Quando un popolo perde la propria identità
Da Passa ‘a bandiera, passa a Patria e o’ Re ai vessilli sporchi e stracciati dei nostri giorni
di Salvatore Sfrecola
Sporca, ridotta a brandelli la bandiera nazionale, il “Tricolore Italiano”, come si esprime all’art. 12 la Costituzione, è il simbolo di un Paese che non crede in sé stesso, che non riconosce la propria identità. Ovunque è così nell’Italia di questi anni e duole che siano in queste condizioni soprattutto le bandiere all’ingresso delle scuole di ogni ordine e grado laddove si formano, o, meglio, si dovrebbero formare i futuri cittadini, non solamente quelli che iure sanguinis lo sono dalla nascita, ma anche coloro ai quali la cittadinanza si vorrebbe attribuire in base al cosiddetto ius culturae, se dovesse essere approvato il disegno di legge in discussione al Senato. Quale cultura, quale rispetto per l’Italia possono acquisire giovani provenienti da ogni parte del mondo nel vedere come viene trattata la bandiera nazionale proprio nelle scuole che sono invitati a frequentare per ottenere la cittadinanza italiana? Senza che si levi una qualche protesta, ma soprattutto senza che le autorità sovraordinate intervengano richiamando all’ordine presidi e direttori didattici, funzionari dello Stato evidentemente senza dignità della loro funzione. Come potranno i migranti, così generosamente accolti, integrarsi, il che vuol dire percepire il senso della identità nazionale, quella fatta di cultura, di storia, di tradizioni. In particolare di quella unitaria realizzatasi nel Risorgimento, quando quel vessillo dai tre colori. Verde, bianco, rosso, fu per la prima volta alla testa dei soldati del Regno di Sardegna, come volle il proclama del Re Carlo Alberto del 23 marzo 1848 in vista dell’ingresso il Lombardia per rispondere alla richiesta che Gabrio Casati gli aveva rivolto a nome del Governo provvisorio milanese. Alla prima guerra di indipendenza contro il “nemico storico”, per dirla con le parole del mite Luigi Einaudi, all’indomani del 4 novembre 1918, quando, come abbiamo tutti appreso dal Bollettino della Vittoria firmato alle ore 12 di quel giorno dal Generale Armando Diaz, “i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo” risalivano “in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
La bandiera, ovunque rispettata ed amata al di là del credo politico, perché quei colori sono di tutti, di destra o di sinistra. La bandiera ovunque è il simbolo della nazione e del suo orgoglio. Basta pensare agli Stati Uniti d’America, spesso impropriamente richiamati quale esempio dell’apertura allo ius soli, che lì c’è, ma che vale esclusivamente per i figli di chi è legittimamente presente sul territorio, cosa sempre trascurata.
Qualche mese fa Il Messaggero denunciava il caso di Villa Leopardi, nel romano quartiere Africano, in via Makallè, dove, sui pennoni della biblioteca comunale, il Tricolore non c’era più, ridotto ad uno straccio con la striscia bianca e quella verde divorate dal tempo.
Immaginavo che sarebbe andata così quando fu approvata la legge sull’esposizione della bandiera nazionale. Ero certo che sarebbe stata interpretata “all’italiana” (quanto mi addolora questa espressione!). Perché la bandiera non deve essere esposta continuativamente sugli edifici pubblici ma, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge : Legge 5 febbraio 1998, n. 22 (“Disposizioni generali sull’uso della bandiera della Repubblica italiana e di quella dell’Unione europea”) “per il tempo in cui questi esercitano le rispettive funzioni e attività”, il che vuol dire, per le scuole, “nei giorni di lezioni e di esami” (art. 4, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 2000, n.121 (“Regolamento recante disciplina dell’uso delle bandiere della Repubblica italiana e dell’Unione europea da parte delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici”). Il che esclude che siano esposte di notte e in tempo di vacanze.
Le bandiere esposte giorno e notte col sole o con la pioggia degradano nel giro di pochissimo tempo e diventano assolutamente irriconoscibili. Uno spettacolo desolante che la dice lunga sul senso dell’italianità dei contri concittadini che, alla visione di quella bandiera vilipesa non insorgono, se non in pochi casi, peraltro inascoltati. Con questo spirito nazionale il Paese non riesce a risorgere, come fece un tempo, più di recente dopo la guerra perduta e le lacerazioni che ne sono seguite.
