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Gennaio 2017

Un nuovo libro di Domenico Fisichella
Il modello USA per ‘unità d’Europa?
di Domenico Giglio

Domenico Fisichella, dopo il fondamentale trittico dedicato al Risorgimento ed al Regno d’Italia, costituito da “Il Miracolo del Risorgimento”, “Dal Risorgimento al fascismo” e “Dittatura e Monarchia” (editi rispettivamente nel 2010, 2012 e 2014 da Carocci Editore), che costituiscono la più recente, documentata, completa analisi della storia d’Italia dal 1800 al 1946, è tornato, sempre nel campo storico, al quadro più generale delle realtà europee e mondiali ed ai temi a Lui cari della Dottrina dello Stato e Scienza della Politica di cui è stato per lunghi anni docente.
Il nuovo libro, testè uscito, facente parte della “Biblioteca di Storia e Politica” dal titolo “Il modello USA per l’unità di Europa?” (edizione “Pagine s.r.l.” del 2016 – euro 18,00), tratta appunto questo problema) che come precisato dal Fisichella, non vuole essere una storia degli Stati Uniti d’America, anche se logicamente ha dovuto precisare alcune tappe fondamentali della nascita e dello sviluppo di questa Unione, partendo dalla riunione del 1774, a Filadelfia, delle tredici originarie colonie, che nel 1776, con la “Dichiarazione d’Indipendenza”, si costituiranno appunto in Unione e da Colonie in Stati. E necessariamente ricorrono i nomi di Washington, Hamiltonn, Madison e poi Monroe, con la sua dottrina e le tappe, anche sanguinose e dolorose, della guerra civile, detta “Guerra di Secessione “, dopo la quale ritrovata l’unità e la preminenza dello stato nazionale, nascerà, come scrive Fisichella, “La Grande Potenza”, i cui sviluppi “imperiali”, ben conosciamo e che portarono nel 1917 i primi soldati americani in Europa, in appoggio e sostegno delle truppe franco-inglesi, impegnate nel mortale duello con l’Impero Germanico.
Quanta differenza con gli stati europei di cui ricorda, per sommi capi, le linee di sviluppo, i dibattiti teorici e le implicazioni politiche, con le lotte per l’egemonia, soffermandosi sulla nascita di nuovi stati, con belle pagine dedicate all’unità dell’Italia, costituitasi in Regno, e poi ancora gli sviluppi della attuale Unione europea, anche soffermandosi sul “Manifesto di Ventotene”. Importanti infine le considerazioni, svolte anche in precedenza da Fisichella, sui dati numerici della popolazione europea, che nel giro di un secolo, dal 1900 ad oggi, l’ha vista scendere dal 25% della popolazione mondiale, a molto meno del 10%, con tendenza inarrestabile alla ulteriore diminuzione, a vantaggio dell’Africa, ancora più che dell’Asia, dove già esistono l’India e la Cina, superiori al miliardo di abitanti! Dati impressionanti che dovrebbero far riflettere gli sprovveduti che rilanciano i nazionalismi europei o auspicano, in vari casi la disintegrazione degli stati nazionali, a favore di più piccole patrie.
Testo perciò da leggere e meditare, invece di romanzi e di saghe fuori del tempo e della storia.
22 novembre 2016

