Il 28 agosto a Pamparato (Cuneo) sarà ricordata la tragica fine di Mafalda di Savoia, morta nel lager nazista di Buchenwald
Il 28 agosto 1944 la Principessa Mafalda di Savoia morì nel campo di concentramento di Buchenwald, a seguito delle ferite riportate nel corso di un bombardamento di aerei anglo-americani che avevano come obiettivo un complesso industriale chimico poco distante dal lager. La Principessa era rimasta sotto le macerie. Una volta liberata fu immediatamente evidente che la ferita al braccio sinistro era grave tanto che in assenza di cure, manifestatasi la cancrena le fu amputato da un chirurgo del campo di concentramento che non aveva esperienza di questo tipo di interventi. Fu un intervento tardivo e lungo che aggravò le condizioni della paziente, debilitata anche per la copiosa perdita di sangue. Morì senza aver ripreso conoscenza.
Nata a Roma il 19 novembre 1902, secondogenita di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, Mafalda (“Muti” in famiglia) aveva sposato il 23 settembre 1925 il principe Filippo, landgravio d’Assia, dal quale aveva avuto quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.
A fine agosto del 1943 la principessa aveva raggiunto a Sofia la sorella Giovanna per i funerali del consorte, Boris III, zar dei Bulgari, che sembra certo sia stato avvelenato durante un incontro con Hitler.
Nei giorni della sua permanenza a Sofia gli anglo-americani comunicarono la resa dell’Italia con quattro giorni di anticipo rispetto alla data prevista (8 anziché 12 settembre). Il 9 la Famiglia reale ed il Governo si trasferirono in Puglia, a Brindisi, in un contesto di difficoltà delle comunicazioni dovuto al dilagare delle truppe tedesche che erano scese in Italia numerose già all’indomani del 25 luglio, quando, dopo la caduta del Fascismo, Hitler ritenne imminente la decisione italiana di una pace separata con gli angloamericani. La Principessa ebbe difficoltà a rientrare in Italia. Il suo aereo che doveva condurla a Bari atterrò a Pescara. Comunque sarebbe corsa a Roma per mettere al sicuro i figli minori (Maurizio era in Germania, come il padre Filippo, sotto stretta sorveglianza di Hitler, che poi lo “confinò”) ospitati in Vaticano con l’ausilio di Monsignor Montini, Sostituto della Segreteria di Stato incaricato da Papa Pio XII.
Messi in salvo i figli, la Principessa cadde nella trappola che le aveva preparato il Colonnello delle SS Kappler che l’aveva convinta a recarsi presso l’Ambasciata di Germania con il pretesto che solo da lì poteva parlare per telefono con il marito che Mafalda non sapeva fosse stato “fermato” (il Principe Filippo era un Generale dell’Esercito tedesco). Il 23 settembre la Principessa fu arrestata e internata a Buchenwald su ordine firmato personalmente da Himmler. In un primo tempo la prigioniera fu registrata all’anagrafe del Campo come Prinzessin Mafalda von Hessen, geborene Prinzessin von Savoye, poi ordini perentori stabilirono che dovesse assumere il nome di Frau von Weber.
Come detto, morì in circostanze tragiche. La sua salma, inumata nella fossa 262 del cimitero di Weimar era indicata come quelle di Eine unbekannte Frau, una donna sconosciuta. L’avevano riconosciuta marinai italiani prigionieri di guerra con l’aiuto del monaco cecoslovacco Herman Josepf Tyl che la sottrasse al forno crematorio. Oggi le spoglie di Mafalda di Savoia riposano nella tomba degli Assia a Cronberg, nel Taunus.
La vicenda della Principessa Mafalda è al centro di un incontro al Municipio di Pamparato, in provincia di Cuneo alle 17.30 di martedì 28 agosto. Intervengono Francesco Cordero di Pamparato, la ricercatrice Maura Aimar, Aldo Alessandro Mola, direttore della Associazione di studi storici Giovanni Giolitti, e i curatori delle biografie di Mafalda, Renato Barneschi (ed. Bompiani) e Mariù Safier (ed. Bastogi), e Sergio Soave, Presidente dell’Istituto storico della Resistenza. Il dibattito sarà moderato da Claudio Bo, Direttore del settimanale “Piazza Grande”.
A proposito dei migranti ospitati su nave Diciotti
Se 155 sembrano pochi
di Salvatore Sfrecola
Adesso che la vicenda dei naufraghi imbarcati su una nave Diciotti, il pattugliatore della Guardia Costiera, che li aveva salvati in mare, ha trovato una soluzione generalmente accettata possiamo ripercorrere sine ira ac studio, come dicevano i nostri antenati romani che erano dei saggi, gli avvenimenti di questi ultimi giorni, compresa l’iscrizione nel registro degli indagati del Ministro dell’interno Matteo Salvini.
E perché i lettori comprendano in quale contesto si è sviluppata la vicenda riandiamo al salvataggio dei migranti in veste di naufraghi, a quanto sembra, in acque maltesi nel più assoluto disinteresse del governo dell’isola che già in altra occasione, con diverse motivazioni, si è sottratto all’obbligo di soccorrere chi in mare rischiava la vita, escludendo categoricamente di poterli accogliere e assistere sul proprio territorio. Solo in un caso di maltesi hanno aperto le braccia.
Su nave Diciotti, dunque, i naufraghi sono stati accolti, rifocillati e curati delle malattie che portavano con sé, alcuni la scabbia, la polmonite e qualche altro disturbo dovuto agli strapazzi del viaggio dalle coste libiche. Giunti in Italia, a Catania, è stato loro impedito di scendere a terra nonostante fossero già in territorio italiano, come deve intendersi una nave militare dello Stato. E qui è cominciata la polemica alimentata dalle opposizioni alla ricerca di visibilità, dell’ubi consistam, dopo i disastrosi risultati elettorali che il Partito Democratico e Liberi e Uguali hanno conosciuto il 4 marzo, con accuse di violazione di disposizioni di legge, a cominciare dalla Costituzione, in quanto sarebbero stati addirittura oggetto di un sequestro di persona, arresto illegale, abuso d’ufficio. Questo a leggere i giornali ed a sentire le televisioni perché una indicazione esatta del provvedimento che è stato adottato dal Procuratore della Repubblica di Agrigento Patronaggio e quindi della sua motivazione ancora oggi non l’abbiamo.