Bandiere che non hanno più neanche la forza di sventolare per ricordare a giovani e anziani la nostra storia, chi siamo. Forse perché non lo sappiamo, perché abbiamo avuto cattivi maestri che mano mano hanno fatto perdere alle giovani generazioni il senso dell’appartenenza, quella che oggi in qualche modo vorremmo riconoscere nei migranti per effetto dello ius culturae, attraverso un ciclo scolastico in istituti al cui ingresso la bandiera è necce condizioni che tutti possiamo constatare. Impareranno che non c’è rispetto per la nostra storia, come per l’autorità dello Stato. Quanta differenza con gli Stati Uniti dove le bandiere sventolano immacolate su ogni casa, dove bianchi, neri, gialli si sentono effettivamente americani, come abbiamo imparato a conoscere dai film di guerra che esaltano il soldato USA, spesso di colore in un reparto comandato da un ufficiale di colore. Laddove la Patria è un valore di tutti.
Un tempo era così anche in Italia, un sentimento che è anche un’idea consegnata in una canzone dall’inconfondibile accento partenopeo, “Passa a bandiera, passa a Patria o Rre”, spesso richiamata nelle rievocazioni della Grande Guerra.
Mi perdoneranno i lettori di fede repubblicana. Ma converranno certamente che bandiera e Patria sono inscindibilmente connessi come o’ Rre, per chi si è abbeverato ai valori di libertà del Risorgimento e dell’Unità nazionale.
Non esistono convenzioni internazionali sull’uso della bandiera (flag etiquette), ma le linee di comportamento seguono regole comunemente accettate. E sono tali da garantire una esposizione della bandiera che eviti il degrado che denunciano le nostre. In primo luogo la bandiera viene esposta dall’alba al tramonto, alzata vivacemente ed abbassata con solennità, non deve mai toccare il suolo né l’acqua. Mai può essere usata come copertura di tavoli o sedute o come qualsiasi tipo di drappeggio. Non può mai essere esposta in posizione inferiore ad altre rispetto alle quali deve occupare la posizione privilegiata.
Regole logiche che attestano un senso di rispetto che dobbiamo assolutamente ritrovare.
28 luglio 2017
Il Governo declassa i Conservatori di musica, un’eccellenza italiana.
di Salvatore Sfrecola
“Ci stiamo lavorando”. Pressata da più parti, in primo luogo dall’Unione degli Artisti (UNAMS) e, da ultimo, dall’ex senatore Vincenzo Vita che sul Manifesto aveva parlato di “legge dimenticata”, a proposito della normativa sugli istituti di alta formazione artistica e musicale (Afam) datata 1999, il Ministro Fedeli ha assunto l’impegno di provvedere a varare il necessario decreto ministeriale. Parliamo di accademie di belle arti, conservatori di musica, accademia nazionale di danza, istituti musicali pareggiati, accademia di arte drammatica e istituti superiori per le industrie artistiche, un’eccellenza italiana nel mondo, oggetto del desiderio di quanti da ogni continente si iscrivono in questi istituti prestigiosi per studiare e spesso restano in Italia per frequentare corsi di perfezionamento.
