Da Caporetto alla Vittoria
di Aldo A. Mola
Cent’anni dopo diciamo la verità: Caporetto non fu affatto “Caporetto”, “la madre di tutte le disfatte”, la condanna dell’Italia a sentirsi “bella e perduta”, da sempre e per sempre. Chi lo scrisse e lo ripete è disinformato o in malafede. Tanti manuali echeggianti il Sessantottismo perenne, ripetono la litania di un’Italia perpetuamente perdente: Custoza (1848 e 1866), Novara (1849), Lissa (1866), Adua (1896), Sciara-Sciat e poi, appunto, la ritirata dall’Isonzo al Piave (24 ottobre-8 novembre 1917) e, s’intende, l’8 settembre 1943, la “fuga di Brindisi”, ecc. ecc. Così l’Italia viene avvolta in lugubri panni anziché nel tricolore.
Caporetto? Venne già scritto tutto nella famigerata “Inchiesta” varata nel gennaio 1918, in piena guerra. Mentre l’Esercito preparava la riscossa, una Commissione presieduta dal generale di esercito Carlo Caneva (nel 1912 esonerato dall’inconcludente comando della guerra contro l’impero turco) mise alla gogna il Comandante Supremo, Luigi Cadorna, quello della Seconda Armata, Luigi Capello, e molti generali e ufficiali superiori, rimossi dagli incarichi e “messi a disposizione”. Da mesi Cadorna rappresentava l’Italia a Versailles. Godeva della massima stima a livello internazionale (anche da parte dei condottieri nemici, che lo attestarono nelle loro memorie) ma i politicanti nostrani volevano azzannare l’osso. Morso dopo morso, sarebbero arrivati al comandante della Terza Armata, Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, e al re stesso, Capo dello Stato e garante dell’unità nazionale all’interno e all’estero, in un mondo nel quale l’Italia aveva alleati ma nessun amico. Il re, come mostrò nell’incontro di Peschiera l’8 novembre 1917, tenne nervi saldi mentre tutto sembrava crollare. Lo documentano le introduzioni alla ristampa anastatica dell’Inchiesta su Caporetto, pubblicata dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e dell’Associazione di Studi sul Saluzzese. Il re aveva una visione chiara delle sorti dell’Italia: dopo il cattivo, arriva sempre il bel tempo. Dopo la siccità arriverà la pioggia. Bisogna resistere, come dopo Caporetto dissero orgogliosamente alla Camera Vittorio Emanuele Orlando e Giovanni Giolitti, con il consenso del socialista Filippo Turati (“anche per noi la patria è sul Piave”) e dei cattolici, capitanati dal milanese Filippo Meda, memori che “bastone tedesco Italia non doma”. Nei giorni drammatici l’ormai anziano Leopoldo Franchetti, patriota a 24 carati e senatore del regno, si uccise col rimorso di aver voluto l’intervento. Anche il socialriformista Leonida Bissolati fu sull’orlo dell’abisso. Erano persone colte e responsabili. Contrariamente a quanto si è detto e ancora si ripete in evocazioni ripetitive, a reggere fu proprio la “macchina militare”, che attuò la manovra da anni messa a punto da Cadorna e conclusa con la battaglia di arresto del nemico “sulla Piave”, come egli amava dire.
Caporetto non fu ha ritirata, non una “disfatta”. Fu una battaglia perduta come ne ebbero tutti gli eserciti in lotta. Con una profonda differenza, però. L’Italia era entrata in guerra per una decisione discutibile e persino deprecabile, sulla base dell’accordo (arrengement) del 26 aprile 1915 con l’Intesa contro gli imperi centrali, suoi alleati dal 1882. Il governo (Salandra-Sonnino) azzardò l’intervento il 24 maggio nell’illusione che il conflitto sarebbe terminato entro l’autunno stesso. Povera di risorse per il suo sistema industriale e persino per l’alimentazione, con domini coloniali remoti e indifendibili (Tripolitania, Cirenaica, Eritrea, Somalia…), essa era presa alla gola da alleati e avversari, chiusa tra Gibilterra, Malta, Cipro e Suez, tutte “piazze” in mano inglese. Per capirne le scelte bisogna guardare la carta geo-storica dell’epoca. Da quando l’Italia scese in campo al novembre 1918 i suoi nuovi alleati non compirono alcuna azione navale contro la flotta astro-ungarica nell’Adriatico. Decisero di aiutarla solo quando ne temettero il crollo: a le loro divisioni arrivarono quando gli italiani si erano già riorganizzati.
Per comprendere quanto accadde dopo Caporetto bisogna poi osservare una carta del dopoguerra. Con una premessa, però: la vittoria nacque dalla resistenza del “Paese Italia”, dalla sua tenacia, dal ferreo comando di Armando Diaz (niente affatto più “tenero” di Cadorna, come attesta l’amministrazione della giustizia militare nel 1917-1918) e per molti aspetti persino più aggressivo e con determinazione più spietata, dagli Arditi ei corpi speciali degli Alpini e via continuando, inclusa l’aviazione che tra i molti eroi contò Francesco Baracca.
Chi guardi quella carta vede un fatto inoppugnabile. Esattamente dodici mesi dopo Caporetto l’Esercito italiano passò all’offensiva, travolse l’armata nemica e impose l’armistizio all’impero asburgico con la clausola strategica: la facoltà di attraversare in armi l’Austria per aggredire la Germania da sud. Ma i tedeschi avevano tutte le loro forze schierate sul fronte occidentale, contro i franco-anglo-americani. Perciò chiesero l’armistizio a confini inviolati. Il kaiser dovette riparare in Olanda. Il Paese collassò tra ammutinamenti, insurrezioni, rivoluzioni: il caos generò il mito del tradimento e l’ascesa del nazional-socialismo, tenuto per le dande dal feldmaresciallo Hindenburg, massonofago. Quella stessa carta mostra l’altra evidenza: la Grande Guerra vide sparire l’impero russo, dilaniato dalla guerra civile tra comunisti e armate bianche, l’impero turco ottomano, il germanico e quello d’Austria-Ungheria, il cui sovrano, Francesco Giuseppe, mostrò cocciuta incapacità di trattative diplomatiche con l’Italia, caldeggiate da Giolitti. Se le avesse riconosciuto “compensi” in cambio della neutralità, come suggeriva il plenipotenziario di Berlino, principe Bulow, avrebbe salvato l’impero e risparmiato all’Europa la catastrofe della “repubblicanizzazione”, accelerata dal 1917.
Nel dopoguerra unica monarchia “pesante” del continente rimase quella d’Italia, del “re Soldato” che il 25 maggio 1915 trasferì i poteri a suo zio, Tomaso di Savoia, in veste di Luogotenente, per seguire di persona le operazioni belliche e mediare con pazienza e sagacia tra governo, Comando Supremo e Alleati: quarantun mesi durante i quali si susseguirono tre diversi presidenti del consiglio (Salandra, Boselli, Orlando), decine di ministri e un centinaio e più di sottosegretari. Il ministero meno stabile fu proprio quello della Guerra, il più bisognoso di continuità. Dall’avvento di Salandra vi si alternarono Domenico Grandi, Vittorio Zupelli, Paolo Morrone, Gaetano Giardino, Vittorio Alfieri e ancora Zupelli. Il 18 gennaio 1919 fu la volta di Enrico Caviglia. Ma il peggio venne dopo: una mezza dozzina di ministri in un paio d’anni. Il Paese che aveva vinto la guerra perse la pace. La pubblicazione dell’ “Inchiesta” su Caporetto nell’agosto 1919 (in vista delle elezioni, a tutto vantaggio di socialisti e clericali) fu la pugnalata dei “politici” nella schiena dell’Esercito. Alimentò la rivolta contro la “vittoria mutilata” e accelerò l’impresa di d’Annunzio a Fiume. La polemica contro i “generali” (anzitutto Cadorna) mirava a stendere un velo pietoso su un dato oggettivo. Nella battaglia detta di Caporetto l’esercito contò 30.000 morti (poco più di quelli avversari) ma circa 300.000 prigionieri. Troppi. Il che spiega quel che fu subito chiaro. Da molti l’avanzata austro-germanica venne intesa arretramento quale fine della guerra: si arresero. Rispetto ai caduti in divisa percentualmente furono più numerose le vittime civili, brutalizzate dal nemico che in troppi casi si condusse in modi bestiali, stuprando e rubando nella certezza di dominio perpetuo: la vittoria avrebbe coperto le tracce delle loro malefatte. Per capire Caporetto occorre andare oltre la trita “lamentela” contro Cadorna, Capello, ecc., e affrontare la storia di quella guerra, di quella Europa. Nel 1914-1918 (né poi…) nessuno fu “innocente”.
Cent’anni dopo la lezione dell'”evento” è duplice. In primo luogo occorre documentare i fatti. L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa diretto dal col. Massimo Bettini ha pubblicato l'”Inventario del fondo H-4, Commissione d’Inchiesta – Caporetto” e l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito conserva un’enorme quantità di carte per chi voglia davvero capire e spiegare. In secondo luogo la ormai secolare polemica su quella battaglia (non disastro irreparabile, non catastrofe , non apocalisse…: sennò non ci sarebbe stata Vittorio Veneto) invita ad aprire gli occhi dinnanzi a quanti continuano a brandire le “sconfitte” militari del passato remoto come clava nel confronto politico attuale e drammatizzano esasperatamente la vita quotidiana degli italiani inventando Caporetto climatiche e di altro genere per distrarre l’opinione pubblica dalla loro incapacità di amministrare, di far quadrare piccoli conti in tempo di pace. È lo storico francese Hubert Heyriès (vincitore del Premio Acqui Storia 2017) a ricordarci che nel 1866 l’Italia vinse al tavolo delle trattative una guerra non felice sul campo: gli scacchi militari (a Custoza e a Lissa, non bilanciate dall’avanzata di Garibaldi vittorioso a Bezzecca) furono capovolti dalla diplomazia nel quadro europeo. Anziché di polemiche sterili gli italiani hanno appunto bisogno di storia vera, di restaurare i monumenti ai caduti e i sacrari militari, di tutelare i confini e di ripetere “l’Italia innanzi tutto”: il messaggio che quotidianamente arriva dal Quirinale, oggi come un secolo fa, contro i seminatori di zizzania, spesso unicamente ispirati da capriccio personale.