Cominciamo dal divieto di sbarco che è parso un atto illegittimo come se i migranti avessero un diritto di scendere a terra cioè su una parte del territorio nazionale diversa rispetto a quella costituita dalla nave militare sulla quale erano imbarcati. In realtà i motivi della permanenza sulla nave, ritenuti da taluno illegittimi, possono aver avuto varie motivazioni, in primo luogo di igiene, considerate le condizioni dei migranti affetti da malattie contagiose, come la scabbia, sicché poteva essere consigliata la permanenza sulla nave per interventi sanitari d’urgenza prima di un ricovero in ospedale. È la classica “quarantena” (bandiera gialla) che ha sempre accompagnato le vicende dei migranti e comunque di quanti su una nave ancorata in un porto provenivano da territori infestati da malattie contagiose. Questo, senza che sembri un’offesa alle persone, accade anche nel trasporto di animali quando si sa che provengono da aree geografiche infestate da talune malattie, come la peste suina. D’altra parte che ci fossero preoccupazioni di ordine sanitario lo dimostra anche l’uso di mascherine, guanti e copri scarpe usati dai marinai e da coloro i quali, a cominciare dai politici accorsi per verificare le condizioni dei migranti, sono saliti a bordo della nave per constatare quali fossero le condizioni di salute di quelle persone.
C’è poi il profilo dell’ordine pubblico che può aver consigliato al Ministro dell’interno, che è autorità competente in materia, ad impedire per un certo tempo lo sbarco, in attesa della individuazione del luogo dove i migranti potevano essere allocati.
Sembra, dunque, un po’ frettolosa la conclusione cui sarebbe pervenuto il Procuratore della Repubblica di Agrigento la cui competenza, a quel che si dice, deriverebbe dal fatto che i migranti sarebbero stati raccolti vicino a Pantelleria e non nelle acque di Malta. Mi chiedo, tuttavia, se il reato ipotizzato è quello del sequestro di persona o di abuso per il mancato trasferimento a terra, è evidente che l’illecito sarebbe stato consumato a Catania.
L’impressione che si ha è, come detto, quella di una conclusione frettolosa, dovuta probabilmente all’incalzare delle polemiche, al susseguirsi delle denunce, alla volontà di far vedere che, di fronte ad una situazione dipinta come fortemente in contrasto con i diritti fondamentali delle persone, la magistratura non tardava ad intervenire rispetto ad una aspettativa di quella parte dell’opinione pubblica convinta di essere di fronte ad un illecito grave e, come è stato sostenuto da parti politiche interessate a denigrare il governo, capace di offuscare l’immagine di civiltà dello Stato e del popolo italiano dinanzi alla comunità internazionale se non all’Europa, la quale ha dimostrato assoluto disinteresse per le esigenze di difesa della frontiera meridionale marittima che è in gran parte rappresentata dalle coste italiane.
Devo dire che l’impressione che traggo dall’intera vicenda è quella che la scelta del Ministro dell’interno, sicuramente necessaria, non sia stata rappresentata all’opinione pubblica e, da ultimo, anche all’Autorità Giudiziaria nei suoi tratti di legalità a tutela dell’interesse pubblico nelle sue varie declinazioni igieniche e di sicurezza. Questioni di carattere amministrativo con le quali spesso i magistrati ordinari hanno scarsa dimestichezza.
Non posso concludere queste brevi riflessioni senza prospettarne una ulteriore, quella che è sbagliato ritenere che il problema, riguardando poco più di 150 persone, fosse piccola cosa del contesto dell’immigrazione clandestina, costituita da centinaia di migliaia di persone presenti da anni in Italia, che preoccupa in grande maggioranza gli italiani. Infatti siamo di fronte ad un episodio che va inserito nel sistema del contrasto alla immigrazione indiscriminata il cui rilievo, dal punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza delle persone, va al di là molto al di là del numero dei migranti che di volta in volta si presentano alle nostre frontiere, in quanto trattasi di persone le quali non hanno una occupazione che li impegni e che in qualche modo integri la loro presenza nel tessuto economico del Paese, ma che sono dedite al vagabondaggio e all’accattonaggio, e, nelle ipotesi più preoccupanti, allo spaccio di droga, alla prostituzione, in forme varie dominate dalla criminalità. Non c’è chi non veda con preoccupazione come le città si stiano riempendo di giorno in giorno di questuanti, alcuni dei quali operano in condizioni di evidente costrizione, come le donne che inginocchiate in preghiera con la testa a terra attendono qualche spicciolo. Queste condizioni che si ripetono nelle strade di Roma, ad esempio, denotano una presenza criminale, un condizionamento, un racket per cui non ci vuole Sherlock Holmes per capire che c’è una vasta rete criminale che domina queste attività sfruttando queste povere persone. Sì che chi tollera queste situazioni è complice degli sfruttatori. E quindi fa bene il Ministro Salvini a combattere questa battaglia di identificazione di chi ha diritto di entrare in Italia perché fugge dalla guerra o da condizioni di pericolo personali e chi desidera, legittimamente, migliorare la propria condizione di vita ma non ha uguali diritti.
Tuttavia i dubbi su molte situazioni sono tanti, basti pensare che non è credibile che giovani uomini fuggano dalla guerra e quindi da situazioni di pericolo attuali lasciando a casa le donne e bambini dei quali dovrebbero in primo luogo preoccuparsi.
Gli italiani, lo verifica ogni indagine, condividono le iniziative del Ministro dell’interno. E sono contrariati dall’intervento della magistratura sbrigativamente etichettata come “di sinistra”. In realtà un Procuratore della Repubblica che riceve denunce deve fare le sue indagini. È bene, dunque, che le scelte del Governo, che sono in primo luogo di natura politica, pertanto di competenza delle valutazioni del Parlamento, siano anche giuridicamente inattaccabili con riferimento alle leggi ed alle regole di diritto, interno ed internazionale che riguardano questa materia, il rapporto con lo straniero che si presenta ai nostri confini senza documenti di riconoscimento o comunque senza che abbia titolo di lavoro o di studio o turistico per restare in Italia. Forse qualche ripasso delle regole del diritto lo dovrebbero fare i collaboratori del Ministro per non esporlo a critiche e rischi inutili sul piano politico e giudiziario.