L’Europa dall’Atlantico agli Urali
di Domenico Giglio

Questa frase di De Gaulle va oggi ricordata, perché le incomprensioni tra l’Unione Europea e gli USA di Obama e la Russia di Putin hanno raggiunto un livello pericoloso. Con questa affermazione fatta da un uomo, profondamente legato alla sua patria, la Francia, si voleva ricordare che la Russia, oggi non più URSS, faceva storicamente e geograficamente parte dell’Europa. De Gaulle, come tutti gli ufficiali usciti dalle grandi accademie militari, non aveva solo una vasta cultura militare, con una moderna visione della guerra, che non avevano i grandi generali francesi, e lo si vide nel 1940, ma anche una altrettanto vasta cultura storica, come del resto avveniva per chi, nel Regno d’Italia, usciva dalle regie accademie di Torino e di Modena. A tale proposito, a titolo indicativo, ho anche un ricordo familiare, in quanto mio Nonno, entrato all’Accademia di Modena nel lontano 1875, studiò la storia d’Europa su un importante testo del Senatore del Regno, professore di storia nella Università di Torino, Ercole Ricotti (volume di 736 pagine, che fa parte della biblioteca di famiglia), che nulla taceva su quanto avvenuto in Europa dal 476 d.C. al 1861, ed anche la storia mondiale su di un altro testo (volume di 634 pagine ), opera di un brillante ufficiale di Stato Maggiore, Tancredi Fogliani, testo specifico per la Scuola Militare.
Quindi la Russia, nella visione di De Gaulle, faceva parte dell’ Europa, ed in effetti questa appartenenza risale almeno a Pietro il Grande, che da giovane, aveva girato per l’Europa per studiarne costumi ed istituzioni e per conoscere le conquiste di carattere tecnico, e ad ingegneri ed artisti europei, specie italiani, affidò l’incarico di progettare e costruire la nuova grande capitale che da lui prese nome . E così i russi combatterono contro la Svezia, di Carlo XII, famoso generale, per fermarne l’espansione, e poi contro Napoleone, determinando l’inizio delle sue sconfitte, e dopo la sua caduta, presero parte quasi da protagonisti nel Congresso di Vienna, del 1814 e nella costituzione della “Santa Alleanza”.
In nome di questa, truppe russe, intervennero in, Ungheria, nel 1849, ribellatasi all’Impero Asburgico, per riconsegnarla a Francesco Giuseppe, e poi le guerre contro l’Impero Ottomano, che portarono alla nascita di Romania e Bulgaria, malgrado l’intermezzo della guerra di Crimea, e poi ancora l’intesa dei “tre imperatori”, con l’Impero Germanico ed Austro-Ungarico. Venne poi l’alleanza con la Francia e l’intervento nel 1914 a favore della piccola Serbia, slava ed ortodossa, stupidamente aggredita dall’Austria, e l’inizio della prima Guerra Mondiale.
In sostanza fino al 1917, la Russia Imperiale fece parte del “concerto” delle potenze europee, dove pure era entrato, non dimentichiamolo, anche il giovane Regno d’Italia. La frattura avvenne con la rivoluzione bolscevica, e con la nuova URSS, che voleva espandere l’idea comunista nel mondo per cui solo lo sciagurato attacco di Hitler, nel 1941, dopo l’effimero accordo Ribbentrop- Molotov, creò nuovamente una alleanza con la Gran Bretagna e gli USA, che consentirono all’Unione Sovietica di insediarsi nel mezzo dell’Europa con i suoi stati satelliti, fino alla caduta del “muro”, all’avvento di Gorbaciov e poi di Eltsin.
Che oggi la Russia, restituite alla indipendenza, magari malvolentieri, i tre piccoli stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, e la grande Ucraina, non sia una democrazia perfetta, ma quale è anche negli altri paesi perfetta, è abbastanza noto, ma il compito storico dell’Europa è di riportarla nel “concerto”, sia per il numero degli abitanti, sia per le sue potenzialità economiche (non dimentichiamo la Siberia), sia, infine, per essere un paese ancora abbastanza cristiano, anche se ortodosso, rispetto ad una Europa Occidentale, piuttosto scristianizzata, malgrado le sue indiscusse origini cristiane, e l’attività ecumenica e quasi missionaria dei più recenti Pontefici.
19 novembre 2016

Errori e pregiudizi di stampa e televisione alle prese con la campagna elettorale Clinton – Trump
di Salvatore Sfrecola