(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria, 22 ottobre 2017)
Caporetto, la disfatta che riscattò l’Italia
Il 24 ottobre 1917 il nostro esercito subì una sconfitta di enormi proporzioni, tuttora al centro delle polemiche tra gli storici.
Un evento da ricordare per le molte ombre ma anche per le luci che risvegliarono orgoglio nazionale e senso di appartenenza
di Salvatore Sfrecola
Alla vigilia di quel tragico 24 ottobre 1917 nessuno aveva previsto un attacco nell’area di Caporetto, la cittadina, oggi in Slovenia (Kobarid), nell’alta valle dell’Isonzo, sulla riva destra del fiume, tra Tolmino e Plezzo, dove si combatté fino al 27 novembre. In quei giorni le truppe italiane dovettero abbandonare migliaia di chilometri quadrati, il Friuli e parte del Veneto. A rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò di abbandonare. Una sconfitta grave, definita anche “rotta”, “disfatta” o “catastrofe”, con uno strascico di polemiche che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia.
L’attacco non l’aveva previsto Luigi Cadorna, il Comandante Generale, “molto scettico” sulla ipotesi di partecipazione germanica all’offensiva nemica che si immaginava in preparazione ma che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata solo in primavera, come disse al Colonnello Angelo Gatti, che ne riferisce nel suo prezioso Diario di Guerra: “passiamo così l’inverno”.
Eppure i segnali di una imminente offensiva austro-tedesca c’erano stati, provenienti da varie fonti (non solo dai disertori che potevano apparire inviati ad arte), ignorati dai servizi di informazione. Li avevano percepiti sia il Generale Luigi Capello che Re Vittorio Emanuele e ne avevano informato Cadorna. Fu sottovalutato anche il significato dell’iniziale cannoneggiamento la mattina del 21, tiri isolati ma con obiettivi precisi, come osservò il Re che ritenne fossero destinati a saggiare la nostra capacità di reazione, preludio del bombardamento che sarebbe iniziato alle 2 del 24 ottobre, inizialmente con i gas. Durò cinque ore, “con grandissima intensità”, scrive Gatti. Eppure non ne fu compresa la finalità. “Nulla di importante” commentò il Generale Pietro Badoglio. I suoi cannoni, oltre 400, rimasero silenti. E gli fu sempre rimproverato. Uno dei tanti errori di percezione delle intenzioni degli austro-tedeschi i quali percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. Il fuoco delle batterie nemiche aveva creato una breccia che permise il passaggio degli alpini del Wüttemberg guidati da un giovane tenente destinato ad una prestigiosa carriera militare, Erwin Rommel, futura “Volpe del deserto”.
Lo sbandamento fu generale. Nella confusione s’immaginava fosse necessario arretrate sempre di più, dall’Isonzo al Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio o, se non fosse bastato, al Po. Una soluzione che avrebbe consegnato al nemico Venezia e Milano, un autentico disastro per la coalizione. Dalla pianura padana sarebbe stata minacciata anche la Francia.
Intanto nel Paese montano le polemiche, le accuse di tradimento e disfattismo, soprattutto contro socialisti e cattolici. Gli alleati, che s’incontrarono a Rapallo il 6 novembre in un clima di sfiducia nei confronti dell’Italia, chiedono la testa di Cadorna. Ne riferisce Gatti che dà conto dell’umiliazione subita. Infatti francesi e inglesi “si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri. Orlando, Sonnino, Alfieri e Porro attesero così, alla porta come servitori, che gli altri decidessero”. Vittorio Emanuele Orlando era il Presidente del Consiglio, Sidney Sonnino il Ministro degli esteri, Vittorio Alfieri il Ministro della guerra e Carlo Porro il Sottocapo di Stato maggiore. Dovettero limitarsi ad ascoltare le decisioni assunte. E se fu riconosciuto “che la difesa dell’Italia era anche interesse alleato”, con apporto di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi diventeranno 6 e 5), il primo ministro inglese Lloyd George impose come condizione “assoluta” la creazione di un Consiglio interalleato composto dai 3 presidenti dei consigli dei ministri.
In questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il nostro Esercito il Re, “l’unico a non perdere la testa”, come ha sottolineato RAI Storia, mai tenera nei suoi confronti, volle si resistesse sul Piave. A Peschiera sul Garda, l’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i generali che si erano incontrati a Rapallo, presenti Paul Painlevé, Primo Ministro di Francia, i Generali Ferdinand Foch e Henry Hugue Wilson e Lloyd George (che ce ne ha lasciato la cronaca), il Re, parlando in inglese e francese, si guadagnò “il rispetto di tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto della situazione, realisticamente”. Lloyd George “ne rimase impressionato” (M. Silvestri, Caporetto, – Una battaglia e un enigma). Il suo ruolo fu determinante nel richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che cancellò dal proclama, che Orlando gli aveva preparato, l’incipit enfatico che non era nel suo stile (“Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re”). Invece esordì: “Italiani, siate un esercito solo!”
Da allora “Caporetto”, nel linguaggio comune, evoca un fatto negativo gravissimo, una sconfitta senza rimedi, la “disfatta per antonomasia”, scrive Stefano Lucchini in un libro, “A Caporetto abbiamo vinto?”, che ricostruisce, “attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro impatto sull’opinione pubblica”. Eppure, dopo le polemiche di quei giorni e all’indomani della vittoria, si volle in qualche modo archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione dell'”Italia di Vittorio Veneto”. Ne è prova l’attribuzione del grado di “Maresciallo d’Italia” contemporaneamente al generale sconfitto, Luigi Cadorna, ed al vincitore, Armando Diaz.
E se è vero che “a Caporetto non abbiamo vinto” è altrettanto vero che quella battaglia ha segnato una svolta fondamentale, che ha posto le basi della ripresa delle operazioni militari e della vittoria. Immediato fu il risveglio delle migliori energie, della politica, delle Forze Armate e dell’intero popolo italiano. Fu “uno scatto di orgoglio nazionale” (P. Milza, Storia d’Italia). Cambiarono molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo. Dai rapporti tra il Governo ed i vertici dell’Esercito che, con il nuovo Comandante generale, Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e credibile nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e degli Stati Maggiori alleati.
Le cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la vastità delle terre perdute e il numero dei profughi, furono essenzialmente militari, come fu evidente di lì a breve anche dalle prime risultanze della Commissione d’inchiesta. Cause individuate nella inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati a concezioni superate, come l’attacco all’arma bianca. L’aveva codificato il Comandante generale Cadorna: attacco frontale ed intervento aggirante della cavalleria, nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di questa Arma dopo che l’invenzione della mitragliatrice aveva reso improponibili le cariche di lancieri e dragoni che con tanto onore avevano combattuto nelle guerre dell’800. Non che i comandanti degli altri eserciti fossero più “moderni”. Esclusi i tedeschi, che avevano maturato la consapevolezza delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano subito perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili assalti a posizioni fortificate, come quelli al famoso “formicaio” nel film “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, un valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.
Giocarono un ruolo essenziale negli eventi tragici di Caporetto non solamente la mancata previsione dell’attacco e di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata confusione nella catena di comando, la disorganizzazione di molti settori dell’esercito, la sottovalutazione del previsto dispiegamento di divisioni tedesche tratte dal fronte russo. Le comandava un valoroso generale prussiano Otto von Below, reduce da molte vittorie e con provata capacità strategica. Con un piano di guerra originale che rompe con la dottrina e le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e che farà meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglo-francesi, sul fronte di Arras-LaFère, nelle Fiandre. Con lui generali di prim’ordine, con carriere brillanti, come Albert von Berrer, Herman von Stein e Konrad Krafft von Dellmesingen, che di quegli eventi ci ha lasciato una descrizione particolarmente accreditata tra gli storici.
Il resto è noto. Si contarono 35.000 tra morti e feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati; la perdita di un’ingente quantità di armi, cannoni, mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni, automezzi e strutture dell’apparato logistico. Senza contare il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di profughi, l’abbandono della case, delle aziende, degli animali. Solamente la III Armata comandata da Emanuele Filiberto Duca d’Aosta si sganciò con ordine dal nemico. Fu così pronta alla controffensiva di primavera tanto da meritare, nel bollettino della Vittoria, il 4 novembre 1918, l’aggettivo di “invitta”.
(da La Verità del 20 ottobre 2017, pagina 19)
Riprendiamoci il Mare Nostrum
di Aldo A. Mola
Ottone II di Sassonia, “Imperator Romanorum”, spese la vita per liberare l’Italia dagli islamici. Li cacciò da Taranto, ma fu sconfitto a Capo Cotrone (982). Salvò la vita a stento. Quasi non ne parla James Bryce nel poderoso volume “Il Sacro Romano Impero” (un “classico” cresciuto lungo mezzo secolo di studi, tra il 1860 e il 1904), curato da Paolo Mazzeranghi per D’Ettoris Editori. Eppure tanta parte della storia d’Europa è lì: nella lotta millenaria tra Carlomagno e Maometto, come scrisse Henri Pirenne.
