mercoledì, Ottobre 30, 2024
HomeAnno 2016Dicembre 2016

Dicembre 2016

Meloni – Salvini, in tandem per trascinare il Centrodestra
di Salvatore Sfrecola

Richiamo una breve considerazione scritta per Facebook, a caldo, ieri sera subito dopo l’intervista di Giorgia Meloni a Faccia a Faccia condotto da Giovanni Minoli su La7: “Ottima performance ? Una ipotesi politica per il Centrodestra di domani. Idee chiare esposte con serena determinazione”. Confermo oggi quel che avevo pensato ieri, tra l’altro ancora sotto l’effetto della manifestazione di sabato pomeriggio a Roma, la sfilata che lancia “Italia sovrana” da piazza dell’Esedra a Piazza San Silvestro, conclusasi con il discorso dal palco dopo una serie di interventi tra i quali spiccava quello di Matteo Salvini, applauditissimo, e di Renato Brunetta, il quale ha ricordato che il Centrodestra “è stato sempre plurale”. In piazza c’erano anche Daniela Santanché, Giovanni Toti e Giulio Tremonti.
Ha chiuso Giorgia Meloni, non soltanto per ragioni ovvie, avendo Fratelli d’Italia preso l’iniziativa di organizzare la manifestazione insieme alla Lega ed a NoiConSalvini. È evidente, infatti, la centralità della Meloni nella prospettiva di un Centrodestra che si ponga l’obiettivo del recupero di quel ruolo maggioritario che è senz’altro presente nel Paese e che attende solamente di poter esprimere convintamente tutta la sua forza elettorale. Le ragioni della centralità di Fratelli d’Italia sono presto dette, sulla base di una analisi della situazione dei partiti che compongono lo schieramento. Cominciando dalla Lega che da Roma in giù si presenta con la denominazione NoiConSalvini, presente nelle elezioni comunali a Roma, fortemente impegnato nella campagna per il NO in tutte le città del Lazio dove crescono e si consolidano significative presenze. Gian Marco Centinaio, Presidente del Gruppo parlamentare della Lega al Senato, ha svolto con impegno il compito che Salvini gli ha assegnato, quale Commissario straordinario per Roma e provincia, individuando, tra l’altro, i responsabili territoriali. A Roma Felice Squitieri, in provincia Pierluigi Campomizzi, per fare solo i nomi più noti. Tuttavia l’impegno di NoiConSalvini che ha dato risultati importanti ne darebbe ancora di più se fosse abbattuta la barriera, più che altro psicologica, della connotazione “nordista” del movimento. Salvini è consapevole della necessità di una apertura ai valori della Nazione e non tralascia occasione per ribadirli. Ma è indubbio che una qualche diffidenza permane, soprattutto nei romani.
E qui, come collante del Centrodestra nazionale ha un ruolo essenziale Giorgia Meloni. Perché l’apporto di Fratelli d’Italia arricchisce lo schieramento dei valori della identità nazionale dei quali da sempre si alimenta la Destra. Anche perché Forza Italia è in difficoltà per l’atteggiamento di Berlusconi, considerato da molti poco affidabile, al di là delle più recenti esternazioni in tema di grande coalizione, ipotesi respinta nell’intervista di ieri a Il Messaggero. È troppo vivo il ricordo del “patto del Nazzareno” perché si possa essere certi che quel che l’ex Cavaliere dice corrisponda effettivamente al suo pensiero e soprattutto alle sue intenzioni. In particolare la posizione assunta sulla legge elettorale fa temere l’intento di un rinvio delle elezioni che, invece, la Meloni e Salvini vorrebbero ravvicinate anche per sfruttare il clima favorevole ai “populismi” che la gente comincia a capire essere, al di là della connotazione denigratoria assegnatagli dal politically correct, la vera essenza della democrazia, l’ascolto delle esigenze del popolo.
Giorgia Meloni ha parlato ieri da candidata al governo del Paese ripetendo più volte “è la fine della rassegnazione? possiamo vincere”. Con calma, spesso con ironia quando Minoli cercava di stanarla soprattutto sui suoi rapporti con Berlusconi, ha enunciato le esigenze degli italiani che chiedono più lavoro e meno tasse, più sviluppo e più sicurezza, un Paese che utilizzi al meglio le sue tante risorse che sono le intelligenze che troppo spesso sono costrette ad esprimersi all’estero, così impoverendo la nostra classe media e l’intera società. Poi la valorizzazione delle ricchezze della natura e dell’arte, risultato dell’impegno di generazioni di italiani lungo i secoli, da Roma al Rinascimento, passando per quell’Evo Medio ingiustamente denigrato quando in quei secoli si è preparata l’esplosione della arti e delle scienze che hanno avuto l’Italia come protagonista. Un’Italia variegata e ricca delle specificità delle nostre città e dei territori nei quali arte e ambiente si uniscono in una realtà che è un unicum nella storia del mondo. Giorgia Meloni, in sostanza, con la sua presenza attesta che l’Italia, meglio che l’identità di questo popolo è costruita sulla pluralità delle esperienze storiche e culturali che l’hanno resa famosa e sono la ragione della sua attrattiva, attestata non solamente dai turisti che da secoli visitano le nostre città ma anche dallo studio della lingua italiana sempre più diffuso, certamente più di quanto ritengono i nostri governanti che ben poco fanno per diffondere la presenza della nostra cultura. Perché, anche se qualcuno ha detto che “con la cultura non si mangia”, è vero, invece, che è un ottimo biglietto da visita per tutto il made in Italy che di quella cultura è espressione.
30 gennaio 2017

La rivincita dei Mandarini
di Salvatore Sfrecola

A volte ritornano, verrebbe da dire, dopo le ultime cronache da Palazzo Chigi, dove si sente dire di Grand Commis che tornerebbero a ricoprire prestigiosi incarichi all’interno del governo, a cominciare da quello, chiave, di Capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (DAGL), oggi diretto da Antonella Manzione, giunta a Roma al seguito di Matteo Renzi che a Firenze le aveva affidato la carica di Comandante della Polizia Municipale.
Renzi, infatti, appena insediato a Palazzo Chigi, non aveva confermato i Consiglieri di Stato, della Corte dei conti e gli Avvocati dello Stato che aveva trovato in gran numero negli uffici di “diretta collaborazione” alla Presidenza e nei ministeri, tra Capi di Gabinetto e degli Uffici legislativi e consiglieri giuridici. Com’è tradizione, del resto, come hanno scritto Roberto Mania e Marco Panara in “Nomenklatura – Chi comanda davvero in Italia”. Insomma i “mandarini”, come in Cina venivano chiamati gli alti burocrati. A cominciare proprio dalla Presidenza del Consiglio dove negli anni scorsi Antonio Catricalà, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, era passato da Segretario generale a Sottosegretario di Stato. In precedenza aveva svolto funzioni di Capo di Gabinetto alla funzione pubblica e alla ricerca scientifica con Ruberti. Giurista di valore, civilista raffinato, la sua passione vera, ama ripetere, aveva ricoperto con Claudio Zucchelli, capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, un ruolo centrale nel governo Berlusconi. Anche come “padre nobile”, lui giovanissimo, degli altri magistrati amministrativi, anche quando passati a cariche politiche , come Franco Frattini, altro giudice di Palazzo Spada.
Da Zucchelli ed Antonella Manzione, certo un fatto traumatico per tutti. Perché non è solo la preparazione giuridica della Manzione ad essere incommensurabilmente lontana da quella di Zucchelli e di quanti prima di lui hanno ricoperto quel ruolo, a cominciare da Giuseppe Potenza, quello del famoso Manuale di diritto amministrativo scritto con Guido Landi, altro magistrato del Consiglio di Stato e, prima di lui da Antonio Sorrentino, mitico collaboratore di Giulio Andreotti.
È l’autorevolezza di chi ricopre quei posti uno degli elementi di forza del Governo. Perché Catricalà e Zucchelli s’impongono naturalmente agli altri Grand Commis, per il ruolo del Consiglio di Stato, da cui provengono, e, soprattutto, per la loro esperienza come coadiutori di ministri e legislatori.
Matteo Renzi voleva evitare che accanto a lui ed agli altri ministri, dei quali conosceva bene l’inconsistenza professionale e l’assoluta assenza di esperienza, operassero esperti che, in qualche modo indipendenti, condizionassero le scelte di ministri e sottosegretari. Uomini capaci di dire “no” quando una certa iniziativa legislativa o di alta amministrazione non fosse conforme a legge.
Uscito Renzi da Palazzo Chigi, Gentiloni si sta facendo consigliare per rafforzare gli staff con persone che sanno di diritto molto più dei giovanotti volonterosi ma con pochi studi e nessuna esperienza, che hanno caratterizzato le precedenti gestioni.
Su questa scia si sta muovendo anche Maria Elena Boschi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la quale, per sostituire Antonella Manzione alla guida del DAGL, con la quale è sempre mancata la necessaria sintonia, avrebbe in animo di mettere in campo l’Avvocato dello Stato Carlo Sica, ed il Presidente di sezione del Consiglio di Stato Luigi Carbone.
La Boschi si deve essere resa conto, dopo le solenni bocciature dei decreti Madia da parte della Corte costituzionale che la stesura di una legge o di un decreto legislativo non può essere affidata al primo che passa per Piazza Colonna o sotto la Galleria Sordi occorrendo una specifica, vasta preparazione giuridico legislativa. E così vorrebbe ricorrere a due pezzi da 90 ben noti nei corridoi di Palazzo Chigi e di molti ministeri nei governi Berlusconi, Amato, D’Alema e Prodi, collaboratori anche di Gianni Letta e del ministro Brunetta a Palazzo Vidoni
Con queste nomine la Boschi rafforzerebbe il proprio potere anche nei confronti di Gentiloni il quale, a sua volta, va costituendo una sorta di “cerchio magico capitolino”, anche per assicurarsi un’autonomia di valutazione dei provvedimenti di cui viene chiesta l’iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio di ministri a seguito della positiva istruttoria del “Preconsiglio”, la riunione preparatoria presieduta dalla Boschi alla presenza dei Capi degli uffici legislativi e degli esperti dei ministeri. Pochi conoscono il ruolo di queste riunioni, ma è lì che viene deciso cosa e come è pronto per la Gazzetta Ufficiale.
28 gennaio 2017