(da www.italianioggi.com)
Le colpe di uno Stato incapace di controllare
La tragedia di Genova insegna che le responsabilità del concessionario non assolvono chi ha operato per far perdere efficienza e prestigio alla pubblica amministrazione: pesa anche ka cattiva politica che non dà direttive e non sa scegliere i collaboratori
di Salvatore Sfrecola
Ci voleva la tragedia di Genova, ultima in ordine di tempo tra i crolli di ponti e viadotti, le frane e le esondazioni che periodicamente costituiscono l’emergenza di questo Paese, che spende per tali eventi più, molto più di quanto avrebbe dovuto impegnare per la prevenzione ed i controlli, perché qualcuno si soffermi sulla realtà dell’amministrazione pubblica ormai inadeguata, da rifondare. Non che manchino eccellenze e strutture adeguate in ogni settore, ma è evidente che l’Amministrazione nel suo complesso è molto lontana da quella che l’Italia aveva conosciuto in passato. Basta riandare un po’ alla storia per rilevare come siano venuti meno professionalità e presidi che un tempo erano il fiore all’occhiello dello Stato e degli enti, territoriali e istituzionali.
Per non sembrare un laudator temporis acti riprendo quanto ha scritto pochi giorni fa, il 18 agosto, su Facebook il Prof. Guido Melis, noto storico delle istituzioni il quale ha ricordato che “c’era una volta il Genio civile. Dopo l’unità, nell’Ottocento, fece letteralmente l’Italia, costruendo strade, ponti, edifici pubblici. Li progettava, li realizzava, li manuteneva. Aveva il corpo di ingegneri civili più prestigioso d’Italia. Poi lo Stato si espanse. Le opere si fecero più numerose e costose. Allora si fece ricorso alle imprese private. Si stipularono contratti d’appalto. Il Genio civile, amministrazione dello Stato, adesso per lo più vigilava. Il verbo vigilare è un verbo ambiguo. Allora significava conoscere i progetti delle imprese, seguirne l’esecuzione, controllarne nel tempo la manutenzione. L’occhio dello Stato funzionava. Corpi scelti di ispettori, dotati di elevate capacità tecniche, vedevano e provvedevano. Era così con Giolitti e fu così col fascismo. Un ingegnere del Genio in provincia era un’autorità. E così il capo dell’ufficio tecnico erariale, l’intendente di finanza, il prefetto. Ogni autorità nel suo settore agiva con ampi poteri di vigilanza. Nel secondo dopoguerra questo sistema saltò”. La citazione è lunga ma essenziale e dice con l’autorevolezza del cattedratico cose che ho sempre detto e scritto io sulla base dell’esperienza maturata nella magistratura contabile, nel controllo e nella giurisdizione di responsabilità, un osservatorio prezioso delle amministrazioni statali, regionali e degli enti locali.
Aggiungo quanto ho appreso leggendo ed osservando nell’esercizio di collaborazioni con alcuni ministri, in specie ai lavori pubblici, ai trasporti e alla marina mercantile, funzioni oggi confluite in un unico ministero “delle infrastrutture”. Ho trovato ovunque funzionari di elevata professionalità e di alto senso dello Stato ma anche molte scartine, persone incapaci di aggiornarsi, di studiare e di assumersi delle responsabilità. Ho trovato spesso pratiche ferme da anni. Nei primi anni ’90, in chiusura di un convegno a Perugia, promosso dalla Regione dell’Umbria sul tema della gestione del patrimonio, l’allora Ministro delle finanze, Vincenzo Visco, facendo riferimento ad un mio intervento sul tema della responsabilità del pubblici funzionari per danno all’Erario, disse che molti suoi funzionari si sarebbero fatti tagliare le mani piuttosto che firmare e assumersi una responsabilità. Replicai che avevo visto sotto processo soltanto incapaci o disonesti. Ma quella del Ministro era comunque una parte della realtà, comunque una convinzione ampiamente condivisa tra i burocrati, certamente tra i meno preparati. L’altra parte va individuata nella cattiva politica, quella che non è capace di dare direttive alla struttura e di scegliere i collaboratori. La politica che ha riempito i ministeri, in forza dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di incaricati di funzioni dirigenziali provenienti dall’area politica del ministro, persone spesso senza arte né parte, arroganti quanto incapaci, soprattutto di dirigere e coordinare i propri collaboratori. La norma dice di incarichi da conferire “a persone di particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria , da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi?”. Letta così sembra una cosa importante. Ma il linguaggio ampolloso nasconde una realtà diversa, quella che ha consentito di riempire gli uffici di affiliati ai partiti, tratti da centri studi e da sezioni dove sono parcheggiati i portaborse. E, ancor più grave è stato l’incarico di funzioni dirigenziali a dipendenti pubblici che non sono riusciti a vincere un concorso da dirigente. L’effetto, mortificante per i funzionari di carriera, quelli che un tempo si chiamavano “direttivi”, oggi indicati con alcune sigle 3F, tanto per confondere le idee. Così mortificati (è stata affossata anche l’ipotesi di una Vice dirigenza, quella che nel privato si chiama dei quadri) i funzionari vincitori di concorso spesso incrociano le braccia. Trattati male quanto alla retribuzione, non valorizzati per la loro professionalità fanno il minimo sindacale. Nel 2001 a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato ed alla Funzione pubblica Franco Bassanini che quell’incarico aveva ricoperto anche nel precedente Governo di Massimo D’Alema. Naturalmente ne hanno approfittato tutti i governi, a cominciare da Berlusconi e Renzi, che hanno nominato a destra e a manca persone fidate che, quando modeste, hanno concorso ad un ulteriore degrado dell’Amministrazione, quello che sconta le inefficienze che lamentiamo ancora una volta a Genova.
In queste condizioni la Pubblica Amministrazione italiana ha perduto le capacità operative e progettuali che ha ricordato il Prof. Melis ed anche quelle di vigilanza e controllo che sarebbe stato necessario potenziare progressivamente a mano a mano che si procedeva nelle privatizzazioni, perché il passaggio di attività imprenditoriali a privati, come la gestione della rete autostradale, avrebbe dovuto essere accompagnata da uno sviluppo delle capacità di monitoraggio delle gestioni, sia dal punto di vista giuridico ed economico che da quello tecnico, ai fini della verifica degli adempimenti indicati negli atti concessori.
