delle leggi di spesa, che, tra l’altro, ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio. Le leggi finanziarie (oggi di stabilità), che introducono norme complesse con centinaia di commi in materie che attengono alla gestione delle risorse pubbliche, impiegano mediamente 50 giorni.
Decisiva è, in ogni caso, la volontà politica di approvare un provvedimento, non il sistema parlamentare. E, come ricorda Stefano Passigli, quando ci sono stati ritardi, gli intoppi sono venuti sempre dalla Camera, la più “politica” delle due assemblee, non dal Senato. Volontà politica che significa coesione della maggioranza: nella legislatura 2001/2006, la XIV (governo Berlusconi) ben i 3/4 dei disegni di legge di iniziativa governativa vennero approvati contro neanche la metà della XIII legislatura (governi Prodi, D’Alema, Amato) e addirittura contro un terzo della XV legislatura (governo Prodi).
C’è poi da dire del ruolo dei “voti di fiducia”, con i quali il governo ha condizionato la propria maggioranza e l’intero Parlamento costretto a votare, senza un adeguato approfondimento, il testo governativo. Con l’attuale governo i voti di fiducia sono aumentati, tanto che il 34% delle leggi è stato approvato in questo modo. È evidente la crisi del ruolo del Parlamento, massima espressione della volontà dell’elettorato. Le leggi di iniziativa parlamentare sono appena due su dieci. L’80% delle leggi, dunque, le fa il governo. Degli emendamenti presentati, quelli parlamentari hanno un tasso di approvazione che non raggiunge l’1%, ben il 47% invece, quelli governativi, spesso accolti in un maxiemendamento sul quale il governo pone la fiducia. I decreti legge sono in media due al mese. È aumentato in modo significativo il numero delle leggi delega con cui le Camere attribuiscono al governo il potere legislativo, spesso con deleghe giudicate “in bianco” o, comunque, generiche, mentre la Costituzione, all’art. 76, prevede che la delega sia concessa “con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. I decreti legislativi di attuazione delle deleghe sono soggetti ad un voto parlamentare in funzione consultiva, tra l’approvazione preliminare e quella definitiva del Consiglio dei ministri. È l’immagine di un Parlamento subordinato all’iniziativa del governo.
Osserva Zagrebelsky, intervistato per La Repubblica da Ezio Mauro (Renzi e il referendum, cit.), che “in realtà il Senato è stato pensato dai nostri costituenti come la camera di riflessione, non come un Senato federale vero e proprio. La rappresentanza su base regionale serviva infatti a dare voce alle diversità territoriali del nostro Paese, ma l’istituzione delle regioni ordinarie arrivò soltanto nel 1970. Tanto è vero che il solo riferimento al carattere regionale del Senato è nell’articolo 57 della Costituzione che prevede l’elezione a suffragio universale su base regionale. Il vero Senato federale non si realizza soltanto con la presenza dei delegati regionali e territoriali, ma con l’attribuzione di funzioni e competenze specifiche relative alle decisioni nazionali di interesse regionale, cosa che questa riforma non fa. Cosa del resto già prevista nella riforma costituzionale approvata dal parlamento grazie soprattutto alla Lega Nord (Devolution) che istituiva il Senato Federale e che è stata affossata”. Inoltre la trasformazione del Senato avviene in un contesto di decisa centralizzazione del potere, trasferito per molte materie dalle regioni allo Stato.
Premesso che ampio è da anni il consenso sul superamento del bicameralismo così come com’è oggi, con proposte alternative tratte da importanti esperienze straniere, i fautori del NO denunciano un depotenziamento della rappresentanza popolare in uno squilibrio, anche nei rapporti Parlamento-Governo che concorre ad alterare l’intero quadro istituzionale.
Vogliono, quindi, sfatare un mito: tutti i Paesi del G8 sono bicamerali: Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. 15 Paesi del G20 sono bicamerali: gli stessi Paesi del G8 più Argentina, Australia, Brasile, India, Messico e Sud Africa. La stessa Unione Europea suddivide il potere legislativo tra Parlamento e Consiglio Europeo. Sono, invece, monocamerali, per esempio: Arabia Saudita, Cina, Corea, Indonesia e Turchia, non proprio dei modelli di democrazia. Sono monocamerali anche i Paesi scandinavi, ma non potrebbero essere diversamente considerata la scarsa popolazione, la forte omogeneità sociale e politica, la forma di stato accentrata. Hanno un bicameralismo perfetto grandi democrazie come gli Usa e la Svizzera. Quattro miliardi di persone su cinque miliardi e mezzo (Cina esclusa) sono rappresentati da Parlamenti bicamerali. È vero, molti fra questi Paesi hanno un bicameralismo imperfetto, ma pressoché tutti sono autenticamente federali e il Senato rappresenta effettivamente il luogo di compensazione fra le istanze regionali e quelle centrali, il contrario di quello che fa questa riforma (Le ragioni del NO, cit., in Logos, www.logos-rivista.it, giugno 2016). Anche per il fatto che i “senatori” non sono eletti dal popolo. Sembra che i partiti abbiano una certa allergia per il voto di preferenza. A volte sostenendo che favorisce il “voto di scambio”, soprattutto in alcune aree del Paese. E propendono per elezioni “primarie” nelle quali il voto di scambio, sempre in quelle aree del Paese, è stato ripetutamente accertato dalla magistratura.
