Identità e cittadinanza
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito, in Parlamento e nel Paese, è vivacissimo e assai spesso ha assunto i toni di uno scontro sui valori fondanti della democrazia, quelli che costituiscono in qualche modo l’identità di uno Stato, come dimostra la levata di scudi di tutte le forze liberali nei confronti della pesante interferenza della CEI che, secondo notizia giornalistiche, avrebbe fatto pressioni sul Governo per un’approvazione della nuova legge sullo ius soli prima della fine dell’anno. E ciò perché il disegno di legge n. 2092, all’esame del Senato, recante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, divide profondamente, e non soltanto per motivi di merito.
C’è, infatti, in primo luogo, un tema di legittimità del Parlamento chiamato a decidere. Una questione di regole della democrazia parlamentare, anzi della democrazia tout court, che non può essere accantonato con un’alzata di spalle come si continua a fare dal 2014, da quando, cioè, con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato in contrasto con la Carta fondamentale dello Stato la legge elettorale sulla base della quale deputati e senatori erano stati eletti nel 2013.
Il Parlamento avrebbe dovuto chiudere le porte il giorno dopo. Sennonché, per evitare la paralisi delle assemblee legislative, la Consulta ne ha riconosciuto la sopravvivenza, tuttavia entro limiti rigorosi, individuati nell’esercizio degli affari di ordinaria amministrazione. Lo ha fatto richiamando due norme costituzionali assolutamente chiare, l’art. 61, comma 2, secondo il quale, in caso di nuove elezioni, “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti”, e l’art. 77, comma 2, il quale prevede che, in caso il Governo adotti “provvedimenti provvisori con forza di legge” (decreti legge), questi devono essere presentati per la conversione “alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”.
Una indicazione inequivocabile, il Parlamento può fare poche cose, in primo luogo la nuova legge elettorale per tornare a votare. Sennonché, la maggioranza, con l’avallo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, in ragione del suo ruolo “di controllo e di garanzia costituzionale”, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, avrebbe dovuto presidiare il rispetto della sentenza della Corte costituzionale, ha continuato, come nulla fosse avvenuto, a fare leggi. Ha approvato una riforma costituzionale bocciata dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016, ha approvato, a colpi di mozioni di fiducia, una nuova legge elettorale, l’Italicum, dichiarato incostituzionale dalla Consulta.
Non contenti gli stessi partiti, incuranti delle regole e della volontà espressa degli elettori, si apprestano a modificare in fretta e furia, alla vigilia delle elezioni, la legge sulla cittadinanza, una normativa la quale attiene ad uno degli “elementi dello Stato”, come si esprimono i libri di diritto pubblico nel ripartire la materia, e minacciano di ricorrere ancora una volta al voto di fiducia, come se fosse una riforma essenziale alla realizzazione del programma del governo e non una questione propria del Parlamento. E questo a prescindere dalla sentenza del 2014!
È così che, attraverso la reiterazione incontrollata di comportamenti assunti in violazione delle regole elementari che riguardano il funzionamento delle istituzioni rappresentative, si mette in gioco una democrazia.
Nel merito, poi, va detto a chiare lettere che la disciplina della cittadinanza non è una legge qualunque, perché l’essere cittadino non è un fatto formale, burocratico, come si sente dire, ma il riconoscimento dell’appartenenza ad un contesto culturale, il che vuol dire a valori, in primo luogo a quelli indicati nella Costituzione: principi fondamentali, nei rapporti civili, economici e politici che fanno dell’Italia un Paese nel quale lo Stato “riconosce e garantisce i diritti inviolabili, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), per cui tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge” (art. 3), assicura la libertà dei culti (art. 8), la libertà personale (art. 13), del domicilio (art. 14), della corrispondenza (art. 16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di manifestazione del pensiero (art. 21) e via dicendo. Diritti, ma anche doveri, di cui uno “sacro”, come “la difesa della Patria” (art. 52), la fedeltà alla Costituzione e alle leggi (art. 54). Una somma di “regole della democrazia e della convivenza”, che identificano la storia e l’essere di un popolo che, pertanto, è tale e si qualifica come italiano. Quel popolo in nome del quale i giudici amministrano la Giustizia (art. 101, Cost.). La cittadinanza lo certifica, in Italia, come ovunque nel mondo. E se è naturale che il figlio di cittadini sia egli stesso cittadino ovunque nasca, chi non si trova in questa condizione, se desidera diventare cittadino italiano, deve chiederlo e dare dimostrazione di possedere i requisiti previsti dalla legge. La cittadinanza, in sostanza, consegue all’accertamento di una condizione che è innanzitutto morale, che presuppone la condivisione di valori civili e spirituali, quelli che individuano l’identità di un popolo come si è formata nella sua storia lungo i secoli, le sue tradizioni. Questo significa la Patria Italiana.
Nell’antica Roma, accogliete nei confronti di tutti, la cittadinanza era un privilegio. Poter dire civis romanus sum riempiva di orgoglio ed attestava la condivisione di un’appartenenza ad un ordinamento e ad una storia. I romani che avevano “nel loro archetipo l’idea dell’unità nella diversità”, hanno praticato grande apertura sociale ed integrazione nella quale la concessione della cittadinanza “sta nel fatto di arricchire la comunità di persone degne di farne parte” (Valditara). In coerenza con questi principi, laddove la concessione della cittadinanza riguardasse gruppi di stranieri “doveva fondarsi sul consenso dei cittadini”. Cittadinanza concepita “nell’interesse di Roma”, per cui si procede all’espulsione dello straniero ed alla revoca della cittadinanza a chi avesse dimostrato di non meritarla.
Non a caso oggi i difensori del cosiddetto ius soli, che secondo Costantino Mortati, al di fuori del caso degli stati che “tendono ad aumentare anche artificiosamente il numero dei cittadini ? conduce a conseguenze aberranti”, sono gli eredi di una tradizione politico ideologica che non ha radici nella storia unitaria. Per dirla con Emilio Gentile, lo storico, sono “italiani senza padri”. Ius soli, cui ipocritamente si aggiunge l’aggettivo “temperato”, così come lo ius culturae, per dire che in alcuni casi può bastare la frequentazione di un qualche ciclo scolastico. Un periodo che Giovanni Sartori riteneva del tutto insufficiente a formare un “nuovo italiano”, che non crea automaticamente identificazione.