Sarà il Parlamento di Londra a decidere sulla Brexit
La Corte Suprema del Regno Unito richiama le regole dello stato di diritto
di Salvatore Sfrecola

“Questa non è una vittoria per me, è una vittoria per la democrazia”. Intervistata da La Repubblica, Gina Miller, la battagliera donna d’affari di origini della Guayana che ha guidato l’azione giudiziaria che ieri si è conclusa con la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, ha voluto sottolineare come i giudici abbiano richiamato una regola semplice, quella della centralità del Parlamento in uno stato di diritto. A fronte della quale i titoli dei giornali oggi danno conto soprattutto della delusione del governo di Sua Maestà che aveva ricorso avverso la pronuncia dell’Alta Corte di Londra che aveva sentenziato che la Brexit, l’uscita dell’Inghilterra dell’Unione Europea, sarebbe dovuta passare da un voto parlamentare.
È una lezione di storia e di diritto aver richiamato la primazia del Parlamento, non solamente perché siamo di fronte ad una decisione che non può essere affidata esclusivamente al 51,9% degli elettori i quali, chiamati ad esprimersi in un referendum consultivo, il 23 giugno 2016 hanno scelto di lasciare l’Unione europea. Non si può, hanno deciso i giudici, senza un voto del Parlamento, abbandonare le norme dei trattati europei divenute da decenni parte integrante della legislazione britannica. Sarebbe stata “una violazione di secoli i principi costituzionali” ha affermato il Presidente della Corte Suprema, Lord Neuberger, nel paese che ha dato alla civiltà giuridica moderna la Magna Charta che dal 1215 regola i rapporti tra le istituzioni del Regno individuando le funzioni del sovrano, del governo e del Parlamento, cioè i pilastri dello Stato di diritto uscito dall’assolutismo monarchico. Distinzione dei poteri in un sistema di check and balances nel quale il bilanciamento dei poteri è garanzia di democrazia, cioè di rispetto della volontà dell’elettorato.
Al di là del caso specifico, la pronuncia dei giudici di Londra richiama, dunque, una regola antica, fondamentale della democrazia rappresentativa, quella secondo la quale, per ricordare l’articolo 1 della nostra Carta fondamentale, “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè attraverso l’assemblea dei propri rappresentanti. Contemporaneamente questa pronuncia fa riflettere sui limiti dell’istituto referendario che è certamente espressione importante di quella democrazia diretta finalizzata alla verifica della corrispondenza del sentire dell’elettorato rispetto alle decisioni parlamentari. Pertanto il referendum nel nostro ordinamento è esclusivamente abrogativo. Nella forma consultiva, certamente da introdurre in Costituzione, il referendum deve necessariamente incontrare dei limiti in conseguenza del numero dei partecipanti e della materia oggetto della consultazione. Stante il carattere propositivo rispetto ad una presunta inerzia delle Camere.
Ancora una volta il Regno Unito dà una lezione di democrazia e ci ricorda che Montesquieu, l’autore de Lo spirito delle leggi, il padre del moderno costituzionalismo ha potuto scrivere quelle importanti riflessioni che costituiscono la base dell’elaborazione delle teorie liberali dell’ordinamento statale avendo osservato l’ordinamento inglese, caratterizzato dalla separazione dei poteri dello Stato e dalla sovranità del Parlamento, come ricorda in un altro passo nella sua intervista la Miller.
Rimane il problema della Scozia, dell’Irlanda del Nord e del Galles che hanno un loro Parlamento al quale però la Corte Suprema ha negato il diritto di pronunciarsi sulla Brexit. E questo non sarà un problema politico secondario, considerato che la Scozia in particolare, è fermamente decisa a rimanere nell’Unione europea atteggiamento, che potrebbe innescare un pericoloso conflitto con Londra, atteso che i deputati scozzesi hanno incarico di organizzare un referendum per uscire dalla Gran Bretagna.
Tutte questioni che agiteranno in sonno di Theresa May, il primo ministro inglese subentrato a David Cameron che, avendo promosso un referendum consultivo che avrebbe potuto evitare, battuto nelle urne, sia pure per poco, si è dimesso non solo dalla guida del partito conservatore e del governo ma ha anche abbandonato il suo seggio alla Camera dei comuni.
25 gennaio 2017

Dopo la valanga che ha sepolto l’albergo Rigopiano
Un P.M. per un’inchiesta delicata (che richiede prudenza anche nelle dochiarazioni alla stampa)
di Salvatore Sfrecola

Sarò un po’ all’antica ma sono stupito dalle dichiarazioni, rese in una conferenza stampa dal Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Pescara, Cristina Tedeschini, che, a distanza di poche ore dalla diffusione di una mail che farebbe ritenere possibile una sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti dell’hotel Rigopiano, ha affermato con una sicurezza, certo meritevole di ulteriore riflessione, che “tutti i ritardi, i fraintendimenti, le incongruenze e i problemi della comunicazione che sono avvenuti nel post-valanga hanno avuto una rilevanza causale non epocale, provocando ritardi che verosimilmente sono di circa un’ora”. Inoltre il Procuratore ha aggiunto anche alcuni riferimenti alla procedura concessoria, esistente presso il Comune di Farindola, dicendo che intende verificare e valutare “anche l’esistenza e la congruità delle compatibilità di questo progetto con la zona Parco. Se c’è stata una pratica di ampliamento successiva alla prima concessione io lo saprò. Se questa pratica di ampliamento è stata poi in qualche maniera importante nell’ambito di quello che è successo, lo saprò”.
Alcune brevi considerazioni. Credo, da sempre, che i magistrati dovrebbero parlare il meno possibile con i giornalisti (ho fatto parte della prima categoria e da anni anche della seconda) perché non sono abituati a comunicare con la stampa, con professionisti dello scoop i quali, per motivi vari, non esclusi quelli politici, possono essere indotti a trarre dalle loro dichiarazioni conclusioni giuridicamente non attendibili. Prudenza vuole che un magistrato inquirente non esprima troppo rapidamente delle valutazioni prima di avere letto tutte le carte (me lo ha insegnato all’ingresso in carriera un vecchio magistrato che in un napoletano che non so scrivere mi diceva “leggiti le carte”), ascoltato le testimonianze, esaminato i rapporti che al suo ufficio provengono dalla polizia giudiziaria. Per cui, tanto per rimanere ai problemi dell’orario della segnalazione dell’emergenza neve in atto, stanno emergendo elementi interessanti dalle indicazioni dei servizi televisivi, i quali hanno presentato anche interviste a persone presenti sul posto, in particolare a chi aveva lasciato l’albergo fino a uno o due giorni prima della tragedia indotti proprio dalle difficili condizioni meteo climatiche e dalle conseguenti difficoltà della viabilità stradale. In ogni caso l’e-mail è della mattina, alcune ore prima della valanga, e denuncia proprio la tanta neve sulla strada da percorrere per lasciare l’albergo.
Quanto poi alla vicenda delle procedure concessorie è fin troppo facile osservare che, dopo la precedente indagine che si è conclusa con una assoluzione, il P.M. non può ricercare altro che “una pratica di ampliamento successiva alla prima concessione”. Ed è molto probabile che eventuali, ulteriori illeciti penalmente rilevanti siano stati compiuti in tempi rispetto ai quali molto probabilmente non è più possibile esercitare l’azione giudiziaria.
Tutto questo dice della complessità delle indagini e suggerisce di tornare ancora una volta sulla necessaria prudenza che deve accompagnare le notizie fornite alla stampa. Il fatto è che anche i magistrati, che pure sono persone con alto senso della funzione e della riservatezza, sono, un po’ come tutti, attratti dalla vetrina della stampa e della televisione con la particolarità di non essere “del mestiere” di fronte a domande dei giornalisti che, è il loro lavoro, cercano di captare dalle parole della magistrato qualche elemento che secondo la linea argomentativa del giornale o dello stesso giornalista sia idoneo ad assumere una speciale rilevanza di interesse per i lettori. A volte diversa da giornale a giornale. Come dimostra la circostanza che spesso troviamo nei titoli, virgolettate”, espressioni che non sono nel testo dell’intervista o della dichiarazione.
Prudenza, dunque, per evitare che, ad inchiesta conclusa, qualcuno vada a rileggere le frettolose dichiarazioni di qualche anno prima mettendo in risalto una incongruenza che in verità non c’è se non in una frettolosa valutazione dei fatti frutto del desiderio di comunicare immediatamente.
24 gennaio 2017