Ora, nell’Europa dei trenta denari, Filippo VI di Borbone, Re di Spagna, mostra il ruolo della monarchia costituzionale: il richiamo, pacato e fermo, all’unità nazionale. Come gli altri grandi Paesi europei, la Spagna ha una storia complessa. In gran parte soggiogata dagli islamici dal 711 d.Cr., eliminò l’Emiro di Granada solo nel 1492, l’anno dell’approdo di Cristoforo Colombo in “America”. La “riconquista” cristiana richiese otto secoli. Invece di liberarsi dall’invasore a ovest, la chiesa di Roma, dopo secoli di scandalosa depravazione, promosse spedizioni in Terrasanta, dirottò la Quarta crociata contro l’impero di Bisanzio anziché volgerla alla liberazione dei Luoghi Santi e concorse alla creazione di potentati precari in terre lontane.
Finalmente libera dai “mori”, la Spagna creò l’impero coloniale più ampio e durevole della storia universale, dai Caraibi alle Filippine, dal Messico alla Terra del Fuoco. Durò tre secoli. Quello inglese, tanto decantato, è vissuto meno di cento anni. Da inizio Cinquecento Carlo I d’Asburgo, sacro romano imperatore e re di Spagna, aggiunse alle Fiandre e alla “Germania” l’egemonia sull’Italia, da Milano alla Sicilia. I suoi eredi, Filippo V di Borbone e via continuando, ebbero le alterne fortune delle monarchie in un’Europa che contava due soli Stati “nazionali”, la Francia e la Spagna, caratterizzati da una lingua e da una confessione religiosa prevalente, la cattolica. Neppure questi due paesi erano veramente compatti. Lo si vide in Francia nel 1792-93 quando la Vandea insorse contro la repubblica di Robespierre. Quella guerra fratricida franco-francese superò in orrori ogni altra guerra civile. Il resto dell’Europa era fatto di conglomerati sotto giogo imperiale (gli Asburgo di Vienna, il Sultano di Istanbul, che dominava l’intera penisola balcanica, Bulgaria e Romania con metodi brutali) o di staterelli caleidoscopici, come in “Germania” e in Italia.
Nella Spagna odierna la monarchia costituzionale garantisce il massimo di unità possibile tra regioni diverse come Andalusia e Asturie, Aragona e Galizia, Bilbao e Valencia…, esattamente come fa la corona britannica in Gran Bretagna, divisa non solo tra inglesi, scozzesi e irlandesi, ma tra le varie “genti” dell’Inghilterra. Lo stesso vale per il piccolo Belgio, inventato nel 1830 come “Stato cuscinetto” comprensivo di litigiosi valloni e fiamminghi.
Filippo VI di Borbone svolge in Spagna il ruolo di Macron in Francia, successore di Napoleone I e di Luigi XIV (perciò ha ricevuto Trump a Versailles e a les Invalides) e di Elisabetta II a Londra. Il depositario costituzionale della sovranità non ha neppure bisogno di “parlare”: “parlano” per lui il paesaggio, i monumenti, la vita quotidiana dei cittadini, la miriade di simboli che esprimono il senso di appartenenza a una Comunità, che va oltre ogni particolarismo.
In Spagna la friabile minoranza di una regione periferica e in sé niente affatto compatta, qual è la “Catalogna”, da decenni esaspera il provincialismo, chiede rumorosamente il ritorno a un passato remoto che potrebbe parere fiabesco (o farsesco) se non prospettasse risvolti antistorici e tragici. Unico antidoto alla deflagrazione dei regionalismi estremistici in quel grande e composito Paese è appunto la monarchia costituzionale, richiamo perenne all’unità nella complessità. Lo aveva compreso bene in Italia il mazziniano e garibaldino Giosue Carducci quando dichiarò che l’Italia aveva bisogno vitale di una Forma unitaria, proprio perché arrivava da secoli di frantumazione, tra dominazioni straniere, microstati e repubbliche declinanti, da Genova a Lucca e alla stessa assopita Venezia.
Come ha scritto Domenico Fisichella (Premio Acqui Storia alla carriera: gli viene consegnato il prossimo 21 ottobre all'”Ariston” della Città termale) la nascita dell’Italia unita ha davvero i requisiti di un “miracolo”. Nel 1859-1860 Vittorio Emanuele II di Savoia, perciò ricordato “Padre della Patria” al Pantheon, riuscì a fondere insieme i principi della legittimità, della nazionalità e dell’equilibrio internazionale dello Stato che dette forma alla “itala gente da le molte vite”.
L’eredità della monarchia costituzionale, che arriva dallo Statuto di Carlo Alberto, re di Sardegna (4 marzo 1848), non è affatto terminata con il cambio della forma costituzionale. Essa vive nella Costituzione della repubblica. Il Presidente è “Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (?) Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge (?) Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali (?) Ha il comando delle Forze Armate, presiede il Consiglio supremo di difesa (?) dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere la grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze…” (art. 87), “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. La Carta in vigore dal 1° gennaio 1948 ha tradotto in repubblicano lo Statuto albertino, come ripetuto da Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato” (Gangemi). Il Presidente è il Principe costituzionale, custode e vindice della coscienza del Paese. Questa, va detto sin che siamo in tempo, si staglia al di sopra di chi vorrebbe appiccare fuochi di divisione, come è avvenuto con la stolida invezione della “Giornata della memoria per le vittime meridionali del’Unità d’Italia”, deliberata dal Consiglio regionale della Puglia e stigmatizzata dall’Associazione mazziniana italiana, presieduta da Mario Di Napoli, con parole condivisibili da qualunque cittadino fedele ai destini del Paese, inclusi i fautori della monarchia costituzionale.
A quanti (non facciamo nomi di agitatori in caccia di popolarità, né di chi se ne fa megafono) innalzano nel Mezzogiorno lo stinto vessillo dell’anti-unitarismo va ricordato che Napoli e Palermo furono regni distinti e ripetutamente contrapposti in lotte sanguinose anche quando divennero “Due Sicilie” (per umiliazione di Napoli), mentre le Calabrie e le Puglie (al plurale come le Marche) erano realtà al loro interno profondamente diverse. Prima dell’unificazione nazionale non esistevano strade costiere da Reggio di Calabria a Salerno, né litoranee in Basilicata e sulla costa ionico-adriatica, né carrozzabili interne né, meno ancora, ferrovie. I popoli delle terre già appartenute a Ferdinando di Borbone (IV di Napoli, I delle Due Sicilie) e a suo nipote Ferdinando II cominciarono a conoscersi e ad avere una visione organica dei loro problemi (a cominciare dalla politica estera e dalla difesa) solo dopo l’unificazione nazionale. Perciò tra i fautori del regno d’Italia furono in prima linea meridionali come l’irpino Francesco De Sanctis, docente alla Nunziatella di Napoli, autore dell’appassionato “Discorso ai giovani (ripubblicato da Giuseppe Catenacci) e della vivida storia della letteratura italiana, il lucano Giustino Fortunato, Silvio e Beltrando Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini e una moltitudine di patrioti che i Borbone suppliziarono, incarcerarono, costrinsero all’esilio. Quei “meridionali” furono anche profeti dell’Italia europea e dell’Europa delle nazioni. Basti, fra i molti, il nome di Gaetano Martino, il ministro degli Esteri che fu artefice precipuo del Trattato di Roma dal quale nel 1957 nacque il Mercato Comune Europeo, non abbastanza ricordato in questo smemorato 2017. Fu il siciliano Francesco Crispi a pronunciare nel 1864 alla Camera le parole famose, “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”: un motto che l’Italia liberale ed europeista odierna (memore di averne usato la Costituzione di Cadice del 1812) può prestare alla Spagna di Filippo VI di Borbone, anche per ribadire il profondo legame tra i due Paesi, impegnati in prima linea nella difesa del Mare Nostrum, consapevoli di quanto poi sia lunga e dolorosa la “reconquista”. Lo sa bene proprio il Mezzogiorno d’ Italia, ove si logorò sino a morirne il sacro romano imperatore Ottone II di Sassonia, marito della bizantina Teofano, in lotta contro gli invasori islamici. Sognava un Mediterraneo cristiano, la “Renovatio Imperii Romanorum”, proclamata da suo figlio, Ottone III. Un millennio fa. E ora? La frantumazione degli Stati per capricci localistici accelererebbe la disfatta dell’Europa dei trenta denari. L’euro non basta a fare storia. La fecero i sacri romani imperatori, dai Sassoni a Federico II Staufen, che dal Mezzogiorno d’Italia scrutarono con occhi azzurri l’orizzonte della civiltà greco-romana e lo rivendicarono italo-europeo. I monarchi costituzionali e i presidenti di repubblica fondati sul consenso dei cittadini ne sono i continuatori.
(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria, 15 ottobre 2017)
Tra menzogne e frustrazioni la contestazione dell’unità d’Italia. Con invito a Pino Aprile ad una più accurata lettura delle fonti
di Salvatore Sfrecola
“I fatti distinti dalle opinioni” è una regola del giornalismo, che s’insegna al praticante quale elemento cardine della deontologia professionale. È anche la regola degli storici, i quali non solo devono tenere distinti i fatti dalle interpretazioni che ne danno, che non possono prescindere dal contesto nel quale si sono svolti. Sarebbe sbagliato, per fare un esempio, criticare la società romana perché ammetteva la schiavitù, soprattutto di soggetti prelevati da eserciti vinti in battaglia o da popolazioni soggiogate. Sarebbe sbagliato perché quella società, come le altre contemporanee, non conosceva il valore della persona umana, esaltata solamente dal Cristianesimo, e, pertanto, riteneva normale considerare gli schiavi come soggetti alla proprietà di chi l’avesse acquisita con la forza o con il denaro.