Per i fautori del NO il nuovo Senato è un pasticcio. Le funzioni attribuite sono ambigue e il modo di elezione dei nuovi senatori confuso, prevedendo peraltro che siano rappresentati enti territoriali (regioni e comuni) i quali svolgono funzioni molto diverse. Il Senato diventa organo ad elezione indiretta composto da 95 senatori (74 Consiglieri regionali, 21 Sindaci e 5 Senatori nominati dal Presidente della Repubblica), non vota la fiducia al Governo ed ha funzioni legislative limitate, ma non irrilevanti (basti pensare ai trattati internazionali ed alla normativa di derivazione dell’Unione Europea) e comunque interferenti, come vedremo, con quelle della Camera. La durata del mandato dei senatori coincide con quella dell’organo dell’istituzione territoriale da cui sono eletti, ossia con la durata dei consigli regionali (art. 57, comma 5). È, dunque, un organo a rinnovo parziale anche nel corso della legislatura della Camera, non soggetto a scioglimento. Non è chiaro se i senatori rappresentano le Regioni, i gruppi consiliari o le popolazioni. Probabilmente rappresentano solamente il partito al quale sono iscritti.
Il superamento del bicameralismo perfetto, tuttavia, lascia inalterato il peso istituzionale della seconda Camera che non solo non è stata abolita, come era stato inizialmente propagandato, ma non è affatto vero che eviterà la seconda lettura delle leggi, tanto criminalizzata, additata come causa principale dei ritardi (molto si è favoleggiato sulla cosiddetta navetta, cioè il passaggio dei disegni di legge da una Camera all’altra). Infatti, su richiesta di appena un terzo dei senatori, si potranno sempre proporre modifiche ai testi approvati dalla Camera, così obbligandola ad una seconda lettura. Verosimilmente non si tratterà di una eccezione, dal momento che, a differenza di oggi, Camera e Senato saranno diversamente composti e spesso in competizione. Il Senato sarà infatti composto da consiglieri regionali e sindaci eletti in tempi diversi, con leggi diverse e per contingenze politiche diverse da quelle che caratterizzano la elezione dei deputati. Nessuno si sofferma sul fatto che questi senatori dovranno dividersi tra la Capitale e il capoluogo regionale, con il rischio di fare male in entrambe le sedi (a proposito non si parla neppure di diaria, spese di viaggio, vitto e alloggio e oneri per la segreteria, ausilio indispensabile per un legislatore). Non solo, se rapportato agli attuali tempi medi di approvazione di alcuni disegni di legge, l’art. 70 prevede già che si raggiungano quei tempi solo per il passaggio in Senato:  il progetto approvato dalla Camera, dopo una discussione che non sarà necessariamente breve, deve essere trasmesso al Senato che entro 10 giorni può decidere di esaminarlo. Nei 30 giorni successivi il Senato può proporre modifiche. A quel punto il testo ritorna alla Camera per la discussione e il voto definitivo. I 40/50 giorni ricordati da Openpolis, necessari per approvare molte delle leggi votate da un Parlamento che nella vigente Costituzione ha spesso avuto una maggioranza simile fra Camera e Senato, sono già abbondantemente superati in una realtà che vedrà due maggioranze non necessariamente collaborative. Anche per sempre possibili interferenze estere (le lobby).
Il Senato dovrà obbligatoriamente approvare tutte le leggi costituzionali, le leggi ordinarie che riguardano comuni e regioni, ma soprattutto le leggi di ratifica dei trattati negoziati nel quadro UE e la cosiddetta “legge comunitaria” che disciplina le modalità di partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione delle norme comunitarie. Un bel po’ di questioni di rilevante interesse. Basti pensare che il diritto amministrativo interno è oggi, e già da tempo, quasi esclusivamente di derivazione europea. E che il 36% delle leggi riguarda la ratifica di trattati, buona parte dei quali deriva dalla appartenenza dell’Italia alla UE, dunque di competenza anche del Senato. Sono fra l’altro proprio queste leggi di ratifica quelle che impiegano più tempo e che fanno alzare la media dei tempi di approvazione.
“Questa riforma, che non appare per nulla urgente, né rilevante – scrive Giuseppe Valditara, ordinario di Diritto romano a Torino, direttore scientifico della rivista Logos, nel cui Comitato scientifico siedono i massimi esperti della Lega Nord e di NoiConSalvini -, rischia dunque di impedire un vero processo costituente che riveda per esempio il funzionamento del CSM, la composizione della Corte costituzionale, le modalità di applicazione di alcuni trattati Ue, che chiarifichi i rapporti fra il nostro ordinamento e quello europeo fissando i confini di quest’ultimo, che riveda i limiti oggi previsti nella Carta ad una tutela più efficace della proprietà privata che introduca un avanzato modello di federalismo fiscale, e un accorpamento di alcune regioni, che farebbe risparmiare, questo sì, miliardi di euro, che ripensi il ruolo del Presidente della repubblica, che attribuisca al Presidente del consiglio il potere di nominare e sostituire direttamente i ministri – di essere un premier e non un primus inter pares, condizionato dal Presidente della repubblica – l’unico, vero potere decisionale di cui si sentiva il bisogno, riforma tanto attesa e curiosamente dimenticata”. Nei giorni scorsi le cronache da Londra ci hanno dimostrato l’efficienza del sistema parlamentare e di governo del Regno Unito. Il Primo Ministro si è dimesso, il suo partito ha designato il successore, la Regina lo ha incaricato e si è subito insediato al n. 10 di Downing Street. Il tutto nel giro di pochi giorni.
Siamo su un altro pianeta.
