La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 11
La riduzione dei costi della politica? Non ci sono.
di Salvatore Sfrecola
Il risparmio è un altro pezzo forte della legge di revisione costituzionale, ampiamente propagandato fin dall’inizio della procedura legislativa ed oggi, in sede di campagna referendaria, quello dal quale ci si attende il più ampio consenso degli italiani da sempre ostili alla “casta che costa”. Per i fautori del SÌ “lo sforzo per ridurre o contenere alcuni costi della politica è significativo: 220 parlamentari in meno (i senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro indennità resta quella dell’ente che rappresentano); un tetto all’indennità dei consiglieri regionali, parametrata a quello dei sindaci delle città grandi; il divieto per i consigli regionali di finanziare senza controlli i gruppi consiliari; e, senza che si debba aspettare la prossima legislatura, parimenti alle novità precedenti, la fusione degli uffici delle due Camere e il ruolo unico del loro personale. Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate (per esempio in materia di forma di governo: l’Italia rimane una repubblica parlamentare!) o antidemocratiche. A quanti, come noi, sono giustamente affezionati alla Carta del 1948, esprimiamo invece la convinzione che – intervenendo solo sulla parte organizzativa della Costituzione e rispettando ogni virgola della parte prima – la riforma potrà perseguire meglio quei principi che sono oramai patrimonio comune di tutti gli italiani. Si tratta ora però di raccogliere le sfide di una competizione europea e globale che richiede istituzioni più efficaci, più semplici, più stabili”.
Da parte governativa e del Partito Democratico si aggiunge che “il principale taglio dei costi non è tanto quello diretto, con la chiusura dell’inutile Cnel e la trasformazione Senato. Quello vero è indiretto, con la riduzione del conflitto Stato-regioni”. Negli ultimi 15 anni è stato incerto se una determinata materia fosse di competenza della legge statale o regionale. Tale confusione ha comportato costi molto rilevanti soprattutto dal punto di vista degli investimenti esteri, che così finivano con l’essere dissuasi. La vera risorsa allo sviluppo del Paese è rappresentata proprio dalla riduzione del conflitto tra lo Stato e le regioni.
Risparmi veri e consistenti? Vedremo che non è così, considerato anche che il testo della riforma “non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie”. In ogni caso quando si parla di istituzioni pubbliche ci si deve chiedere, in primo luogo, non quanto costano ma quanto rendono alla comunità in termini di utilità e di efficienza. È chiaro che i “riformatori” sostengono che un vantaggio c’è, che ad esempio la trasformazione del Senato (in origine si era parlato della sua abolizione) nell’ottica di chi l’ha proposta dovrebbe e assicurare al procedimento di formazione delle leggi maggiore celerità. In realtà, come abbiamo visto in un precedente articolo (18 agosto), non è vero. L’iter legislativo risulta farraginoso e non esclude la doppia lettura, quella alla quale è stata sempre addebitata ingiustamente (i numeri dicono il contrario) la lentezza nella produzione normativa (che risiede essenzialmente nella incertezza della politica).
In particolare la tesi della deflazione dei conflitti tra Stato e Regioni e tra Regioni in ragione del ritorno allo Stato di molte delle competenze già attribuite alle regioni ha una limitata consistenza, in considerazione dell’indirizzo dato dalla Consulta alla giurisprudenza in materia. Poi c’è da chiedersi se è un passo indietro rispetto alla riforma del 2001 quando l’Italia sembrava essersi incamminata verso il federalismo che avrebbe dovuto responsabilizzare gli amministratori nei confronti del cittadino-contribuente.
Nel 2001 ci furono indubbiamente aspettative esagerate sull’autonomia legislativa regionale, con elenchi un po’ troppo generosi. Questo eccesso di generosità era stato già ridimensionato dalla Corte Costituzionale. Ad esempio, la clausola di supremazia era stata creata dalla Consulta con la sentenza 303 del 2003. Contemporaneamente si dice che le regioni verrebbero responsabilizzate a livello nazionale “con il controllo del Senato”. Non è così.
Osserva Giuseppe Valditara, che ne la scritto su Logos (www.logos-rivista.it), nel suo impegno per il NO, a proposito dei presunti risparmi (il Presidente del Consiglio cominciò con indicarli ben in un miliardo) che, in primo luogo, la riforma mantiene 630 deputati contr i 435 degli Stati Uniti d’America, che hanno oltre 381 milioni di abitanti, a differenza della cosiddetta devolution respinta dal referendum confermativo nel 2006. Ma, soprattutto, la riforma, lasciando intatta la struttura del Senato, incide pochissimo sui costi, dal momento che, contrariamente a quanto si pensa, il vero costo del Senato è dato dal personale e dai servizi che non vengono minimamente ridotti. Tutto questo senza contare che i nuovi compiti di studio, controllo e valutazione, attribuiti al Senato necessiteranno da soli un incremento del personale.