Sono riflessioni che vengono in mente nel leggere la polemica che monta dappertutto in Italia, al Nord come al Sud, sia pure in forme diverse. Al Nord i veneti rivendicano la loro “lingua” e contestano i plebisciti che hanno annesso al Regno d’Italia quelle terre un tempo soggette ad una dominazione straniera, l’Impero austro-ungarico. È tanto forte e antico questo sentimento che, in occasione della guerra del 1866, quella che avrebbe portato il Veneto nel Regno i contadini veneti si facevano pagare dai soldati italiani l’acqua. Avete capito bene, non il vino, che pure avrebbero dovuto offrire a chi rischiava la pelle per liberarli da giogo straniero, sia pure in una realtà di buon governo com’era l’imperial Regio Governo, come si diceva allora. Non basta la buona gestione della cosa pubblica se uno ha il senso dell’appartenenza, la consapevolezza dell’identità che non può essere limitata al borgo, alla provincia allargata ma più ampia, considerata la tradizione unitaria dell’Italia che risaliva all’impero romano.
Tuttavia deve essere forte questo attaccamento al buon governo se il Presidente della Regione Veneto, come i colleghi di tutta Italia autodefinitosi “Governatore” (l’eterno nostro provincialismo!) dice che, con il referendum sull’autonomia che si terrà il 22 ottobre, non darà più un soldo a Roma per trasferirlo alla Sicilia, regione, come è noto a statuto speciale, anzi specialissimo come spesso si dice, anteriore alla Costituzione della Repubblica.
Non c’è dubbio, dunque che ci sia del malessere, al Nord come al Sud, se la Sicilia con l’ampia autonomia della quale gode deve essere assistita con denaro proveniente dalle tasche dei veneti e non solo, pur passando per Roma, ed è, nonostante incameri le entrate statali, in condizioni drammatiche, quanto ai conti della Regione ed alle condizioni di vita della popolazione, se non altro dal punto di vista delle infrastrutture viarie, ferroviarie, acquedottistiche e via discorrendo. Cioè delle strutture pubbliche che segnano il grado di benessere di una comunità. Ed anche di civiltà, perché l’acqua non è un lusso ma la condizione della vita, le strade e le ferrovie condizionano lo sviluppo economico della regione.
Come la Sicilia non stanno molto meglio le altre regioni meridionali. E Se Cristo si è fermato ad Eboli, l’alta velocità si è fermata a Salerno, appena sotto Napoli che del Regno delle Due Sicilie era la capitale. La Salerno Reggio Calabria è in corso di realizzazione da decenni. Matera, capitale europea della cultura per il 2019, dispone da anni di una stazione senza binari. Ed è certo che quando si decidessero a stenderli la stazione sarà certamente da ristrutturare e molto probabilmente da adeguare a normative di sicurezza di derivazione europea che saranno intervenute nel frattempo.
Viaggiando per le meravigliose regioni del Sud, dalla Puglia alla Basilicata alla Calabria grande è la rabbia di chi ama l’Italia e, pertanto, ogni angolo di questo stupendo Paese, nel vedere opere pubbliche incompiute o non adeguate, oltre alla già segnalata carenza delle infrastrutture viarie e ferroviarie. Da Roma a Bari la Freccia Bianca impiega più di quanto occorre per andare da Roma a Torino. Per tacere delle linee ad un solo binario sulle quali sappiamo dalla cronaca che può accadere, com’è accaduto, che siano stati in molti a lasciarci la pelle nello scontro frontale tra due treni. Nel 2017 è inconcepibile.
Inadeguata, assolutamente inadeguata quasi dappertutto è l’accoglienza alberghiera e la valorizzazione del patrimonio storico artistico e archeologico, qualcosa di stupendo tra l’altro inserito in contesti ambientali di rara bellezza. Il Bel Paese del resto lo è dalle Alpi al Lilibeo e in questo un apporto essenziale viene dalle regioni centro meridionali alle quali Dio ha assicurato condizioni ambientali straordinarie. Lo diceva già all’inizio del 1800, esattamente nel 1846, Camillo Benso Conte di Cavour che vorrei leggesse Pino Aprile, il giornalista inventatosi storico, il quale insiste, come altri, che poco hanno letto e molto scrivono e dicono. Nell’ultimo fascicolo (settembre – ottobre) di Storia in rete, www.storiainrete.com a pagina 36 dove scrive che Cavour “parlava solo di annessioni” evidentemente estrapolando qua e là, ma rigorosamente senza citare dove e quando lo ha letto.
Per cui è agevole rispondere sul punto con documenti di data certa di cui ho scritto su www.logos-rivista.it del mese corrente. Il titolo “Quando Cavour immaginava di proiettare l’Italia in Europa e nel mondo, attraverso strade, ferrovie e linee di navigazione” in una visione unitaria dell’Italia ancora suddivisa in staterelli alcuni dei quali retti da dinastie straniere a ricordare che nei secoli eravamo stati “calpesti derisi perché non siam popolo perché siam divisi”. Dinastie straniere messe sul trono da eserciti francesi, spagnoli, austriaci per garantire il permanere del controllo di territori strategici. Dinastie spesso subentrate a incapaci signorotti locali che, per fare dispetto al vicino, chiamavano in aiuto re e regine che governavano oltralpe. Dinastie spesso distintesi con straordinaria ferocia nei confronti dei moti liberali che tra fine ‘700 e primi anni dell’800 hanno rivendicato costituzioni e libertà di pensiero e di stampa. E qui Aprile dovrebbe sapere che i Borbone si sono distinti nella repressione dei liberali impiccando e fucilando. E dovrebbe anche sapere che quel regime che non fu azzardato definire “la negazione di Dio eretta a sistema di governo” (Gladstone) conosceva abbondantemente il brigantaggio assolutamente endemico tanto che alcune aree erano da evitare accuratamente se non si voleva incappare nel taglieggiamento delle bande. Ricordo che il nonno di un magistrato amico, Giudice di Cassazione nel Regno, vivendo a Bari raggiungeva la capitale col vapore circunnavigando lo stivale.
Ma torniamo a Cavour ed alle questioni italiane che Aprile evidentemente non ha approfondito o che non ritiene di dover approfondire, altrimenti dovrebbe cambiare opinione.
Negli anni giovanili il Conte aveva molto viaggiato e apprezzato, soprattutto in Inghilterra, l’introduzione delle macchine nelle industrie e nelle attività manifatturiere. Inoltre aveva percepito l’apporto che avrebbero dato le ferrovie nello sviluppo dei commerci attraverso il trasporto delle merci e delle persone. Rimase colpito dalla velocità (per l’epoca) del treno tra Liverpool e Manchester: cinquanta chilometri percorsi in un’ora e mezza. Con entusiasmo. È qui che nasce il Cavour “ferroviere”, come ha scritto Adriano Viarengo nel suo bel saggio del 2010 sullo statista piemontese.
Porterà quelle esperienze in Piemonte da ministro e Presidente del Consiglio attraverso la riforma dell’amministrazione, convinto della necessità che essa debba rendere servizi efficienti ai cittadini ed agli imprenditori volonterosi ed audaci. S’impegnerà nel potenziamento delle infrastrutture del trasporto, compresi i famosi canali che da lui prendono il nome, e delle ferrovie. Queste, si potrebbe così riassumere il pensiero di Cavour, unificheranno l’Italia e la renderanno prospera. Anche perché, disponendo di importanti porti, con una rete ferroviaria completa l’Italia avrebbe goduto di “un considerevole commercio di transito”.
L’Italia, dunque. “Non era allora frequente un discorso unitario italiano neppure a proposito dell’economia della penisola”, scrive Giuseppe Galasso in apertura del volume “Autobiografia, lettere, diari e scritti di Cavour”. Una prefazione che significativamente intitola “Il pensiero italiano di Cavour”, a smentire quanti ritengono che il Conte avesse una visione Piemontecentrica: “L’Italia considerata come un solo paese”, ne scrisse a proposito Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico e sull’Italia in particolare, nell'”Antologia Italiana” del 31 marzo 1847.
1847, una data, un periodo storico da tenere a mente. Cavour opera in Piemonte ma ha una visione complessiva dell’Italia, della sua storia, delle sue potenzialità. In lui il Risorgimento non sarà solamente la fortunata testata di un giornale che avrà grande influenza in quegli anni nel dibattito sulla libertà politica ed economica. È effettivamente l’idea di una sorta di “nuovo Rinascimento”, nella prospettiva di un recupero del genio e della fantasia degli italiani, che “un tempo erano stati all’avanguardia della civiltà europea”, come Denis Mack Smith sintetizza il pensiero del Conte nella nota biografia che gli ha dedicato, una volta affrancati dal giogo delle potenze straniere che nel corso dei secoli hanno asservito ai loro interessi importanti aree del Paese attraverso dinastie chiuse nel loro particulare, assolutamente prive di una visione unitaria dell’Italia.
1847! Ma già un anno prima, il 1° maggio 1846, sulla parigina Revue Nouvelle Cavour aveva scritto, in francese, un articolo che appare di una straordinaria attualità ad oltre centosettant’anni di distanza e dimostra lo straordinario intuito dell’uomo, la sua capacità di acquisire ed elaborare quanto vedeva realizzato altrove, specialmente per effetto del progresso tecnologico. “Le ferrovie in Italia”, un commento all’opera di Ilarione Petitti di Roreto, pubblicata un anno prima, che Cavour sviluppa sul piano economico e politico-economico nella prospettiva del movimento nazionale italiano. Ed è sintomatico che uno storico come Galasso, napoletano, conoscitore della storia del meridione, introduca la presentazione del pensiero di Cavour, in un volume di oltre 700 pagine ricco di scritti che spaziano dall’economia alla storia alla politica, con un richiamo proprio all’articolo sulle ferrovie e sul loro ruolo nello sviluppo e nell’unificazione, in un’ottica totalizzante nella quale ogni problema affrontato è costantemente aggettivato come “nostro”, cioè italiano.