La cosa più rilevante per il cittadino è senza dubbio la decisione di configurare un Senato che, pur mantiene compiti molto importanti, non è eletto dai cittadini, ma è nominato dai consigli regionali. Un Senato che, oltre alle competenze legislative ricordate, concorre ad eleggere il Presidente della Repubblica, alcuni giudici della Corte costituzionale, ed i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, non sarà scelto dagli italiani ma dai gruppi regionali nei quali finora la molto ha attecchito la malapianta degli sprechi di denaro pubblico e della corruzione, come leggiamo, quasi quotidianamente, nelle cronache.
Inoltre, non solo la riforma non abolisce i senatori nominati dal Presidente della Repubblica, ma li aumenta proporzionalmente perché addirittura diventano il 5% del totale (100), mentre prima erano 5 sui 315.
Per i fautori del NO in primo luogo non si comprende poi quale sia la funzione di raccordo di questo nuovo Senato in ragione, nei procedimenti legislativi, del ruolo della Conferenza Stato-regioni sempre più determinante. Ma soprattutto, come ha sottolineato il Professore Enzo Cheli, la “non chiara definizione dei rapporti fra le due Camere e tra lo Stato e le regioni” rischia di generare una forte conflittualità destinata a compromettere l’operatività del nuovo modello”. C’è una ipotesi concreta del moltiplicarsi delle liti e delle controversie, il contrario di ciò che una buona riforma della Costituzione dovrebbe fare.
La cancellazione dell’elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti – lasciando immutato il numero dei deputati – la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato politico, collegato al ruolo di consiglieri regionali o di sindaci, colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale. È la tesi del NO. Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio si poteva perseguire con scelte diverse e che, come vedremo in un successivo capitolo, riguarda spiccioli. Né l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo e da un rapporto Stato-Regioni che solo in piccola parte realizza quegli obiettivi di razionalizzazione e semplificazione che pure erano necessari, determinando, senza valorizzare per nulla il principio di responsabilità, fortissimi rischi di inefficiente e costoso neo-centralismo. È possibile accogliere una riforma che assicuri più efficienza e miglior funzionamento dell’istituzione, che non significa necessariamente “maggiore velocità”, ma razionalità, responsabilità e tutela della rappresentanza delle istituzioni democratiche. La riforma del Governo, invece, stravolge l’impianto della Costituzione del 1948, ed affronta un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, producendo un impatto indiscutibile e decisivo sulla partecipazione democratica, sul pluralismo istituzionale, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza.
In proposito, alla domanda se, con la nuova riforma, l’approvazione delle leggi sarà più rapida e renderà i governi più stabili. Zagrebelsky ha affermato che “se è vero che viene garantita la stabilità governativa, ci si riuscirà solo in ragione di un accentramento del potere che l’Italia non conosce più da tempo. Non era infatti necessario abrogare il bicameralismo, ma correggerlo soltanto in alcuni suoi vizi, come il continuo rinvio tra le due Camere, e prevedere un Senato federale con propria iniziativa e competenza legislativa sulle materie di interesse regionale, in modo che ci fosse veramente una Camera dedicata ai territori come in tutti i modelli federali democratici che questa riforma invece di emulare, ignora completamente”.
9 agosto 2016

Arturo Martucci di Scarfizzi e Claudio Galtieri nominati Presidente e Procuratore Generale della Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola

Dal 1°agosto sono stati rinnovati i vertici della Corte dei conti, Presidente e Procuratore Generale.
Nel rispetto delle indicazioni del Consiglio di Presidenza, il CSM della Magistratura contabile, il Consiglio dei ministri ha proceduto alla nomina dei magistrati che sostituiranno, rispettivamente, Raffaele Squitieri e Martino Colella, collocati a riposo con decorrenza 1° luglio.
Arturo Martucci di Scarfizzi, nuovo Presidente della Corte dei conti è un magistrato con grande e variegata esperienza nei settori del controllo e della giurisdizione contabile, le attribuzioni costituzionali della Corte previste dagli articoli 100, comma 2, e 103, comma 2, Cost..
Nato a Napoli il 19 agosto 1947, già funzionario del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, Martucci di Scarfizzi è entrato a far parte della Magistratura della Corte dei conti nel 1979, a seguito di pubblico concorso.
Nel corso della carriera ha svolto numerosi e prestigiosi incarichi fornendo importanti contributi anche in ambito scientifico. Presidente Aggiunto della Corte dei conti dal 1° febbraio 2015, e pertanto componente di diritto del Consiglio di Presidenza, è stato Presidente coordinatore delle Sezioni riunite in sede giurisdizionale e componente delle Sezioni riunite in Sede consultiva e deliberante.
Martucci di Scarfizzi ha iniziato la carriera di magistrato contabile presso l’allora Delegazione regionale di controllo per la Puglia (oggi Sezione regionale di controllo), la Delegazione regionale per il Lazio e presso la Commissione amministrativa regionale di controllo per il Lazio. Successivamente ha prestato servizio presso la Procura Generale ed il Servizio Massimario e Rivista (Rivista della Corte dei conti, la pubblicazione bimestrale di servizio, diretta dal Presidente di Sezione Gaetano D’Auria, un tempo edita dall’Istituto Poligrafico dello Stato, poi da Maggioli, oggi da Rubettino). Successivamente ha ricoperto l’incarico di Procuratore Regionale per la Campania.
È autore di numerosi scritti in materia amministrativa e contabile. Nelle stesse materie ha tenuto relazioni in importanti convegni di studio.
La Famiglia Martucci di Scarfizzi è originaria del cosentino. Il titolo di Marchesi di Scarfizzi è stato concesso da Re Ferdinando IV il 31 maggio 1788.