I giornali e le televisioni di casa nostra hanno dimostrato ancora una volta, nelle previsioni del voto riguardanti la campagna elettorale americana e nei commenti sui programmi dei due candidati, di essere guidati dall’ideologia alla quale si ispirano come uomini di cultura, avendo spesso dimenticato una regola fondamentale dell’informazione, quella di distinguere i fatti dalle opinioni. È accaduto più volte in passato. Clamoroso il caso dell’immagine che giornali e televisioni davano in Italia del personaggio Ronald Reagan, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, presentato come un attore di Hollywood di quarta fila, specializzato in polpettoni western, trascurando il fatto che lo stesso era stato, per due mandati, governatore dello Stato della California, uno dei più importanti di quel grande paese.
Confondendo la realtà con i loro desideri quei giornalisti persero un’occasione per dare una informazione corretta, liberi ovviamente di criticare la linea politica prospettata nella campagna elettorale, allora da Reagan, nei mesi scorsi da Trump. Invece hanno dato corpo alle aspettative della parte politica alla quale aderiscono o della linea dettata dal proprietario della testata.
Per la verità anche i sondaggisti hanno sbagliato, un po’ perché è obiettivamente difficile individuare in una fase nella quale le intenzioni di voto non sono sempre esattamente delineate, l’andamento del corpo elettorale, soprattutto in una realtà variegata come quella degli Stati Uniti d’America dove da stato a stato cambia profondamente la realtà sociale ed economica, il substrato antropologico condizionato dalla storia, dalle esperienze maturate nel lavoro, nel rapporto con le istituzioni, in particolare con il fisco. Così basandosi su campioni evidentemente non rappresentativi dell’universo da indagare, i sondaggi hanno dimostrato i loro limiti forse anche condizionati dagli interessi delle lobbyes contrapposte che pure erano evidenti nella campagna elettorale.
Ricordo che qualche settimana fa, trovandomi a parlare con un amico che conosce gli Stati Uniti ed ha molte amicizie in quel paese mi sentii dire, ad alcune mie osservazioni riguardanti l’andamento del confronto elettorale, che per avere una migliore rappresentazione della situazione effettiva avrei dovuto soffermarmi su alcune trasmissioni televisive di canali di Sky, da lui ritenuti più obiettivi. E in effetti, seguendo interviste televisive, rilevazioni degli umori dell’elettorato ed i commenti di vri opinionisti mi sono fatto presto la convinzione che questo maggiore appeal della Clinton, sulla quale in parte concordavo avendo assistito ad alcuni confronti dei due candidati che avevano mostrato un Trump troppo condizionato dalla impostazione polemica della Clinton, avrebbe portato la candidata democratica al successo.
Evidentemente, però, sfuggiva a me, e questo è poco importante, quello che, invece, colposamente è stato trascurato dai media, che il disagio sociale di larghi strati della popolazione è stato bene interpretato e capito dal candidato repubblicano il quale se ne è fatto portavoce con successo. Ed evidentemente la gente ha capito che quella presa di posizione, in un contesto più ampio di una proposta elettorale, era affidabile e meritevole di essere condivisa.
D’altra parte queste errate valutazioni degli orientamenti del corpo elettorale sono anche un’esperienza italiana, non solo dei giornalisti, ma anche dei politici, dacché si sentono spesso in televisione ripetere, da parte di esponenti del Partito Democratico, riferimenti al risultato delle elezioni europee che hanno dato a quella parte politica oltre il 40% dei voti, ritenuto realmente un indice dell’apprezzamento stabile degli italiani nei confronti della linea politica di Renzi, senza considerare che nelle elezioni europee gli italiani si sentono più liberi perché ritengono, sbagliando, che, tutto sommato, le scelte che si fanno in quella sede sono poco rilevanti per gli interessi della gente. E comunque che ha avuto il suo peso la probabile aspettativa del nuovo di fronte ad un leader appena insediatosi a Palazzo Chigi, tra l’altro presentatosi con una cospicua erogazione di denaro, gli ? 80 erogati alla vigilia ad una ampia categoria di cittadini. Tutto questo ha prodotto quel risultato che non è stato possibile reiterare in occasione delle elezioni amministrative dove tradizionalmente il cittadino è più attento alle scelte che è chiamato a fare, perché consapevole degli effetti che personalmente si attende dagli amministratori locali nelle grandi come, soprattutto, nelle medie e piccole realtà che caratterizzano il tessuto urbano del nostro Paese.
Appare dunque evidente che sondaggisti ed opinionisti si trovano e ancor più si troveranno nei prossimi giorni in difficoltà per interpretare gli orientamenti dell’elettorato sia sulla riforma costituzionale che sul governo perché è inevitabile che nel segnare un SI o NO sulla scheda referendaria gli italiani giudicheranno se gli slogan che il Presidente del consiglio e il suo ministro delle riforme diffondono a piene mani ci prospettano effettivamente risparmi e semplificazione, avendo presente quel che il governo ha fatto in questi due anni e mezzo di vita e quello che sta facendo in vista dell’approvazione parlamentare della legge di bilancio. Quindi un giudizio complessivo sul governo e sulla persona del Presidente del consiglio che, sbagliando, con arroganza, si è intestato una riforma costituzionale che tradizionalmente è materia del Parlamento. Quindi anche la marcia indietro rispetto alla iniziale impostazione della riforma costituzionale come scelta pro o contro il presidente che, in caso di sconfitta, aveva preannunciato non solo l’abbandono del governo ma della politica, non servirà a modificare gli orientamenti del corpo elettorale in vista della data fatidica del 4 dicembre. E non è da escludere che l’esito delle elezioni americane, che hanno sovvertito i falsi pronostici portando al vertice degli Stati Uniti il miliardario eccentrico Donald Trump, che ha saputo interpretare meglio le esigenze della gente, possa guidare le scelte degli italiani che, come gli abitanti di oltre oceano, sentono forte il peso di una burocrazia oppressiva, di un fisco ingiusto che non favorisce i consumi e lo sviluppo del Paese, di una sanità che varia da regione a regione. Da ultimo mostrare a Bruxelles più i minuscoli che le ragioni della nostra economia non porta lontano, soprattutto perché nell’Unione europea come in Italia molti ricordano che il presidente Renzi, nel semestre nel quale ha esercitato le funzioni di presidente del Consiglio dei Ministri europeo è passato assolutamente inosservato per mancanza di idee e di capacità di attuare un dialogo costruttivo con gli altri partner europei.
12 novembre 2016