Si dice poi che la riforma abolisce le province. Come ente previsto dalla Costituzione, va chiarito. Quegli enti, dei quali con legge ordinaria sono stati aboliti gli organi elettivi, come sanno i cittadini, avevano competenze importanti, dall’ambiente alla scuola, alla manutenzione delle strade. Ma soprattutto sono la storia culturale, politica, economica ambientale dei territori, una realtà autentica (Marco Minghetti, un politico illuminato ottimo conoscitore dell’Amministrazione, Ministro dell’interno nel 1862 propose di costituire consorzi di province per situazioni omogenee). Sarebbe stato meglio abolire le regioni, enti pressoché inutili, costosi e dannosi il cui bilancio è per la gran parte afferente alle spese del servizio sanitario, trasferite dallo Stato e di cui lo Stato riprende il controllo come si è appena visto. Ci si è chiesti, infatti, più volte che senso abbia un ente che gestisce in proprio poco più del 10 per cento del bilancio? Infatti non a caso Angelo Panebianco, un eminente politologo, schierato per il SÌ, scrive sul massimo quotidiano italiano che “La Riforma non è perfetta, ma i suoi nemici hanno torto” (Corriere della Sera del 10 maggio 2016), evocando quelli che, a suo giudizio, sarebbero i “molti interessi che alimentano la coalizione del no”, in primo luogo delle Regioni che perdono attribuzioni, vuol dire comunque che qualcosa di importante non va in una legge che modifica più di un terzo della Costituzione e della quale fin d’ora si ammette la necessità di successive modifiche, considerato che “la riforma presenta anche punti che avrebbero potuto essere meglio precisati o previsti”, come ha scritto Padre Occhetta, gesuita, su La Civiltà Cattolica.
Sempre a proposito di costi della politica non è vero che la riforma “mandi a casa un terzo dei politici”, essendo stati reintrodotti con legge ordinaria ben 24.000 fra consiglieri e assessori comunali, aboliti nella precedente legislatura: le giunte nei comuni fino a 5.000 abitanti; allargato quelle tra i 3001 e i 5.000 abitanti; ha aumentato i consiglieri comunali nei comuni fino a 10.000 abitanti. Come ha commentato l’Espresso del 27 marzo 2014: “Sui costi del sistema riformato il presidente Renzi ha promesso risparmi eclatanti. La Corte dei conti, che non tifa per nessuno, ipotizza invece che questi costi possano addirittura essere superiori agli attuali”.
Si è detto inizialmente, come già abbiamo fatto cenno, che la revisione costituzionale avrebbe comportato una riduzione della spesa (compresa la soppressione delle province) di circa un miliardo. In realtà risparmieremo più o meno 48 milioni di euro l’8,8% dei 540 milioni che, stando all’ultimo bilancio di previsione, il Senato spenderà nel 2016 per assicurare il suo funzionamento.
Le attuali indennità parlamentari che oggi pesano sul bilancio del Senato per 42 milioni 135 mila euro”.
Sottraendo i circa 14 milioni che rientrano nelle casse dello Stato sotto forma di Irpef il risparmio netto ammonterà a circa 28 milioni di euro.
Poi ci sono altri 37 milioni 266 mila euro che Palazzo Madama attualmente sborsa per le spese sostenute dai senatori per lo svolgimento del mandato:
Diaria (13 milioni 600mila euro); spese generali (6 milioni 400mila); dotazione di strumenti informatici (600mila); l’esercizio del mandato (16 milioni 150mila); ragioni di servizio (516mila).
Con la riduzione da 315 a 100 del numero dei senatori, il risparmio si assesterà intorno ai due terzi del totale.
In pratica si risparmieranno circa 25 milioni, ma anche in questo caso lordi dal momento che circa 5 rientrano attualmente all’erario attraverso il prelievo fiscale.
Un taglio netto di altri 20 milioni che sommati ai 28 milioni delle indennità, portano il totale a 48 milioni di euro.
Chiudo con una riflessione sui costi del Prof. Valditara che ne ha scritto di recente su FaceBook: “Clamoroso: la riforma Renzi Boschi aumenta i costi della politica: il combinato disposto fra riforma costituzionale e legge elettorale porta un saldo netto negativo per il bilancio dello Stato. La legge elettorale prevede un inedito doppio turno. Il costo di un turno elettorale è di ben 300 milioni di euro. Il taglio dei senatori non arriva a 50 milioni di euro. Le province son state già eliminate dalla legge Del Rio. L’eliminazione del CNEL porterà un risparmio di circa 2 milioni di euro. Morale: se passa la riforma ci sarà rispetto ad oggi un aggravio sostanziale di almeno 50 milioni di euro”.