Anche Claudio Galtieri, romano, nuovo Procuratore Generale, vanta una lunga esperienza nella magistratura della Corte dei conti nella quale è entrato a far parte a seguito di concorso nel novembre 1976. Dopo una prima esperienza nell’ambito delle attività di controllo su Amministrazioni periferiche e centrali dello Stato (1976-1980), poi Direttore dell’Ufficio di coordinamento del controllo preventivo (1980-1989), dal 1987 al luglio 1996 Galtieri è stato componente della Prima Sezione giurisdizionale per le materie di contabilità pubblica, prima giudice di primo grado e poi d’appello. Dal luglio 1996 al dicembre 2001 ha svolto funzioni di Vice Procuratore Generale presso la Procura generale in Roma, con incarico di responsabile del coordinamento delle Procure regionali. Dal 1° gennaio 2002 ha svolto le funzioni di Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Toscana. Successivamente, dal 21 febbraio 2011, ha assunto le funzioni di Presidente della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia per poi tornare a Roma a presiedere la Prima Sezione d’Appello.
Dal 1981 al 1994 ha fatto parte del Servizio Massimario e Rivista e dal 1991 al 1994 è stato responsabile dell’Ufficio studi del Consiglio di Presidenza.
Ha svolto anche prestigiosi incarichi di consulenza: presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici dall’ottobre 2000 al settembre 2008; la Presidenza del Consiglio dei Ministri dall’ottobre 2001 al dicembre 2005 per le questioni concernenti l’attività contrattuale di Palazzo Chigi; in tale veste ha collaborato alla revisione del Regolamento di contabilità.
Del dottor Galtieri si conoscono anche rilevanti attività scientifiche, di studio e di insegnamento. Ha collaborato a numerose riviste giuridiche, di alcune delle quali è stato redattore capo per molti anni (Rassegna del Consiglio di Stato, Rassegna dei Tribunali amministrativi regionali, La Settimana giuridica, Rassegna giuridica della sanità, Archivio giuridico delle opere pubbliche). Ha pubblicato numerosi articoli in materia di diritto amministrativo, finanza locale, informatizzazione giuridica, danno ambientale, controlli di gestione e responsabilità, attività contrattuale della P.A..
È coautore di numerose opere in materie amministrative, con particolare riguardo all’attività contrattuale (da ultimo: Appalti pubblici di servizi – Il Sole 24 ore 1996-1998; Appalti pubblici di forniture, Il Sole 24 ore 2001; Il leasing e la Pubblica amministrazione, Il Sole 24 ore 2001; La realizzazione dei lavori pubblici, CEL 2004).
Galtieri ha anche svolto una intensa attività didattica collaborando per molti anni alla cattedra di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ed ha svolto, come professore a contratto, l’insegnamento integrativo di “Attività contrattuale della P.A.” presso la cattedra di Diritto amministrativo della Facoltà di Economia dell’Università di Perugia.
È docente nell’ambito dell’annuale Corso sui contratti pubblici presso la Scuola di perfezionamento in diritto amministrativo dell’Università di Bologna – SPISA, presso la quale ha tenuto anche il corso di “Contabilità di Stato”.
Ha tenuto anche lezioni sugli appalti pubblici e il danno nell’ambito dei Corsi per Ufficiali superiori presso la Scuola di Polizia tributaria della Guardia di finanza.
Al Presidente ed al Procuratore Generale le congratulazioni e gli auguri di www.unsognoitaliano.it che spesso si occupa di tematiche concernenti le attribuzioni di controllo e giurisdizionali della Corte dei conti.
7 agosto 2016

Il caso del PM dell’incidente ferroviario di Andria che ha rinunciato all’inchiesta dopo le foto che la ritraggono con l’avvocato difensore di uno degli imputati
L’indipendenza dei giudici tra l’essere e l’apparire
di Salvatore Sfrecola

Infine il Sostituto Procuratore della Repubblica di Trani, titolare dell’inchiesta sull’incidente ferroviario di Andria con morti e feriti, ha rinunciato all’incarico. Dopo che su Facebook erano state pubblicate, postate come si dice, foto che dimostravano una notevole familiarità con un avvocato, difensore di uno dei capostazione indagati. Il magistrato ha lasciato l’inchiesta ma non potrà evitare che del suo caso si occupi il Consiglio Superiore della Magistratura. La procedura, infatti, è stata avviata.
La vicenda porta nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica una questione antica, oggi enfatizzata dalla possibilità di diffusione delle notizie anche personali sui mezzi di comunicazione di massa, quella della indipendenza dei magistrati, giudici e pubblici ministeri, un requisito minimo, essenziale per chi amministra la giustizia. Un requisito che la Magistratura stessa è da sempre impegnata a tutelare, considerato che il comportamento e, quindi, l’immagine di ognuno ricade sull’immagine di tutti.
Un’indipendenza che deve essere osservata non solamente nel concreto esercizio delle funzioni, giudicanti o requirenti, ma che occorre sia evidente, secondo la regola antica che non basta essere indipendente, è necessario anche apparire tali agli occhi della gente. E non c’è dubbio che il PM che oggi ha rinunciato all’inchiesta è stata imprudente avendo consentito ad un avvocato confidenze che neppure in un luogo privato, in presenza di altre persone, dovevano essere permesse, tra l’altro testimoniate da più foto pubblicate sempre sui social network.
Allo stesso tempo l’avvocato ha dimostrato gravissima scorrettezza, in particolare se fosse effettivamente legato da un rapporto di amicizia al magistrato, mettendola in una condizione di gravissimo imbarazzo, a meno che non si sia comportato in tal modo per ottenere il risultato di eliminare quel Pubblico Ministero dalla sua strada. Ipotesi che, allo stato, non è sorretta da alcun indizio.