Riflessioni a margine delle elezioni USA
Nelle monarchie regine ed imperatrici
di Domenico Giglio

Le difficoltà incontrate dalla Clinton per l’elezione, poi mancata, a Presidente degli USA, invitano, ad una riflessione sui due grandi sistemi istituzionali esistenti, monarchico e repubblicano, e sul ruolo delle donne negli stessi particolarmente dove le monarchie erano più diffuse e cioè in Europa e nei paesi intorno al Mediterraneo a dimostrazione che le frasi stantie e pur diffuse sul progressismo delle repubbliche, sono semplicemente frasi atte a colpire gli uditori, senza valore storico.
Tralasciamo le regine mitiche, la cartaginese Didone e l’assira Semiramide, e passiamo alle già storiche Sofonisba, numida, Cleopatra, regina d’ Egitto e Zenobia, regina di Palmira, per poi andare alla bizantina imperatrice Teodora ed alla longobarda Teodolinda, tutte figure particolarmente importanti nella storia dei loro paesi e non semplici comparse.
Passiamo ad epoche più vicine troviamo la grande Elisabetta, regina d’Inghilterra, che ha dato il nome ad un’epoca “elisabettiana”, la contemporanea sfortunata Maria Stuarda, e sempre in Inghilterra, Anna Stuart, determinante nell’atto di unione con la Scozia del 1707, due regine di Francia, di origine italiana, Caterina e Maria dei Medici, anch’esse dotate di forte personalità e protagoniste della vita politiche del Regno, per poi andare in Russia dalle due imperatrici Caterina, la seconda detta “la Grande”, fra le quali si inserisce l’imperatrice Anna Ivanovna, tutte tese ad un’opera riformatrice dell’impero, come in Austria si adoperava Maria Teresa, con esiti che hanno contrassegnato e contraddistinto la successiva vita dell’impero austriaco. Arriviamo all’ottocento e sempre in Inghilterra, oramai Regno Unito, abbiamo Vittoria, anche imperatrice delle Indie, da cui l’epoca “vittoriana”, vera e propria “nonna d’Europa”, i cui nipoti sparsi in tutto il continente, non sono stati purtroppo alla sua altezza.
Dobbiamo aggiungere altro ? Le tre regine d’ Olanda, succedute l’una all’altra, per 123 anni, Guglielmina, Giuliana, Beatrice, ed alla attuale Elisabetta II, la cui durata del regno, non conosce limiti, e la regina di Danimarca, Margherita II, mentre la Svezia dopo la famosa regina Cristina, figlia di Gustavo Adolfo, donna colta e sovrana illuminata, convertitasi al cattolicesimo e venuta a stabilirsi a Roma, avrà nuovamente una regina dopo l’attuale sovrano, di cui è figlia. Questo in paesi sulla cui importanza nella storia d’Europa non credo ci sia bisogno di soffermarci, ma anche dove vigeva la “legge salica”, le regine pur non avendo responsabilità dirette di governo hanno contrassegnato la loro epoca, come è stato con Margherita di Savoia, prima regina del giovane Regno, “icona dell’Italia Unita”, splendida definizione dello storico Galasso.
11 novembre 2016