14 settembre 2016
Barak Obama il “medico”
di Domenico Giglio
In questo ultimo scorcio di presidenza Obama non si comporta più da Presidente di tutti gli statunitensi, ma da uomo di punta del Partito Democratico, impegnato a conservare al suo partito la presidenza degli USA affermando che farà tutto e di tutto per fare eleggere Hillary. Proprio in occasione del collasso che ha colpito la Clinton l’11 settembre, in occasione della cerimonia in ricordo dell’attacco terroristico alle “torri gemelle”, collasso pare dovuto ad una polmonite, Obama è uscito con la frase: “Hillary ha la forza per farcela”, dimostrando doti taumaturgiche in merito alla malattia che ha colpito la candidata democratica.
Essere a fianco di persona amica nelle avversità è bello e nobile, come è auspicabile, sempre come amico ad amico, augurare una pronta e completa guarigione, ma decidere in merito alle condizioni di salute, se non si ha una competenza specifica è solo una forma di propaganda elettorale, dal momento che negli Stati Uniti, da qualche decennio, da Reagan in poi, si presta, giustamente, molta attenzione alle condizioni di salute dei candidati alla presidenza.
Siamo dunque alla ormai consueta partigianeria dei presidenti, nelle repubbliche dove vige il criterio della elezione diretta del capo dello stato, e dove spesso l’elettorato si divide quasi a metà ,anche se negli USA si può obiettare che l’elezione del presidente avviene con i voti dei rappresentanti degli stati, questi sì eletti con voto popolare, per cui però può addirittura verificarsi che la maggioranza del voto degli elettori sia difforme dalla maggioranza del voto dei delegati, e l’eletto dovrebbe sentirsi ancora di più rappresentante di tutto il popolo. Ma di queste storture dei regimi repubblicani difficilmente si parla!
14 settembre 2016
Grave interferenza dell’Ambasciatore USA
John Phillips si schiera a favore della riforma costituzionale
di Salvatore Sfrecola
Sul fronte del SÌ, sempre più in difficoltà nei sondaggi, si schiera l’Ambasciatore americano in Italia, John Phillips, secondo il quale la vittoria del No “sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia”.
Intervenuto a un incontro sulle relazioni transatlantiche, organizzato a Roma dall’Istituto di studi americani, per l’Ambasciatore “quello che serve all’Italia è la stabilità e le riforme assicurano stabilità, per questo il referendum apre una speranza. Molti Ceo di grandi imprese Usa guardano con grande interesse al referendum. La vittoria del Sì sarebbe una speranza per l’Italia, mentre se vincesse il No sarebbe un passo indietro”.
Gravissima interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano, è stato fatto notare immediatamente, che certamente assicurerà nuove frecce all’arco di quanti sono contrari alla riforma targata Renzi-Boschi. Gli italiani sono allergici ad indicazioni che limitino la loro libertà ed a quanti dicono loro quel che devono o non devono fare, come ha dimostrato la reazione alla famosa indicazione di Craxi “andate al mare” nel giorno del referendum sulla legge elettorale e sul finanziamento dei partiti.
L’iniziativa, poco diplomatica, di un Ambasciatore al termine del suo mandato e probabilmente in uscita al cambio del Presidente USA, costituisce indubbiamente una gravissima interferenza nella vita politica interna di un paese amico, ma rivela anche una straordinaria ingenuità perché destinata a danneggiare chi all’evidenza intendeva supportare, il Presidente del Consiglio che andrà negli Stati Uniti il 18 ottobre, in occasione della cena di Stato offerta alla Casa Bianca dal Presidente Usa Barack Obama, e la sua maggioranza. La sua, infatti, è una tesi che facilmente si smonta.
Nessun fatto positivo per l’economia deriva o può derivare dalla riforma costituzionale. Gli investitori esteri – e l’Ambasciatore lo sa bene – hanno bisogno di certezza del diritto, di una amministrazione meno pesante e più trasparente (nella quale oggi le procedure lente e farraginose agevolano comportamenti corruttivi), di una giustizia civile e amministrativa più veloce che assicuri il rispetto delle regole fondamentali della concorrenza, di una lotta vera all’evasione fiscale, che altera le condizioni del mercato. Altro che di riforme costituzionali, uno strumento di distrazione di massa che serve a nascondere l’incapacità della classe politica di governo di risolvere i problemi del Paese. Come quando Berlusconi sostenne, per alcuni giorni, che l’art. 41 della Costituzione doveva essere modificato per favorire il rilancio dell’economia. Come questo fosse impedito da una norma che afferma che “l’iniziativa economica privata è libera” (comma 1), ma che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (comma 2) nessuno, né allora né dopo ce lo ha spiegato.