È evidente che, perse le capacità tecniche che in passato avevano distinto il Ministero dei lavori pubblici, la cultura del vigilare si è sviluppata secondo modelli di verifica formale successiva, sulle carte anziché sul posto, sur place, come fa la Corte dei conti europea, attuando una sorta di controllo fideistico avente ad oggetto le attestazioni del concessionario. Insomma facciamo a fidarci.
Una annotazione finale. Perduta la cultura scientifica che aveva caratterizzato il vecchio Genio Civile, anche gli ingegneri sono diventati dei burocrati dediti solamente al controllo delle carte, in una condizione, quindi, che non consente loro di interloquire da pari a pari con i concessionari i quali affidano le loro relazioni ad illustri cattedratici. “Lei pensa che io potrei contestare quanto scrive il mio professore, quello che mi ha insegnato all’università?”, mi sono sentito dire più volte ad ogni contestazione quando la vigilanza ed i controlli non apparivano sufficientemente approfonditi. Come a Genova, dove sarà presto chiaro che le evidenti responsabilità del concessionario non potranno assolvere lo Stato che, si scoprirà, avrebbe dovuto controllare e non accettare ciecamente le relazioni tecniche dell’appaltatore, anche quando sottoscritte dal maestro dell’ingegnere di turno.
Con un’amministrazione priva di corpi tecnici adeguati alle esigenze è facile per politici sensibili alle sirene dell’imprenditoria nazionale e locale aderire alle richieste dei concessionari desiderosi di avere mano libera nella prospettiva di maggiori guadagni. Di queste scelte si accusa oggi il Governo Berlusconi. Siamo nel 2008, ma è anche vero che ripetutamente il Senatore Lucio Malan, di Forza Italia, ha interrogato invano i Ministri delle infrastrutture responsabili della proroga delle concessioni, segnalando l’evidente contrasto di quelle decisioni con le regole europee della concorrenza.
(da La Verità del 23 agosto 2018)
Da Cavour a Toninelli
La polemica sulla TAV e il destino dell’Italia nel Mediterraneo, tra ferrovie e porti
di Salvatore Sfrecola
Sottotraccia fino a qualche giorno fa, la polemica sulla TAV, la linea di alta velocità Torino – Lione, è esplosa creando più di qualche problema per il governo nel quale convivono due posizioni nettamente distinte, quella della Lega, che ritiene la nuova ferrovia utile e comunque condivisa dalle popolazioni della Valle di Susa dove il Carroccio ha fatto il pieno nei collegi uninominali, e il Movimento 5 Stelle che la ritiene inutile e costosa. Il Ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli è andato giù pesante. “La mangiatoia è finita”, è stato il suo commento alle parole di Antonio Tajani, Presidente del Parlamento europeo e Vice Presidente di Forza Italia, che durante una visita al cantiere ha sottolineato l’utilità dell’opera che, tra l’altro, realizza una tratta di un “corridoio europeo” e pertanto cofinanziato dalla Commissione. Nettamente favorevole all’opera anche il Presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, che ha accompagnato Tajani in Val di Susa.
Il gravissimo sgarbo istituzionale di Toninelli fa intendere che la polemica non si ferma qui, anche perché il Ministro ha contro, oltre l’alleato di governo, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi che hanno tutto l’interesse a rappresentare un M5S che si oppone ad iniziative di sviluppo con evidenti ricadute occupazionali.
Non è la prima volta che si polemizza sui trafori delle Alpi occidentali. Un secolo e mezzo fa a far discutere furono il traforo del Moncenisio e poi del Frejus. Nel Parlamento subalpino, in un clima surriscaldato nel quale taluno denunciava l’inutilità dell’opera, rispose a tutti Camillo Benso di Cavour spiegando che con quel “buco nella montagna”, come si era espresso un parlamentare che escludeva un interesse dei piemontesi, serviva a collegare rapidamente Torino a Parigi e di lì a Bruxelles per far circolare i prodotti del Regno di Sardegna e favorire lo sviluppo dell’economia. Grande opera che nel corso della realizzazione è stata seguita da politici e tecnici di valore, i ministri dei Lavori Pubblici, Pietro Paleocapa, ingegnere e, poi, Luigi Federico Menabrea, anch’egli ingegnere, già Capo del genio militare. Per chi ne avesse voglia è possibile ascoltare la ricostruzione del dibattito a Palazzo Carignano, sede del Parlamento subalpino. Sentirà parole simili a quelle di oggi con la sola differenza del livello degli interventi. Per tutti quello di Cavour che da tempo si occupava di trasporti che riteneva essenziali per lo sviluppo del piccolo Regno e nella prospettiva dell’Italia intera. Come insegnava l’esperienza di Roma che si è distinta per la costruzione di importanti infrastrutture viarie, le strade che collegavano l’Urbe alle aree della penisola nelle quali si estendeva via via l’influenza romana, necessarie a fini militari, indispensabili per i commerci. Poi i porti, dove attraccavano le possenti “onerarie”, le navi da carico sulle rotte del Mediterraneo verso l’Africa e il Medio Oriente. I moderni hanno aggiunto treni ed aerei sempre più veloci. Perché il tempo ha un costo e concorre a determinare il prezzo di vendita dei prodotti e le ragioni del successo delle imprese.
Cavour ne era consapevole fin dai primi anni ’40 dell’800, quando cominciò a considerare l’Italia unitariamente dal punto di vista economico e nella prospettiva dell’unificazione politica. Nel 1846 scrisse di ferrovie e porti, quando ancora il Bel Paese si articolava in sette stati. Aveva viaggiato molto per curare gli interessi della famiglia, finanziari e commerciali, e per studio. Ginevra, Parigi, Londra, dove conobbe Nassau William Senior, che aveva tenuto la prima cattedra di economia ad Oxford. Con lui e con Gustave de Beaumont e Alexis de Toqueville maturò riflessioni sulla diffusione della cultura e sulle politiche economiche e sociali. Visitò ogni tipo di fabbrica, in Inghilterra, nel Galles e in Scozia. Fu a Birmingham, Liverpool, Manchester. Viaggiò in ferrovia tra queste due ultime città, cinquanta chilometri percorsi in un’ora e mezza. Con entusiasmo. È qui che nasce il Cavour “ferroviere”. Porterà quelle esperienze in Piemonte da ministro e Presidente del Consiglio. S’impegnerà nel potenziamento delle infrastrutture del trasporto, compresi i famosi canali che da lui prendono il nome, e delle ferrovie. Queste, si potrebbe così riassumere il pensiero di Cavour, unificheranno l’Italia e la renderanno prospera. Anche perché, disponendo di importanti porti, con una rete ferroviaria completa l’Italia avrebbe goduto di “un considerevole commercio di transito”.