Ingenuità o malafede non conta. Il danno all’immagine della Giustizia è fatto, perché resta nell’immaginario di chi ha visto quelle foto la possibilità di rapporti non limpidi, e si sente legittimato a generalizzazioni  ed illazioni ingiuste.
6 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 5
Una riforma approvata da un Parlamento delegittimato
di Salvatore Sfrecola

  Per i fautori del SÌ la legge di revisione della Costituzione è stata approvata “con una larga maggioranza” peraltro non sufficiente ad evitare il referendum (non sarebbe stato necessario, ai sensi dell’art 138, comma 2, Cost. se la legge fosse stata “approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”). Per il Comitato del NO, e per quanti condividono questa posizione, è stata una “finta maggioranza”. Anzi, “una minoranza che, grazie alla sovrarappresentazione parlamentare (il premio di maggioranza, n.d.A.) fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza solo sulla carta, non può spingersi fino a cambiare, con un violento colpo di mano, i connotati della Costituzione”. Infatti la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014 (Presidente Silvestri, relatore Tesauro), che ha dichiarato illegittimo il Porcellum, la legge con la quale le attuali Camere sono state elette (e che ha assicurato il “premio”), pur non delegittimando il Parlamento, in ragione del “principio della continuità dello Stato” largamente contestato in sede scientifica, avrebbe tuttavia richiesto una limitata sopravvivenza di quelle Camere, giusto il tempo di varare una nuova legge elettorale per poi essere sciolte ed andare a nuove elezioni.
Una soluzione “diplomatica”, si direbbe, ma chiara. Le Camere non possono venir meno immediatamente ma hanno una limitata legittimazione. Possono solo occuparsi dell’emergenza. Invece sono ancora in carica, ad oltre due anni e mezzo dalla sentenza che si è pronunciata sul Porcellum. Tra l’altro il rinvio al principio di continuità dello Stato, criticatissimo come si è detto, è motivato in modo assai fragile, con riferimento a due articoli della Costituzione (gli artt. 61, comma 2, e 77, comma 2) che riguardano, rispettivamente, la proroga dei poteri delle Camere sciolte (ma regolarmente elette), in attesa della prima riunione delle “nuove”, e la convocazione delle Camere “anche se sciolte” ai fini della conversione dei decreti legge. È chiaro che si tratta di due situazioni giuridiche molto diverse. Non ci azzeccano, direbbe Di Pietro.
Questo Parlamento, dunque, legittimato a funzionare solo in ragione dell’emergenza, non poteva spingersi fino a cambiare la Costituzione. Il Comitato per il NO parla di “un violento colpo di mano di una minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza”.
Su questa realtà il Capo dello Stato avrebbe dovuto vigilare perché fosse rispettata la sentenza della Consulta. Invece il 22 aprile 2013, di fronte al Parlamento in seduta comune, il giorno del suo secondo insediamento, Napolitano ha sostenuto, come ricorda Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, fautore del SÌ, che la prosecuzione della legislatura si giustificava proprio in funzione di riforme necessarie e non più eludibili.
Senza dubbio una forzatura. Neppure particolarmente elegante.
Tra i fautori del SÌ c’è anche il Prof. Stefano Ceccanti, costituzionalista, il quale ritiene che “la legittimità è un argomento che non si può usare. O si è legittimi o non si è legittimi. O bisognava andare a votare subito e il Parlamento non poteva fare più niente. Oppure non era necessario andare a votare e il Parlamento può fare tutto. Come può votare la fiducia al governo ed eleggere il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali, così allo stesso modo il Parlamento può riformare la Costituzione. Dopodiché, se esiste un dubbio di rappresentatività, sarà sciolto dal voto referendario”.
Non è così. Le Camere dovevano essere sciolte. Avrebbe dovuto provvedere in tal senso il Presidente della Repubblica. Non l’ha fatto e questo non si risolve come dice il Prof. Ceccanti con il voto referendario. Perché quel voto non può legittimare ciò che legittimo non è, perché il referendum non costituisce verifica della legittimità del procedimento legislativo. In diritto la forma spesso è sostanza, soprattutto quando si tratta delle regole della democrazia rappresentativa e della legalità costituzionale. Ma non c’è modo di far fronte alla prepotenza. Né è immaginabile un intervento della Corte costituzionale.
È un problema di sensibilità politica. L’idea che un Parlamento, eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, possa non solo sopravvivere oltre un ragionevole lasso di tempo ma addirittura si metta a riformare la Costituzione sarebbe inimmaginabile in qualunque democrazia liberale.
Anzi, interpellato da Formiche, Ceccanti va al contrattacco e risponde alle critiche mosse sul Fatto Quotidiano dal Presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky che in 15 punti ha manifestato la propria contrarietà alla riforma. In uno di questi il Presidente aveva affermato come la riforma della Costituzione non debba garantire la governabilità bensì un governo. Precisando di ritenere che “governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione e dell’abulia”. Per Ceccanti quella di Zagrebelsky è una “opzione di tipo culturale” e sposta l’accento sull’esperienza delle democrazie europee di pari importanza, le quali, “seppur con regole diverse – hanno tutte sempre assicurato un governo di legislatura. Ciò invece in Italia non è accaduto. Basta pensare alla cancelliera tedesca Angela Merkel che nei vertici europei ha visto alternarsi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Mi pare difficile sostenere che in Italia non ci sia un problema di governabilità e che le soluzioni adottate con la riforma non lo riducano”.