Quando negli USA una donna Presidente ?
di Domenico Giglio

Sembrava non esserci in queste elezioni dell’8 novembre 2016, occasione migliore perché una donna, la Hyllary Rhodam in Clinton, raggiungesse la Casa Bianca, dopo un cattolico, Kennedy, nel 1960 e un afro-americano, Obama, nel 2008. L’imponente schieramento a suo favore di tutta la stampa, degli “opinion leader”, di importanti reti televisive ed infine la strana figura del suo competitore, esponente di un grande e storico partito, il GOP, che, incredibile a dirsi, non si riconosceva in parte proprio nel suo candidato davano l’esito della partita più facile del previsto per la candidata democratica. Il tocco finale lo avevano dato le previsioni degli istituti specializzati ed a proposito di queste indagini, quando in una elezione vi è un partito od un candidato “demonizzato”, come nel caso Trump, non considerano che diversi intervistati non osano dichiararsi a favore di questi “indesiderabili” e preferiscono o l’astensione (ancora non ho deciso) o addirittura dichiarano di votare per i loro avversari. Così abbiamo avuto la sorpresa della sconfitta della Hillary ed a questo punto ci si pone la domanda iniziale: quando negli USA una donna presidente ?
L’attuale candidata sconfitta, tra quattro anni, avrà ancora i mezzi materiali ingentissimi di cui disponeva oggi e soprattutto le condizioni fisiche, di cui già adesso, vi erano stati segnali non favorevoli? Allora la candidata più probabile non potrà essere l’attuale consorte del presidente uscente, la Michelle Obama? Non dimentichiamo l’impegno messo dalla stessa, quest’anno, a favore della Clinton. Fossero le prove generali, l’apprendistato, l’allenamento per una propria futura candidatura? Se effettivamente lo fosse, il problema dei mezzi finanziari di cui la Clinton era dotata, potrebbe essere uno svantaggio iniziale, ma i mezzi finanziari si troverebbero, come già si trovarono per il marito nel 2008 e nel 2012 per cui in un partito democratico disastrato nel parlamento, minoritario nei Governatori degli Stati che costituiscono l’Unione, fermatasi la dinastia Bush, naufragata la dinastia Clinton non potrebbe iniziare una dinastia Obama? L’ età, della Michelle, anche tra quattro o più anni, sarà sempre inferiore a quella che oggi aveva la Clinton e questa possibile candidatura potrebbe rivelarsi l’ancora di salvezza.
Manzonianamente ” ..ai posteri l’ardua sentenza?.”
10 novembre 2016

OBAMA : un finale poco dignitoso
di Domenico Giglio

Essersi sbracciato, in maniche di camicia, per appoggiare, lui Presidente degli Stati Uniti, una candidata alle elezioni presidenziali, sia pure del suo partito democratico, non ha giovato alla stessa candidata battuta dal candidato repubblicano, sia pure un po’ anomalo rispetto alle tradizioni del suo partito. La popolarità ed il giudizio favorevole su Obama, per il 50% degli americani, come dicono le rilevazioni statistiche, sulle quali dopo il clamoroso errore nelle previsioni per queste elezioni presidenziali, dovremmo avere notevoli riserve, non hanno minimamente influito anche sulle elezioni per il Congresso ed il Senato che rimangono a maggioranza repubblicana, per cui si è trattato di un fattore personale e familiare non trasmissibile al partito democratico di cui era espressione. Quello che però va rilevato da noi europei, dove ancora esistono le monarchie, o dove il loro ricordo è ancora vivo, è l’atteggiamento di un Capo dello Stato, quindi rappresentante di tutti i cittadini di quello stato, quali fossero le loro opinioni, che si schiera senza alcuno scrupolo costituzionale a favore di un candidato,, senza pensare che, anche quando fu eletto, la maggioranza avuta nel voto popolare era stata esigua, e che, all’indomani della elezione, aveva solennemente dichiarato che sarebbe stato il presidente di tutti.
Con questo atteggiamento invece parziale e fazioso, spesso con termini ed espressioni da comiziante, Obama, è venuto meno alla sua solenne promessa, scendendo nella considerazione di quanti ancora credono in valori di equanimità di un Capo dello Stato, al di sopra delle parti.
10 novembre 2016