L’intervento dell’Ambasciatore americano nella campagna referendaria si rivelerà presto un boomerang per chi lo ha sollecitato. Se non è stata una iniziativa personale diretta ad ingraziarsi il potere per dimostrare a Washington di essere gradito a Palazzo Chigi, ha scatenato le critiche tra i sostenitori del NO, in particolare del centrodestra. “Ricordiamo all’Ambasciatore americano Phillips l’art. 1 della nostra Costituzione: `la sovranità appartiene al popolo´… italiano”, ha scritto Renato Brunetta, capogruppo ForzaItalia alla Camera, intervenendo su Twitter. Ed ha sollecitato “una parola in merito da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e da parte del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che fino a prova contraria è il premier di tutti gli italiani e che quindi ha il dovere di garantire, a livello internazionale, l’onorabilità e la libertà del Paese e dei loro cittadini”. Anche per Altero Matteoli, Senatore di FI, “Quella dell’ambasciatore Usa in Italia, più che un auspicio, è un’entrata a gamba tesa ingiustificata negli affari interni dell’Italia, eseguita su delega di un presidente alla fine del suo mandato. Peraltro è fondata su una valutazione errata della riforma costituzionale, che in realtà non produrrebbe, se approvata, gli effetti sperati dal diplomatico. Il bicameralismo, infatti, non si supera e i tempi legislativi rischiano addirittura di allungarsi, mentre si privilegia una presunta stabilità offendendo uno dei principi basilari della democrazia: la rappresentanza”.
Il Vice Presidente della Camera Di Maio, del Movimento 5 Stelle ha rincarato la dose definendo il premier Matteo Renzi “il più grande provocatore del popolo italiano, un presidente non eletto, senza alcuna legittimazione popolare, che sorride mentre le persone soffrono”. Ed ha aggiunto “Il referendum di ottobre, novembre o dicembre (ci faccia sapere la data, quando gli farà comodo) lui stesso lo sta facendo diventare un voto sul suo personaggio che ha occupato con arroganza la cosa pubblica, come ai tempi di Pinochet in Cile. E sappiamo come è finita. Noi continueremo a raccontare i pericoli della riforma costituzionale, il nostro obiettivo è salvare la Carta fondamentale del Paese dalle sue oscene modifiche. Questa non è una riforma, è un attentato alla democrazia”, ha concluso Di Maio.
Per la Presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, il rappresentante in Italia di un governo straniero, soprattutto se amico, “non può in alcun modo permettersi intromissioni di questo tipo nella politica interna. Renzi dimostri di non essere un inutile fantoccio e pretenda le scuse immediate e formali da parte degli Usa. Renzi viene pagato dagli italiani per difendere la sovranità nazionale, non per fare il lacchè di lobby e grande aziende”.
13 settembre 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 10
Quali garanzie per gli organi di garanzia?
di Salvatore Sfrecola
“Il sistema delle garanzie – sostengono i fautori del SÌ – viene significativamente potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. Del resto i contrappesi al binomio maggioranza-governo sono forti e solidi nel nostro paese: dal ruolo della magistratura, a quelli parimenti incisivi della Corte costituzionale e del capo dello Stato, a un mondo associativo attivo e dinamico, a un’informazione pluralista”.
È un passaggio delicato della legge di revisione costituzionale, oggetto di critiche perché, in uno alla riforma della legge elettorale, l’Italicum, i contrappesi, cioè quel sistema di check and balances come si usa dire che devono garantire l’equilibrio dei poteri, elemento essenziale del costituzionalismo, perdono certamente quella autorevolezza che deriva dall’essere necessariamente eletti con il più ampio concorso di forze politiche.
Osserva, al riguardo, Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte costituzionale e autorevole studioso del diritto pubblico, che “il costituzionalismo nasce, in opposizione all’assolutismo, per sostenere la necessità di dotarsi di uno strumento – la Costituzione, appunto – che funga da limite al potere. Il costituzionalismo ritiene che il potere illimitato sia un male, perché potrebbe fare dei governati quel che vuole. Per questo si pone l’obiettivo di separare – attraverso norme sulla forma di governo – e di limitare . attraverso le norme sui diritti – il potere.
Ne Lo spirito delle leggi, Montesquieu scriveva:
chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove non trova limiti [ ]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [?] il potere arresti il potere.
Come si sa, il titolare del massimo potere nel nostro ordinamento è il governo. Si capisce, allora, che è totalmente incompatibile con i principi del costituzionalismo che il titolare del potere assuma l’iniziativa di cambiare, secondo i suoi desideri, lo strumento che finge da limite al potere. In una caso del genere, si può dubitare che la Costituzione sia ancora un limite. Un limite è tale se è imposto dall’esterno, se è eteronomo. Se un soggetto si pone da sé i limiti alla propria azione, tali limiti non sono eteronomi, ma autonomi, cioè nella sua disponibilità. Il che vale a dire che non sono dei veri limiti.