A proposito dell’allarme inascoltato dell’Hotel Rigopiano
Prevenzione e bufale (come riconoscerle)
di Salvatore Sfrecola

È facile immaginare, mentre si contano le vittime e si teme per i dispersi, il turbamento del funzionario della Prefettura di Pescara che ha liquidato con “è una bufala” la “comunicazione urgente” via mail con la quale l’amministratore unico dell’Hotel Rigopiano chiedeva fosse predisposto un intervento a fronte di una situazione “diventata preoccupante”. Per gli oltre due metri di neve, la scarsità di gasolio per l’alimentazione del gruppo elettrogeno, i telefonini fuori servizio. Sicché, scriveva, “i clienti sono terrorizzati dalle scosse sismiche ed hanno deciso di restare all’aperto”. Aggiungendo “abbiamo cercato di tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fini alla SS42”.
Una bufala? Di quelle che intasano a giorni alterni Facebook o Twitter? Come sempre con un taglio verosimile, quello che può convincere il lettore medio della esattezza dell’informazione. Ma qui non siamo su un social network, l’interlocutore è un ufficio importante dello Stato, una Prefettura, alla quale la notizia rimbalza anche tramite posta certificata (siamo alle 15,44) dalla Polizia Provinciale destinataria della mail dell’Hotel che l’aveva ricevuta in mattinata.
Sono passate alcune ore, forse per un controllo. Comunque la Polizia Provinciale ha voluto assicurare di essere allertata (la posta certificata fa luogo di una raccomandata con certezza di ricezione). Nel frattempo la mail era stata classificata “bufala” e archiviata. È tornata sulla decisione il funzionario della Prefettura? Naturalmente qui non si fa un processo. Lo scopo di queste riflessioni è quello di individuare delle linee guida di un comportamento ragionevolmente prudente in caso di segnalazioni verosimili, provenienti da soggetti responsabili e bene individuabili. La mail non è un anonimo ma un mezzo che attesta la provenienza dello scritto con assunzione di responsabilità anche penale per l’eventuale procurato allarme.
Credo che in questi casi si richiede un minimo di prudente apprezzamento della notizia, considerata la provenienza e la verosimiglianza del fatto. Si conosceva la copiosa nevicata, la posizione dell’albergo oggetto di un processo diretto ad accertare eventuali abusi edilizi e violazione di norme sulla sicurezza che deve essere stato noto in Prefettura e che, anche se conclusosi con un’archiviazione (e qui, qualcuno potrebbe avere un peso sulla coscienza), aveva certamente fatto notizia. Un tempo gli uffici pubblici, le Prefetture, le Questure ed i comandi dei Carabinieri tenevano memoria dei fatti di rilevanza legale sul territorio. Le informazioni sono essenziali per valutare nel tempo i comportamenti degli uomini ed i loro effetti sulla sicurezza della gente.
Poi mi chiedo. Il funzionario che ha ritenuto fosse una “bufala” la mail ha fatto un controllo? Ha chiesto a qualcuno? A quella Polizia Provinciale in indirizzo, al Sindaco del Comune di Farindola, alla locale Stazione dei Carabinieri, all’ANAS ed a qualche altra autorità pubblica che avrebbe potuto fugare ogni dubbio? Magari confermando il dubbio.
Non si sa nulla di questo. Lo vedrà la Magistratura che forse dovrà riprendere, per capire, le carte del processo su quell’albergo costruito in fondo ad un canalone con una montagna che incombe minacciosa, anche solo a pensare allo scioglimento delle nevi.
È un fatto di professionalità. Non se ne abbia nessuno. Da cultore dell’amministrazione e del suo ruolo essenziale in qualunque stato devo dire che nella mia ormai lunga esperienza ho notato un progressivo affievolirsi delle professionalità messe in campo. In tutti i settori, civili e militari. Effetto del degrado degli studi, della inadeguatezza delle selezioni, del venir meno delle responsabilità. Ovunque, ripeto. Un tempo il funzionario “di turno” della Prefettura avrebbe chiesto informazioni, se non altro per mettersi al riparo da eventuali responsabilità. Così non va ed uno stato perde il diritto ad essere citato con la “S” maiuscola.
23 gennaio 2017

Circolo di Cultura
 ed Educazione Politica REX
***
Inaugurazione della seconda parte del 69° ciclo di conferenze

Domenica 29 gennaio 2017 ore 10.30
Sala Uno, Roma Via Marsala 42

Il Presidente del Circolo
Ing. Domenico Giglio
tratterà il tema

“5 giugno 1944 – 9 maggio 1946
Due anni difficili: Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno”

***
Nell’occasione sarà presentata la ristampa del volume del Circolo REX dedicato alla Grande Guerra, già pubblicato nel 1968, curato dalla Casa Editrice “Pagine” di Roma nella collana “I Libri del Borghese”.

Dietro i ritardi nei soccorsi e non solo
Una questione di organizzazione
di Salvatore Sfrecola

È certamente condivisibile l’invito del Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ad una certa sobrietà nella valutazione dei tempi dei soccorsi alle popolazioni colpite dall’eccezionale nevicata dei giorni scorsi con le gravi conseguenze che hanno interessato l’albergo di Rigopiano, dove ancora si lotta per cercare di salvare le persone intrappolate dalla valanga. Le polemiche mentre il Paese è in ansia per i concittadini in pericolo di vita, infatti, possono avere il sapore sgradevole dello sciacallaggio che spesso alimenta le iniziative della politica in tempo di calamità naturali, quando l’emotività è più forte ed estesa.
Anche a voler essere sobri, tuttavia, non può si può negare che in presenza della previsione di una rilevante quantità di precipitazioni nevose, rinvenibili in ogni bollettino trasmesso dalle televisioni, tra l’altro in aree solitamente molto innevate, l’allerta non sia stata seguita da misure idonee a garantire la percorribilità delle strade principali, soprattutto provinciali. La notizia che le turbine, gli unici mezzi idonei ad affrontare le muraglie di neve che abbiamo visto in televisione, siano venute dal Trentino per raggiungere l’Abruzzo dice di una inammissibile disorganizzazione. Considerato che la percorribilità delle strade principali è condizione per avviare l’accesso alle frazioni isolate. Se poi si aggiunge, come si è sentito dire, che alcuni generatori dell’ENEL necessari per assicurare luce e riscaldamento agli abitanti delle frazioni isolate non sono potuti entrare in esercizio perché è mancato il gasolio per alimentarli, è evidente l’assenza di una organizzazione minima adeguata. Quella organizzazione che è alla base dell’esercizio di una funzione pubblica, qualunque sia il settore nel quale viene esercitata.
E qui va detto che le responsabilità non possono che essere in primo luogo dell’apparato amministrativo e tecnico i cui vertici devono avere contezza delle forze in campo, dei mezzi e degli uomini disponibili e delle loro professionalità. Organizzazione significa anche coordinamento degli uffici a vari livelli perché, tanto per restare all’esempio dei generatori privi di carburante, è probabile che un ufficio li acquisti e li gestisca ed un altro assicuri le forniture di gasolio ma poi ci deve essere chi, al momento dell’impiego, sia in condizione di assicurare che le apparecchiature possano essere dislocate ove occorre e messe in esercizio immediatamente. Sarebbe come se in guerra chi si preoccupa di fornire i fucili ai combattenti non si curasse anche di fornire loro le cartucce.
Organizzazione, dunque, quale emblema stesso dell’esercizio di una funzione pubblica. Da sempre, infatti, l’organizzazione ha accompagnato gli apparati degli stati. E qui, per compensare con un dato storico la deludente vicenda dei giorni scorsi, va rivendicata la primazia dello stato romano in tutte le attività pubbliche, dalla costruzione delle infrastrutture alla loro gestione. Le strade, gli acquedotti, le fognature hanno impegnato i funzionari della repubblica e dell’impero, con una precisa individuazione delle varie responsabilità, quella che oggi chiamiamo “catena di comando”. Anche la struttura militare che, come scrive Massimo Severo Giannini, è la prima e più antica espressione della organizzazione statale, era a Roma oggetto di cura speciale quanto all’armamento dei militi, al loro abbigliamento in relazione alle condizioni climatiche in cui erano chiamati ad operare. E poi massima attenzione era assicurata al servizio sanitario e veterinario, al genio, che doveva predisporre le infrastrutture per l’alloggio dei soldati, palizzate, strade e ponti. Ricordo, ancora, che la bonifica delle paludi pontine, vanto del Ventennio, era stata realizzata sotto il governo di Roma e che la fine dell’impero e della manutenzione del sistema di deflusso delle acque aveva determinato l’inevitabile sopravvento delle paludi.
È così difficile organizzare? È così arduo predisporre i mezzi per una evenienza prevedibile sulla base dell’esperienza che purtroppo ogni anno ci porta terremoti, alluvioni con esondazione di fiumi, neve e ghiaccio a rendere difficile e pericolosa la circolazione sulle strade?
Sento già le risposte. Mancano fondi, uomini e mezzi. I risparmi di spesa hanno impedito l’ammodernamento del parco macchine, mentre il blocco del turn over ha ridotto gli organici. Tutto vero. Questa è responsabilità della politica cui spetta la scelta dell’allocazione nei bilanci pubblici delle risorse disponibili. Per dare in questo modo dimostrazione della misura in cui una pubblica funzione viene soddisfatta. C’è, tuttavia, anche una responsabilità della dirigenza amministrativa e tecnica che deve rappresentare le effettive esigenze in relazione alle disponibilità di bilancio avendo consapevolezza di come meglio possano essere impiegate. E comunque c’è una responsabilità di chi, anche con risorse limitate, non è capace di trarre da quello di cui dispone la massima, possibile utilità. È una questione di capacità di comando. Che ricade sulla politica nella scelta dei migliori. Indipendentemente dalla vicinanza alla forza politica al governo. È spesso accaduto, infatti, che siano stati preposti a delicati apparati delle pubbliche amministrazioni soggetti indicati dai partiti e dai sindacati, il tutto aggravato dal uno spoil system “all’italiana” che ha premiato gli amici degli amici e mortificato le professionalità. Con questo sistema, infatti, il funzionario è condizionato nella nomina ad un determinato incarico alla decisione, sostanzialmente insindacabile, del politico di turno al quale spetterà stabilire il trattamento economico accessorio ed il rinnovo dell’incarico. In queste condizioni è evidente che il funzionario non è più “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della Costituzione. Con le conseguenze sull’efficienza degli apparati che troppe volte si sono viste. Infatti chi farà presente al politico che sbaglia, che vanno fatte altre scelte organizzative? Con il rischio di essere rimosso o, quanto meno di non essere confermato?
22 gennaio 2017