La legge vigente sulla cittadinanza è fondata essenzialmente sul cosiddetto ius sanguinis, nel senso che è italiano chi nasce da almeno un genitore italiano. Un criterio che, come ha scritto Fausto Cuocolo, “mira a garantire una maggiore coesione all’elemento popolo, il che rende questo criterio astrattamente preferibile”. Soprattutto “quando vuole salvaguardarsi l’omogeneità nazionale esistente”. Tuttavia un bambino nato sul territorio italiano da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza al raggiungimento del diciottesimo anno, purché sino a quel momento abbia risieduto nel Paese “legalmente e ininterrottamente”. Una normativa senza dubbio ragionevole, equilibrata. Si chiede la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età, consapevoli del senso di una scelta.
La proposta di modifiche all’esame del Senato prevede una semplificazione dei criteri di concessione della cittadinanza per i bambini, figli di genitori stranieri, nati o cresciuti in Italia. Infatti un bambino nato in Italia ne acquista la cittadinanza se uno dei genitori vi risiede legalmente da almeno 5 anni “o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”. Altra ipotesi. “Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana”. Dove è evidente che il frequentare corsi “idonei al conseguimento” non è la stessa cosa che “conseguire”. Norma che si presta ad evidenti aggiramenti, considerata la facilità con la quale si ottengono attestazioni compiacenti. Anche perché il disegno di legge, quando ha voluto, ha previsto come “necessaria la conclusione del corso” (di istruzione primaria) o “il conseguimento di una qualifica professionale” per lo straniero “che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età”.
Secondo le sinistre queste sono regole “di civiltà”. Sennonché si tratta all’evidenza di una legge “politica”, non nel senso nobile di una scelta destinata ad assolvere alle esigenze primarie della polis, ma di una legge a scopi elettorali, di basso interesse elettorale. Lo ha detto senza mezzi termini un osservatore qualificato come Antonio Padellaro intervenendo ad Otto e Mezzo, la trasmissione de La7 condotta da Lilly Gruber: “è una questione elettorale”. “Una legge – ha scritto su Il Messaggero Alessandro Campi, storico e politologo – che deriva non da un imperativo etico universale al quale si può solo obbedire, ma da una decisione politica frutto a sua volta di una ben definita visione della società e della storia. Chi la sostiene immagina un mondo nel quale le frontiere siano destinate un giorno a scomparire. Ritiene che gli uomini siano per definizione esseri nomadi e pendolari. Le appartenenze, statuali o nazionali, a loro volta sono viste come qualcosa di fittizio e convenzionale. Mentre la cittadinanza è considerata solo come uno status legale-formale che nulla può avere a che fare con legami in senso lato familistici o naturali, o che siano basati su una qualche forma di discendenza, anche solo di tipo storico-culturale”.
Siamo di fronte evidentemente a due contrapposte concezioni dello Stato e della società.
Ma non è tutto qui. Occorre, infatti, valutare gli effetti della normativa che si vorrebbe approvare anche alla luce di una situazione che non è di normalità, ma di emergenza legata ai continui sbarchi sulle nostre coste di clandestini e di profughi, un’ondata migratoria mai vista, perché organizzata. Non profughi che a gruppi di qualche decina fuggono dal loro paese a causa di una guerra o di difficili condizioni economiche, come nel caso di carestie, ma gruppi di centinaia e migliaia, reclutati, trasportati via terra, alloggiati in attesa dell’imbarco, d’intesa spesso con organizzazioni malavitose alcune delle quali li attendono per farne schiavi nelle campagne meridionali o per avviare le donne alla prostituzione. Organizzazioni che ricattano i familiari rimasti in patria. Una forma moderna di tratta degli schiavi. Un tempo i mercanti di uomini razziavano con violenza giovani soprattutto nei villaggi dell’Africa atlantica, oggi li “convincono” a spendere tutte le risorse della famiglia, migliaia di euro o dollari (ma dove li avranno mai se con quelle somme si possono avviare proficuamente attività produttive?) per finire nei ghetti, nelle periferie delle grandi città o nelle campagne.
Ecco perché la proposta scalda gli animi.
Naturalmente abbonda sui media il ricorso ad immagini ed a fatti strappalacrime che vorrebbero sottolineare la scelta “di civiltà” sottesa alla legge. Si dice, ad esempio, che nelle scuole siedono nello stesso banco bimbi italiani e stranieri. Gli uni e gli altri si sentono amici, studiano e giocano insieme, ma gli stranieri percepiscono una discriminazione nei loro confronti. Cosa non vera perché l’unico diritto che distingue questi bimbi è il diritto di voto che comunque non si può esercitare prima del 18° anno di età. E poi noi facciamo di tutto per essere accoglienti. Abbiamo notizie di scuole dove non si festeggia più il Natale o la Pasqua per non dispiacere ai musulmani, per rispetto ai quali ai nostri bambini in alcuni casi è stato proibito di portare il panino con la mortadella per colazione.
Le Sinistre vogliono che diventino italiani, che si integrino. Per verificare questa condizione devono rispettare le nostre tradizioni, il Natale, la Pasqua e la mortadella, non nel senso che debbano cantare “tu scendi dalle stelle” o mangiare il panino, ma che condividano il pluralismo delle idee come dei gusti alimentari e li rispettino. E se a scuola si fa un minuto di silenzio per ricordare le vittime di un attentato terroristico si vorrebbe che gli studenti di fede islamica che “ambiscono” a diventare cittadini di un Paese libero e civile rispettino il senso di cordoglio espresso per vittime innocenti, spesso loro coetanei.
Il rispetto per chi ospita è il primo requisito da verificare per comprendere se è autentico il desiderio di essere accolti.