Ed è il 1° maggio 1846 quando la parigina Revue Nouvelle pubblica uno scritto di Cavour di una straordinaria attualità ad oltre centosettant’anni di distanza e dimostra l’intuito dell’uomo e la sensibilità del politico. Il titolo “Le ferrovie in Italia” è un commento all’opera di Ilarione Petitti di Roreto, che Cavour sviluppa sul piano economico e politico-economico nella prospettiva del movimento nazionale italiano.
Cavour aveva 36 anni e da tempo aveva iniziato ad impegnarsi in politica, sia pure ancora senza incarichi di governo. Un uomo geniale, uno statista europeo, ben presto ammirato anche da chi gli era ostile. Come Clemente Lotario di Metternich, il potentissimo Cancelliere austriaco, che dirà: “In Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour”.
E nazionale ed europea è la visione che Cavour ha delle ferrovie “destinate a rendere grandi servigi all’Italia. In effetti, se sono vantaggiose per i paesi manifatturieri, non sono meno utili a quelli in cui fiorisce una ricca agricoltura”. E spiega: “le derrate prodotte dall’agricoltura e le materie che impiega per mantenere le sue forze produttive, come i concimi e gli ammendamenti inorganici, sono altrettanto ingombranti che le materie prime e i prodotti dell’industria manifatturiera. Per i trasporti agricoli i canali sarebbero da preferire alle ferrovie; ma laddove non esistono canali, soprattutto nei luoghi in cui la loro realizzazione presenta enormi difficoltà, sia a causa di circostanze naturali, sia ancora perché è conveniente utilizzare l’acqua di cui si può disporre per l’irrigazione delle terre e per la formazione dei canali, si può affermare che le ferrovie daranno all’agricoltura vantaggi di cui è difficile esagerare l’importanza”.
Le ferrovie, dunque, che giovano moltissimo al sistema industriale che si va sviluppando in quegli anni. Infatti “l’istituzione di un sistema completo di ferrovie, facilitando le comunicazioni, diminuendo i costi di trasporto e soprattutto sollecitando l’attività e l’energia degli animi intraprendenti, di cui il paese abbonda, contribuirà potentemente al rapido sviluppo dell’industria in Italia”.
Ancora fiducia negli italiani, in una visione moderna proiettata al di là dei confini per una Italia che non dovrà mai più essere considerata soltanto un'”espressione geografica”. Ricordiamo, Cavour scrive nel 1846. Ed ecco che le ferrovie “rendendo pronte, economiche e sicure le vie di comunicazione interna, facendo sparire in qualche modo la barriera delle Alpi che la separano dal resto d’Europa e che sono così difficili da valicare per una parte dell’anno, nessun dubbio che l’afflusso di stranieri che vengono ogni anno per visitare l’Italia aumenterà in maniera prodigiosa? I profitti che l’Italia trae dal proprio sole, dal suo cielo privo di nubi, dalle sue ricchezze artistiche, dai ricordi che il passato le ha lasciato, cresceranno certamente in una proporzione considerevole”. È evidente che pensa anche, se non soprattutto, al centro sud.
Studiava, si potrebbe dire, da ministro dell’economia. Ed anche del turismo.
Non solo di ferrovie si occupa, ma anche dei nostri porti, da Genova a Trieste, da Napoli ad Ancona, collegati da ferrovie che potranno attraversare le Alpi: “i porti italiani saranno in grado di condividere con quelli dell’Oceano e del mare del Nord, l’approvvigionamento dell’Europa centrale in derrate esotiche”.
Cavour guarda al Sud per cui, “se le linee napoletane si estenderanno sino al fondo del regno, l’Italia sarà chiamata a nuovi alti destini commerciali. La sua posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa, la trasformerà incontestabilmente, quando il vapore la attraverserà in tutta la sua lunghezza, il cammino più breve e più comodo dall’Oriente all’Occidente”.
Si resta a bocca aperta dinanzi a questa visione moderna e proiettata verso il futuro. Resta solo l’amarezza che oggi in Italia, ad oltre 170 anni, da quella analisi le ferrovie italiane non siano riuscite ancora ad unificare l’Italia, perché, se Cristo si è fermato ad Eboli, l’Alta velocità si fermata a Salerno, e Matera, Capitale europea della cultura 2019, ha una stazione ferroviaria, costruita da anni, alla quale mancano i binari. Mentre la Sicilia, regione a statuto “più che speciale”, conosce tempi assurdi nei collegamenti da Messina o Catania a Palermo e l’Italia nel Mediterraneo, invece di essere protesa verso il Medio Oriente, è sì la porta meridionale dell’Europa, ma solamente una porta d’ingresso di immigranti che non possiamo accogliere, mentre Cavour intravedeva un ruolo attivo verso l’India e la Cina, “ancora una fonte abbondante di nuovi profitti”.
18 agosto 2018
Utilità sociale e crescita professionale
Le leva obbligatoria è idea realistica
La Trenta ha torto; il servizio militare non riguarda i soli combattenti. Con la proposta di Salvini un apparato di ingegneri, medici, veterinari, periti e genieri potrebbe essere d’efficiente supporto alle esigenze statali
di Salvatore Sfrecola
Per il Ministro della difesa, Elisabetta Trenta, quella di Matteo Salvini, che propone di reintrodurre la leva obbligatoria, è “un’idea romantica”, non più attuale. Invece, ad essere limitativa è l’idea delle Forze Armate che ha la Signora di via XX Settembre, peraltro in aperta adesione alla concezione diffusa nei vertici militari, da sempre: quella che i militari siano esclusivamente combattenti. Non è stato così, ad esempio, nell’esperienza del più potente esercito di tutti i tempi, quello della Roma repubblicana e imperiale, che disponeva di un imponente apparato servente della truppa combattente, genieri, medici, veterinari, addetti alla cura delle armi e delle uniformi. Sì perché l’esercito romano, diversamente dai combattenti di tutti gli eserciti del tempo aveva una grande organizzazione che è l’esempio, come scrive Massimo Severo Giannini, uno dei nostri più grandi amministrativisti, di una efficiente struttura burocratica, capace di sovvenire in ogni tempo ed in ogni luogo alle esigenze dei combattenti. Basti pensare al sistema della leva che ha assicurato all’Urbe, sotto il martellare delle milizie del generale cartaginese Annibale Barca, di ricostituire in poche settimane legioni efficienti e bene organizzate ad ogni sconfitta pur in una condizione di estrema difficoltà. Era quella una grande organizzazione che consentiva ai consoli delle legioni ai margini dell’impero in funzione di controllo del territorio di utilizzare il tempo costruendo acquedotti, fognature, terme, che troviamo ovunque erano giunti i combattenti di Roma.