Importante articolo di Domenico Giglio
su Storia in rete
Riflessioni sulla vita e le opere di Francesco Giuseppe, nemico del Risorgimento italiano, nel centenario della morte
di Salvatore Sfrecola

Nel centenario della morte di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re di Ungheria, Storia In Rete ha dedicato al sovrano austriaco un articolo che compare nel fascicolo di gennaio 2017, affidato alla penna di Domenico Giglio, un cultore di storia che i nostri lettori ben conoscono e apprezzano per le sue sempre puntuali riflessioni. Il titolo “Vita, morte ed errori di un imperatore che non ci amava (ma ci sfruttava)” si inserisce in una realtà difficile, quella di un imperatore che l’Austria ricorda e celebra ma che ebbe grandi responsabilità, un po’ per il carattere ostile ai cambiamenti, sovrano sul trono per ben 68 anni, dal 2 dicembre 1848 al 30 novembre 1916, tumulato nella cripta dei Cappuccini, il sepolcreto degli Asburgo dal 1633.
Cecco Peppe, come lo chiamava Vittorio Emanuele III che non nascondeva nei suoi confronti una spiccata antipatia, “il nemico storico”, come ebbe a scrivere il sobrio Luigi Einaudi, ad onta della telenovela hollywoodiana che ha celebrato il suo matrimonio e la sua vita con Elisabetta di Baviera, Sissi, un vero grandissimo amore, era salito al trono nel momento più vivace delle rivolte liberali per la costituzione. Trovò quella del suo predecessore, Ferdinando, che l’aveva concessa sotto l’incalzare delle agitazioni popolari, ed immediatamente la revocò. Giglio ricorda la repressione dei moti ungheresi effettuata con la durezza che era stata riservata alla sollevazione dei bresciani nelle famose 10 giornate, dal 23 marzo al 1 aprile 1849. In Ungheria, come a Brescia, il compito di ripristinare l’ordine era stato affidato al generale Haynau, specialista in fucilazioni e impiccagioni. D’altra parte la fama di “impiccatore” perseguiterà Francesco Giuseppe anche nella Canzone del Piave per la plateale pubblica esecuzione di Cesare Battisti con esposizione del cadavere, appeso al cappio tra l’orgoglio del boia, giunto appositamente da Vienna, e l’esultanza dei militari austriaci che certo non avevano in quell’occasione fatto onore alla tradizione dell’esercito e dell’impero.
Annota Giglio, nel dar conto della revoca della costituzione, che nello stesso tempo un altro giovane Re di 28 anni, Vittorio Emanuele II, salito al trono il 3 marzo 1849, dopo la sconfitta militare di Novara, conservava invece la costituzione del regno di Sardegna, quello Statuto che il padre, Carlo Alberto, aveva concesso il 4 marzo, una carta costituzionale che, dirà anni dopo, in sede di assemblea costituente, il repubblicanissimo Pietro Calamandrei, rivolgendosi ai suoi colleghi in un celebre discorso del 4 marzo 1947: “guardate come era semplice e sobrio ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo” (P. Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, 24).
Giglio inquadra l’azione del sovrano asburgico nel contesto internazionale, sottolineando come egli non fosse disponibile a relazioni produttive di situazioni di pace come Napoleone III, che invece curava il regno di Sardegna attraverso Cavour che fece della partecipazione alla guerra di Crimea con Francia, Regno Unito, Impero ottomano, alleati contro l’Impero russo, un’occasione per partecipare al congresso di Parigi del 1856, una assise alla quale avrebbe fatto conoscere la situazione dell’Italia e le aspettative di unità nazionale che proprio la presenza dell’Austria nelle terre italianissime del Nord Est impediva.
Tornando a Francesco Giuseppe, Giglio segnala la sua inesperienza internazionale ed anche la scarsa conoscenza delle situazioni politiche che andavano maturando nelle regioni sulle quali esercitava la sua sovranità. “Un’inesperienza pagata cara – scrive Giglio – perché non bastava da una parte il coraggio personale (di cui aveva dato ampie prove in battaglia) e dall’altra il senso del dovere e dell’ordine, l’amore e l’inclinazione al lavoro che rispettò fino all’ultimo giorno e che ne fecero il primo impiegato dell’Impero. A queste indubbie virtù si sarebbero necessariamente dovute aggiungere sia lo spirito d’iniziativa che decisioni rapide e nette. Rimase invece lento, confermando un vecchio giudizio di Napoleone: “L’Austria arriva sempre troppo tardi sia con l’esercito che con le idee”. E sempre nel 1859 l’infelice scelta quale comandante dell’esercito austriaco che doveva invadere il Piemonte il maresciallo Gyulay costrinse Francesco Giuseppe dopo i primi insuccessi ad assumere personalmente il comando delle truppe venendo sconfitto il 24 giugno 1859 nella battaglia di Solferino e San Martino, perdendo la Lombardia assegnata al Regno di Sardegna”.
Domenico Giglio mette in particolare risalto le incertezze di Francesco Giuseppe in politica interna oscillanti tra un centralismo esasperato e una certa attenzione alle nazionalità del suo vasto impero, spesso contrastato sul piano dei rapporti internazionali dalla abile iniziativa del Cancelliere tedesco Bismarck, come testimoniato dalla partecipazione alla guerra contro la Prussia che avrebbe fatto definitivamente tramontare il primato degli Asburgo in favore degli Hoenzollern, tra l’altro determinando la prevalenza dell’elemento protestante rispetto al cattolico.
Naturalmente l’articolo, incentrato nei rapporti con l’Italia ricorda che gli italiani furono costantemente considerati cittadini di serie B. Fu negata loro un’università e fu favorito, in Dalmazia e Venezia Giulia, l’elemento slavo che contrastava gli interessi degli italiani. Riferisce Giglio che quando fu concesso il suffragio universale maschile ed il Parlamento di Vienna raggiunse 507 deputati, 233 seggi erano previsti per i tedeschi, 255 per gli altri slavi, mentre solo 19 erano assegnati alle minoranze italiane, “fra costoro, il socialista e irredentista Cesare Battisti e il cattolico Alcide De Gasperi. Questa ridotta presenza italiana – aggiunge Giglio – era il frutto della politica messa in atto dopo le nostre Guerre d’indipendenza; favorire croati e sloveni fomentando la loro avversione nei confronti degli italiani e modificando i collegi elettorali in modo da ridurre o far scomparire la rappresentanza italiana, che fino al 1848 era maggioritaria in Dalmazia e totale in Istria”.
Sempre per delineare il quadro politico del lungo regno di Francesco Giuseppe l’articolo mette in risalto l’irredentismo nelle regioni del Nord Est che diede luogo ad una reazione antitaliana ostile, in quanto le popolazioni italiane rimaste sotto il dominio asburgico erano viste con sospetto a Vienna, quando non perseguitate come in particolare in Dalmazia. In questo quadro Giglio ricorda l’impiccagione di Guglielmo Oberdan presunto attentatore dell’Imperatore.
Arrivando al primo conflitto mondiale l’articolo mette in risalto come il regno d’Italia pensasse a soluzioni diplomatiche quanto alla definizione dello stato delle terre italiane sotto l’impero austriaco (ricorderete che Giolitti riteneva che l’Austria avrebbe potuto riconoscere compensi all’Italia – “parecchio” andava dicendo – in cambio della sua neutralità), un lavorio diplomatico imponente reso vano dalla improvvisa accelerazione degli eventi in conseguenza dell’assassinio, a Sarajevo il 28 giugno 1914, dell’arciduca Francesco Ferdinando nipote di Francesco Giuseppe, figlio del fratello minore, erede al trono. Nell’ansia di punire il piccolo Stato, la Serbia, patria dell’attentatore Gavrilo Princip, venne a crearsi una situazione presto divenuta irreversibile, l’ingresso in una guerra, ritenuta facile e breve, che sarebbe divenuta presto una tragedia per l’intera Europa che avrebbe definitivamente sconvolto il quadro istituzionale all’interno del vecchio continente decretando la fine dell’impero. All’indomani della conclusione delle operazioni militari, infatti, sarebbe decaduta la monarchia asburgica e con essa sarebbero franati l’impero germanico, il russo e l’ottomano, così cambiando per sempre il quadro, politico e istituzionale dell’Europa.
Un articolo molto interessante, dunque, quello di Domenico Giglio che potrà essere consultato su Storia In Rete www.stortiainrete.com ed acquistato anche nelle edicole al prezzo di 6 euro. La rivista dedica a Francesco Giuseppe anche un articolo di Luca Cancelliere, che concorre a delineare il quadro delle condizioni dell’impero e dei rapporti politici al suo interno e con le potenze europee.
19 gennaio 2017