Non bisogna neppure trascurare che l’accoglienza, che va ad onore della nostra civiltà, rischia di essere confusa con debolezza sul piano del rispetto delle regole, e di incentivare la prepotenza. È comunque un segnale pericoloso per i mercanti di uomini dare l’impressione che l’Italia abbia aperto le sue frontiere a chiunque voglia entravi per diventarne cittadino. Senza preoccuparsi della effettiva integrazione, come dimostra l’esperienza dolorosa di altri stati, dal Regno Unito alla Francia al Belgio nei quali le cronache ci dicono che la cittadinanza legale non favorisce ex se l’integrazione sociale e culturale, cioè la condivisione di una identità. Infatti in quei contesti i giovani figli di immigrati, in particolare di fede islamica, maturano forme di ribellione, spesso violenta, in ragione di un orgoglio identitario che rinviene le proprie radici nelle comunità di provenienza e nella religione, la cui purezza rinfacciano all’Occidente decadente corrotto, che consente alle donne di guidare l’automobile o di andare in bicicletta. Per non dire del fatto che le occidentali mostrano i capelli, oggetto di attrazione per gli uomini, le gambe, rese visibili da vertiginose minigonne, e circolano per le strade con generose scollature, che tanto piacciono ai maschi del Continente, nel quale la Turchia, ad esempio, vorrebbe entrare e ne è impedita dalla scarsa tutela dei diritti assicurata ai cittadini.
Se non è una guerra di religione ci somiglia molto. E senza dubbio è un confronto di culture nelle quali rischia di soccombere quella più debole o che appare tale.
Aperti, dunque, all’accoglienza, come Roma ci ha insegnato, ma rigidi nel pretendere il rispetto delle regole (che vale anche per gli italiani ovviamente) e condivisione dei tratti fondamentali della nostra identità se si vuole diventare cittadini italiani. A 18 anni, dando dimostrazione di crederci.
19 settembre 2017
Ius soli sì – ius soli no
Una questione di identità
di Salvatore Sfrecola
“Intesa governo-Vaticano: “sì allo sius soli entro l’anno”, così titola La Repubblica di oggi in prima pagina. Le due parti avrebbero, dunque, concordato di mandare avanti la riforma della legge sulla cittadinanza. Ed io mi chiedo, al di là della singolarità della individuazione delle parti di un accordo evidentemente diseguale dal momento che governo è scritto con la “g” minuscola e Vaticano con la “V” maiuscola, perché mai il Governo della Repubblica ritenga di dover concordare con un’Autorità religiosa, sia pure maggioritaria, le regole dell’appartenenza allo Stato, il diritto di cittadinanza.
Siamo fuori dello stato di diritto dacché la materia non appartiene certamente alla sfera religiosa, che riguarda la cura delle anime alla luce della dottrina che ci è stata rivelata nel Nuovo Testamento. E se Cristo ha detto “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (greco: ??????? ??? ?? ???????? ??????? ??? ?? ??? ???? ?? ???; latino: Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo), quella celebre enunciazione riportata nei vangeli sinottici, in particolare da Matteo (22,21), Marco (12,17) e Luca (20,25) delinea nettamente la distinzione dei ruoli, tra la Chiesa che ha cura delle anime e lo Stato che si occupa dell’organizzazione politica della società e che stabilisce, in primo luogo, chi vi appartiene, chi può essere cittadino, con tutti i diritti ed i doveri che ne conseguono. “Dallo Stato non viene la salvezza- si legge nell’avvertenza al celebre saggio di Oscar Cullman “Dio e Cesare” – .. ma esso ha una funzione da svolgere nel disegno divino di salvezza e il cristiano non può ignorarlo”.
Quella della cittadinanza non è materia religiosa. La Chiesa, come tutte le chiese, si occupa della diffusione del verbo e della salvezza delle anime non della loro appartenenza ad una società civile per il semplice fatto che quella religiosa è una società universale (non è forse questo il significato della cattolicità della Chiesa?) cui appartengono cittadini di vari paesi, i cui membri sono uniti solamente dal fatto di credere in uno stesso Dio che per i cattolici è quello della Bibbia, come per gli ebrei, per i musulmani Allah, per altri Buddha, per altri ancora sono Brahma Shiva e Vishnù.
È gravissima l’interferenza che il titolo di Repubblica delinea come la sudditanza del governo (necessariamente con la “g” minuscola) in una materia che è propria del Parlamento e non del Governo. Di un Parlamento – va ricordato ancora una volta -, eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale ed al quale residuano compiti limitati, in sostanza riferiti alla ordinaria amministrazione, come hanno scritto i giudici della Consulta nella sentenza n. 1 del 2014.
Abbiamo veramente perso la testa oltre che il senso delle regole fondamentali dello Stato di diritto.
A rincarare la dose Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, che, intervistato da La Repubblica esordisce dicendo “vorrei ascoltare un liberale, qualcuno anche in Forsa Italia che abbia un po’ di coraggio, che si spenda per la legge sullo ius soli. E poi vediamo chi ha la statura sulla scena politica per farla approvare?”. E aggiunge “La legge sullo ius soli andava fatta ieri, altro che aspettare domani”.
Per il giornalista “si tratta di dare una mano agli italiani, a coloro che lo sono ma non vengono compresi come tali”. Ecco, dunque, che al centro della questione ci sarebbero italiani che non lo sono giuridicamente. Ma Tarquinio non si fa la domanda. Chi sono gli italiani? È sufficiente nascere in Italia e magari parlare la lingua? O serve qualcos’altro, sentirsi italiani? Non ho dubbi è necessario sentirsi italiani. Per questa ragione la legge dello Stato oggi vigente, la n. 91 del 5 febbraio 1992 (Nuove norme sulla cittadinanza) prevede che, oltre a coloro che sono figli di italiani i quali, pertanto, sono cittadini iure sanguinis, la cittadinanza può essere concessa “allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica” (art. 9, comma 1, lettera f). Con la precisazione (art. 10) che “il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. La cittadinanza, cioè l’appartenenza ad uno stato è, dunque, regolata da principi che attengono alla identità di un popolo, alla sua storia, alle sue tradizioni, per cui è cittadino il primo luogo il figlio di cittadini o adottato da cittadini o anche “il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza” (art. 2 comma 2). Una deroga significativa che Tarquinio dovrebbe apprezzare. Ma forse non lo sa o, più probabilmente, a lui non basta.