Ma venendo ai tempi nostri è certamente più attuale la proposta di Salvini, mentre appare vecchia l’idea che delle Forze Armate ha il ministro Trenta quella che ho sempre ritenuto fosse un'”occasione mancata” per il nostro apparato difensivo. Il ministro della Difesa giustamente richiama l’esigenza che i combattenti siano professionisti, come in tutti gli eserciti moderni. Ma l’esercito non è fatto solo di combattenti, come si è detto di Roma, ma ha altre importanti specialità. Prima tra tutte il Genio che, infatti, interviene rapidamente in occasione di calamità naturali e di altre emergenze con straordinaria efficienza, quella propria di un apparato militare organizzato gerarchicamente. Quei reparti hanno a disposizione specialisti, ingegneri, geometri, periti tecnici, e strumenti tecnici moderni, dalle scavatrici alle gru, e possono sovvenire rapidamente alle esigenze dei militari e della popolazione civile aprendo una strada ostruita da una frana, costruendo un ponte che consenta di ripristinare la viabilità resa impraticabile da qualche evento naturale. È stato sempre così. Tuttavia l’utilizzazione sistematica del Genio militare è stata sempre vista con diffidenza dai vertici militari che ritengono non solo prioritaria ma esclusiva la funzione combattente, così consentendo il business delle imprese che operano costosi interventi per la Protezione Civile. Quest’anno le piogge hanno, speriamo, limitato gli incendi, ma è certo che la cura dei boschi per evitare l’accumularsi di rami e fogliame secco, quello che costituisce un innesco naturale degli incendi, è assolutamente trascurata, anzi inesistente. Quanto costa a carico del bilancio pubblico spegnere gli incendi che sarebbe stato possibile prevenire attraverso la bonifica del sottobosco?
C’è, poi, il capitolo della vigilanza nei musei e nelle zone archeologiche. Non è una attività equiparabile a quella dei combattenti ma è la custodia del patrimonio più prezioso che abbiamo, quello che insieme al paesaggio fa dell’Italia il bel Paese, la ragione prima del nostro turismo, come ha ricordato più volte, ancora di recente, il Senatore Gian Marco Centinaio, ministro delle politiche agricole, forestali e del turismo, appunto. Il Genio militare è stato nella storia d’Italia una risorsa preziosa, come ho ricordato più volte a proposito della costruzione delle infrastrutture ferroviarie che secondo Cavour avrebbero unificato l’Italia richiamando il ruolo di Luigi Federico Menabrea, ingegnere, Capo del Genio militare, Ministro dei lavori pubblici e Presidente del Consiglio.
I nostri militari “di leva” potrebbero essere impiegati, altresì, nel sistema informatico degli apparati militari, in modo da essere anche pronti ad intervenire in funzione ausiliaria o di controllo di quella diffusa rete di apparati che ormai gestisce tutte le attività complesse, dagli acquedotti alla distribuzione dell’energia elettrica. Né può essere esclusa l’utilità di giovani negli uffici delle amministrazioni e degli enti, magari “prestati” in alcuni periodi per far fronte alle emergenze feriali. Nel settore sanitario, ad esempio, che denuncia gravi carenze in alcuni momenti nei quali la gente prega di non ammalarsi, nel fine settimana e d’estate. Sarebbe anche un modo per impiegare medici e paramedici, incrementare la loro esperienza e specializzazione.
E siccome parliamo di sanità forse a qualcuno sfugge il ruolo fondamentale che svolgeva la leva obbligatoria attraverso lo screening della popolazione maschile (oggi anche di quella femminile) ai fini alla prevenzione delle malattie. Ci sono, poi, i “vivai”, se così possiamo chiamarli, delle Forze Armate nelle attività sportive, che si arricchirebbero di un più ampio concorso di giovani.
Insomma la leva obbligatoria, in una versione moderna ed intelligente assicurerebbe servizi importanti al Paese e alle comunità e costituirebbe una scuola di vita e professionale come un tempo era quando il giovane imparava un mestiere o si perfezionava in una professione. Un’idea buona, a me pare, che sposa quel tanto di romantico che, ci dicevano i nostri nonni, aveva fatto l’Italia unendo in un unico impegno sul fronte siciliani e piemontesi, veneti e pugliesi, con le esigenze moderne di sostegno alle tante attività che lo Stato e gli enti locali altrimenti non riescono a soddisfare.
(da La Verità, 14 agosto 2018)
Dietro l’attacco alle pensioni, invidia sociale e distrazione di massa
di Salvatore Sfrecola
Non ripeterò la definizione di “magliaro” con la quale Vittorio Feltri ha qualificato Luigi Di Maio sceso in guerra contro i pensionati “d’oro”, come li qualifica lui per aizzare quell’invidia sociale che da sempre caratterizza chi ricerca il facile consenso delle folle diseredate, soprattutto al Sud, in quelle regioni dove il degrado della politica, le ingiustizie sociali, le discriminazioni personali e territoriali da tempo costituiscono una polveriera preoccupante.
È la politica del “no”, all’alta velocità in Val di Susa, al gasdotto in Puglia, alle pensioni più elevate fatte passare per ingiuste. E tali sarebbero forse se fossero erogate senza un corrispondente versamento di contributi. Infatti così sembrava inizialmente. Un ricalcolo rispetto ai contributi effettivamente corrisposti in corso di lavoro. Poi, qualcuno che sa far di conto deve aver spiegato al ministro del lavoro, che mai ha lavorato, che avrebbe recuperato poco, ed ecco spuntare altre proposte basate su un drastico taglio “lineare”, un tot per cento, in modo da recuperare qualche milioncino in più. Di Maio, che è inesperto ma non sciocco sa che una tale decurtazione non passerebbe indenne al vaglio della magistratura ma va avanti lo stesso, pronto a dire “l’abbiamo fatto ma i poteri forti ce lo hanno impedito”, più o meno così. Un altro nemico verso il quale indirizzare il giusto risentimento dei diseredati. I quali dovrebbero attendersi ben altro aiuto che quello proveniente da un “esproprio proletario”, illegittimo. Perché se vuole aiutare i suoi concittadini disoccupati e tutti gli italiani in cerca di lavoro il ministro “del lavoro”, che è anche titolare delle “attività produttive” dovrebbe farsi promotore di politiche che creino lavoro, la condizione necessaria perché aumentino i consumi e, con essi, le esigenze del produttori, i quali vi fanno fronte con nuove assunzioni.