In margine ad un articolo di Sergio Rizzo
Il caso delle province.
La politica torni ad interpretare
le esigenze vere della gente
di Salvatore Sfrecola

Sono da sempre un lettore attento di quel che scrive Sergio Rizzo, non soltanto negli editoriali sul Corriere della Sera, ma anche nei libri-inchiesta sugli sprechi e sulle disfunzioni del “sistema Italia”, male gravissimo che da troppi anni condanna questo Paese all’inefficienza. Oggi ha scritto sul Corriere “Le province che mai spariranno”, un pezzo molto documentato, com’è nel suo stile, quanto agli effetti della attuale situazione organizzativa degli apparati, compresi quelli statali con competenza provinciale, dalle Prefetture alle Questure, passando per gli uffici finanziari, i Gruppi dei Carabinieri e della Guardia di finanza e per tutte le altre strutture articolate sul territorio. Un quadro che delinea antiche criticità, come la mancata riforma della pubblica amministrazione “tanto fortemente osteggiata alla burocrazia”, recentemente bocciata dalla Consulta.
Descritta così la vicenda, chi leggesse superficialmente sarebbe indotto a ritenere che la Corte costituzionale abbia in qualche modo seguito le critiche dei pubblici dipendenti. La verità è che quella riforma faceva acqua da tutte le parti, scritta da chi non conosce i problemi della gestione amministrativa e finanziaria dello Stato, come accade ed è accaduto per tante altre iniziative legislative con le quali il governo e il Parlamento hanno pensato di risolvere i problemi sulla base di scelte ideologiche o, più spesso, di preconcetti. Quando non si è scelta la strada di rinviare la risoluzione dei problemi, ad esempio in materia di pensioni, sulle quali sono state fatte manovre a fini di contenimento della spesa utilizzando strumenti che si sapeva sarebbero stati dichiarati incostituzionali (come nel caso del blocco dell’adeguamento al costo della vita). Governo e Parlamento hanno scelto una strada che sapevano sarebbe stata interrotta dall’intervento della Consulta. Hanno preferito far fronte a un’esigenza immediata, di cassa, ma con l’effetto di trasferire l’onere sul governi successivi.
Tornando alle province, un siffatto modo di affrontare i problemi tanto gravi, come sono quelli del funzionamento dello Stato, anche quando documentato come fa l’articolo di Rizzo, non è produttivo di effetti positivi sul dibattito delle idee a livello politico e tecnico e sulle scelte degli italiani quando saranno chiamati alle urne.
La verità è che la riforma delle province è un pasticcio grande, conseguenza della legge Delrio, che ha voluto anticipare la riforma costituzionale con la quale si intendeva abolirle, contando sulla sua approvazione con la sicumera che ha caratterizzato l’esperienza di governo di Matteo Renzi, svuotando non il ruolo, come avrebbe potuto fare, ma i bilanci di questi enti, mantenendo integre le loro attribuzioni tra le quali, fondamentali, quelle sulla manutenzione delle strade e degli istituti scolastici.
Va detto innanzitutto che se le province sono previste dall’art. 114 della Costituzione come articolazione della Repubblica, il loro numero e le loro attribuzioni sono riservate al legislatore ordinario il quale avrebbe potuto da tempo intervenire. Invece, le attribuzioni non sono state modificate e il numero è cresciuto nel tempo per soddisfare ambizioni locali, di partiti e di lobby, con le conseguenze che Rizzo denuncia e obiettivamente determinano le disfunzioni che segnala.
In una visione più ampia e più realistica della vicenda si dovrebbe riflettere sul ruolo di questi enti che, si dimentica molto spesso, costituiscono la struttura sovracomunale più vera, più autentica, meglio rispondente alla storia, alle tradizioni, alla cultura delle nostre popolazioni in quanto identificano territori che hanno una comunanza di interessi economici e ambientali vicini alle esigenze delle popolazioni. Non a caso, all’indomani della costituzione del regno d’Italia, nel 1862, il ministro dell’interno Marco Minghetti si fece promotore di una iniziativa legislativa, che poi non ebbe corso per le difficoltà di quel momento storico, diretta alla costituzione di “consorzi di province” che avrebbero dovuto svolgere quel ruolo che prima indicavo di rappresentanza degli interessi di vasti ambiti territoriali accomunati da storia e da esigenze attuali dall’economia all’ambiente, come si è fatto cenno. Molto più delle regioni, che l’esperienza insegna essere inutilmente costose (basti pensare agli “Uffici di rappresentanza” a Roma e a Bruxelles) le quali appaiono delle sovrastrutture artificiosamente costruite su ambiti territoriali molto diversificati. Basti pensare alla regione Lazio, che comprende territori culturalmente di pertinenza della Toscana, come la provincia di Viterbo, o dell’Abruzzo, come la provincia di Rieti, per non dire di vaste aree più meridionali che gravitano sulla Campania.
In sostanza quando Rizzo mette in evidenza le disfunzioni dell’attuale sistema amministrativo italiano decentrato a livello provinciale denuncia un fatto vero che sarebbe stato agevole superare attraverso una ragionevole riorganizzazione degli enti e degli uffici sul territorio accorpando Prefetture e Questure. I comandi dei Carabinieri e della Guardia di finanza o dei vigili del fuoco o le sovrintendenze, al di là del numero delle province.
La verità è che le province sono aumentate di numero per interessi locali che l’Esecutivo e il Parlamento non sono stati capaci di contrastare. In questo contesto è necessario che il governo dello Stato sia messo in mano a personalità di elevata competenza e autorevolezza, in modo che si giunga ad un riordinamento dell’amministrazione secondo esigenze attuali, funzionali all’interesse pubblico e non a quello di consorterie locali, politiche o diversamente qualificabili. In sostanza è una debolezza della politica che viene denunciata attraverso la giuste segnalazioni di Rizzo e di tutti coloro i quali si sono occupati della pubblica amministrazione nella sua articolazione centrale e territoriale. Perché non è dubbio che distonie esistano anche a livello centrale con duplicazioni di competenze che rendono incerta l’azione dei governi e difficile la vita e i cittadini e delle imprese.
E qui torniamo ad una mia vecchia segnalazione, quella che prima di ogni altra cosa i governi dovrebbero provvedere alla riforma della pubblica amministrazione. Io credo da sempre, infatti, che un politico serio, nel momento in cui assume la responsabilità di un settore dell’amministrazione pubblica, e questo vale per lo Stato come per le regioni, le province e i comuni come prima cosa debba verificare se, in relazione all’indirizzo politico che intende imprimere alla sua azione di governo secondo le indicazioni del corpo elettorale, le leggi che disciplinano la attribuzioni e l’apparato siano funzionali a quegli obiettivi. Perché se ciò non è si deve rapidamente provvedere all’adeguamento delle norme sulle attribuzioni, che potrebbero essere in parte superate o diversamente gestibili, e sul personale, ad esempio quanto alle professionalità richieste che spesso non sono quelle del tempo lontano nel quale sono state disegnate le funzioni dell’ente. Un esempio per tutti. Qualche anno fa gli uffici pubblici erano dotati di un rilevanti numero di dattilografi che con l’introduzione dell’informatica sono stati praticamente eliminati in quanto alla redazione degli atti amministrativi i funzionari provvedono direttamente.
In sostanza, è necessario che la politica torni a fare il suo mestiere, ad individuare i problemi ed a risolverli nell’interesse generale e non di quelli particolari che i partiti alimentano o subiscono sul territorio.
17 gennaio 2017