“Ci stiamo lavorando”. Ma sarà credibile il Ministro? Se ha trascurato di chiedere alla collega Madia di dar corso, in sede di modifica del decreto legislativo sul pubblico impiego (n. 165 del 2001), alla sollecitazione del Senato che aveva invitato il Governo a “valutare la possibilità di rivedere l’inquadramento del personale AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale), prevedendo uno stato giuridico formalmente più consono con la loro professionalità e in analogia con la disciplina prevista per i professori universitari”. Secondo le indicazioni della Costituzione che all’art. 33, ultimo comma, riconosce alle “istituzioni di alta cultura, università ed accademie? il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Come, del resto, aveva fatto la legge 508 del 1999 (diciotto anni fa!) che ha stabilito l’equipollenza dei titoli, rinviando ad un regolamento mai adottato la sua attuazione. Ed ha ignorato la risoluzione presentata in Commissione cultura della Camera (n. 7-01282) da Manuela Ghizzoni, che ha invitato il Ministro ad avviare “una solida e accurata procedura di accreditamento che permetta di adeguare la qualità di questi corsi alle migliori esperienze nazionali e internazionali?”. Una inpasse attribuita a resistenze burocratiche o corporative. E ciò nonostante la legge di riforma abbia stabilito che ai Conservatori ed alle Accademie si acceda solo dopo il completamento della scuola secondaria di secondo grado e che essi rilascino diplomi accademici di primo e secondo livello al termine dei relativi corsi accademici, rinviando ad un successivo regolamento i criteri generali per l’istituzione e l’attivazione dei corsi e per i relativi ordinamenti didattici, come accade ovunque nel mondo. Ma il regolamento poi emanato con decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212, si è limitato a dettare le norme relative agli ordinamenti didattici, rinviando ad un atto successivo, mai adottato, quelle relative all’istituzione e all’attivazione dei corsi di studio. Che, per quanto riguarda i corsi di diploma di secondo livello, sono autorizzati esclusivamente “in via sperimentale”, nelle more del regolamento sull’istituzione e attivazione dei corsi previsto dalla legge di diciotto anni fa. In assenza del regolamento è nuovamente intervenuto il legislatore che, con l’articolo 1, commi 102 e 103, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge finanziaria 2013), ha disposto l’equipollenza dei diplomi Afam di primo livello con le lauree universitarie e dei diplomi Afam di secondo livello con le lauree magistrali, ma al fine esclusivo dell’ammissione ai pubblici concorsi per l’accesso alle qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali ne è prescritto il possesso.
Un gran marasma, dunque, che pagano docenti e studenti di istituzioni che, come pure riconosce il Ministro, sono il “fiore all’occhiello” della nostra cultura, in un settore di riconosciuta eccellenza. E ci chiediamo se sia mai possibile che, per dare compiuta esecuzione ad una legge di diciotto anni fa, occorrano sollecitazioni parlamentari ripetute e, finora, ignorate?
La legge n. 228 del 2012 ha stabilito che le istituzioni Afam dovessero concludere la procedura di messa a ordinamento di tutti i corsi accademici di secondo livello, ma questa previsione, a distanza di quasi cinque anni non è stata rispettata in assenza di indicazioni del Ministero riguardo ai criteri da rispettare per gli ordinamenti didattici dei corsi accademici di secondo livello (l’unica eccezione è costituita da quelli di didattica della musica e dello strumento, istituiti dal decreto ministeriale 28 settembre 2007, n. 137, da attivare in conservatori sedi di dipartimenti di didattica della musica.
“Ci stiamo lavorando”, assicura il Ministro. E speriamo sia la volta buona per le molte migliaia di studenti che hanno conseguito un diploma accademico di secondo livello, ma che, a causa della mancata disciplina dei relativi corsi, non dispongono ancora di un titolo di studio equipollente ad una laurea magistrale, contrariamente a quanto disposto dalla legge n. 228 del 2012, pur essendo ampiamente scaduto il periodo previsto per l’adeguamento dei regolamenti didattici. Contestualmente il Ministro dovrà assumere iniziative per avviare accurata procedura di accreditamento che permetta di adeguare la qualità di questi corsi alle migliori esperienze nazionali e internazionali e di disattivare i corsi che eventualmente non superino positivamente la procedura di accreditamento.
Intanto il decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 59 (Madia), di cui si è detto, avendo trascurato la sollecitazione del Senato a rendere autonomo il “comparto di contrattazione” delle Accademie e dei Conservatori di musica ha improvvidamente “retrocesso” questi istituti nel comparto del personale della Scuola “di ogni ordine e grado”. In sostanza dal luglio 2016 i docenti di Accademie e Conservatori (intorno a 6.000) sono stati inglobati nel mare magnum del personale delle scuole materne, elementari, secondarie ed artistiche, nonostante si tratti di istituzioni culturali che, sulla base della legge n. 508/99, devono rilasciare titoli accademici di I e II livello, insomma lauree, come accade ovunque nel mondo. Immaginate quale attenzione Governo e sindacati possono riservare ad un settore assolutamente minoritario, sia pure illustre, tra centinaia di migliaia di docenti “di ogni ordine e grado”!
È evidente l’assurdità di questa situazione. Con la conseguenza che, in prospettiva, sarà difficile mantenere alto il prestigio di queste istituzioni, dal momento che al corpo insegnante e agli studenti sarà sempre più evidente che le loro scuole non sono più considerate un’eccellenza, che l’Italia non è più il Paese dei grandi pittori, scultori o musicisti ai quali si ispirano gli artisti ovunque nel mondo.