Invece ricorre ad una operazione di quelle che appartengono al genere “distrazione di massa” cui spesso la politica ricorre per nascondere la propria incapacità a fare. Ad esempio i grandi investimenti pubblici e privati in una Italia che manca di infrastrutture, quelle di carattere idraulico forestale, ferroviarie, viarie e portuali. Forse il giovane ministro non sa che i porti italiani che, per la loro collocazione geografica, sarebbero la porta del Sud Europa verso l’Oriente (lo aveva lucidamente intuito Camillo Benso di Cavour oltre 170 anni fa), non hanno le caratteristiche per questo ruolo. Per cui si preferisce scaricare i container a Rotterdam in poche ore anziché a Genova in alcuni giorni.
Mancano le ferrovie proprio nel Sud che ha dato tanti voti al Movimento 5 Stelle perché è a tutti noto che se “Cristo si è fermato ad Eboli”, come titola un famoso libro di Carlo Levi, l’alta velocità si è fermata a Salerno. E Di Maio, che ha fatto il liceo classico e deve aver studiato un po’ di storia romana, ricorderà certamente che la Repubblica e l’Impero hanno costruito prima di tutto le infrastrutture viarie che ancora oggi tracciano i collegamenti in tutta Italia e poi quelle civili, gli acquedotti e le fognature. La civiltà di un popolo.
Un grande progetto per l’Italia, necessario per crescita e sviluppo? Niente da fare. Meglio rapinare i pensionati, ignorando che finora hanno retto il sistema sociale, aiutando figli e nipoti, sollecitando anche i consumi. Pensionati che hanno lavorato decenni consentendo a questo Paese di tenere il passo con gli altri paesi d’Europa.
Infine, c’è una riflessione da fare. Le antiche civiltà hanno sempre rispettato gli anziani. Erano i saggi, sedevano nel più alto consesso legislativo, il Senato, indicavano ai giovani, sulla base della loro esperienza, le vie della politica economica e sociale. Ed i giovani li guardavano con ammirazione convinti, con passare degli anni, di godere essi stessi della considerazione che avevano riservato a padri e nonni. A volte li contestavano nel giusto desiderio di migliorare. Ma cambiare non significa negare il passato che anche gli anziani comprendono debba essere superato. Infatti, non sono mai mancate tensioni sociali, come insegna ancora una volta la storia. Le guerre civili a Roma, la rivolta dei Gracchi, ma poi tutto si ricomponeva.
L’attuale momento è difficile. La Lega sostanzialmente sta a guardare. Impegnata con Matteo Salvini a fare quello che gli italiani volevano, garantire maggiore sicurezza nelle città e nei borghi e difendere le frontiere marittime. Un suo parlamentare, tuttavia, ha firmato con un grillino una proposta di legge che mira e falcidiare le pensioni. Attenzione, perché seguire l’onda dell’invidia sociale è pericoloso. Si inizia da quella che appare la scelta più facile e più giusta (anche se giuridicamente ingiusta) per poi dilagare in ogni settore. La storia è ricca di questi episodi. E la Lega “nazionale”, che ha lasciato il verde per l’azzurro, rischia molto, essendosi presentata come espressione di un moderatismo attivo, quello che esprime la classe media produttiva del Paese. Dopo le brevi vacanze estive si vedrà quale sviluppo avranno le iniziative del giovanotto di Pomigliano d’Arco. Impari dalle vicende del giovanotto di Rignano sull’Arno, il quale, incapace di dare una risposta alle esigenze del Paese, ha perso una elezione dietro l’altra.
(da www.italianioggi.it)
Reddito di cittadinanza e flat tax, si, no, forse
di Salvatore Sfrecola
Di “Reddito di cittadinanza” e flat tax, piatti forti del programma dei partiti di governo si è cominciato a parlare concretamente a Palazzo Chigi nei giorni scorsi. In un vertice tra il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, i Vicepresidenti Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e il Ministro dell’economia e delle finanze, Giovanni Tria, presente anche il Sottosegretario alla Presidenza Giancarlo Giorgetti che è stato l’unico a commentare. Si può fare. La strada è tracciata, ha detto, anche se “in salita” in vista della “legge di bilancio”, quella che un tempo era la legge finanziaria e poi di stabilità, dove si trovano i soldi, le risorse per far fronte alle maggiori spese (reddito di cittadinanza) o alle minori entrate dovute alle riduzioni fiscali promesse (flat tax).
Si farà tutto e subito? Impossibile. L’onere previsto secondo alcuni calcoli non smentiti è di alcune decine di miliardi. Per cui tra il sì e il no, di chi è convinto che né l’una né l’altra riforma si possa fare, c’è un più realistico “forse” che vuol dire gradualità. Un inizio indispensabile per soddisfare le aspettative dell’elettorato che sostiene Movimento 5 Stelle e Lega, e uno sviluppo nel tempo, con prudenza, per non creare allarmismi sui mercati da sempre attenti all’equilibrio dei conti pubblici.