Queste considerazioni rivelano un altro aspetto del dibattito, spesso evocato ma non inquadrato nei suoi esatti termini. La questione della governabilità è evidentemente rimessa ad una saggia legge elettorale non alla revisione delle istituzioni. L’Italia, infatti, con questa Costituzione, ha avuto governi di legislatura proprio in ragione di una legge elettorale, il cosiddetto Mattarellum, che aveva sperimentato collegi uninominali, sostituita da quella dichiara incostituzionale, approvata in fretta e furia sul crepuscolo della legislatura 2001-2006, quando la maggioranza di Centrodestra, comprendendo di avere scarse possibilità di tornare a vincere nelle elezioni del giugno 2006, aveva cercato di parare il colpo, “riuscendo” a perdere per soli 24 mila voti. Insomma, come è accaduto altre volte, una legge fatta a misura degli interessi di chi la propone. Ed, infatti, la modifica della legge elettorale è avvenuta ripetutamente negli ultimi trenta anni.
Sono riforme dal fiato corto, che rivelano la cura di interessi particolari, quelli del partito egemone o che pensa di diventarlo.
Questo, comunque, attesta della stretta connessione tra Costituzione e legge elettorale. Infatti la governabilità non è assicurata dalla riforma costituzionale ma dalla maggioranza conquistata in sede elettorale, maggioranza che, a sua volta, assicura al partito egemone la possibilità di eleggere in solitario il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali ed i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura. È evidente che c’è un pericolo per la democrazia.
In difficoltà nel difendere la decisione di Napolitano di far sopravvivere le Camere, Clementi afferma che questa riforma è comunque valida perché “migliorerà la qualità della democrazia” spiegando che ciò è possibile “perché affronta i principali problemi che da decenni vengono sottolineati da ogni partito o schieramento politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tempo che cambia”.
Una risposta apodittica che fa il paio con l’affermazione che, grazie a questa riforma “ci sarà un miglioramento della qualità della legislazione, tanto nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla decretazione d’urgenza ai referendum propositivi e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro ordinamento”. Apodittica perché la qualità della legislazione è dato dalla professionalità del legislatore, come sanno bene coloro che, giudici, avvocati, funzionari pubblici, s’interrogano quotidianamente sul significato delle parole della legge per cercare di comprendere quale sia l’obiettivo che si è voluto perseguire, sovente senza riuscirci. Un impegno arduo, perché frustrato dalla oscurità dei testi, dalla loro inutile ridondanza, dal lessico approssimativo. Come nella legge di revisione che non pochi hanno osservato essere scritta in un italiano scadente e ricordato nell’occasione come Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei Settantacinque, che ha redatto la bozza di Costituzione, avesse incaricato Concetto Marchesi, famoso storico della letteratura latina, Costituente, di farsi coadiuvare da alcuni illustri linguisti per una revisione del testo, si direbbe, “risciacquandolo” nel Tevere, come Manzoni aveva risciacquato “i panni in Arno”, insoddisfatto della prima stesura de I promessi sposi. “La Costituzione – precisò Ruini – si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita”. Anche questa esigenza è connotato fondamentale della democrazia. L’aveva richiamata Piero Calamandrei in Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, lodando esempi di “equilibrio e di armonia stilistica”, riconosciuti proprio in un documento di Ruini. Un po’ come dello Statuto Albertino, del quale aveva sentito dire da un altro Costituente “guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo”
            4 agosto 2016

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 4
Per i fautori del SÌ quella che siamo chiamati ad approvare o respingere con il referendum è una riforma necessaria, attesa da anni, che ci chiede l’Europa, che il Presidente Napolitano ha posto al vertice dell’agenda del governo. Ma non è così
di Salvatore Sfrecola

Una riforma necessaria, attesa da anni, che ci chiede l’Europa, che il Presidente Napolitano ha posto al vertice dell’agenda del governo. Così i fautori del SÌ. Di queste affermazioni, tuttavia, è vera solamente l’ultima, quella del presidente Napolitano impegnato in prima persona. E che adesso, terminato il suo mandato, anche da “emerito” continua a premere affermando che con il NO sarebbe a rischio la sua eredità !). Qualcuno direbbe che basta questa affermazione per votare NO. Ma sarebbe una battuta e noi vogliamo ragionare sulle cose.
Cominciamo, dunque, daccapo, inquadrando il messaggio nell’esperienza degli ultimi decenni. Una riforma urgente per la governabilità è tesi ricorrente, da Craxi a Berlusconi a Renzi. Secondo questa lettura delle questioni politiche tutte le insufficienze dell’azione governativa, nell’amministrazione e nell’economia, non sono conseguenza dell’inadeguatezza della classe politica di governo e di maggioranza che lo sostiene, ma dell’assetto istituzionale, in sostanza della Costituzione che, per definizione, è legge solo di principi, spesso composta di un limitato numero di norme destinate a durare nel tempo. Mentre le politiche pubbliche si perseguono con leggi ordinarie, regolamenti e decreti vari.
Le costituzioni, naturalmente, non sono immodificabili. Per cui ove emergesse per la nostra Carta fondamentale l’esigenza di intervenire, le modifiche dovranno comunque essere approvate con l’ampio consenso con il quale a suo tempo, a fine 1947, è stata approvata. Questa riforma, invece, non è stata approvata “nella seconda votazione da ciascuna Camera a maggioranza di due terzi dei suoi componenti” (art. 138, comma 3) circostanza che avrebbe evitato il referendum. Altro che “larga maggioranza”.