Il governo che assume l’iniziativa di promuovere un ddl di revisione costituzionale si pone, dunque, al di fuori della logica del costituzionalismo” (G. Zagrebelsky, Loro diranno, noi diciamo, Laterza, Bari, 2016, 52).
Invece, in una Camera dominata dal partito di maggioranza che ha assicurati 340 seggi su 630 deputati (perché Renzi, che ha diminuito i senatori da 315 a 100 non ha ridotto anche i deputati? Si dice perché la riforma non sarebbe stata approvata), forte sarà la tentazione di decidere in solitario quando sarà di eleggere il Presidente della Repubblica, i Giudici costituzionali, i membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. L’effetto è quello di una trasformazione della Repubblica da parlamentare in altra cosa non ben definita. Perché se diminuisce il ruolo del Parlamento che risulta di fatto subordinato al Governo, come ha spiegato Alfredo Grandi, Vice Presidente del Comitato per il NO, su Il Fatto Quotidiano del 20 agosto, a pagina 13) è evidente che le elezioni nelle quali non è richiesta più ampia maggioranza di quella del partito risultato vincitore alle elezioni daranno luogo a scelte mirate in direzione di personalità “di area” e fedeli. L’esempio dei giudici costituzionali, la più importante garanzia di una verifica della legittimità delle leggi a fronte dei principi e delle regole della Carta fondamentale, deve preoccupare. I Giudici sono 15. La maggioranza di essi (10) è scelta con criteri politici, i 5 eletti dalle Camere ed i 5 nominati dal Presidente della Repubblica che è eletto dalla maggioranza di governo.
Abbiamo perduto una certa consapevolezza dei valori dell’indipendenza dei giudici delle leggi. Indipendenza che è certamente, e in primo luogo, della persona ma che deriva anche dall’immagine che risulta dall’esperienza dell’eletto o del nominato. Un esempio. Giuliano Amato è senza dubbio un giurista di altissimo profilo, docente di diritto costituzionale, autore di pregevoli studi, ma è anche un politico a tutto tondo. È stato Presidente del Consiglio ed ha avuto altri importanti incarichi governativi, Ministro del tesoro, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. È un uomo di parte, illustre, ma uomo di parte. Se ne dimenticherà quando sarà chiamato a riferire nella Camera di consiglio della Corte costituzionale? Non dubito che giudichi con il massimo della serenità senza farsi influenzare da sue pregresse esperienze governative e partitiche. Ma agli occhi della gente è un uomo di parte. Infatti, intervistato sul tema della riforma costituzionale ha manifestato apprezzamento per la scelta del disegno Renzi – Boschi. Di più, a suo giudizio “rafforzerà l’esecutivo ma non indebolirà necessariamente il Parlamento. Infatti, la previsione di una Camera “verso la quale il Governo non può porre la questione di fiducia, non è detto che non costituisca un limite per il governo stesso”. Riesce difficile comprendere come.
Ha detto anche della modifica dei rapporti tra Stato e regioni. Le autonomie saranno rappresentate nel nuovo Senato in cui troveranno posto i consiglieri regionali e i sindaci delle principali città italiane. “Sono sempre stato favorevole ad avere nella legislazione nazionale il punto di vista delle regioni”, ha commentato Amato. Sulla nuova ripartizione di competenze – con molte materie che torneranno ad essere di potestà legislativa esclusiva dello Stato – l’ex premier ha fatto chiaramente intendere tutti i limiti del sistema attuale. Il problema principale – come si osserva da più parti – è l’elevatissimo contenzioso cui l’attuale distribuzione delle competenze ha dato luogo.
Insomma si è pronunciato su temi che potrebbero, ove la riforma costituzionale passasse al vaglio del referendum, entrare nel novero delle questioni rimesse all’esame della Consulta, magari perché riguardanti l’Italicum o la legge “elettorale” del nuovo Senato.
Un giudice costituzionale con rilevante esperienza o una forte connotazione politica urta contro la mia sensibilità democratica.
Tra le cose che i fautori del SÌ sottolineano a sostegno dell’apertura sui temi delle garanzie è l’aumento a 150.000 del numero di firme necessario alla presentazione di un progetto di iniziativa popolare con introduzione di “garanzie procedurali per assicurarne il successivo esame e l’effettiva decisione parlamentare”. Mi pare obiettivamente poco.
È stato abbassato il quorum per la validità del referendum abrogativo: se richiesto da almeno 800.000 firmatari il quorum è fissato alla maggioranza dei votanti alle elezioni politiche precedenti. Introdotto l’istituto del referendum propositivo e di indirizzo.