Le legislazione vigente, in sostanza, è aperta a varie situazioni ritenute meritevoli di riconoscimento. Non stupisce che Tarquinio non percepisca il tema della “identità nazionale”. Evidentemente appartiene a quella corrente di cattolici che non ha mai “sentito” lo stato unitario, non ne ha condiviso i valori di libertà. E magari è ancora adirato con Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi per aver attentato allo Stato della Chiesa e portato la capitale a Roma, a quella realtà antistorica per cui Mastro Titta, in nome del Papa Re, calava la mannaia sul collo dei liberali e dei patrioti che volevano liberare l’Italia dallo straniero, di farne uno stato, stanchi di sentirsi “calpesti/ derisi perché non siam popolo/ perché siam divisi”. Quello Stato inefficiente e corrotto che tanto ha danneggiato la Chiesa, gettando un’ombra sulle istituzioni religiose e del laicato cattolico meritevoli della massima considerazione sul piano sociale (da rileggere “L’opposizione cattolica” di Giovanni Spadolini).
Tarquinio non si sente evidentemente parte di quel mondo cattolico cui appartenevano quanti, nelle guerre del Risorgimento e poi nella Prima Guerra Mondiale (quarta guerra d’indipendenza per l’annessione di Trento e Trieste) hanno combattuto per l’Italia unita. E racconta dello ius culturae, una furbesca variazione sul tema che fa passare per consapevoli della identità italiana quanti frequentino un ciclo scolastico (si badi bene non che lo concludano con un diploma) senza spiegare perché questo non potrebbe avvenire come oggi al compimento del diciottesimo anno con la consapevolezza di essere veramente parte di una comunità di storia e di cultura.
A Tarquinio non insegna niente che in Francia o in Belgio o nel Regno Unito gli attentatori che tanto sangue hanno sparso siano cittadini di seconda o di terza generazione. Che non si integrano perché rimasti legati alle tradizioni dei loro padri e della terra dalla quale provengono. Sentimenti nobili, se non si trasformano molto di frequente, come è successo finora, in odio per l’Occidente decadente e corrotto, dove – udite udite! – alle donne sono riconosciuti gli stessi diritti degli uomini, una società debole, imbelle tanto da credere che un ciclo scolastico senza controlli faccia un cittadino consapevole della storia e delle tradizioni per le quali ci sentiamo italiani.
18 settembre 2017
L’Italia esiste ancora come Paese libero e sovrano?
di Michele D’Elia*
All’inizio di settembre ho letto sulla stampa (Il Quotidiano di Lecce) che la società? ha ottenuto il permesso ministeriale di trivellare al largo del Capo di Santa Maria di Leuca, per cercare giacimenti di petrolio, che con ogni probabilità, non troverà. Ma il danno è comunque arrecato ad uno dei luoghi più intatti e suggestivi della Penisola.
Non si può dire no agli Stati Uniti.
Mi vengono in mente il caso Regeni, il massacro di Nicolò Ciatti, ad opera di Rassoul Bissoultanov e compagni, a Lloret de Mar (Barcellona) senza che nessuno intervenisse; Martina Rossi, ufficialmente suicida, il 3 agosto 2011 a Palma di Maiorca; le tredici studentesse dell’Erasmus, 20 maro 2016, morte a Valencia in un incidente causato dall’autista del pullman, che si era addormentato mentre guidava, sua ammissione: nessuna indagine, nessun colpevole, addirittura l’Assicurazione non volle pagare nulla.
L’ultimo in ordine di tempo è il caso di Gianluca Di Gioia, avvelenato e rapinato, ora in coma farmacologico al Bangkok Hospital di Udon Tani, in Thailandia. Per farlo rientrare in Italia occorre una somma ingente; sino ad oggi sono stati raccolti 105 mila euro (Il Messaggero del 3 settembre 2017).
In tutte queste e in altre vicende analoghe c’è un convitato di pietra: lo Stato italiano, la Nazione Italia.
Non una parola, una presa di posizione, una protesta anche minima e se c’è stata non ce ne siamo accorti, anzi non se n’è accorto nessuno.
Le spiegazioni possono essere soltanto due: il nostro governo ed i politici in generale hanno paura anche di fiatare, per chissà per quale motivo: interessi superiori alla vita di una o più persone; o puro e semplice menefreghismo: fino a quando non capita a me?affari come apertamente dichiarato dalle nostre Autorità politiche, l’Egitto è “nostro partner economico”.
La conclusione è una sola: se colpisci un italiano all’estero non succede niente; ergo, su può fare.
Xilella
Sarò forse “complottista”, ma per me ce l’hanno messa apposta per distruggere le nostre migliori colture: ulivi e adesso anche i mandorli; e tra poco vedrete, qualche altra pianta; purché sia in Italia ed in Puglia.
Nessuno si chiede come mai non progrediscano gli studi per debellare questo flagello, né come vengano usati i milioni di euro all’uopo stanziati.
Nessuno si chiede mai perché tanta facilità nell’ordinare tagli ed espianti da parte di Bruxelles né il perché della supina acquiescenza dei nostri governi, verso burocrati che decidono tutto a tavolino e che, forse, in vita loro non hanno mai visto un ulivo od un mandorlo.
Ma soprattutto se è vero che questo insetto non vola, come può aver attraversato il mondo, per arrivare qua dal Sudamerica?
Certamente qualcuno lo sa.
Torre Suda (LE) 18 settembre 2017
* Direttore di “Nuove Sintesi”
Quale Lega dopo Pontida?
Salvini guaderà il Rubicone?
di Salvatore Sfrecola
Grande è l’attesa del mondo politico per l’incontro di Pontida, tradizionale adunata della Lega, occasione di riflessioni e di cambiamenti lungo una storia che con Matteo Salvini si è rinnovata nella prospettiva di assumere una connotazione non più localistica ma nazionale, già percepita dalla gente che ha assicurato al partito consensi molto superiori a quelli dai quali è partita la sua segreteria. Tanto che si è detto anche di un cambio di nome, escludendo la parola Nord aggiungendo a Lega aggettivi che diano conto del nuovo corso, quindi “nazionale”, “italica, “italiana”, come la fantasia ed i ricordi storici suggeriscono.
Ma è pronta la Lega a questo passaggio al di là della volontà di Matteo Salvini che va assumendo, come gli è unanimemente riconosciuto, un profilo di leader nazionale di un partito che intende ricevere consensi in tutta Italia, considerate le diverse culture e storie che caratterizzano questo Paese? Certo la Lega “delle autonomie” sembra fatta apposta per cogliere quella straordinaria ricchezza di pensiero e di tradizioni che caratterizza l’Italia, dalle Alpi al Lilibeo, che poggia sul pensiero e sull’opera dei grandi che hanno riempito le biblioteche delle città e dei borghi, che hanno arricchito di dipinti e sculture le chiese ed i palazzi del potere e della cultura, che hanno disegnato nel corso dei secoli strade e piazze e giardini e parchi noti in tutto il mondo, ciò che spinge uomini di cultura e persone più modeste a visitare il bel Paese. Che è anche uno straordinario museo a cielo aperto dove la natura ha dato il meglio di se.