4 novembre l’eclissi dell’identità nazionale
di Salvatore Sfrecola

Ho appena finito di leggere i giornali, non tutti ovviamente, ma quelli ai quali mi riferisco quotidianamente per conoscere le vicende della politica, dell’economia e della finanza e per ritrovare riflessioni sulla cultura, dalla storia alla letteratura, al cinema, al teatro. Su nessuno ho trovato riferimenti al 4 novembre 1918, data della conclusione delle operazioni militari della prima guerra mondiale. Ho letto, invece, molto dell’alluvione di Firenze di cinquant’anni fa. Un evento drammatico della storia civile che ricordo benissimo.
Quel giorno avevo programmato una visita a Firenze per incontrare degli amici. Mi stavo preparando tenendo, come di consueto, la radiolina sintonizzata sul giornale radio. Alle 6 le prime, drammatiche notizie. Ricordo ancora una frase: il Generale Centofanti, Comandante della Piazza di Firenze, ha disposto l’impiego dell’esercito per far fronte ai gravi problemi della Città allagata. Successivamente avrei partecipato, insieme ad altri studenti universitari, al recupero dei libri e dei fascicoli dell’archivio criminale di Firenze lavorando nella sede dell’Archivio centrale dello Stato all’Eur per contribuire ad asciugarli inserendo fra una pagina e l’altra fogli di carta vergatina in vista del successivo inoltro all’essiccatoio dove queste opere venivano trattate. Fu un’esperienza molto bella, e conservo ancora con orgoglio l’attestato, un impegno civile di giovani e meno giovani che dedicavano del tempo per questa opera di salvezza di beni del patrimonio storico il librario di Firenze ed Italia.
Il ricordo dell’alluvione è doveroso e fa onore ai giornali che gli ha dedicato pagine e pagine. Ma quel che ho notato è che l’occasione e la contestuale ricorrenza della data nella quale possiamo dire l’Italia si è effettivamente unita nei confini naturali che Dio le ha dato avrebbe dovuto suggerire un collegamento fra i due avvenimenti, unità politica e identità data dal patrimonio storico artistico del quale Firenze è una delle massime testimonianze.
Infatti, se il 4 novembre 1918 si è concluso con l’unità d’Italia il percorso del Risorgimento, un percorso assai più lungo di quello iniziato con la prima guerra di indipendenza (1848) avviato secoli addietro con il concorso di uomini d’ingegno, di cultura, politici e filosofi i quali avevano evocato l’esigenza di quella unità che già si rinveniva nelle parole del sommo poeta, nell’invettiva per le condizioni in cui versa l’Italia, “serva”, “di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello”. Un’invettiva diretta a tutti coloro, uomini di Chiesa e signori d’Italia, che ostacolavano l’autorità imperiale e non lasciavano “seder Cesare in la sella” (vd. Conv. IV ix 10 e Mon. III xv 9). Quell’idea di Italia che aveva affascinato il giovane imperatore Federico II, tedesco di stirpe ma immerso nella cultura mediterranea.
Questa disattenzione per le date della storia dimostrano la mancanza di consapevolezza della identità nazionale cioè di quel complesso di valori che la storia ci ha consegnato e che lungo i secoli hanno distinto e distinguono gli italiani da tutti gli altri popoli anche da quelli con i quali abbiamo fatto percorsi comuni. Una storia trimillenaria che nasce dalle colonie greche dell’Italia meridionale, si sviluppa sulle rive del Tevere per innervare tutta l’Italia e l’Europa con le istituzioni del diritto, con la cultura storica, filosofica, artistica per cui l’Italia si riconosce nelle sagome delle cattedrali, dei castelli, del declivio delle sue colline e dei suoi monti e vive nelle biblioteche e nei musei.
Firenze è una tappa di questa storia, così come le chiese della Valnerina, la cattedrale di Norcia, intestata a San Benedetto, patrono d’Europa. E se da una piccola città dell’Umbria Benedetto raggiunge l’Italia e l’Europa per divenirne il santo protettore, ebbene questi profili della storia civile e religiosa sono parti della identità nazionale e dovrebbero sviluppare un culto della Patria che solo gli sciocchi possono ritenere essere coltivato ad escludendum alios, per negare l’accoglienza e l’integrazione. Che era stato un valore nell’antica Roma, che accoglieva tutti, singoli e comunità, con l’obbligo della condivisione di due regole, il rispetto delle leggi di Roma e la consapevolezza della missione storica dell’Urbe.