Una intervista a La Repubblica inutilmente lunga
Renzi, ovvero dietro le slides niente
di Salvatore Sfrecola

La Repubblica di oggi, un titolo roboante in prima pagina “Io, la sinistra e i miei errori, così cambierò il partito”, una cocente delusione nelle due pagine interne dove, intelligentemente incalzato da Ezio Mauro, tuttavia Matteo Renzi non riconosce i propri errori e non prospetta un credibile progetto per il partito ed il governo. La dice lunga quell'”Io” ricorrente in tutta l’intervista, nonostante gli fosse stato detto da tutti che la sovraesposizione mediatica, fin dalla presentazione del programma di governo alle Camere, lo avrebbe danneggiato. Soprattutto perché agli annunci non ha quasi mai fatto seguito un effetto percepibile ed apprezzabile dall’opinione pubblica.
È vero, afferma che l’esito del referendum del 4 dicembre “umanamente è una grande lezione, come tutte le sconfitte”. Una lezione che, comunque, sembra non aver capito se si rivolge a Mauro aggiungendo: “sa cosa mi spiace soprattutto? Non essere riuscito a far capire quanto fosse importante per l’Italia questa riforma”. Eppure non c’è stato giorno che, lungo molti mesi, non apparisse in televisione, spesso “a reti unificate” verrebbe da dire tanto era contestualmente presente su più trasmissioni o telegiornali, per dire dei risparmi, del taglio dei posti e dei costi della politica, dell’accelerazione delle procedure legislative abolendo il bicameralismo paritario “che abbiamo solo noi in occidente” con il Parlamento più numeroso del mondo. Ed è stato inutile replicare chiedendo che spiegasse perché lasciava 630 deputati, contro i 435 degli Stati Uniti d’America, che hanno oltre 381 milioni di abitanti, tagliava solamente i senatori non più eletti dal popolo ma dalle consorterie politiche locali, le più invischiate nel malgoverno. Inutile richiamare il documento della Ragioneria Generale dello Stato che indicava in circa 50 milioni i minori costi. Per Renzi e la Boschi, l’incauta e arrogante “riformatrice” contro il parere dei “professoroni”, i risparmi erano 500. Come se gli zeri non contassero. Né mai il premier ed i suoi collaboratori hanno accettato un confronto sui tempi effettivi della legislazione, desunti dall’esperienza anche del suo governo, dai quali si ricava che le leggi, se c’è accordo, possono venire approvate anche in pochi giorni. Inutile ricordargli che questa è la regola della democrazia: le leggi si approvano quando c’è consenso. In assenza restano in archivio alla Camera o al Senato.
Insomma c’era poco da “far capire ” agli italiani di questa revisione della Carta fondamentale abborracciata con evidente disprezzo per le regole della democrazia in uno stato di diritto dove la Costituzione si approva a larghissima maggioranza, come nel 1947 quando, in Assemblea costituente, partiti che si scannavano sulle piazze, dai cattolici ai comunisti, dai repubblicani ai monarchici, approvarono praticamente all’unanimità la legge delle regole costituzionali che sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Questa frettolosità animata da pressappochismo ha convito gli italiani che sarebbe stato bene respingere l’ipotesi riformatrice. Forse anche perché l’ossessiva campagna mediatica della quale Matteo Renzi si è fatto promotore li ha disturbati e predisposti al NO. Un po’ come era avvenuto in occasione del referendum sul finanziamento dei partiti, quando Craxi invitò gli italiani ad andare al mare disertando le urne. Andarono tutti a votare. Ed anche il 4 dicembre grande e imprevista è stata la partecipazione al voto. Ed è stato un voto contro Renzi anche se, alla vigilia dell’appuntamento elettorale, Crozza, con uno straordinario monologo, aveva concluso che gli italiani si dividevano in due categorie, “quelli che votano SI e quelli che la riforma l’hanno letta”. Non c’è stato bisogno di leggerla per molti che evidentemente hanno dedotto dalla politica del governo che quel Presidente del Consiglio non era affidabile, che le sue promesse e previsioni erano destituite di fondamento. Perché chi dice ad un compagno di partito “sta sereno” mentre sfodera il ferro per pugnalarlo non è credibile anche quando dice di voler migliorare l’assetto costituzionale.
Renzi non ha capito cos’è accaduto il 4 dicembre ed ancora fantastica su quei 13 milioni di voti raccolti dal SI. Li considera “un patrimonio di speranza per il futuro”, voti suoi quel 41% sul quale continua a far conto come se fosse effetto di una scelta per la persona, trascurando che lì c’è una congerie, meglio, per usare il suo linguaggio, un'”accozzaglia” variamente assortita. Dove pochi hanno condiviso la riforma, magari soltanto “per iniziare a fare qualcosa”, ed altri si sono sentiti vincolati alle scelte del leader per disciplina di partito e per non far prevalere l’odiato Centrodestra composito da leghisti, fratelli d’Italia e frange forziste.
Come fa, dunque, Renzi a sostenere, in risposta a Mauro che gli chiedeva quale fosse il suo errore “più grave”, che è stato quello di “non aver colto il valore politico del referendum”? Forse che non leggeva i giornali, non ascoltava le trasmissioni televisive di approfondimento?
Azzardo. L’errore più grave del leader del Partito Democratico è stato quello di aver strozzato il dibattito nel suo partito, eliminato dalle posizioni di responsabilità parlamentare i contrari alla riforma, creato, in sostanza, un clima di intolleranza alle critiche che non ha fatto emergere il dissenso. È come accade sempre, dove manca la democrazia, i capi si circondano di yes men, dai quali desiderano sentirsi dire “come sei bravo”. Un errore che altri nella storia hanno pagato. Personaggi incapaci di circondarsi di collaboratori con forte personalità che all’occorrenza fossero capaci di dire no. Quel no che è sempre espressione di amicizia autentica sulla quale un leader degno del ruolo dovrebbe sempre fare affidamento. E richiedere a coloro dei quali ha fiducia politica e professionale. Se, invece, si scelgono i collaboratori politici per posti di responsabilità tra persone della modestia che abbiamo potuto constatare in ben tre anni di governo vuol dire che quel leader non è all’altezza del ruolo. La storia, infatti, insegna che grandi uomini di stato si sono sempre circondati, nei ruoli amministrativi e diplomatici, di collaboratori di valore non temendo di essere scavalcati o condizionati.
Renzi, invece, difende chi ha messo la faccia su riforme assurde, bocciate dai cittadini (Boschi) e dalla Consulta (Madia). Evidentemente non ha compreso. Come non ha chiare le idee in materia di partito che immagina liberato “dai vincoli delle correnti” così facendo chiaramente intendere che non vuol consentire un dibattito interno. Ma forse a lui non sarà consentito di comprimere il dibattito delle idee in un partito che è necessariamente espressione di vari orientamenti che, del resto, esistevano anche quando si chiamava Partito Comunista Italiano, anche se in una dialettica contenuta.
Due paginone per dire poco o niente che già non si sapesse. Con risposte al bravissimo Mauro del tono che conosciamo, con le battutine alle quali ci aveva abituato e che gli italiani hanno dimostrato di non gradire. Dietro le slides niente, si potrebbe dire. Per concludere con l’ennesimo slogan vuoto “meno slide, più cuore”. E siamo tutti contenti. Come si dice a Firenze.
15 gennaio 2017

In ricordo di Ovidio Tilesi
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

Il giorno 30 dicembre 2016 ci ha lasciato l’amico fraterno Ovidio Tilesi, magistrato della Corte dei conti.
E’ voluto tornare nella sua Amatrice, che tanto aveva amato in vita e dalla quale mai era riuscito a distaccarsi completamente.
L’incontro che suggellò la nostra amicizia avvenne nel lontano 1970, dopo che ebbe letto uno dei miei primi lavori Il ricorso gerarchico improprio: un’amicizia duratura e sincera che mai cessò di essere tale.
Studioso serio, coscienzioso e colto affrontava i problemi giuridici dopo accurati approfondimenti e attente riflessioni. Dote particolarmente apprezzabile era anche la sua innata modestia, non disgiunta da un tratto riguardoso, affabile e misuratamente ironico.
La sua sete di sapere era incontenibile e non posso dimenticare i suoi sentimenti di gratitudine quando, in occasione della preparazione agli esami di magistrato, lo spinsi a studiare i due toni della Teoria generale dell’interpretazione di Emilio Betti che, mi confessò, gli avevano aperto orizzonti non immaginabili.
Profondo conoscitore delle opere poetiche del Leopardi, mi sottopose un suo pregevole commento dei carmi “Ultimo canto di Saffo” e “Consalvo” che ne rivelava in pieno la singolare sensibilità.
Lo volli come collaboratore alla Cattedra di Diritto pubblico dell’economia nella Facoltà di Economia dell’Università “Sapienza” di Roma dove partecipò assiduamente, con competenza e passione, all’attività didattica. Un suo saggio, “La Costituzione economica”, venne inserito nel volume Scritti di diritto pubblico dell’economia, edito nel 2006.
Caro Ovidio, il male del secolo ti ha strappato alla tua famiglia ed agli amici, ma il tuo prezioso ricordo resterà perennemente vivo in me e in quanti seppero apprezzarti e stimarti.