(da La Verità, 15 luglio 2017)
Denis Mack Smith, amico dell’Italia ?
di Domenico Giglio
La recente scomparsa, l’11 luglio scorso, dello storico inglese ha dato logicamente occasione ad articoli che ne ricordassero le sue opere, grande parte delle stesse dedicate alla storia dell’Italia e che ebbero anche una notevole diffusione, nel trentennio dal 1960 al 1990, riempendo un vuoto sulla storia della nostra Unità, che dopo Benedetto Croce e Gioacchino Volpe, la cui “Italia Moderna” si fermava al 1914, non aveva avuto per decenni alcuna opera di valore, vuoto che solo in occasione del centocinquantesimo del Regno, ha trovato in Domenico Fisichella l’autore che in una trilogia da “Il miracolo del Risorgimento”, “Dal Risorgimento al fascismo” e infine “Dittatura e Monarchia” ha realizzato finalmente una storia completa e leggibile della Italia Unita.
Da questo interesse dello Smith per la nostra storia, farlo passare ad amore per l’Italia o ad amico della stessa, c’è una notevole differenza, perché specie nell’opera principale, “Storia d’Italia- 1861-1958″, le sue simpatie, senza dubbio giustificate, furono solo per Garibaldi, mentre su Cavour il giudizio non fu benevolo, tanto che Rosario Romeo, il più accreditato tra gli studiosi dell’opera del Cavour dovette replicargli, ottenendo, successivamente una qualche ritrattazione. Egualmente acre fu pure il suo giudizio sui Re di Casa Savoia ,”I Savoia re d’ Italia”, arricchendo anche qui i suoi studi di aneddoti che stimolano la curiosità del lettore, ma non rappresentano il vero quadro storico nel quale si erano svolti i fatti.
Senza dubbio in questa sua visuale era determinante la sua formazione ideologica, democratica radicale, così che anche per quanto riguarda il fascismo lo Smith ne trova possibili origini addirittura nel Risorgimento e nel patriottismo liberale e successivamente in un Crispi, ma non ricorda che senza il troppo spesso dimenticato “biennio rosso”, dal 1919 al 1921, e la altrettanto famosa “rivoluzione d’ottobre” in Russia, di cui, fra l’altro, ricorre quest’anno il centenario, con le sue successive rivolte in Prussia, Baviera ed Ungheria, il fascismo non avrebbe trovato il terreno fertile per la sua azione e successiva affermazione. E come per Cavour, Smith aveva trovato le repliche di Romeo, così per il fascismo le trovò in De Felice, che partendo da una giovanile militanza comunista, era arrivato ad una visione globale, veramente storica, del fenomeno Mussolini, visione che a tutt’oggi rimane insuperata, provocando travasi di bile negli antifascisti di “professione”, che non possono perdonargli di avere sottolineato gli anni del consenso al regime, di cui pure tanti e qualificati compatrioti del Mack Smith erano stati pure ammiratori.
15 luglio 2017
Dovrà occuparsene la Procura della Corte dei conti
Costituiscono danno erariale le spese sostenute in violazione della Convenzione di Dublino
di Salvatore Sfrecola
Alla fine dovrà occuparsene la Procura della Corte dei conti. Infatti la violazione del cosiddetto “Trattato di Dublino”, cioè della “Convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri delle Comunità Europee”, recentemente denunciata da Emma Bonino, ha riguardato anche una regola fondamentale della gestione della finanza pubblica, quella secondo la quale ogni spesa a carico del bilancio dello Stato deve trovare necessariamente una giustificazione in una legge che la preveda. Questo non è accaduto secondo l’ex Ministro degli esteri ed ex Commissario europeo per l’immigrazione.
Infatti, parlando alla 69sima Assemblea generale di Confartigianato, la Bonino ha testualmente affermato: “all’inizio non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli. Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. In sostanza, è la tesi dell’ex Ministro, tra il 2014 e il 2016, il governo italiano, in accordo con altri stati o autonomamente, avrebbe deciso che il coordinamento delle operazioni in mare sarebbe stato gestito in esclusiva dalla Guardia Costiera Italiana con la conseguenza che, da allora, i migranti sbarcano solamente in Italia, anche se soccorsi in acque internazionali o di altri Paesi, come dimostra la circostanza che, ancora recentemente, unità delle marine del Regno di Spagna, del Regno Unito e del Regno di Svezia, hanno accompagnano nei porti italiani soggetti recuperati in mare.