Oggi spesso trascuriamo le nostre radici. A volte le rinneghiamo, come quando fu tolto dalla preghiera degli Alpini il riferimento alla civiltà cristiana o come oggi che è stata impedita una celebrazione religiosa a ricordo dei caduti della Grande Guerra in segno di rispetto, si dice, di soggetti provenienti da altri paesi che professano altre religioni. Non è una scelta felice. Chi viene in Italia deve rispettare le leggi e le tradizioni che non sono contro nessuno ma sono per noi. Questi comportamenti rifiutano la nostra storia agli occhi degli immigrati dei quali noi dobbiamo rispettare la cultura e la religione senza che per questo debba occultarsi la nostra identità. Per questo gli immigrati spesso si sentono a noi superiori, ci disprezzano, ritengono la loro cultura pura, incontaminata. È in questi sentimenti spesso la ragione della ribellione nei confronti dell’Occidente corrotto.
Si è scritto che c’è un risveglio del culto della Patria, identificato nelle bandiere tricolori che sventolano sui monumenti e sugli edifici pubblici. Lo si è dedotto dal suono e dal canto dell’inno di Mameli riportato in auge negli anni scorsi. Forse quel risveglio è stato percepito in occasione delle celebrazioni del 150º dell’unità d’Italia, attraverso i libri, le manifestazioni, le iniziative “miranti alla costruzione di una storia comune cementata da gioie e dolori, nostalgie e rimorsi, delusioni e speranze”. Sicché, a conclusione di queste parole, Emilio Gentile scrive che “l’Italia s’è desta”. Scriveva nel 2009  (La Grande Italia, Editori Laterza), ma a quell’entusiasmo sincero non è seguito un conseguente atteggiamento delle autorità e dei cittadini. Sicché il grido di allarme che Gian Enrico Rusconi aveva lanciato nel 1993, “se cessiamo di essere una nazione”, è ancora valido perché attraverso le contrade d’Italia giunga a muovere gli animi, per ricordare a tutti che un popolo che non è consapevole della propria identità non ha futuro. D’altra parte il governo, che pure vanta un premier che ha passeggiato nelle strade di Firenze, non appare consapevole della necessità di questo impegno, di galvanizzare gli animi perché la scuola e il lavoro offrano possibilità di una vita ricca di soddisfazione spirituali e materiali. Invece questo governo mette mano con una estrema improntitudine, dimostrando una non comune incapacità tecnica, alla Carta fondamentale dello Stato nella quale si identificano i valori della civiltà nazionale e le caratteristiche proprie del suo ordinamento e propone di sostituire una legge equilibrata, certamente meritevole di ritocchi anche significativi, con una sguaiata enunciazione di regole scopiazzate da altri ordinamenti e trasferite nel nostro in modo assolutamente inconsulto.
L’Italia ha una caratteristica che tutti i politici dovrebbero considerare. L’unità ha reso possibile la confluenza nell’unico corpo della Nazione di esperienze politiche, storiche e culturali diverse ma tutte preziose, dal Piemonte alla Puglia, dal Veneto alla Sicilia. Tutte sono gioielli inimitabili, ricchezza dell’intera Nazione. Se la politica non comprende questo, se la politica abbandona delle aree del Paese all’incuria, alla regressione economica e alla prepotenza criminale ebbene questa politica non è degna di un grande Paese e questi politici devono andare a casa definitivamente. Confondere la Costituzione con le esigenze della vita di tutti i giorni con i problemi che riguardano la giustizia lenta, l’amministrazione pubblica pesante e di impaccio per le persone e le imprese, il sistema tributario rapace, mentre dovrebbe essere lo strumento di elezione della politica economica e dello sviluppo, significa non avere capacità di governo. Se la scuola non riesce ad essere, come un tempo era, la fucina dei migliori cervelli italiani, come dimostra il fatto che i nostri studenti, i nostri laureati, i nostri tecnici ovunque all’estero hanno avuto grande successo, se la politica non capisce tutto questo è cattiva politica e va rimossa. Cominciando dall’occasione del 4 dicembre, dicendo NO ad una riforma che è un complimento definire pasticciata.
4 novembre 2016