Desidero manifestare, di seguito alle commosse parole del Professor Jaricci, il mio profondo dolore per la scomparsa di Ovidio Tilesi, collega e amico, del quale mi piace ricordare non solamente la vasta cultura e la solida preparazione professionale ma anche quel tratto caratteriale, spesso improntato ad una spiccata ironia, che ne metteva in luce la straordinaria umanità ed una profoda saggezza.
Ricordo le sue battute, spesso destinate ad irridere le furbizie dei potenti e la debolezza di chi avebbe dovuto e potuto contrastarle, per concludere, con un timido sorriso, che comunque le cose vanno così da troppo tempo per potervi porre rimedio.
Ciao Ovidio, anche nel dolore per il tuo prematuro ritorno alla Casa del Padre resta vivo ricordo della tua bella anima
Salvatore Sfrecola

Il Presidente Mattarella tra storia e futuro
I 220 anni del Tricolore simbolo di identità di una Nazione
di Salvatore Sfrecola

Il “padre” del Tricolore nazionale, l’ho scopetto da poco leggendo un bel libro “Italia, la vera storia del Tricolore e dell’Inno di Mameli”, di Michele D’Andrea ed Enrico Ricciardi, ha un nome e un cognome, Giuseppe Compagnoni. Deputato di Lugo di Romagna, si fece promotore, all’Assemblea della Repubblica Cispadana, della determinazione che rese “universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”, con la precisazione “che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispadana, la quale debba portarsi da tutti”. Quella bandiera avrebbe avuto la sua legittimazione il 7 gennaio 1797, che difatti è stato celebrato a Reggio Emilia con l’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del Ministro Delrio, del Presidente della Regione, Bonaccini, del Presidente della Provincia Manghi.
Nell’occasione il Presidente Mattarella ha ricordato che “il Tricolore contiene ed esprime il valore della nostra unità nazionale”, un vessillo che “ha accompagnato con continuità, esprimendo il valore dell’unità nazionale, le varie fasi della storia unitaria del nostro Paese, dal Risorgimento alla costruzione della concreta unità di vita dell’Italia, per arrivare fino alla Resistenza, alla Repubblica e alla sua Costituzione, attraverso una lunga trama di vite, di storie, di aspirazioni, di luoghi, di eventi in cui si è svolta la vita del nostro Paese in questo lungo periodo”.
“Il valore dell’unità in questa lunga storia – ha aggiunto il Presidente – è stato declinato in maniera evolutiva nel corso del tempo, con una crescente consapevolezza del significato dell’unità nazionale, con una crescita di sentimento comune nazionale che si è manifestata con evidenza nella Grande Guerra, con il suo carico di privazioni e di lutti vissuti collettivamente. Ha avuto anche momenti di arretramento, è stato indebolito nel periodo in cui la deformazione del concetto di Patria e di Nazione, subita con il fascismo, ha affievolito la condivisione e l’identificazione popolare con l’idea di Patria e di Nazione”.
Nel suo discorso il Presidente richiama anche l’8 settembre 1943: “in questa data riprende la storia della Patria. In realtà è da allora, dall’avvio della Resistenza, dalla Repubblica, dalla Costituzione che si rilancia l’idea, il valore della Patria e dell’unità nazionale. E questa svolta avviene perché si comprende che il valore dell’unità nazionale, basato naturalmente sull’importanza della storia comune, va considerato non tanto con lo sguardo rivolto al passato ma al futuro, sulla capacità di costruire il futuro concreto del nostro popolo. Il modo di intendere in questo modo il valore dell’unità nazionale lo rende davvero coinvolgente per la comunità nazionale, lo rende espressivo del diritto di tutti ad essere effettivamente cittadini del nostro Paese”.
“Una società che avverte e che vive con forza il senso di comunità è una società che avverte più fortemente il valore dell’unità nazionale ed è una società capace di viverlo – come fa il nostro Paese – in uno Stato immerso nei valori universali riconosciuti dalla comunità internazionale, capace anche di viverlo e interpretarlo in maniera matura nell’appartenenza convinta alla nuova Europa che ha saputo sottrarsi alle dittature, che ha saputo adottare, diffondere e sviluppare il metodo democratico e che ci consente, da oltre settant’anni, una vita non soltanto di mancanza di guerre ma di pace”.
“Questo modo di intendere il valore della Patria e dell’unità nazionale, raffigurato nel Tricolore, non come un valore astratto, ma come un valore concreto che si dispiega nel corso del tempo in maniera adeguata al mutare delle condizioni, è un concetto vivo che sorregge e spiega il perché dell’esclamazione che anche io vorrei ripetere: “Viva il Tricolore, viva la Repubblica, viva l’Italia!”.
Ho voluto riportare pressoché integralmente il discorso del Presidente Mattarella a commento del quale si può dire soltanto che è certamente in linea con la personalità del suo autore e che molto bene è espressa dalla prosa, di circostanza, lontana dall’enfasi, sia pure prudente, che sarebbe stato lecito attendersi nella rievocazione di un evento come l’anniversario della istituzione della bandiera che nell’evoluzione della storia sarebbe divenuta, da stendardo di una repubblica satellite della Francia bonapartista, il vessillo dello Stato che avrebbe, dopo secoli di aspirazioni frustrate da divisioni interne favorite dallo straniero (“noi fummo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam popoli,/ perché siam divisi”), rappresentato l’unità dell’intera penisola, dalle Alpi al Lilibeo, come si usa dire.
In questa visione storica dell’unificazione, del “miracolo del Risorgimento”, per dirla ancora una volta con una felice espressione di uno scienziato della politica, Domenico Fisichella, forse un Capo di Stato avrebbe dovuto fermarsi di più su quel periodo storico nel corso del quale l’identità nazionale, che si era andata delineando nel corso dei secoli nel pensiero di uomini di cultura e statisti, si è finalmente identificata sul piano politico nel moto risorgimentale. Quando il pensiero e l’azione di Mazzini, il braccio armato di Garibaldi, l’azione politico-diplomatica di Cavour hanno incontrato la determinazione del Re Vittorio Emanuele II, che le varie istanze ha saputo unire, e senza il quale l’Italia unita non si sarebbe realizzata. Non avrebbero potuto farlo i deboli sovrani della Toscana o dei Ducati di Parma e Piacenza, legati al “nemico storico”, come Luigi Einaudi avrebbe definito nel corso della Grande Guerra l’Impero austriaco. O come i debolissimi Borbone, sovrani di uno stato diviso in quando delle “due Sicilie”, come era denominato il regno, quella vera mal sopportava la dinastia straniera.
E se è vero, come ha detto il Presidente Mattarella, che “il valore dell’unità nazionale, basato naturalmente sull’importanza della storia comune, va considerato non tanto con lo sguardo rivolto al passato ma al futuro”, non c’è dubbio che per guardare al futuro con la consapevolezza dell’impegno che occorre nel contesto nazionale ed europeo un popolo deve avere consapevolezza della propria identità come si è formata nei secoli. Perché è vero, per dirla con il titolo di un bel libro di Andrea Carandini, “Il nuovo dell’Italia è nel passato”, intervistato da Paolo Conti, “come si può progettare un futuro, anche il più audace e tecnologicamente spregiudicato, se non si è consapevoli del passato che ci ha preceduto ma che tuttavia perdura in noi?”. Quel passato che Sergio Mattarella, giurista, certamente ritroverebbe nel diritto romano che ha innervato le istituzioni giuridiche di tutto il mondo, anche quando sembra che gli ordinamenti, come quelli di lingua inglese o common law se ne distacchino, perché anche in quelle esperienze forte è l’eredità del diritto di Roma. Che, va ricordato, è insegnato in oltre 180 università cinesi e reso attuale nella traduzione del Digesto di Giustiniano.
Dal diritto alla cultura letteraria, filosofica, politica e all’arte, l’identità di questo popolo è unica e prezioso retaggio che andrebbe valorizzato e non consegnato al passato come se questo fosse una pagina già letta e archiviata mentre va riletta per dare forza, di giorno in giorno, alle aspirazioni e alle prospettive del futuro.
Ecco, avremmo voluto che Sergio Mattarella esprimesse con maggiore determinazione sentimenti che certamente ha nel cuore e che fanno parte della sua cultura. Gli italiani lo avrebbero certamente gradito. Qualcuno si sarebbe forse stupito. Ma anche lo stupore fa parte della politica in una terra nella quale un grande Re, che immaginò nel Medio Evo l’Italia unita, Federico II, fu appunto definito stupor mundi il più brillante e potente fra i sovrani del suo secolo.
11 gennaio 2017

Il Movimento 5 Stelle, una prospettiva o una speranza mal riposta?
di Salvatore Sfrecola