Gli strumenti di democrazia diretta non vengono favoriti: da un lato si prevede l’innalzamento del numero delle firme necessarie per poter presentare disegni di legge d’iniziativa popolare (e per promuovere un referendum, seppur compensato con un abbassamento del quorum per la validità del voto referendario), dall’altro si rinvia ai regolamenti parlamentari di stabilire le regole per la presa in esame disegni di legge d’iniziativa popolare da parte delle Camere.
Viene enfatizzata la norma che riconosce ad un terzo dei senatori o ad un quarto dei deputati la possibilità di sottoporre alla Corte Costituzionale le leggi elettorali prima della loro promulgazione. Ancora un pasticcio, perché è da chiedersi se la decisione della Corte costituzionale in questo esame preventivo esclude o meno un eventuale giudizio di costituzionalità sollevato incidenter tantum da un giudice nel corso di un processo. Probabilmente l’intento è quello di escludere un giudizio di costituzionalità, come quello, per intenderci, che ha messo fuori legge il Porcellum e ha all’esame l’Italicum.
13 settembre 2016
Terremoto: i danni della natura e quelli dell’uomo
di Salvatore Sfrecola
“Il sisma non uccide, uccidono le opere dell’uomo”. Le parole del Vescovo di Rieti, Monsignor Domenico Pompili, pronunciate ad Amatrice, nel corso dell’omelia per i funerali delle vittime del terremoto, scolpiscono, senza mezzi termini, quel che pensa la gente alla quale i giornali forniscono quotidianamente nuovi elementi di indignazione e di preoccupazione. Articoli e commenti, interventi di esperti dimostrano che ad Amatrice, come ad Accumuli ed ad Arquata del Tronto la furia della natura ha avuto buon gioco su abitazioni e immobili pubblici non a norma, restaurati o ristrutturati senza l’integrale rispetto delle norme antisismiche, mentre si va delineando un vasto ventaglio di responsabilità pubbliche e private per assenza di controlli sulle opere realizzate, per mancata utilizzazione di fondi disponibili, compresi quelli per la mappatura dei territori, che avrebbero consentito di conoscere dove è necessario intervenire. Anche il Presidente del Senato, Pietro Grasso, è andato giù duro: “se cadono i palazzi pubblici è perché ignoriamo le regole”, che sono quelle dettate dal potere pubblico. Ma a cadere sono stati anche immobili privati, oggetto di interventi di risanamento e di consolidamento evidentemente inadeguati, non conformi alle regole che l’autorità pubblica avrebbe dovuto far rispettare. Insomma un panorama che non si discosta da quelli che erano stati constatati in altre realtà dove la natura, fosse il terremoto, come all’Aquila, o la furia delle acque, come a Genova o in Sardegna, non ha trovato ostacoli nell’azione dell’uomo, a tutela del territorio e degli immobili, nell’esercizio delle funzioni pubbliche commesse, in vario modo, allo Stato alle regioni e agli enti locali.
E c’è stato chi diligentemente, come Gian Antonio Stella, da sempre puntuale nella analisi di inefficienze, disfunzioni e sprechi di risorse pubbliche (Corriere della Sera del 27 agosto) è tornato indietro nel tempo, per dimostrare che l’autorità pubblica anche in tempi precedenti all’unità d’Italia, si era data carico di indicazioni con la prescrizione di norme tecniche obbligatorie per prevenire o riparare o ricostruire immobili pubblici e privati nei luoghi colpiti da calamità naturali. Se ne occuparono i regnanti delle due Sicilie e se ne è occupato lo Stato nazionale con il regio decreto 18 aprile 1909, n. 193, “portante norme tecniche ed igieniche obbligatorie per le riparazioni ricostruzioni e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati nei luoghi colpiti dal terremoto del 28 dicembre 1908 e da altri precedenti elencati nel regio decreto 15 aprile 1909 e ne designa i comuni”. Su proposta del Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, e del ministro dei lavori pubblici, Pietro Bertolini, il provvedimento prende lo spunto dagli eventi tragici del dicembre del 1908, quando Reggio Calabria e Messina furono devastate da un terremoto di magnitudo 7.10, associato ad un maremoto, quello che oggi siamo abituati a chiamare di tsunami, che causò oltre 100 mila vittime e danni ingentissimi al tessuto urbano, specialmente della città siciliana, completamente distrutto. Anche in quel caso, straordinario fu l’impegno del governo e degli italiani intervenuti ad alleviare le sofferenze di quelle popolazioni con in testa il Re Vittorio Emanuele e la Regina Elena, che a lungo hanno seguito sul posto le opere di soccorso. Pronto anche l’aiuto di alcune potenze straniere, in particolare dello Zar di Russia, Nicola II, alla cui Corte era cresciuta Elena del Montenegro, che fece intervenire unità della flotta, rimaste a lungo alla fonda, accanto alle navi della nostra marina militare, per assistere i feriti e far fronte alle persone che avevano perduto tutti i loro averi.