In sostanza, ha voluto dire l’ex Ministro, abbiamo fatto sbarcare tutti in Italia, anche coloro che, sulla base della Convenzione di Dublino, raccolti in mare da navi straniere, avrebbero dovuto essere accompagnati nei porti dei paesi dei quali battevano bandiera, ai fini dell’esame della richiesta di asilo. Le navi, infatti, secondo il cosiddetto diritto di bandiera, sono a tutti gli effetti territorio dello Stato del quale inalberano il vessillo, sicché ai sensi della Convenzione di Dublino il paese di prima accoglienza è quello della nave che ha raccolto i profughi e che, conseguentemente, deve darsene carico ai fini del riconoscimento e degli altri adempimenti previsti. La Convenzione, infatti, ha stabilito che ogni domanda di asilo per quanti raggiungono uno stato membro deve essere esaminata da quello stato e non da altri.
La decisione di accogliere tutti, dunque, si pone in violazione della Convenzione di Dublino. Non solo. In tal modo è stata violata anche la regola base della gestione del bilancio, secondo la quale la legittimità di una spesa deve rispondere ad un duplice requisito, l’esistenza di un apposito stanziamento e di una norma di legge che quella spesa preveda. Senza alternativa, nel senso che una somma stanziata in bilancio ma non sorretta da una norma di legge non può essere spesa. Per converso la semplice esistenza di una legge non può consentire una spesa che non sia stata preventivamente inserita nel bilancio con apposito stanziamento.
La situazione denunciata dall’ex Ministro Bonino, dunque, va configurata come una spesa non dovuta ed ulteriore rispetto a quella con la quale legittimamente lo Stato italiano ha inteso far fronte agli oneri di riconoscimento dei richiedenti asilo come stabilito dalla Convenzione di Dublino. Con la conseguenza che non sono conformi a legge gli oneri sostenuti dalle varie strutture dello Stato quando si sono prese carico, con tutte le ulteriori spese di assistenza, di soggetti i quali sono presenti in territorio italiano per essere stato consentito ad unità di flotte straniere di attraccare nei nostri porti e di far scendere a terra soggetti recuperati in mare.
Il fatto che si tratti di una Convenzione internazionale non è certamente di ostacolo alla individuazione della fattispecie illecita costituente danno erariale. La regola vale sempre. Naturalmente non potrà essere considerato responsabile a titolo di colpa il singolo funzionario italiano, civile o militare, prefetto o comandante di porto, il quale abbia consentito che da una nave militare spagnola, inglese o svedese, tanto per fare riferimento ai casi più recenti, scendessero a terra i profughi che su quella nave avrebbero dovuto essere riconosciuti ai sensi della Convenzione ai fini dell’istruttoria della domanda di asilo. I nostri funzionari hanno agito secondo una evidente indicazione dell’autorità politica, esplicita o implicita che sia. Ed in questa indicazione è la ragione della spesa non consentita, il requisito soggettivo della responsabilità amministrativa per danno erariale che ricade sull’autorità politica. Né può costituire esimente, sotto il profilo della colpa, la “ragione politica” di una scelta che, secondo indicazioni di stampa, sarebbe alla base della decisione di accogliere tutti “indiscriminatamente”: l’ottenimento di una maggiore “flessibilità”, cioè la possibilità di un maggiore deficit di bilancio. Salus rei pubblicae suprema lex esto? Difficile possa configurarsi nella autorizzazione ad un maggiore deficit di bilancio in cambio di una spesa dai confini difficilmente definibili, nel quantum e nel tempo, perché naturalmente moltiplicatore di ulteriori oneri, al di là di quello immediato che, peraltro, è notevole.
(da La Verità dell’11 luglio 2017)
Immigrazione: prendiamo schiaffi a Tallin
E ce li dobbiamo tenere perché abbiamo violato le regole di Dublino
di Salvatore Sfrecola
Credo nell’Europa, fortemente. Io innamorato della mia Patria, uomo “del Risorgimento”, come suole ripetere un mio amico, perché fortemente ancorato ai valori che hanno trovato accoglienza in quello straordinario processo unitario che seppe mettere insieme idee e ambizioni personali, territori e culture, il rivoluzionario Mazzini e il liberale Cavour, la Sicilia e il Piemonte, confluiti nel Regno d’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II. Un “miracolo”, come ha scritto Domenico Fisichella.