Il passo di Salvini è lento ma sicuro, come quello dei montanari, che mirano alla vetta. Non tutto e non tutti sono con lui. Ci sono i tiepidi e quelli che di più non possono dare perché portatori di una esperienza politica limitata, perché, al di là dell’incarico parlamentare o consiliare, non operano nella società con mestieri e professioni e, pertanto, non percepiscono le aspettative di chi le esercita, non ne colgono le ansie e le preoccupazioni. E poi c’è un profilo territoriale ancora predominante. La Lega espone, anche a livello di gruppi parlamentari e nelle assise televisive sempre uomini e donne del nord. La più a Sud è la Bergonzoni, combattiva leghista bolognese, già candidato sindaco nel capoluogo emiliano. Ci sono, è vero, esponenti della Lega in Umbria ed anche nel Lazio, come l’attivissima Saltamartini. Ma il passaggio ad un profilo nazionale esige altro. Roma, ad esempio, capitale d’Italia richiede di più, molto di più, anche una specifica attenzione al pubblico perché è qui che si fanno le leggi e si amministra l’amministrazione, scusate il bisticcio, quella che dà la misura dell’efficienza dello Stato e della capacità della politica di essere in sintonia con la gente. Anche le leggi si fanno spesso con i “romani”, siano i dirigenti delle pubbliche amministrazioni, siano i magistrati amministrativi e contabili (Consiglieri di Stato e della Corte dei conti), Avvocati dello Stato e docenti delle università della Capitale, da sempre consiglieri del potere.
È a Roma che maturano le scelte, è Roma che può mediare con il Sud variegato e vivace, sofferente perché non percepisce la presenza dello Stato, un disagio che fa ritrarre molti nel proprio particulare, al punto da risvegliare antistoriche e inattuali critiche al processo unitario che portò nel 1861 alla creazione dello Stato nazionale. Altrimenti che senso avrebbe certa polemica che intende richiamare in tono polemico nei confronti di Cavour, Garibaldi e Mazzini l’esperienza del Regno delle due Sicilie facendo la conta dei morti ai tempi del brigantaggio, dimenticando che c’era anche prima dell’unità e c’è anche oggi solo che ha forme diverse ed ha cambiato nome, si chiama Mafia Camorra, Sacra Corona Unita, e ‘Ndragheta? Avendo dinanzi agli occhi l’esempio di una Sicilia, la regione che avendo, tra tutte, il massimo possibile di autonomia non ha ancora una rete stradale e ferroviaria degna di questo nome che possa assicurare la mobilità delle persone e delle merci in un contesto ambientale che potrebbe dare ricchezza ai suoi figli? Tra arte e natura la Sicilia, come si è un meraviglioso continente.
In questa Italia difficile, nella quale la gente è talmente disgustata dalla politica che il Movimento 5 Stelle miete consensi anche quando non amministra come gli elettori si sarebbero aspettati, come a Roma dove mancano non solo i risultati, che certamente richiedono qualche tempo, ma anche segnali di un cambiamento generalmente atteso, la Lega è al di là del guado, di un ideale Rubicone che è necessario passare se si vuole conquistare l’Italia, se si vuol mettere mano ad una nuova stagione della politica, quella che Giulio Tremonti va indicando come il nuovo Rinascimento, in ciò con Vittorio Sgarbi.
Alea iacta est! Ripeterà Salvini la celebre frase di Giulio Cesare, che comunque sembra l’abbia detta in greco, per lanciare le sue legioni verso la Capitale e le province del Sud generoso e fantasioso che tanto potrebbe dare alla politica e all’economia e, con esse, all’immagine dell’Italia in Europa e nel mondo? Cominciando dal Mediterraneo che è il luogo del confronto delle civiltà laddove Roma ha saputo, nel rispetto delle diverse culture e storie, farne un mare romano, nostrum, nel senso più nobile della parola, di dialogo e di integrazione nel segno della identità. Un tema che deve essere caro agli italiani perché identità significa dare un contenuto all’essere italiano, che non significa soltanto parlare la bella lingua, purtroppo trascurata nella scuola e nei mezzi di informazione, ma avere consapevolezza di una storia unica, straordinaria, di pensiero e azione, che fanno degli italiani qualcosa di diverso da tutti gli altri. Senza voler escludere nessuno ma nella consapevolezza che il confronto, l’integrazione, cui spesso si fa riferimento anche con riguardo agli immigrati, esige la consapevolezza di chi siamo. Altrimenti non c’è integrazione ma sudditanza a culture straniere con le quali si può convivere ma delle quali non possiamo essere succubi. Quindi come io rispetto culti e luoghi di culto diversi dai miei esigo altrettanto rispetto per le mie usanze, per il mio pensiero, per occasioni civili e religiose che festeggio, per i miei gusti alimentari.
Al di qua del Rubicone c’è, dunque, aspettativa e speranza. Matteo Salvini la incarni e se ne faccia portatore con i suoi uomini migliori, che deve reclutare, con saggezza e accortezza, anche al di qua di quel fiume.
16 settembre 2017
Istria, Fiume e Dalmazia – La tragedia degli esuli
di Domenico Giglio
Definire Waldimaro Fiorentino uno scrittore prolifico e poligrafo è una realtà, perché, oltre ad aver firmato dodicimila articoli sui più vari argomenti, i suoi lavori più impegnativi spaziano dagli scienziati italiani, opera monumentale, patrocinata dalla Società Italiana per il Progresso delle Scienze, al mondo della musica e dell’operetta italiana, ai problemi religiosi della “Rerum Novarum”, a problemi storici e politici da De Gasperi, al rapporto di Casa Savoia con l’Alto Adige, al federalismo e decentramento, alla questione istituzionale vista dal punto di vista monarchico, agli italiani in Egitto, alla genesi della prima guerra mondiale ed ora agli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia.