Cavour aveva 36 anni, essendo nato a Torino il 10 agosto 1810, e da tempo aveva iniziato ad impegnarsi in politica, sia pure, all’epoca, ancora senza incarichi di governo, quelli nei quali emergerà il suo straordinario intuito riformatore delle istituzioni e dell’economia del Piemonte. Un uomo geniale, uno statista europeo, ben presto ammirato anche da chi gli era ostile. Come Clemente Lotario di Metternich, il potentissimo Cancelliere austriaco, che dirà: “In Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour”.
E nazionale ed europea è la visione che Cavour ha delle ferrovie “destinate a rendere grandi servigi all’Italia. In effetti, se sono vantaggiose per i paesi manifatturieri, non sono meno utili a quelli in cui fiorisce una ricca agricoltura”. E spiega: “le derrate prodotte dall’agricoltura e le materie che impiega per mantenere le sue forze produttive, come i concimi e gli ammendamenti inorganici, sono altrettanto ingombranti che le materie prime e i prodotti dell’industria manifatturiera. Per i trasporti agricoli i canali sarebbero da preferire alle ferrovie; ma laddove non esistono canali, soprattutto nei luoghi in cui la loro realizzazione presenta enormi difficoltà, sia a causa di circostanze naturali, sia ancora perché è conveniente utilizzare l’acqua di cui si può disporre per l’irrigazione delle terre e per la formazione dei canali, si può affermare che le ferrovie daranno all’agricoltura vantaggi di cui è difficile esagerare l’importanza”.
Chiarissima la visione di Cavour anche sotto il profilo dell’assetto idraulico e della sua connessione con l’agricoltura, che oggi purtroppo abbiamo dimenticato. Con gli acquedotti che perdono quasi il 50% della loro portata e con la riduzione degli invasi, che un tempo alimentavano le condotte forzate per le turbine delle aziende di produzione di energia elettrica, un paese ricco di acque come l’Italia, con qualche grado in più di calore d’estate si è trovato a boccheggiare, con perdite notevoli, com’è accaduto questo agosto, proprio nel settore agricolo. Per non dire dell’immagine negativa che si è letta sui giornali di tutto il mondo: “a Roma razionata l’acqua”, con i turisti incerti se visitarla.
L’acqua è bene prezioso, per i romani l’aqua profluens era ricompresa tra le res communes omnium, raccoglierla e distribuirla alle persone e alle imprese è espressione di civiltà. E chi la spreca merita una sanzione. Sempre ovunque durissima. Nel Celeste Impero, la decapitazione!
Ma torniamo alle ferrovie. Che ovviamente giovano moltissimo al sistema industriale che si va sviluppando in quegli anni. Infatti “l’istituzione di un sistema completo di ferrovie, facilitando le comunicazioni, diminuendo i costi di trasporto e soprattutto sollecitando l’attività e l’energia degli animi intraprendenti, di cui il paese abbonda, contribuirà potentemente al rapido sviluppo dell’industria in Italia”.
Ancora fiducia negli italiani, in una visione moderna proiettata al di là dei confini per una Italia che non dovrà mai più essere considerata soltanto un'”espressione geografica”. Ricordiamo, Cavour scrive nel 1846. Ed ecco che le ferrovie “rendendo pronte, economiche e sicure le vie di comunicazione interna, facendo sparire in qualche modo la barriera delle Alpi che la separano dal resto d’Europa e che sono così difficili da valicare per una parte dell’anno, nessun dubbio che l’afflusso di stranieri che vengono ogni anno per visitare l’Italia aumenterà in maniera prodigiosa. Quando il viaggio da Torino, Milano, Firenze, Roma e Napoli richiederà meno tempo e minor fatica di un giro in un lago svizzero, è difficile calcolare il numero di persone che verranno a cercare in queste contrade, piene di attrattive, un’aria più salubre e più pura per la loro salute malferma, ricordi per la loro intelligenza o anche solo semplici distrazioni dalla noia che sviluppano le brume del Nord. I profitti che l’Italia trae dal proprio sole, dal suo cielo privo di nubi, dalle sue ricchezze artistiche, dai ricordi che il passato le ha lasciato, cresceranno certamente in una proporzione considerevole”. È evidente che pensa anche, se non soprattutto, al centro Sud, dove il sole abbonda in tutti i mesi dell’anno.
Studiava, si potrebbe dire, da ministro dell’economia. Ed anche del turismo.
Nella visione di Cavour un’attenzione particolare è riservata ai nostri porti, da Genova a Trieste, da Napoli ad Ancona, collegati da ferrovie che potranno attraversare le Alpi: “i porti italiani saranno in grado di condividere con quelli dell’Oceano e del mare del Nord, l’approvvigionamento dell’Europa centrale in derrate esotiche”.
Cavour guarda anche a sud per cui, “se le linee napoletane si estenderanno sino al fondo del regno, l’Italia sarà chiamata a nuovi alti destini commerciali. La sua posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa, la trasformerà incontestabilmente, quando il vapore la attraverserà in tutta la sua lunghezza, il cammino più breve e più comodo dall’Oriente all’Occidente”.
Capito Pino Aprile?
Com’è, dunque, che l’Italia meridionale, nonostante queste potenzialità, dall’ambiente stupendo, al mare, che spesso troviamo a poca distanza dalle montagne, come in Calabria, non decolla? Siamo sicuri che è “colpa” dei piemontesi allora e di Roma oggi? Che i tanti ministri meridionali, da Francesco Crispi e Gaetano Martino, a Ciriaco De Mita siano stati tutti venduti al Nord? E siccome i meridionali sono mediamente più vivaci e fantasiosi dei connazionali da Firenze in su tanto che ovunque vadano, in Italia e nel mondo, si distinguono per capacità di lavoro e inventiva, non sarà che al Sud la classe politica è selezionata sulla base di condizionamenti mafiosi, tanto per semplificare, e che gli interessi criminali non si riesce a tenerli fuori della gestione delle risorse pubbliche, quelle che dovrebbero assicurare strade, ferrovie, acquedotti, fognature? Se nella costruzione della strada dei due mari, che collega il Tirreno allo Ionio, in Calabria si dovette ricorrere al coprifuoco notturno ad evitare che le attrezzature delle imprese che lavoravano fossero fatte saltare con la dinamite perché non volevano pagare il pizzo è sempre colpa dei piemontesi e di Roma?
Non intendo dire che errori non ne siano stati fatti all’indomani della costituzione del Regno d’Italia e che la repressione del brigantaggio, endemico in quelle regioni, come la storia ci dice, assume una connotazione nuova in quanto arruola disertori, contadini che rivendicavano le terre che lavoravano, soggetti pagati dai Borbone in esilio a Roma, sia stata condotta con metodi militari anziché di polizia. Anche se va detto che i Borbone avevano provocato quella ribellione contro i poteri dello Stato nel vano tentativo di riprendere un trono del quale erano stati privati non dai piemontesi ma dalle popolazioni e dalla storia. Era il metodo dell’epoca. Ed è chiaro che un esercito di popolo schiera inevitabilmente anche qualche delinquente che può commettere dei reati che noi uomini delle istituzioni riteniamo inconcepibili per un servitore dello Stato. Del resto a Milano Bava Beccaris sparò col cannone sulla folla dei dimostranti per una protesta economica. Oggi ci fa ribrezzo. All’epoca si faceva così. Come Napoleone che a Tolone sparò sulla folla riempiendo le bocche dei cannoni con ogni genere di ferraglia per fare più male a più persone. Fu lodato, divenne Primo Console e poi Imperatore dei francesi.
La storia è cosa seria, come ha insegnato Erodoto. L’appello di Aprile a pagina 41 del suo articolo su Storia in Rete è espressione di quel diffuso cerchiobottismo tipico di chi è consapevole di essersi spinto oltre e comincia subire l’effetto di chi gli ricorda, di giorno in giorno, il governo crudele e ingiusto dei Borbone che aveva una parvenza di dignità solo a Napoli e che a Palermo era odiato dal popolo come dalla nobiltà e dal clero, come dimostra il fatto che i poco più di Mille di Garibaldi sono diventati presto migliaia, anzi decine di migliaia. Ed ecco l’appello aprilante: “ripuliamo le nostre città dall’orgia sabauda che le snatura e recuperiamo le nostre tracce cancellate, ma lasciandone anche di quelle altre, sbagliate solo perché esagerate”.
Anche nelle pagine precedenti ce l’aveva con i Savoia i quali, per non dire altro, si recavano negli ospedali a visitare i degenti, mentre i Borbone fuggivano da Napoli ad ogni rigurgito di colera, l’infezione endemica che anche oggi ricompare di tanto in tanto. Come fuggivano dalla Capitale quando il popolo non ne poteva più e li cacciava. Tornavano di lì a poco regolarmente protetti dalle baionette di qualche potenza straniera della quale erano vassalli. E procedevano ad impiccagioni e fucilazioni.
I Savoia hanno regnato e non governato. Perché prendersela con loro e non con i Presidenti del Consiglio ed i Ministri che dal 1861 hanno governato l’Italia, molti nati e vissuti nel Meridione. Incapaci o disonesti? Attendiamo da Aprile una riflessione onesta sul punto. O non è forse che nell’acredine con la quale mette di fatto in discussione l’unità d’Italia richiamando uno straordinario passato economico che non c’è stato, come ha ricordato ancora di recente un grande storico meridionale Giuseppe Galasso, anziché puntare sul potenziale meraviglioso presente che potrebbe dare ricchezza alle popolazioni meridionali attraverso lo sviluppo dell’agricoltura, della industria di trasformazione dei prodotti che la terra assicura e del turismo, da rendere fruibile attraverso strutture alberghiere adeguate, strade, ferrovie e la valorizzazione di musei ed aree archeologiche da visitare attraverso percorsi virtuosi studiati da tour operator.