Credo nell’Italia e perciò credo nell’Europa alle cui radici il nostro Paese concorre in virtù della sua storia, della tradizione di Roma, del suo senso dell’universalità, del suo diritto, le cui regole innervano oggi tutti gli ordinamenti civili al di qua e al di là dell’oceano. L’Italia della cultura, dell’arte, della filosofia, del pensiero medievale, moderno e rinascimentale. E soffro nel constatare che l’Italia, socio fondatore di quella Comunità che nel frattempo è diventata Unione, non riesce ad essere partner credibile e, pertanto, determinante nella definizione delle politiche pubbliche europee, a cominciare, per motivi di attualità, da quelle della immigrazione. Un fenomeno “epocale”, si è detto con l’enfasi del politically correct per qualificarlo immediatamente come irrimediabile, che poco c’è da fare per contrastarlo o, anche solo, per regolarlo secondo gli interessi dei migranti e dei paesi che li accolgono di buona o di mala voglia.
Poi ci si accorge, ma sarebbe stato facile capirlo prima, che il fenomeno “epocale” in realtà è organizzato, con il concorso di interessi vari, economici e politici. Di chi recluta, assiste e trasporta per terra e per mare migliaia di esseri umani. Non gruppetti di fuggiaschi ma persone che pagano somme rilevanti, fino a 5000 dollari/euro, si dice, per essere trasportati in Europa. Quanto basta per aprire un’attività produttiva in Africa spesa per una traversata!
L’Europa ha capito. Lo aveva certamente già presente, ma lasciava fare all’Italia, volonterosa e caritatevole, dove con i soldi del contribuente si arricchiscono organizzazioni le più varie, anche criminali se qualcuno ha potuto affermare che, con l’accoglienza dei migranti, si guadagna più che con la droga.
Era prevedibile, dunque, che i nodi sarebbero venuti al pettine, che gli ingressi indiscriminati e incontrollati avrebbero creato problemi di tenuta del sistema dell’accoglienza e della sicurezza interna. Del resto una massa di soggetti sbandati e senza lavoro è naturalmente portata a ricercare espedienti per sopravvivere o per non annoiarsi. E così, quando abbiamo deciso di fare quello che avremmo dovuto fare all’inizio per frenare il fenomeno, i nostri partner europei giustamente non accettano di essere chiamati a risolvere un’emergenza che noi abbiamo volontariamente provocato, come ha affermato l’ex Ministro degli esteri ed ex Commissario europeo Emma Bonino. Parlando di immigrazione in un intervento alla 69sima Assemblea generale di Confartigianato, al quale i mezzi d’informazione hanno riservato uno speciale rilievo, la Bonino ha affermato: “all’inizio non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli. Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. In sostanza, è la tesi dell’ex Ministro, tra il 2014 e il 2016, il governo italiano, in accordo con altri stati o autonomamente, avrebbe deciso che il coordinamento delle operazioni in mare sarebbe stato gestito in esclusiva dalla Guardia Costiera Italiana con la conseguenza che, da allora, i migranti sbarcano solamente in Italia, anche se soccorsi in acque internazionali o di altri Paesi, come dimostra la circostanza che unità delle marine di altri paesi europei, negli ultimi giorni navi del Regno di Spagna e del Regno Unito, hanno accompagnano nei porti italiani soggetti recuperati in mare in acque non italiane.
In sostanza, ha voluto dire l’ex Ministro, abbiamo fatto sbarcare tutti in Italia, anche coloro che, sulla base della Convenzione di Dublino, raccolti in acque di altri stati, avrebbero dovuto essere accompagnati nei porti di quei paesi ai fini della richiesta di asilo. In questo sta la violazione della Convenzione di Dublino.
E così rimaniamo col cerino in mano, screditati, avendo dimostrato per molto tempo di agire con colpevole leggerezza anche contro gli interessi dei migranti e dei paesi di provenienza, come se volessimo fare un piacere al lucroso business dell’accoglienza o della carità pagata dal contribuente. Per cui prendiamo solo schiaffi con la consolazione, che solamente il ministro Minniti può ritenere tale, che a Tallin, al vertice dei Ministri europei dell’interno, tutto è andato secondo le previsioni. Insomma gli schiaffi previsti li abbiamo presi. E ce li teniamo.
7 luglio 2017