Il volume così intitolato “Istria, Fiume e Dalmazia – La tragedia degli esuli” ( Edizioni Catinaccio – Bolzano – maggio 2017 – Euro 15,00), uscito da pochi mesi e che ha avuto importanti e positive recensioni sui quotidiani trentini ed altoatesini, è una precisa documentazione storica dal 1800 ad oggi della vita e delle azioni che gli italiani di queste terre hanno compiuto per riaffermare la loro italianità sotto il governo asburgico, e poi, dopo il purtroppo breve periodo del loro ricongiungimento al Regno d’Italia, nel triste e tragico dopoguerra della seconda guerra mondiale sotto la ben peggiore oppressione comunista titina, terminato con la partenza e l’abbandono della terra natia e dei beni, da parte della grande maggioranza della popolazione di lingua, cultura e tradizione italica. Esuli che non sempre furono accolti in Italia, specie all’inizio, con sentimenti fraterni particolarmente da parte dei comunisti, per i quali la solidarietà ideologica con la Jugoslavia, era superiore alla solidarietà nazionale.
Secondo il suo stile e metodo Waldimaro Fiorentino, approfondisce date e nominativi di persone nate in quelle terre, frutto di una non certo facile ricerca storico anagrafica, che rendono il suo testo difficilmente oppugnabile e discutibile . Ed a date e nominativi, di coloro, numerosi, che si distinsero in tutti i campi e che ben operarono per l’italianità, nomi che in molti casi lasceranno sorpresi i lettori, si aggiungono cifre e statistiche altrettanto precise per cui libri come questo sono come pietre miliari della storia di terre dove Venezia aveva impresso il suo stampo d’italianità, che dopo la sua caduta, venne ripreso in quel più vasto movimento nazionale che fu il Risorgimento ,con l’unità raggiunta, sia pure parziale, nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia. Ed al Regno d’Italia da tale data al 1915, inizio della IV Guerra d’Indipendenza, guardarono, sperarono e dettero anche un contributo di sangue, gli italiani di queste terre .Quindi Irredentismo e senso nazionale che suscitarono la reazione politica, poliziesca, e snazionalizzatrice dell’impero austro-ungarico, a vantaggio di slavi e croati, così ben documentata ed approfondita da Fiorentino, di cui è doveroso ricordare le sue ragionate convinzioni monarchiche sabaude che lo portarono, giovanissimo, ad iscriversi al Movimento Giovanile del Partito Nazionale Monarchico ed il suo impegno successivo che lo ha visto per decenni rappresentante monarchico nel Consiglio Comunale di Bolzano.
13 settembre 2017
Il falso mito della marcia su Roma*
del Prof. Aldo A. Mola
La disputa sulla “Marcia su Roma” programmata da Forza Nuova per il prossimo 28 ottobre salirà ancora di tono, anche per le improvvide dichiarazioni del sindaco della Capitale, Virginia Raggi, che intima: “Non può e non deve ripetersi”, quasi “il duce” fosse alle porte. L’occasione è propizia per sfatare un “mito” abusato. Chiariamo subito che la famosissima “marcia” non avvenne il 28 ottobre 1922 e che, se per tale si intende l’assalto armato alla Città Eterna, essa non ebbe mai luogo. Solo il 31 ottobre, invero, circa 25.000 “militi”, stanchi e per niente soddisfatti, sfilarono per il centro di Roma e furono subito spediti a casa. Il governo Mussolini era già insediato e non ne aveva alcun bisogno. I mestatori, però, continuano a rinfocolare una leggenda che fece comodo a fascisti e ad antifascisti: a beneficio dei professionisti della “guerra civile” e a scapito della verità storica.
In un Paese bisognoso di “normalità”, narriamo i fatti, con ordine. Il 24 ottobre Mussolini aprì al teatro San Carlo di Napoli il secondo Congresso del partito Nazionale Fascista. Il precedente (Roma, novembre 1921) aveva segnato il passaggio dal movimento al partito. A presiederlo era stato il generale Luigi Capello, massone, all’epoca “in bonis” con il Duce e molto apprezzato dalla Milizia. Passato poi all’opposizione, il 4 novembre 1925 Capello fu incastrato nell’ “attentato Zaniboni” alla vita di Mussolini e condannato senza prove convincenti a trent’anni di carcere, tre dei quali in isolamento.
Quel 24 ottobre 1922 da un palco del Teatro di Napoli si affacciò anche Benedetto Croce. Da storico, amava “vedere”. Applaudì persino. Mussolini aveva tre obiettivi: accelerare la crisi del governo presieduto da Luigi Facta ed entrare nell’esecutivo con alcuni ministri prima che iniziasse il declino del suo sempre caotico partito, con un piede nello squadrismo e uno sulla soglia di un potere. Aveva messo le mani avanti nel discorso di Udine (20 settembre) in cui aveva precisato che il fascismo, per allora, non poneva in discussione la monarchia. Il secondo scopo era tagliare la strada a Gabriele d’Annunzio che stava progettando con Facta un raduno patriottico all’Altare della Patria per il 4 novembre, festa della Vittoria. Sapeva bene, infine, che, forte di appena 37 deputati su 543 e di squadristi “a noleggio”, il tempo giocava contro di lui. Come si entusiasmano, così gli italiani presto si stufano. A Cesarino Rossi Mussolini confidò che il suo vero timore era il ritorno di Giolitti al governo: in tal caso, egli disse, “siamo fottuti” (sic!). Lo Statista aveva sgomberato a cannonate d’Annunzio da Fiume; altrettanto avrebbe fatto con i fascisti se avessero tentato l’assalto alle Istituzioni.
Il Parlamento non si radunava dal 7 agosto, quando aveva concesso la fiducia al secondo governo presieduto da Facta, nel quale erano entrati due ministri di polso: PaolinoTaddei all’Interno e Marcello Soleri alla Guerra. Abituato a fiutare il pericolo (era anche rabdomante, secondo Angelo Gatti), Vittorio Emanuele III incalzò invano il primo ministro a convocare le Camere.