Lasciamo stare quel che divide per ritrovare in quel che ci unisce il futuro di questo meraviglioso Paese. E soprattutto evitiamo, attraverso il richiamo di un passato nella migliore delle ipotesi mediocre, quella che non è altro che una frustrazione del presente, di fare il gioco della concorrenza. Consapevoli che il disagio del turista, turlupinato per un servizio inferiore al valore di quanto pagato e per ogni altro incidente di percorso, anche sotto il profilo della sicurezza, viene enfatizzato dai nostri concorrenti, dalle televisioni e dai giornali di tutto il mondo. Una cosa che nella società dell’immagine continuiamo troppo spesso a trascurare.
14 ottobre 2017
È l’uomo della profezia di San Pio da Pietrelcina?
I cinquant’anni di Aimone di Savoia duca d’Aosta,
un manager pretendente al trono d’Italia
di Salvatore Sfrecola
La maggior parte dei monarchici italiani, soprattutto dei ragazzi del Fronte Monarchico Giovanile (F.M.G.), che fa capo all’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), lo vorrebbe Re d’Italia. E in effetti nei confronti di Aimone di Savoia, figlio di Amedeo e di Claudia d’Orleans, che oggi compie 50 anni, essendo nato a Firenze il 13 ottobre 1967, milita una profezia non di poco conto. L’avrebbe fatta San Pio da Pietrelcina molti anni fa a Maria Josè, allora Principessa di Piemonte. Era andata a trovarlo a San Giovanni Rotondo nell’atmosfera ricca di tensioni alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il frate santo aveva preannunciato la caduta della Monarchia. Ma aveva anche previsto che un Re all’Italia l’avrebbe dato, negli anni a venire, un principe di un altro ramo di Casa Savoia.
E così è stato facile per i monarchici dell’U.M.I., l’Associazione presieduta da un giovane e brillante avvocato napoletano, Alessandro Sacchi, identificare in Aimone di Savoia Aosta l’uomo della profezia dell’umile cappuccino che infiamma i cuori e le menti di milioni di cattolici in Italia e nel mondo.
La famiglia Aosta, i Duchi di Aosta come comunemente vengono identificati, è, infatti, un ramo della Casa di Savoia che discende da Amedeo di Savoia terzogenito di Vittorio Emanuele II, il primo Re d’Italia. Amedeo sarà Re di Spagna nel 1871, abdicherà nel 1873 e riprenderà il titolo ducale. Gli Aosta si sono distinti nel tempo attraverso il multiforme impegno di straordinarie personalità, da Emanuele Filiberto Comandante della III^ Armata, qualificata “invitta” nel Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918, a Luigi Amedeo, Duca degli Abruzzi, due volte circumnavigatore del globo, scalatore ardito (Monte Sant’Elia, Ruwenzori, K2), partecipante alla spedizione verso il Polo Nord, colonizzatore della Somalia, ad Amedeo eroico difensore dell’Amba Alagi, ad Aimone, Re di Croazia con il nome di Tomislavo II, padre di Amedeo e pertanto nonno del giovane Aimone.
Come molti principi moderni non impegnati in un ruolo istituzionale Aimone lavora in una grande realtà industriale, la Pirelli, in qualità di Amministratore Delegato della filiale russa ed ha sede a Mosca. Laureato in economia alla Bocconi Aimone è stato, come il padre Amedeo, allievo del Collegio Navale Francesco Morosini di Venezia. Ha frequentato i corsi dell’accademia navale e, da Ufficiale di Stato maggiore, è stato imbarcato su nave Maestrale, una fregata della nostra Marina Militare impegnata nelle operazioni della Guerra del Golfo.
Dopo la laurea ed un periodo di specializzazione presso la J.P. Morgan & Co., ha lavorato nel settore marketing del Gruppo Rinascente e del Gruppo Merloni. Nel 1994 si è trasferito in Russia, a Mosca per lavorare con la Tripcovich Trading Company. Nel 2000 è stato assunto dal gruppo Pirelli nell’ambito del quale ha ricoperto la carica di direttore generale responsabile per il mercato della Russia e di tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica. Nel 2006 è stato vicepresidente dell’Associazione delle imprese italiane in Russia, la Gim-Unimpresa, socio aggregato di Confindustria. Dal 1º luglio 2012 Amministratore Delegato della Pirelli Tyre Nordic, responsabile per tutti i mercati dei paesi scandinavi, e, dal 1º settembre 2013, è responsabile per Pirelli Tyre della regione Russia e paesi nordici.
Imparentato con le famiglie reali di Grecia, Danimarca, Bulgaria, Romania, Regno Unito, Spagna, Francia e Russia, Aimone, che parla correttamente inglese, francese, spagnolo e russo, è sposato dal 2008 con Olga di Grecia, secondogenita del principe Michele. Ha tre figli, Umberto (Parigi 7 marzo 2009), principe di Piemonte, Amedeo (Parigi, 24 maggio 2011), duca degli Abruzzi, Isabella (Parigi, 14 dicembre 2012).
I monarchici italiani sperano nella profezia di San Pio e guardano con fiducia il bassorilievo dello scultore Cesarino Vincenti nella cripta dove fino a qualche tempo fa riposava il corpo del cappuccino Santo. L’opera raffigura la Sacra Famiglia attorniata da un gruppo di persone: vi compaiono la Madonna con Gesù Bambino in grembo e San Giuseppe. Dinanzi alla Sacra Famiglia è Padre Pio che regge tra le braccia un agnello. Compare poi un gruppo di giovinetti e una ragazzina inginocchiati. Tutti sono rappresentati negli abiti tradizionali, eccetto lo stesso Padre Pio, con il saio francescano, ed uno dei ragazzi ritratto in abito moderno da cerimonia. Ha le sembianze di Aimone di Savoia ed indossa il collare dell’Annunziata che Re Umberto II gli aveva conferito quando il giovane aveva 15 anni. Titolo dell’opera: “Bellezza e regalità ti stanno d’intorno”.
Per Alessandro Sacchi e per quanti aderiscono all’Unione Monarchica Italiana non c’è dubbio che l’uomo del bassorilievo sia Aimone di Savoia Aosta, il principe manager che vorrebbero incoronare Re d’Italia per rinverdire l’albero dell’antica dinastia, dopo i Savoia Carignano, da Carlo Alberto ad Umberto II, il Re sfortunato che ha salvato l’Italia dopo un referendum dall’esito più che dubbio, accettato perché “un Re è di tutti e non regna con il 51 per cento”, come mi ricorda Sacchi con un sorriso tra mestizia e speranza, che incontro all’ingresso del Palazzo di Giustizia di piazza Cavour, a Roma, la toga sul braccio per difendere in Cassazione.
13 ottobre 2017
Presentato domani sera a Palazzo Ferrajoli
“Rinascimento”, un libro di Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti, un manifesto culturale che è anche un programma politico
di Salvatore Sfrecola
È, per scelta dei suoi autori, un manifesto culturale e politico ad un tempo dal titolo che non lascia dubbi. “Rinascimento”, di Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti, presentato a Roma, a Palazzo Ferrajoli, per iniziativa dell’Unione Nazionale Arte Musica e Spettacolo (UNAMS) e dell’Associazione Giuristi di Amministrazione, si apre con la constatazione che “viviamo nella perfetta inconsapevolezza di cosa sia la nostra civiltà artistica”, come si legge nella introduzione. E se i partiti che sono stati espressione di cultura politica, quando si sono affidati al pensiero di Gobetti, Gramsci o De Gasperi, oggi hanno perduto quei “valori di identificazione, di riconoscimento? rimane un solo valore: la cultura”. Da qui Sgarbi e Tremonti intendono partire, da una idea che nasce dalla constatazione che al mondo esistono potenze militari e potenze economiche ed una grande “potenza culturale”, l’Italia. Il cui valore è superiore a quella di qualunque industria, anche perché ha potenzialità in gran parte inesplorate dalla classe politica ed imprenditoriale. Potenzialità che possono dar vita ad un nuovo Rinascimento se pubblico e privato, in sinergia, riusciranno a trasformare una realtà culturale indiscutibile in un volano di sviluppo per l’economia del nostro Paese che unisce arte e cultura in un contesto paesaggistico straordinario.
“Il nostro è un patrimonio di valori di civiltà – si legge nel piego della copertina – che si può tradurre in valore patrimoniale, e gli esempi non mancano. Solo valorizzandolo l’Italia può tornare a dispiegare, con Dante, “le ali al folle volo””. Con questa frase prende avvio la seconda parte del libro, quella con la quale Giulio Tremonti apre a considerazioni più politiche che prendono le mosse dal nostro Rinascimento che fu “un fiotto di vita: sole e luce, libertà a follia, fortuna e virtù, rottura ed armonia, estetica e tecnica, recupero del sapere antico e scoperte nuove, mondo classico e mondo naturale, vita attiva e non solo contemplativa.. inquietudine spirituale e mito del rinnovo”. Insomma, sulla base di questo passato che vive nel presente, “quello che serve oggi è un sogno: qualcosa di più, di diverso e più grande”. Ma occorre una visione che vada oltre l’atmosfera cupa che caratterizza il nostro Paese “per l’effetto dei troppi conflitti, poca speranza e molta stupidità”.
Gli esempi sono nella percezione di tutti. A cominciare dalla ipertrofia legislativa che ad onta del monito di Tacito (“plurime leges corruptissima respublica”) continua ad imperversare sui cittadini e le imprese. Tremonti ha diligentemente contato le pagine della Gazzetta Ufficiale nel 2016; sono 40.508, pari a 12 chilometri lineari. Un sistema normativo che ha invertito un principio proprio degli ordinamenti democratici nei quali la regola è la libertà, l’eccezione il divieto. Dunque meno libertà, più lacci e lacciuoli in un labirinto di regole spesso incomprensibili che comunque denotano sfiducia dello Stato nei confronti dei cittadini i quali lo ripagano con uguale moneta, allontanandosi dalle istituzioni e dal voto.