Quel che sfugge al partito della riforma, che pure non è nuovo a colpi di mano, come quando nel 2001 approvò con soli tre voti, la riforma del Titolo Quinto oggi disconosciuta, è che approvare una riforma con un solo voto di maggioranza non è nello spirito dei Costituenti. Infatti la Carta fondamentale vive nel consenso più ampio delle Camere. Conseguentemente con il voto dei due terzi del Parlamento non si fa luogo a referendum. Questa regola, una procedura definita “aggravata” per la necessità del più ampio consenso delle Camere, è conseguenza della natura “rigida” della Costituzione, voluta dai Costituenti a seguito dell’esperienza delle sventure conseguenti all’alterazione delle regole statutarie dovute, nel periodo fascista, alla natura “flessibile” dello Statuto Albertino che ne consentiva la modifica con legge ordinaria. Dal 1948 la Carta fondamentale è, dunque, parametro di riferimento della legislazione ordinaria presidiata dalla Corte costituzionale, quale giudice delle leggi. Uno dei “contrappesi” che rischiano di venir meno al loro ruolo in ragione dell’ampio potere di nomina dei giudici costituzionali che è assicurata dalla legge elettorale, il cosiddetto Italicum, alla maggioranza di governo che, avendo il potere incontrastato di fare le leggi (in ragione dei numeri di cui dispone alla Camera a seguito del premio di maggioranza), influirebbe in misura determinante anche sulla compagine del collegio che ne giudica la legittimità costituzionale. Infatti, oltre ai giudici eletti dalla maggioranza parlamentare, che è anche maggioranza governativa, ve ne sono altri cinque nominati dal Presidente della Repubblica che con la nuova legge elettorale è eletto in solitario dalla medesima maggioranza. Uguale cosa può dirsi della elezione del Presidente della Repubblica, dei Giudici costituzionali e dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.
Sul sistema dei pesi e dei contrappesi nell’assetto costituzionale, che, come detto, con questa riforma sarebbero condizionati dal “premio” di maggioranza di 340 seggi alla Camera, che porterebbe il partito vincitore ad essere autosufficiente in ogni votazione, sbaglia, dunque, il Ministro per le riforme, Maria Elena Boschi, quando afferma che “non corrisponde alla realtà” un pericolo per la tenuta delle istituzioni di garanzia. A suo giudizio, infatti, la Repubblica rimane parlamentare, il Presidente della Repubblica mantiene il ruolo di garante della correttezza istituzionale, le funzioni attribuite alla Corte Costituzionale e l’autonomia della magistratura non vengono intaccate. “Nulla di quello che è stato modificato con la riforma, incide sui pesi e sui contrappesi”, sostiene.
I dubbi, invece, ci sono e fondati, in quanto la maggioranza ha i numeri per prendere tutto, una preoccupazione già manifestata da Bersani in via di principio al momento della votazione sulla legge elettorale (Corriere della Sera, 9 aprile 2014). Dubbio che è espressione di onestà intellettuale e non di un calcolo politico, quello che aveva indotto Renzi a prevedere un tetto del 40% per il vincitore (anche meno, ovviamente, in caso di ballottaggio) nella convinzione che il livello di consensi ottenuto dal Partito Democratico nelle elezioni europee (superiore al 40%) sarebbe stato mantenuto nel tempo.
Di qui le ragioni del NO nel prossimo referendum, istituto che nella storia delle democrazie occidentali e nel nostro ordinamento, è espressione della cosiddetta “democrazia diretta”, le cui ragioni storiche e politiche vanno essenzialmente individuate nella necessità di attribuire al popolo, cioè al corpo elettorale, la verifica di alcune delle decisioni assunte dagli organi della rappresentanza popolare, i Parlamenti.
Chi ha manifestato nel tempo contrarietà al referendum ha individuato nell’istituto “difetti e svantaggi, come, ad esempio, l’inidoneità e l’incompetenza dei comuni cittadini nel deliberare in ordine agli affari di governo spesso tecnicamente complessi; l’impossibilità di giungere ad un compromesso tra le due opposte posizioni, così che il referendum obbliga ad adottare una delle due soluzioni necessariamente antagoniste, e non favorisce la ricerca del consenso su decisioni intermedie, il pericolo che, mediante la rigorosa e forzata utilizzazione del criterio maggioritario, le minoranze risultino ancor più oppresse” (G. M. Salerno). Ha osservato, in proposito, Michele Ainis come “questo referendum ci confisca il diritto di scegliere fra i suoi diversi petali, ma non è colpa dei costituenti: l’art. 138 venne concepito per interventi singoli, chirurgici, puntuali” (L’Espresso del 4 febbraio 2016). È questo il motivo per il quale, forse nel timore che possa prevalere il NO, si vanno facendo strada proposte di “spacchettamento” del quesito referendario (nel senso di prevedere quesiti distinti su singoli punti della riforma) che dovrebbero, nell’intenzione di chi lo propone, acquisire consensi su alcuni degli aspetti più condivisi. Soluzione non praticabile in ragione della connessione esistente tra le norme. Il Presidente del Consiglio si dice contrario a spacchettare: “no a quesiti à la carte”, ha detto in un’intervista a Il Sole 24 Ore il 12 luglio. È la tesi anche di Stefano Ceccanti, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Roma “La Sapienza”, secondo il quale “la riforma costituzionale è una sorta di patto, dal punto di vista tecnico e politico. Questi interventi prevedono delle compensazioni interne: si cede su un articolo, si bilancia con un altro. Tutto si tiene, è inimmaginabile cancellarne solo una parte”. Unico dubbio è: il “patto” con chi è stato fatto se la maggioranza si è tenuta stretta intorno alla sua base escludendo pressoché tutti gli emendamenti dell’opposizione?