Il 18 ottobre i quadrumviri del fascismo (il generale Emilio De Bono, Italo Balbo, oratore della loggia Gerolamo Savonarola di Ferrara, Cesare Maria De Vecchi, monarchico indefettibile, e Michele Bianchi, repubblicano) si radunarono a Bordighera. I primi tre resero omaggio alla Regina Madre, Margherita di Savoia, che non nascondeva simpatie per un governo “di ordine”. Lo stesso giorno gli industriali di Milano (esasperati da scioperi e non dimentichi dell’ “occupazione delle fabbriche” del settembre 1920) ebbero un incontro rassicurante con esponenti del PNF. Poiché Mussolini minacciava di lanciare le squadre all’assalto della capitale per imporre il cambio di governo, Soleri impartì al generale Emanuele Pugliese, comandante della divisione militare di Roma, l’attivazione delle misure predisposte da un mese.
Il 24 ottobre Facta rassicurò il re: “Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma”. Si destò alle 0.10 del 27 quando telegrafò al sovrano che le squadre avevano iniziato la mobilitazione in alcune città dell’Italia settentrionale (da Cremona, sotto la guida di Roberto Farinacci, “il più fascista”, ad Alessandria) e in Toscana, ove l’ordine pubblico venne ferreamente mantenuto dal generale cuneese Ernesto De Marchi.
Al prolisso telegramma di Facta il re rispose ruvidamente con due parole. Partì da San Rossore e arrivò alla Stazione Termini alle 19.40. Fu ricevuto da Facta. Nel frattempo il governo aveva deliberato le dimissioni, quindi era in carica solo per l ‘ordinaria amministrazione. La città di Roma era tranquillissima. L’esercito effettuò blocchi ferroviari a Civitavecchia, Orte e Velletri, togliendo i binari e mettendo carrozze di traverso. Aveva sconfitto l ‘Austria-Ungheria, completa di alleati germanici. Non temeva i “marciatori su Roma”.
La mattina del 28 due liberal-nazionalisti (Aldo Rossini e Giuseppe Bevione) svegliarono Facta di buon ora. Il governo si radunò senza un ordine del giorno e decise di sedere in permanenza. Alle 6.30 Taddei trasmise al capogabinetto Efrem Ferraris il testo della proclamazione dello stato d’assedio in tutte le province a decorrere dalle 12 e l’ordine ai prefetti e ai comandanti militari di “arrestare immediatamente, senza eccezioni, capi e promotori del movimento insurrezionale contro i poteri dello Stato”. Voleva dire la legge marziale in tutto il regno.
A vegliare furono Vittorio Emanuele III ,e il suo primo aiutante di campo, il generale Arturo Cittadini. Verso le 9 Facta andò dal re con il decreto dello stato d’assedio, già diramato. Vittorio Emanuele lo mise in un cassetto e gliene impose la revoca. Senza la sua firma valeva zero. Facta fece quanto ordinato. Sconcertati dalla clamorosa auto-smentita del governo, molti prefetti chiesero conferma in cifra.
Il re si sarebbe valso volentieri di Giolitti, che però stava festeggiando l’80° compleanno a Cavour, in Piemonte, e non fu in grado di raggiungere Roma. Lo stesso avvenne per il cattolico milanese Filippo Meda altro possibile presidente del Consiglio. Tramontata la candidatura di Antonio Salandra, non gli rimase che rimettersi al consiglio di tutte le personalità consultate: incaricare Mussolini. Accompagnato forse da Raoul Palermi, sovrano della Gran Loggia d’Ialia, il messaggero riservato del duce, Ernesto Civelli, assicurò che i fascisti non costituivano alcun pericolo per la monarchia. Ottenuto il preincarico, la sera del 29 ottobre Mussolini partì da Milano in vagone-letto. A Civitavecchia sostò forzatamente. Nel cambio di treno e nel breve viaggio seguente gli venne spiegato dai nazionalisti romani che doveva depennare dalla lista dei ministri Luigi Enaudi, liberale liberista, e il socialista Gino Baldesi. Ricevuto dal re a fine mattina del 30, nel tardo pomeriggio presentò l’elenco dei ministri. Convocati per telefono o telegrafo, l’indomani questi si presentarono per giurare. Lo fece anche Mussolini, che, presente il re, prese le consegne da Facta. Poi corse al ministero dell’Interno e agli Esteri, ove scelse come capogabintto Giacomo Barone, massone.
E le squadre? Ne ha scritto Roberto Vivarelli, Premio Acqui Storia alla carriera, nell’esemplare “Storia delle origini del fascismo” (il Mulino). Partite il venerdì per “marciare” il sabato, festeggiare la domenica e trovarsi a casa il lunedì mattino, armate di bastoni, pugnali, rivoltelle, qualche fucile, ormai da giorni erano a corto di “munizioni da bocca”. Pioveva; faceva freddo. Solo a governo nominato, nella notte tra il 30 e il 31 poterono avvicinarsi alla città. Nel quartiere di San Lorenzo si registrarono scontri tra neri e tossi, e vittime, come da anni in varie città piccole e grandi.
La sfilata partì da Piazza del Popolo arrivò all’Altare della Patria (ove erano schiarati i deputati nazionalisti), salì al Quirinale, dal cui balcone si affacciarono il re e i ministri della Guerra e della Marina,Armando Diaz e Paolo Thaon di Revel, e raggiunse Termini. Di lì gli squadristi vennero mandati a casa con 45 treni speciali. Nella seduta inaugurale del Consiglio dei ministri, l’1 novembre, Mussolini assicurò che in 24 ore Roma sarebbe stata tranquilla. Così fu.
Ad aprire la parata del 31 (e non 28) ottobre, il sindaco di Roma mandò la banda musicale della città. I fascisti sfilarono nell’indifferenza della popolazione. Era un martedì. Il 5 novembre, reso omaggio al Milite Ignoto, il re partì per San Rossore.
L’Italia si avviava alla normalità. Nessuno poteva immaginare quanto sarebbe accaduto dieci, quindici, vent’anni dopo. Niente di quanto avviene, infatti, è già scritto. Sono gli uomini a fare, bene o male, giorno dopo giorno. Tante “storie” raccontano gli eventi partendo dalla fine anziché seguendo i fatti uno dopo l’altro. Scrivono profezie del passato, non la storia.