In questi termini il manifesto culturale diviene politico nel senso migliore del termine che fissa le sue tappe nella prospettiva di un “nuovo Risorgimento” che metta in campo le forze migliori del Paese sulla base di un programma, delineato nel tredicesimo capitolo del libro che significativamente fa riferimento ad uno successivo “da scrivere insieme”. Sulla base di tappe di un percorso virtuoso, a cominciare dalla rimozione dalla nostra Costituzione dei “vincoli europei”. Come in Germania che ammette le regole europee solo se compatibili con i principi costituzionali interni di sovranità e democrazia. Ne deve conseguire l’affermazione della “eccezione italiana”. Tremonti spiega che questa eccezione è stata ritenuta compatibile con i “Principi fondativi” e con i “Trattati europei” nel caso del Regno Unito, prima che optasse per la Brexit.
Non sarà facile, ammette, ma se l’Europa ha fin qui dimostrato di essere debole con i forti e forte con i deboli, noi dobbiamo essere “forti, ma se del caso anche astuti”. Lavorando sui dettagli delle decisioni e facendo valere il nostro “voto-veto”.
L’obiettivo è la rimozione unilaterale automatica del Bail-in, della Bolkenstein, ancora lacci e lacciuoli, dalle motivazioni spesso incomprensibili, anzi “demenziali e negative”, come scrive Tremonti che fa derivare dalla loro cancellazione “un effetto non marginale a favore del Sud” per il quale, come era previsto nel Trattato di Roma, “si può e si deve reintrodurre un regime finanziario e fiscale speciale. Un regime che oggi sarebbe ideale per l’attrazione internazionale dei capitali. Come avviene per l’Irlanda”.
Tremonti non guarda solamente all’Europa perché torni ad essere un’opportunità e non un motivo di disagio che scatena pulsioni ostili. E chiede alla politica una “tregua legislativa” per interrompere quell’orgia di norme che impacciano cittadini e imprese e la stessa azione delle autorità pubbliche nella realizzazione degli obiettivi contenuti nel programma definito nell’indirizzo politico che scaturisce dalle consultazioni elettorali. “Nel deliro dell’attuale cialtroneria politica si è infatti perso di vista l’elementare principio per cui la ricchezza, per essere detassata o distribuita, deve essere prima prodotta e non invece, come ora, soffocata sul nascere! È inutile deliberare e finanziare investimenti – spiega Tremonti – se poi è la mano pubblica che, ferrea nelle sue regole, li blocca per anni e anni”. Quando le regole che, ovviamente, ci devono essere, sono sbagliate o inapplicabili.
In questo contesto il programma “politico” si occupa anche dei flussi migratori alla luce di attente riflessioni che giungono ad una conclusione logica e ampiamente condivisa: “non solo “aiutiamoli a casa loro”, ma anche “lasciamoli a casa loro””. Per cui di fronte alla richiesta di ius soli questo “va attribuito in funzione di presupposti specifici costituiti caso per caso dall’accettazione sostanziale e convinta degli elementi che costituiscono la nostra identità nazionale”.
Per finire, debito e patrimonio, temi sui quali, nel dettaglio, Sgarbi e Tremonti hanno idee puntuali sulla tassazione, sulla spesa pubblica e sulla circolazione del denaro contante. Ed altre proposte sulle quali riflettere “per un programma serio e non fieristico, come tanti altri purtroppo stanno facendo nella logica del tutto tutto, niente niente”.
10 ottobre 2017
Primero la legalidad
Il Re Felipe richiama le regole dello Stato di diritto e l’unità del Regno
di Salvatore Sfrecola
Infine il Re Felipe VI, che nei giorni scorsi aveva mantenuto sulla vicenda del referendum catalano un riserbo che aveva suscitato commenti diversi, molti dei quali critici, ha parlato alla Nazione. Perché, si chiedevano politici e commentatori in Spagna e all’estero, come gli intervenuti allo “speciale” del Tg7 diretto da Enrico Mentana la sera del referendum catalano, il Re di Spagna non interviene in un momento difficile per le istituzioni, di fronte ad una iniziativa apertamente secessionista in Catalogna, eversiva del sistema statale? Avrebbe dovuto richiamare le regole dello stato di diritto, come ha fatto il Presidente del Consiglio Mariano Rajoy, e condannare il referendum come eversivo dell’ordine costituzionale? Avrebbe potuto, ma sarebbe stato un intervento tardivo e forse fonte di ulteriori polemiche di fronte all’evidente inadeguatezza della classe politica spagnola, a Madrid come a Barcellona, che non ha saputo percepire l’esigenza di attuare una più ampia autonomia, soprattutto finanziaria, della Catalogna nel contesto dell’ordinamento dello stato.
Che la regione più ricca del Paese, da sempre animata da spirito indipendentista, avesse organizzato un referendum illegale, non previsto dalla Costituzione in un contesto apertamente eversivo del sistema statale si sapeva da tempo e da tempo si erano levate voci a Madrid di condanna, sul piano politico e giuridico, con intervento anche della Corte costituzionale.
Va detto subito che domenica sono venuti al pettine nodi antichi che saggezza politica, a Madrid come a Barcellona, avrebbe consigliato di sciogliere attraverso una trattativa senza preconcetti sui limiti dell’autonomia riconoscibile alla Catalogna all’interno dello Stato unitario, come già è avvenuto per i paesi baschi, senza che si arrivasse alla prova di forza dell’indizione di un referendum incostituzionale che avrebbe inevitabilmente costretto governo centrale e magistratura ad intervenire per far cessare una situazione di illegalità che, se tollerata, avrebbe leso gravemente l’immagine del Governo e del Sovrano, custode della unità della Spagna.
Di fronte alla pervicace volontà dei partiti che reggono la maggioranza del governo catalano di andare comunque avanti, pronti a proclamare l’indipendenza dal Regno, il governo avrebbe potuto seguire due strade: far finta di niente dicendo che quel referendum illegale non avrebbe portato conseguenze sul piano giuridico ed attendere gli sviluppi della situazione, oppure, com’è avvenuto, dichiarare che non poteva ammettere un tentativo eversivo dello stato di diritto, espressione ripetuta più volte dal Presidente del Consiglio Mariano Rajoy nel suo discorso di domenica sera al termine delle operazioni elettorali e dal Re Felipe ieri sera. Si è scelta questa seconda strada non priva di rischi possibili per gli effetti sull’immagine del governo che usa la forza contro i manifestanti e quanti volevano esercitare un presunto diritto di voto, nonostante fosse prevedibile che nel confronto tra attivisti del partito secessionista e la forza pubblica ci sarebbero stati feriti e contusi che è evidente che sono stati voluti soprattutto dai partiti catalani con evidenze che hanno fatto il giro delle televisioni in tutto il mondo. Come nel caso dell’anziana con il volto sanguinante. Con un conto dei feriti e dei contusi, oltre 800 per i separatisti, 80 per la polizia, che annovera tra questi anche gli agenti intervenuti sul posto, un’immagine che alcuni enfatizzeranno per molto tempo, anche per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi veri, che sono quelli di una autonomia che è giusto la Catalogna rivendichi ed ottenga nei termini di altre regioni spagnole, dal contesto giuridico che, purtroppo, interessa soltanto chi ha alto il senso dello stato. Le regole della democrazia.
Resta la ferita del tentativo eversivo, perché di questo si tratta, portato avanti da quella che è evidentemente una minoranza chiassosa ed estremista che annovera frange della sinistra ancora veterocomunista, che ha messo in scena un referendum farsa dove si poteva votare ovunque. Il corrispondente de La7 da Barcellona stamattina, intervenendo ad Omnibus ha detto che si è votato anche più volte, con schede autocompilate, che il voto veniva espresso in pubblico, facendo quindi venir meno quella segretezza che è garanzia della correttezza di una consultazione. In queste condizioni è evidente che chi avesse voluto votare “no” avrebbe avuto molte difficoltà nel dare un voto palese. Un referendum farsa, dunque, un brutto precedente, trattandosi di una importante regione spagnola, un senso di smarrimento di quel principio di legalità che è alla base di qualunque ordinamento civile e democratico.
“Primero la legalidad”, mi dicevano un tempo i miei amici spagnoli quando richiamavano le regole della organizzazione dei poteri e della verifica dei comportamenti degli amministratori pubblici. Lo ha ricordato ripetutamente domenica il Presidente del Consiglio Rajoy, lo ha richiamato ieri sera il Re Felipe. Fuori della legalità non c’è possibilità di pacifica convivenza da nessuna parte. Lo sappiamo bene noi italiani che abbiamo un Parlamento che, eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, avrebbe dovuto limitare la sua attività al minimo indispensabile per tornare quanto prima al voto. Non è stato così, auspice il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che quella sentenza della Corte costituzionale avrebbe dovuto presidiare è stato possibile a quelle Camere approvare addirittura una legge di revisione della Costituzione sonoramente bocciata dai cittadini, una riforma della legge elettorale bocciata dalla Consulta e tante altre leggi in gran parte finite sotto la lente d’ingrandimento delle magistrature e molte rinviate al giudice delle leggi per vizi di costituzionalità. Infine si pensa addirittura di modificare la legge sulla cittadinanza gabellando la proposta per una norma di civiltà senza riflettere che quella legge, ovunque nel mondo, è la regola che individua gli appartenenti ad una comuni tà.