Come si evince dalle premesse al decreto, il governo aveva prontamente istituito, nel gennaio del 1909, una Commissione consultiva con l’incarico di studiare le norme tecniche ed igieniche obbligatorie per le riparazioni, ricostruzioni e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati dei comuni colpiti dal terremoto o da altri precedenti. Appare evidente l’intento del governo di dettare una disciplina adeguata, non solo a far fronte all’emergenza di quel momento ed alle altre precedenti, ma anche per le nuove costruzioni, oltre che per le riparazioni e la messa in sicurezza di quelle danneggiate. È una corretta impostazione che, sulla base dell’esperienza di una grande tragedia, ha inteso affrontare il problema del rischio sismico diffuso nel nostro Paese un po’ lungo tutta la dorsale appenninica. Cioè è immaginata una normativa diretta a prevenire nuovi disastri, perché, come ha detto Monsignor Pompili in un altro passo della sua omelia, “l’uomo è più colpevole del terremoto”.
La lettura del decreto è estremamente istruttiva perché all’art. 1 vieta la costruzione di edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine tra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta. Nei successivi articoli il decreto stabilisce regole sull’altezza dei nuovi edifici, prevedendo che un numero superiore di piani sia consentito solo a seguito del parere favorevole del Consiglio superiore dei lavori pubblici con relativo progetto tecnico, quando gli edifici siano isolati e abbiano all’intorno un’area libera di larghezza non inferiore a quella prescritta. Infatti abbiamo visto dalle immagini del terremoto del 24 agosto strade urbane completamente occluse dalle macerie delle case crollate, con difficoltà per i soccorritori che non riescono facilmente a raggiungere le persone intrappolate sotto i muri crollati. Ugualmente sono date prescrizioni in ordine alle fondazioni, con richiamo alle “migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera”. Si prescrive anche che, al di sopra del piano di gronda, non si possono eseguire opere murarie di alcuna specie salvo i muri di timpano eseguiti con materiale di riempimento assai leggero, mentre i parapetti dei terrazzi superiori al piano di gronda debbono essere di legno, di ferro o di cemento armato. Si richiede un’ossatura di nervature di legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata capaci di resistere contemporaneamente a sollecitazione in compressione, trazione e taglio.
Qualche frase delle disposizioni del decreto per dire come non si sia trascurato nulla. Quel che riceviamo dal decreto è, dunque, un complesso di regole ben prima che, in questi giorni, esperti vari, ingegneri, architetti, geologi ne suggerissero l’adozione sui giornali e in televisione, quasi si debbano ricercare nuove disposizioni che, invece, ci sono, dettagliate, molto precise e molto chiare, come un tempo si facevano le leggi, senza quel guazzabuglio di rinvii alle leggi e regolamenti e decreti vari, deroghe nelle quali si inserisce il malaffare perché, come insegna l’esperienza, il ricorso a semplificazioni forzate, astrattamente giustificate dalla astrusità di molte norme, è sempre occasione di comportamenti illeciti nella gestione e nei controlli. Questi, in particolare, dovrebbero rappresentare la cartina di tornasole di una amministrazione efficiente dove i collaudi costituiscono una attestazione professionalmente qualificata della corrispondenza di un’opera alle prescrizioni contrattuali e alle regole dell’arte. Va aggiunto che non si tratta di ruberie sulle rifiniture sulle piastrelle del pavimento o su materiali utilizzati per rivestire scale o androni. Emergono gravi errori progettuali, l’uso di materiali scadenti o inadatti, interventi sulle strutture portanti delle opere che non hanno resistito all’onda sismica, provocando un numero notevole di vittime tra morti e feriti, alcuni dei quali gravi.
Non è accettabile. In un Paese nel quale le regole come scrive ancora Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 31 agosto sono tante, in una “palude di regole e regolette”, quel che è accaduto non sembra riguardare complessi problemi interpretativi perché emergono dai racconti e dalle evidenze gravi, ripetuti inadempimenti. Valga per tutti il caso della chiesetta inaugurata lunedì 22 agosto, a seguito di interventi di ristrutturazione e di adeguamento antisismico, e sbriciolatasi letteralmente nella notte di mercoledì 24, alle 3,36, alla prima scossa. Anche per la scuola di Amatrice si sente dire che il Comune avrebbe dato via libera all’utilizzazione dell’immobile in carenza di un intervento di adeguamento nei termini dovuti, eppure pubblicizzato all’atto della sua inaugurazione.