Il sindaco Raggi, se vuole, può affidare a una banda musicale il compito di sdrammatizzare qualunque prossima sfilata in una città che, come l’intero Paese, ha ben altre priorità che la rievocazione di un evento storico. La “leggenda” della “marcia su Roma” fece comodo ai fascisti, che vantarono una vittoria in realtà ottenuta “a tavolino” (il PNF oltre a Mussolini ebbe tre ministri in un governo di coalizione nazionale comprendente nazionalisti, cattolici, demosociali e il giolittiano torinese Teofilo Rossi di Montelera); ma quel falso mito giovò anche agli antifascisti che si dipinsero vittime della proterva aggressione di centomila squadristi armati sino ai denti. L’ Italia ha bisogno di storia vera, non di fiabe, né di polemiche strumentali.
*Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria, domenica 10 settembre
Dopo gli scontri a Roma, in Piazza Indipendenza
Assuefatti all’illegalità
di Salvatore Sfrecola
Il Funzionario di Polizia che nel corso dello sgombero di coloro che occupavano abusivamente l’immobile di via Curtatone, all’angolo di Piazza Indipendenza, ha detto ai suoi collaboratori “se tirano le pietre spezzategli le braccia” è stato rimosso dall’incarico che rivestiva e trasferito ad altro Commissariato.
Comprendo le motivazioni della Questura di Roma in un contesto di polemiche, prima che sulla frase, sullo sgombero. Non sta certamente bene che un funzionario dello Stato usi quella frase che, peraltro, avrebbe detto chiunque di noi fosse stato destinatario del lancio di un oggetto idoneo a ferire. E forse lo abbiamo detto in qualche occasione.
L’opinione pubblica, che queste situazioni comprende e che è sempre più preoccupata della crescente impunità che circonda delinquenti e clandestini non ha certamente apprezzato che il funzionario della Polizia sia stato punito e che, invece, nessuna sanzione abbia subito chi quella frase ha provocato, lanciando oggetti atti a ferire e perfino una bombola di gas, come risulta dai filmati diffusi via internet, anche su Facebook.
La polemica continua, dunque, sulle modalità dello sgombero. A noi interessa riflettere sul fatto che siano trascorsi ben quattro anni prima di liberare un palazzo occupato illegalmente, ed i giardini prospicienti, in Piazza dell’Indipendenza, a Roma, lì dove siede il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici e dei pubblici ministeri ai quali lo Stato affida il rispetto delle leggi. Al centro della Città, a cento metri dalla Stazione Termini, quella che chiamiamo spesso “il biglietto da visita” della Città che, non dimentichiamo, è la Capitale d’Italia.
Così, prima di capire se l’opposizione degli occupanti allo sgombero, con le modalità violente che le televisioni hanno documentato, integri un reato ben più importante della “resistenza a pubblico ufficiale” (art. 337, c.p.) e se qualcuno degli operatori di polizia abbia usato maniere forti non necessarie, va detto che l’occupazione di un immobile consentita o tollerata per così tanto tempo è uno scandalo, un fatto inammissibile in uno stato di diritto. Inammissibile per definizione, perché nel lungo tempo dell’inattività delle autorità competenti, si è ingenerata la convinzione che ciò sia tollerato. Un esempio negativo, che ne trascina altri perché non c’è nulla di peggio della diffusa convinzione che la legge può essere impunemente violata. E siccome in questo Paese le regole non rispettate sono tante, senza che il più delle volte intervenga una sanzione, si diffonde da tempo un senso di illegalità che mina profondamente la pacifica convivenza.
Naturalmente la lesione della legalità non è prodotta soltanto dalla occupazione abusiva di immobili pubblici e privati da parte di italiani, di cittadini dell’Unione Europea o di extra comunitari, una pratica, peraltro, diffusa in tutta Italia, perché a violare impunemente le regole e senza sanzione è la stessa amministrazione dello Stato e degli enti locali, come hanno dimostrato i crolli seguiti ad un terremoto, come quello che nel mese di agosto ha interessato alcune località dell’isola di Ischia, di lieve entità (4.0) che gli esperti hanno dichiarato unanimemente non avrebbe fatto danno alcuno se fossero state rispettate le regole di progettazione e realizzazione, compreso l’uso di materiali idonei, previste dalle leggi in vigore. E, aggiungiamo, fossero stati eseguiti i controlli di legge sui progetti e sulla loro realizzazione (collaudi).
E poiché si parla di Ischia, ci dobbiamo chiedere perché, in un’area di diffuso abusivismo, è stata in tutti i modi ostacolata la costruzione della casermetta del Corpo Forestale dello Stato, da dove gli uomini in grigioverde (oggi inseriti nell’Arma dei Carabinieri) avrebbero potuto vigilare sul rispetto delle molteplici norme che disciplinano le distanze delle costruzioni dal mare e la tutela dei boschi, una ricchezza per l’isola, per la sua economia turistica, per i suoi abitanti. Ma non per tutti evidentemente, perché sicuramente alcuni perseguono interessi personali illeciti, in dispregio delle regole.
Il rispetto della legge e, in caso di violazione, l’applicazione di una sanzione, è dunque la cartina di tornasole della civiltà di un popolo, di una comunità preoccupata dell’oggi e ancor più del domani. L’Italia purtroppo, che qualcuno continua a chiamare “Patria del diritto”, evidentemente ricordando che a Roma le regole si rispettavano e si facevano rispettare, è un Paese a diffusa illegalità, come dimostra la corruzione, che un Presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino definì “pulviscolare”, per sottolineare la sua diffusione fin dalle pratiche più minute delle pubbliche amministrazioni, dove c’è sempre chi vuol guadagnare ricevendo indebitamente denaro o altra utilità, come si legge nell’articolo 318 del codice penale.
È una situazione intollerabile, che relega l’Italia nella graduatoria stilata da Transparency International in una posizione che è motivo di disonore per tutte le persone perbene, le quali auspicano veramente una svolta che necessariamente deve passare attraverso una riforma delle procedure che assicuri celerità e trasparenza in modo da non dare spazio a chi vuole lucrare sulla farraginosità della burocrazia italiana a fini personali. E in questo senso non c’è che da sperare nel futuro, perché il governo di Matteo Renzi come quello di Paolo Gentiloni non sono stati capaci di una svolta che andasse al di là degli slogan ripetuti ossessivamente forse per autoconvincersi di aver fatto qualcosa di buono per gli italiani i quali continuano a non percepire novità nella legalità.
4 settembre 2017