Quesito onnicomprensivo, dunque, a fronte del quale l’immagine, offerta dal Presidente del Consiglio attraverso i media, dell’elettore che legge, capisce, valuta e decide non corrisponde alla realtà di un testo che anche gli esperti giudicano di difficile interpretazione, probabilmente perché non privo “di difetti e discrasie”. A mio giudizio un quesito referendario pressoché indecifrabile è una autentica “truffa” ai danni dei cittadini elettori. Una questione che i fautori del SÌ tentano di aggirare affermando, come ha fatto il gesuita Padre Occhetta (su Civiltà Cattolica), che “va anzitutto compresa la logica referendaria”, ricordando che “l’elettore è chiamato a dare un giudizio sintetico e globale, avendo presente il testo vigente (quello che sarebbe confermato in caso di successo del No) e quello approvato dalla riforma Boschi (?)”.
Quindi SÌ o NO all’intero pacchetto, indipendentemente dalle norme, e questo riduce obiettivamente – come ha scritto Michele Ainis – gli spazi di libertà dell’elettore cui la decisione finale è affidata.
Insomma si vota “la logica” e si fa finta di niente quanto alle singole norme.
Abbiamo detto iniziando che i fautori del SÌ sostengono che la riforma fosse necessaria, attesa da anni, che ci chiede l’Europa, che il Presidente Napolitano ha posto al vertice dell’agenda del governo. Secondo i firmatari del manifesto del SÌ e quanti si sono impegnati nel sostenere le ragioni della legge di revisione costituzionale, esponenti dei partiti, dei sindacati, delle associazioni di categoria (dalla Confindustria alla Confartigianato) e del mondo accademico, la riforma, varata in Parlamento “con una larga maggioranza” affronta “efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. “Nel progetto – scrivono – non c’è forse tutto, ma c’è molto di quel che serve, e non da oggi”. È la tesi della riforma attesa “da tempo”, senza che venga in mente a chi la sostiene che se non è stata proposta e approvata vuol dire che non c’era consenso, che in un ordinamento costituzionale è la misura della democrazia.
Le “emergenze istituzionali” sono in vario modo individuate nella necessità di superare il “bicameralismo paritario” ed assicurare la “governabilità”, in tandem con la nuova legge elettorale entrata in vigore il 1° luglio 2016. Si afferma, in particolare, che la Governabilità va individuata nel fatto che, superato “l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato” si prevede “un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo”. Il Senato, infatti, non vota la fiducia. Argomento forte nel dibattito politico e come tale ricorrente nei confronti televisivi come nei conversari della gente, anche se non poteva che essere così. Una Camera i cui componenti non sono eletti dal popolo non può votare la fiducia. Anche il Senato del Regno, di nomina regia, non votava la fiducia. Nessuno lo ha mai dubitato, nonostante quell’assemblea fosse composta dalle maggiori personalità della cultura e delle istituzioni (da Manzoni a Verdi, a Carducci, Einaudi, Croce, Pacinotti, Righi, per fare qualche nome tra quelli più noti al grosso pubblico, se non altro perché ad essi sono intestate scuole e vie).
Una riforma, si sostiene, che “ci chiede l’Europa”. In realtà l’Unione Europea chiede quel che si può realizzare prevalentemente con leggi ordinarie: una giustizia più celere, per favorire gli investimenti e la circolazione dei capitali, procedure amministrative più snelle e più veloci e, soprattutto, più trasparenti, il contrasto all’evasione fiscale e alla corruzione che incidono sulla libertà di concorrenza, uno dei cardini dell’Unione, ai sensi dell’art. 81 del Trattato.
In una visione più ampia dei rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte costituzionale, scrive: “Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Continua Zagrebelsky: dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (?) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?. “L’Europa – aveva detto a La Repubblica – è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia”.
Una riforma, infine, che il Presidente della Repubblica ha posto ad obiettivo dell’agenda del Governo, come ripetutamente affermato dal Ministro per le riforme Maria Elena Boschi, che se l’è intestata, insieme al Presidente del Consiglio. L’impegno di Giorgio Napolitano, in effetti, è stato rilevante e continuo, tanto da rivendicare apertamente la paternità della riforma, con interventi ripetuti e pressanti non consueti ad un Capo dello Stato in una Repubblica parlamentare, affermando che, se prevalesse il NO, considererebbe il risultato una sua personale sconfitta, un disconoscimento della sua iniziativa (“col referendum, a rischio la mia eredità”), aggiungendo che in tal caso “per le riforme è finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi” (Corriere della Sera del 3 maggio 2016). Una indicazione che il Presidente, sappiamo, non poteva dare. L’indirizzo politico è nelle scelte dell’elettorato (che non ne ha date al riguardo) e nel voto delle Camere che approvano le dichiarazioni programmatiche del Governo. Per cui la lettura “presidenzialista”, di cui si è molto parlato (riassunta giornalisticamente nell’espressione “Re Giorgio”), è fuori della Costituzione.
Un comportamento entrato ancora nel mirino di Zagrebelsky che, nell’accusare il Governo  di “arroganza”, ha sottolineato come “queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di chi, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione” (in Loro diranno, noi diciamo, Laterza).
Per chi ha sensibilità democratica e crede nel ruolo del Parlamento, riflesso delle speranze dell’elettorato, ci sono troppe forzature delle regole lungo il percorso riformatore perché non si possa che votare NO.
1° agosto 2016

Exit mobile version