La riforma “meglio di niente”
di Salvatore Sfrecola

Impegnati a far digerire agli italiani la riforma della Costituzione che, per loro stessa ammissione, “non è, né potrebbe essere, priva di difetti e discrasie”, anche se “non ci sono scelte gravemente sbagliate ? o antidemocratiche”, come si legge nel documento del SI, fra i renziani si fa strada un concetto che viene ripetuto ossessivamente sui giornali e nelle trasmissioni televisive: “meglio questo che niente”. Con l’aggiunta che è “per iniziare”. Evidentemente ritengono che questo sia un argomento forte. Non lo è, solo a considerare che ci troviamo di fronte alla Costituzione, la legge fondamentale dello Stato che si scrive, si corregge e si integra quando, come ha scritto Enzo Cheli, costituzionalista, quando si è in presenza di una “necessità storica in grado di imporre e giustificare agli occhi dell’opinione pubblica le ragioni del mutamento. Né tale necessità può essere surrogata dalla presenza di motivi di opportunità, sia pure forti e pressanti, legati alle vicende della politica contingente”.
Non lo ha scritto in questi giorni ma in un libro del 2000 (“La riforma mancata”, Il Mulino editore) secondo il quale “è sempre mancata una seria riflessione sui fattori strutturali che hanno condotto alla Carta del 1948; sulle ragioni del suo (prevalente) successo e del suo (parziale) insuccesso? una lacuna che ha finito per rendere inadeguati e astratti i vari disegni di ingegneria istituzionale via via proposti”. Per Cheli la strada è quella della revisione costituzionale (e non dell’Assemblea costituente), il completamento della scelta maggioritaria, l’allineamento del quadro costituzionale interno al nuovo assetto europeo.
Non è, dunque, la strada della riforma Renzi-Boschi-Verdini, nella quale i motivi esposti attengono a materie sulle quali che spetta al legislatore ordinario intervenire, la giustizia, la pubblica amministrazione, il fisco, tutti nell’ottica di una politica economica che favorisca la crescita. Si è, così, scelta la strada di gettare fumo negli occhi degli italiani esasperati dall’incapacità di questo governo, come dimostra la crescita zero che persiste ad ogni rilevazione statistica nonostante ogni tentativo di ricercare nei dati qualche spiraglio di luce, quei più zero virgola che infiammano di tanto in tanto l’eloquio del Presidente del Consiglio. E così, in assenza di una “necessità storica”, da buon emulo di Berlusconi che alcuni anni fa si era inventato per qualche ora l’ostacolo dell’articolo 41 della Costituzione allo sviluppo dell’economia, Renzi attribuisce alla Costituzione ostacoli alla sua azione di governo che, invece, dovrebbe ricercare nella insufficienza delle idee e degli strumenti messi in campo fin da quando, spavaldo, enumerava in Senato le riforme che avrebbe fatto di mese in mese, facendo sorridere i più per la evidente impreparazione al ruolo, ma preoccupando quanti, proprio da queste improvvisazioni, hanno dedotto, vedendo poi conferma nei fatti, che alla testa del Partito Democratico e del Governo si è insediato un soggetto evidentemente eterodiretto. Che propone riforme volute e disegnate da organismi economici internazionali, quelli che vorrebbero avere in tutti i paesi un solo interlocutore malleabile al massimo.
E così si è arrivati, per bocca del Ministro delle riforme, Maria Elena Boschi, ad affermare che la riforma costituzionale cambierà l’Europa, cosa evidentemente al di fuori del possibile effetto della normativa proposta e della stessa capacità di azione del premier del quale non si ricorda una qualsiasi iniziativa meritevole di considerazione nel semestre nel quale ha ricoperto il ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri dell’Unione Europea.
1° novembre 2016

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