Naturalmente sono tutte circostanze da verificare. Ciò che sta facendo la magistratura. Le Procure di Rieti e di Ascoli Piceno hanno affidato alla polizia giudiziaria gli occorrenti accertamenti e le necessarie acquisizioni documentali.
Quel che compare, come in altri settori del nostro Stato, è una assoluta incapacità di dettare regole chiare, come quelle del 1909 che probabilmente sono state abrogate, magari implicitamente, per far posto a nuova regolamentazione confusa e inadeguata, come dimostra la vicenda del Codice degli appalti che, appena pubblicato, ha richiesto decine di correzioni, pietosamente definite “errata corrige”. A questo si aggiunge la incapacità di far rispettare le regole, di svolgere adeguati controlli amministrativi e tecnici sia in fase di programmazione degli interventi che in quella successiva della realizzazione delle opere. Controlli e responsabilità ben delineati dal decreto del 1909 che, oltre a prevedere sanzioni pecuniarie, compreso l’arresto, pena alla quale “soggiace, oltre il committente, anche il direttore, l’appaltatore o assuntore dei lavori, ai quali può inoltre essere inflitta la sospensione dell’esercizio della professione o dell’arte” (art. 39), stabilisce che (art. 44) “ogni elettore amministrativo ha diritto di richiedere, anche in giudizio, limitatamente al territorio del Comune nelle cui liste trovasi inscritto, che vengano eseguite le disposizioni contenute nelle presenti norme”. Infine è certamente importante che quella normativa abbia previsto (art. 46) che “i sindaci, gli ufficiali del genio civile, gl’ingegneri degli uffici tecnici provinciali e comunali, gli agenti della forza pubblica, le guardie doganali e forestali, e in genere tutti gli agenti giurati a servizio dello Stato, delle Provincie e dei Comuni, sono incaricati di vigilare per la esecuzione delle disposizioni contenute nelle presenti norme”.
Di fronte a questa endemica incapacità di gestire l’ordinaria amministrazione, perché di questo si tratta, ha un tragico spazio l’emergenza che dovrebbe per definizione essere un fatto eccezionale ma che diventa ordinario perché solo nell’emergenza si riescono a utilizzare i fondi ed ad accelerare le pratiche burocratiche con l’effetto, che si è verificato più volte, che questa situazione dia spazio agli illeciti, alle speculazioni ed a tutte quelle attività che vengono realizzate in deroga alle leggi sugli appalti e sui controlli, con costi che lievitano enormemente, come insegna l’esperienza delle precedenti catastrofi naturali nelle quali, la necessità di provvedere ha spesso indotto l’autorità pubblica ad acquisti a prezzi esorbitanti perché il privato imprenditore denunciava mancanza di beni, difficoltà di reperirli, con inevitabile aumento dei costi. È accaduto sempre e sembra difficile che si possa, non dico eliminare, ma contenere questa situazione nella quale, come vampiri e sciacalli si gettano imprenditori e amministratori alla ricerca di vantaggi palesemente illeciti e indebiti. Non a caso, ha detto il Procuratore Antimafia, Franco Roberti, “il rischio è nella massima urgenza” quando la guardia si abbassa ed è più facile che la criminalità organizzata si infiltri nelle procedure.
È possibile nutrire fiducia oggi, di fronte all’emergenza del terremoto della 24 agosto? Vorremmo fosse possibile, desideriamo fortemente che sia possibile ma è evidente che un cambio di passo, tanto per usare un’espressione in voga a Palazzo Chigi e dintorni, non è facilmente immaginabile. E soprattutto appare arduo ritenere che il progetto, delineato con una felice espressione “casa Italia”, di una presa di coscienza della grave situazione dell’intero patrimonio immobiliare italiano possa, in relazione alle rilevanti occorrenze finanziarie, decollare veramente e proseguire nel tempo dando luogo ad una attività di prevenzione e di messa in sicurezza delle costruzioni esistenti e di quelle da realizzare, attività che costituirebbe un grande investimento nazionale, capace di creare ricchezza e posti di lavoro secondo quelle regole che sono state indicate dagli economisti della scuola inglese di Keynes che individuano in un grande impegno finanziario che coinvolga il pubblico e il privato, un elemento indispensabile per il rilancio dell’economia.
E torna in mente, a venti anni dalla sua scomparsa, la lezione (inascoltata) di Antonio Cederna che denunciava “il cronico rifiuto di ogni programmazione e interventi preventivi” per limitare i danni dei terremoti e per evitare gli effetti delle alluvioni a seguito dello sconvolgimento del regime dei fiumi e “contro l’agguerrito schieramento di coloro che considerano il territorio nazionale (e i suoi comprensori illustri) come semplice area fabbricabile da lottizzare, cementificare, asfaltare e privatizzare”.
1 settembre 2016