Invidiamo un po’ questo Capo dello Stato spagnolo che richiama alla legalità, al rispetto della Costituzione e si fa garante dell’unità del Paese nella varietà delle sue storie e delle sue tradizioni. Ricordando anche che l'”indipendenza” di una regione non è affare solo di coloro che la abitano ma dell’intero Paese. E si è fatto garante dell’unità auspicando il superamento della crisi nel rispetto della legge e nella prospettiva di un nuovo patto costituzionale che potrà essere l’occasione per la ripresa di un dialogo che certamente troverà ampi consensi in tutta la Spagna. Lo ha fatto perché il ruolo di un Re è quello di garantire l’unità dello stato nel rispetto della Costituzione ma anche della sua storia che, come accade in molte realtà statali, è fatta di storie e tradizioni diverse che proprio una monarchia costituzionale può valorizzare perché siano una ricchezza comune anziché la ragione di divisioni. Il Belgio si mantiene unito, nonostante gli antichi dissidi fra fiamminghi e valloni, proprio per la prudente azione del Re.
L’Italia ha una storia simile, anzi molto più articolata, di esperienze che lungo i secoli hanno fatto grande questo nostro Paese attraverso la cultura, l’arte, la scienza, Un Paese nel quale le singole realtà regionali sono una ricchezza per tutti non solamente in termini ideali ma anche economici, come insegna il turismo culturale.
Quel che sembra sfuggire ai catalani, infatti, è che la loro ricchezza, fatta di industrie, commerci e turismo non è estranea all’appartenenza alla Nazione spagnola. La Catalogna, come altre regioni del Paese, ha subito, è vero, gli effetti negativi dell’austerità imposta dalle condizioni generali dell’economia spagnola e dalle indicazioni provenienti dall’Unione europea ma essere Spagna comunque ha giovato anche a Barcellona, a Madrid come a Bruxelles. Un po’ di saggezza avrebbe dovuto consigliare l’individuazione di un regime di autonomia che salvasse contemporaneamente l’unità del Paese e la tutela degli interessi locali, come è stato fatto per i baschi. Invece è prevalso l’indirizzo degli intransigenti che hanno soffiato sul fuoco alimentando fiamme che sarebbe stato necessario spegnere prima che giungessero a bruciare molte delle carte a disposizione per superare la crisi nella legalità.
Nell’occasione molti hanno ricordato le parole, poche ma significative, della Regina Elisabetta alla vigilia del referendum sull’indipendenza della Scozia nel 2014. Una consultazione, è bene ricordare, legittimamente indetta. E fu facile alla Sovrana invitare all’unità con poche parole, in una conversazione privata alla presenza della stampa, all’uscita della Cappella del castello di Balmoral, quando si augurò che la gente “pensasse con molta attenzione al suo futuro”. Perché gli interessi di una parte non sono mai autonomi rispetto a quelli dell’intero Paese. Dove la monarchia unisce e, si è letto, contribuisce al PIL per un punto, perché dà il senso della continuità dello stato, della sua storia e, così, contribuisce anche al turismo interno e internazionale.
Infine, è stato facile ieri ed oggi, nei commenti sulla vicenda spagnola, richiamare i referendum consultivi di Lombardia e Veneto, pienamente legittimi ai sensi dell’art. 116, comma 2, Cost., con i quali si chiede più autonomia nella gestione delle risorse. Purché nessuno trascuri che l’unità ha un valore, a volte impercepibile o non percepito. In un Paese il quale, come la Spagna, ma certamente più della Spagna, ha una storia ricca di individualità locali, di provincia in provincia, di borgo in borgo, di città in città. A Nord come a Sud le individualità e le storie sono una ricchezza per l’intera Nazione, come ha ricordato Matteo Salvini, impegnato ad esprimere il senso dell’unità al di là di alcune frettolose semplificazioni ancora vive in alcuni ambienti della base leghista.
4 ottobre 2017
Nei commenti alle vicende di Catalogna
Pericolosa confusione di idee tra unità e secessione, guardando a Barcellona
di Salvatore Sfrecola
Non è un bello spettacolo quello che le televisioni trasmettono da Barcellona, dove è in atto una vicenda che si doveva ad ogni costo evitare. L’autonomia della Catalogna avrebbe dovuto essere oggetto di una disciplina analoga a quella di cui godono i paesi baschi ad evitare che si giungesse ad una iniziativa separatista, certamente dolorosa per una buona parte dei catalani e degli spagnoli.
Infatti il referendum, non previsto dalla Costituzione del Regno e, pertanto, illegittimo, ha costretto governo e magistratura ad assumere un atteggiamento che, nel rispetto della legge, ha comportato l’uso della forza che è destinato a lasciare una ferita non facile da rimarginare.
Fino al momento in cui scrivo le televisioni ci dicono di qualche ferito non grave. Ma è certo che qualcuno tra quanti hanno tirato la corda, soprattutto a Barcellona, desidererebbe che ci scappasse il morto per alzare il tono della polemica e dello scontro con il governo centrale.
Anche le prospettive dell’indipendenza, i vantaggi per la ricca Catalogna, sbandierati dai separatisti, sono un elemento importante del dibattito interno alla Spagna e danno luogo a diverse letture non tutte favorevoli ad una crescita dell’economia catalana, fuori dall’Europa e, quindi, fuori dall’euro. C’è chi ha fatto l’esempio della ricca California che mai penserebbe di staccarsi dagli Stati Uniti d’America. L’unità, infatti, è un valore ed ha un valore, anche economico.
Sull’onda delle polemiche sulle vicende di oggi a Barcellona i nostri politici si sono esibiti in commenti vari, taluni dei quali mostrano una pericolosa deriva secessionista forse fin qui strumentalmente occultata. O, meglio, un sottofondo psicologico che va al di là delle istanze federaliste di taluni ambienti politici del Nord, soprattutto del Nord Est, evidenti nei commenti nei quali si parla di “autodeterminazione dei popoli”, di “diritto al voto”, di “violenza del governo centrale”. Espressioni che potrebbero sembrare in aperto contrasto con la dimensione “nazionale” per la quale si batte Matteo Salvini, impegnato da Nord a Sud a parlare di nazione. È un tema delicato che desta preoccupazioni se si pensa che in Veneto, ad esempio, si rivendica l’insegnamento del dialetto, si contestano i plebisciti con i quali nel 1867 i veneti accettarono l’annessione al Regno d’Italia. O al Sud, dove si fanno sentire nostalgie borboniche le quali, contro ogni evidenza storica, documentata dalle fonti, negano perfino l’apporto dei reparti dell’ex esercito del Regno delle Due Sicilie, inquadrati nell’esercito italiano, nella lotta al brigantaggio. Un fenomeno che quei militari conoscevano benissimo perché presente in Italia meridionale ben prima che Giuseppe Garibaldi sbarcasse a Marsala e, conquistata rapidamente la Sicilia da sempre antiborbonica, risalisse lungo lo stivale per giungere a Napoli e consegnare a Teano le terre dell’ex Regno a Vittorio Emanuele II.
Ed io mi chiedo quale senso abbiano oggi, nel 2017, la contestazione dei plebisciti o le nostalgie del Sud che era entrato nel nuovo Regno a testa alta portando nei governi ministri nati al di sotto del Volturno. Nessun senso se non quello di indebolire il già precario spirito nazionale che dovrebbe essere posto a fondamento di quel “Rinascimento” del quale parlano Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti nel loro libro, che così s’intitola, con il quale intendono risvegliare negli italiani il senso dell’appartenenza, l’orgoglio di una storia straordinaria fatta di cultura, scienza, arte. Dimenticando quella sudditanza con la quale nel corso dei secoli modesti governanti hanno chiamato a supporto delle loro avidità di potere eserciti stranieri i quali hanno occupato regioni d’Italia considerandole colonie da sfruttare, imponendo dinastie straniere, estranee alla nostra storia ed alla nostra cultura. Dinastie che solamente nel corso del 1800, per iniziativa di un vasto movimento di patrioti, soprattutto giovani, è stato possibile scrollarci di dosso sotto la guida di uomini illuminati. Primo tra tutti il Conte di Cavour, un uomo geniale, uno statista europeo, ammirato anche da chi gli era ostile, come Clemente Lotario di Metternich, il potentissimo Cancelliere austriaco: “In Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour”.
Quel tempo, il Risorgimento, non a caso Tremonti parla di “nuovo Risorgimento”, fu veramente un miracolo”, come ha scritto Domenico Fisichella nel titolo di un suo bel libro, se Giuseppe Mazzini, il campione dei repubblicani, scrive a Vittorio Emanuele II dimostrando di saper accantonare i suoi ideali perché l’Italia fosse unita. “Io repubblicano – scrive Mazzini al Re nel 1859 – e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno con i miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.
Questo spirito nazionale e unitario, che Cavour coltivava dalla giovinezza in scritti da molti ignorati o dimenticati (ne parlava apertamente nel 1846-1847), il momento più alto della politica nazionale ci ha permesso di dimenticare che per secoli siamo stati “calpesti, derisi/ perché non siam popolo/ perché siam divisi”, vogliamo forse dimenticarlo oggi che nell’Europa servono ideali nazionali forti, il concorso di energie consapevoli delle singole identità?
Oggi in Italia prevalgono i partiti che al Risorgimento non hanno concorso, il Partito Democratico, come in precedenza il Partito Comunista e la stessa Democrazia Cristiana, che ha sempre dimostrato scarso sentimento nazionale, come oggi i suoi epigoni che vorrebbero uno ius soli incompatibile con la tutela della identità, che essi non sentono, non capiscono.
Andiamo alle elezioni in un clima di confusione pericolosa che potrebbe determinare, con una legge elettorale proporzionale, l’assoluta ingovernabilità del Paese con tutti pericoli che ne possono derivare. Rinunciare allo spirito identitario ed al sentimento nazionale, per chi ambisce al potere potrebbe essere un errore fatale.
1 ottobre 2017