Sono stati in molti ad interrogarsi, fin dall’indomani delle elezioni legislative del 24 e 25 febbraio 2013, sul perché il Movimento Cinque Stelle, solo di recente apparso nell’agone politico, abbia potuto ottenere un così rilevante successo che si è riprodotto successivamente, in modo significativo e per certi versi inaspettato, anche in alcune elezioni locali, in particolare a Torino e Roma dove, nei ballottaggi, sono prevalse Chiara Appendino e Virginia Raggi al successo delle quali hanno concorso molti elettori che, al primo turno, avevano votato per i partiti di Centrodestra, dalla Lega a Fratelli d’Italia, a ForzaItalia. A Roma, in particolare, NoiConSalvini. Scelte delle quali il M5S sembra non essersi dato carico nelle successive scelte parlamentari e di governo. Neppure nell’intento di consolidare in qualche misura quei consensi.
Da allora ad oggi questo Movimento, quando impegnato in funzioni di governo locale si è presentato all’opinione pubblica con qualche difficoltà nella gestione della cosa pubblica, evidenti soprattutto a Roma, senza che, tuttavia, ne sia stata lesa l’immagine. Per onestà va detto che Roma è città che, dal punto di vista amministrativo, sconta decenni di cattiva amministrazione, dalla gestione del traffico alla raccolta dei rifiuti urbani, alla manutenzione delle strade e dei marciapiedi. Questi ultimi spesso dimenticati, come sanno bene le persone anziane o con handicap e le mamme con carrozzina costrette a slalom tra pavimentazioni in vario modo sconnesse. Argomenti che, come ognuno comprende, danno la misura della efficienza del Sindaco e della Giunta comunale. I cittadini romani, tuttavia, hanno fin qui dimostrato una straordinaria pazienza nei confronti della Raggi impegnata in improbabili candidature ad assessorati chiave, come quello del bilancio o alle municipalizzate. Pazienza e comprensione per l’inesperienza della persona che certamente non sono infinite.
L’inchiesta su Mafia Capitale, per parte sua, ha dimostrato che esistono obiettive difficoltà della gestione della Città, che vi sono settori difficilmente governabili in ragione di vecchi e consolidati interessi criminali attraverso i quali gente senza scrupoli, all’ombra della politica, specula sul costo dei servizi e delle forniture le quali sono inoltre assolutamente inefficienti.
Devo dire che, come molti italiani, ho guardato con simpatia il M5S e mi sono trovato a votarlo al pari di tutti coloro i quali hanno maturato nel tempo una avversione profonda nei confronti della politica delle chiacchiere assolutamente incapace di raggiungere anche i più modesti obiettivi indicati nella campagna elettorale. Una politica che non sembra riuscire a rinnovare la propria classe dirigente ed a collocare in posizione di responsabilità persone affidabili e capaci, le quali abbiano realmente il senso dell’istituzione che sono chiamate a servire.
Ho anche condiviso l’iniziale prudenza con la quale il Movimento non si è presentato in televisione o nelle occasioni di confronto politico nella evidente consapevolezza della scarsa preparazione specifica dei singoli nel linguaggio del confronto politico a fronte dei più esperti esponenti dei vari partiti impegnati a difendere le rispettive storie responsabili della sfascio delle istituzioni. Poi sono cresciuti i Di Maio, Di Battista, Fico, Di Stefano, Bonafede, Ruocco, Toninelli, per non citare che i più noti.
Stupisce, pertanto, come il M5S, giunto alla conquista del Campidoglio, in un ballottaggio nel quale hanno concorso al successo di Virginia Raggi anche elettori del Centro destra, uniti dal desiderio di evitare la vittoria del renziano Giachetti, espressione della vecchia politica del consociativismo capitolino, non abbia compreso l’importanza dell’occasione di avviare, attraverso la gestione amministrativa della Capitale, la scalata al governo della Nazione.
Questa convergenza sul nome del giovane avvocato romano candidata sindaco avrebbe dovuto impegnare il Movimento nella ricerca di una adeguata squadra di governo della Città, certo non facile da individuare ma che avrebbe dovuto costituire un impegno forte per dimostrare una capacità di gestione della cosa pubblica tale da costituire una base di credibilità in vista delle elezioni politiche generali. Perché è evidente che se il Sindaco eletto e il movimento politico che l’ha scelta si è trovato in difficoltà al momento di individuare una ventina di soggetti per ricoprire le cariche politiche e amministrative, gli assessorati, il Capo di gabinetto, il Segretario Generale ci si può chiedere legittimamente come il Movimento possa mettere in campo quel centinaio e più di uomini e donne che dovrebbero, in caso di vittoria alle elezioni politiche, ricoprire il ruolo di ministro, sottosegretario, Capo di gabinetto, Capo di Ufficio legislativo. La domanda è legittima e la risposta non c’è stata perché, nonostante garbate sollecitazioni da più parti provenienti, il Movimento non è stato in condizioni di scegliere per gli incarichi di Giunta personalità di spessore e capaci di dialogare con la struttura amministrativa del Comune e delle aziende. Perché una cosa che sembra sfuggire agli uomini del M5S è che non basta indicare degli obiettivi di governo se non si ha la capacità di dialogare con i propri collaboratori avendo il linguaggio e la capacità di intendersi con l’apparato.
Non è facile, ne siamo consapevoli per antica esperienza nelle amministrazioni e negli organismi di controllo, ma è evidente che l’impegno che avrebbero dovuto mettere in campo il Movimento e il Sindaco eletto sarebbe stato proprio quello di presentare alla Città persone autorevoli e preparate capaci di trasferire nella gestione ordinaria dell’amministrazione le idee di buona politica che il Movimento ha o si vanta di rappresentare. Mi rendo conto, come ho appena detto, che non è facile, che in molti del M5S era evidente la preoccupazione di non imbarcare sulla navicella della nuova Giunta persone provenienti da precedenti esperienze, dal sottobosco della politica capitolina.
Mi ero accinto a scrivere di queste cose quando ieri sera in televisione, su La7, è andata in onda una puntata di Piazza Pulita tutta dedicata a Roma, al “crac” della Capitale d’Italia, con una serie di servizi presentati da Corrado Formigli che hanno denunciato in tutti i settori gravissime insufficienze e paurose illegittimità fonte di ingenti danni finanziari al Comune e alle aziende, resi possibili da inadempimenti amministrativi e dall’assenza di controlli, nelle aziende municipalizzate, in particolare dell’ATAC, che ha il peggior parco mezzi, per continuare con impianti sportivi costosi ma rimasti incompiuti e inutilizzati. Tutte vicende sulle quali indaga la magistratura. Anche in tema di edilizia convenzionata sono state rilevate gravissime inadempienze del Comune che hanno dato luogo a speculazioni e ad altri illeciti in danno degli ignari acquirenti.
Questi fatti, certamente pregressi, sui quali la Raggi non ha saputo o potuto intervenire, non sono stati capaci di scalfire la fiducia dei romani nel loro Sindaco, tanto che, al di là di alcune limitate flessioni del consenso presto riassorbite, è rimasto alto il consenso dei romani che pure hanno assistito al balletto degli assessori e alla vicenda del Capo del personale, Marra, arrestato per corruzione. Nulla che coinvolga il Sindaco ma ovviamente la preoccupazione riguarda la sua incapacità di scegliere o comunque la limitata platea dalla quale può scegliere o è in condizioni di scegliere i suoi collaboratori a livello di amministratori e di funzionari.
Non c’è dubbio che il M5S si trovi sotto il tiro incrociato della concorrenza in un momento surriscaldato del confronto politico, all’indomani dell’esito del referendum costituzionale nel quale il Movimento si è particolarmente distinto nella critica al confuso progetto Renzi-Boschi ed all’inizio di una campagna elettorale che sarà lunga probabilmente un anno e nella quale tutti i partiti faranno del loro meglio per denigrare il Movimento che appare, qualunque sia la legge con la quale andremo a votare, il più temibile degli avversari, così a sinistra come a destra. Comunque la si pensi non è interesse degli italiani che il M5S perda l’appeal di onestà e trasparenza con il quale si è presentato agli italiani, perché comunque la sua presenza è stimolante per i partiti che costringe ad una certa virtuosità che erano abituati a trascurare.
La campagna elettorale è lunga, come ho appena detto, e certamente le accuse, le polemiche e le recriminazioni la faranno da padrone nel dibattito sui giornali e nelle televisioni che non è bene si soffermi soprattutto sulle polemiche sulle regole interne dei partiti, sui codici di comportamento e su ogni altra vicenda che riguardi le persone che è giusto siano come dice la Costituzione all’articolo 54 impegnate “con disciplina e onore” nel servizio allo Stato. Ma i cittadini vogliono anche sapere quali sono i programmi, come vogliono realizzarli i partiti e con quali uomini dei quali i cittadini vogliono conoscere l’esperienza e la professionalità. L’auspicio è che il confronto politico si realizzi su questi temi perché gli italiani possano scegliere con serenità e consapevolezza chi li rappresenterà in Parlamento.
6 gennaio 2017

Articolo precedente
Articolo successivo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

Gianluigi Biagioni Gazzoli on Turiamoci il naso e andiamo a votare
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B