Che la strada per le riforme sia “in salita”, per riprendere l’espressione usata da Giorgetti che di conti pubblici se ne intende, essendo stato Presidente della Commissione bilancio della Camera, laddove si valutano le coperture delle leggi che prevedono una nuova o maggiore spesa o una riduzione di entrate, lo sui deduce anche dalla relazione al Parlamento con la quale la Corte dei conti ha riferito sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2017. È un documento di pochi giorni fa, eloquente in particolare in materia di entrate, riferimento fondamentale di ogni politica che si muova mantenendo gli equilibri di bilancio. Le entrate non crescono, scrive la Corte, e non diminuisce neppure l’evasione fiscale che fa mancare alle casse pubbliche la bella cifra di oltre 100 miliardi di euro annui, più di quanto servirebbe per far fronte agli oneri derivanti dalle due riforme, la maggiore spesa (reddito di cittadinanza) e la minore entrata fiscale a seguito di una generalizzata riduzione del carico tributario su cittadini ed imprese. Infatti, i livelli dell’evasione fiscale, scrivono i magistrati contabili – in media, nel triennio 2012-2014, il gap complessivo è stato pari a circa 107,7 miliardi, di cui 97 miliardi di mancate entrate tributarie e 10,7 miliardi di mancate entrate contributive – “restano sostanzialmente costanti da un anno all’altro e particolarmente elevati rispetto a quelli esistenti nei principali paesi europei”. Per dire che il fenomeno patologico, non ignoto ad altri paesi, è, tuttavia, in quelle dimensioni soprattutto italiano. Grave in particolare perché la lotta all’evasione è assolutamente inadeguata rispetto all’esigenza, “che dovrebbe indurre strategie articolate basate su vari livelli di intervento per favorire e facilitare l’adempimento spontaneo e contrastare i comportamenti pervicacemente scorretti con adeguati controlli ed incisive misure sanzionatorie e di riscossione”. Anche per l’evasione dell’IVA la Commissione Europea ha segnalato che l’Italia è ai primi posti e la Corte lo ricorda. E segnala che il contrasto all’evasione dovrebbe articolarsi “in un insieme di strumenti tra loro coordinati e coerenti, quali quelli normativi, quelli tecnologici e quelli più specificamente amministrativi” escludendo quegli “andamenti contraddittori, nocivi all’efficacia del sistema”. Infatti l’evasione non è solo un problema di controlli, perché in primo luogo dovrebbero essere messi in campo meccanismi diretti a “facilitare l’adempimento spontaneo” del dovere tributario. Come per dire che, in ogni caso, non è sufficiente denunciare la mancanza di personale (-11,8%), che tra l’altro ha giustificato la creazione di meccanismi di assegnazione di posizioni di ruolo ripetutamente disposte senza selezioni che rispettino la norma costituzionale (art. 97, comma 3) la quale impone che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”. Norma sistematicamente aggirata, come ricordato dalla Consulta con la sentenza n. 37 del 2015, nonostante la quale non si cambia. Anzi si persevera nell’errore sicché oggi si prevede una “procedura selettiva” riservata agli interni per conferire posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER), quelle che nel privato sono assegnate ai “quadri” (nel pubblico invano definita “vice dirigenza”). Una selezione costituita da una Prova scritta “di carattere pratico su aspetti collegati all’attività lavorativa” e in un “colloquio di approfondimento sulla motivazione, le competenze e la storia professionale del funzionario”. Insomma i candidati diranno di sé e perché vogliono fare carriera. E già partono i ricorsi ai TAR, che si aggiungono a quelli di cui dà conto il sito dell’Agenzia delle entrate, dove si contestano illegittimità varie, a cominciare dalla mancata utilizzazione di graduatorie di precedenti concorsi che sono state fatte scadere, ed alle posizioni organizzative (POS) conferite “per grazia del principe” ed attualmente all’attenzione della Corte costituzionale, la quale inevitabilmente tornerà a pronunciarsi per la illegittimità di procedure selettive che non sono concorsi.
Preoccupa il Governo ed il Ministro Tria soprattutto che le entrate dello Stato non crescano, che denuncino “una sostanziale stabilità”, come scrive la Corte: oltre 582 miliardi (solo il 3% più del 2016), l’84% dei quali è costituito dalle entrate tributarie (+0,5% rispetto al 2016). Uno zero virgola certamente apprezzabile, perché sconta gli effetti della riduzione del carico tributario su alcuni contribuenti (riduzione dell’aliquota Ires dal 27 al 24%, modifica delle detrazioni sui redditi da pensione, modifiche alla detassazione dei premi di produttività). Tuttavia, va considerato che “il fenomeno delle imposte dichiarate e non versate – prosegue la relazione – si riconnette ad un altro aspetto peculiare nel funzionamento del sistema fiscale italiano, quello delle rateazioni dei debiti d’imposta, che costituisce ormai un nuovo canale di erogazione del credito, pur in assenza di garanzie e di valutazioni prognostiche sulle future capacità dei debitori, con l’effetto non infrequente di differire nel tempo la presa d’atto di insolvenze ampiamente prevedibili”. Come dimostra il contenzioso tributario nel quale l’Avvocatura erariale di trova a rincorrere spesso soggetti ormai falliti e, pertanto, insolvibili. E qui va ricordata un’altra denuncia della Corte dei conti, la mancata realizzazione dell’anagrafe dei grandi evasori. Un’omissione politicamente grave, con aspetti non irrilevanti di danno erariale.
Nel contempo crescono le imposte indirette: +1,9% rispetto al 2016, a conferma di una tendenza che dal 2013 ha visto incrementare il gettito del 9,7 per cento. E c’è chi considera l’aumento delle aliquote IVA una ipotesi possibile per coprire, almeno in parte, le nuove spese.
(da www.italianioggi.com)
Asterischi Storico Politici
di Domenico Giglio
La Cassa Depositi e Prestiti
In questo periodo di nomine da parte del Governo Conte si è molto parlato di questa Cassa, sottolineando la sua importanza crescente, per l’imponenza dei suoi capitali, per la sua partecipazione azionaria in settori fondamentali della nostra economia e per gli aiuti anche agli enti locali e ad aziende di dimensioni modeste. Si è ricordata la sua lunga storia e la sua nascita che risale al?.?.1850 (scriviamolo anche in lettere: milleottocentocinquanta). In tale data non esisteva ancora il Regno d’Italia, ma vi era uno stato di modeste proporzioni, ma unico, nella penisola italiana, con Costituzione e Parlamento, il Regno di Sardegna che legiferava in tutti i settori per modernizzare le sue strutture e rinvigorire la sua economia, proseguendo una tradizione che ancora prima del 1848 aveva visto l’istituzione nel campo militare dei Reali Carabinieri e del Corpo dei Bersaglieri ed in quello civile del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, ai quali appunto si aggiunse la Cassa. La validità di tutti questi Istituti e di altre istituzioni è provata e confermata dalla loro esistenza e vitalità nell’attuale diverso regime istituzionale che spesso ne dimentica gli autori, ma non può modificarne la data di nascita.
Il Risparmio Postale
Nella Cassa di cui sopra, una componente fondamentale delle sue entrate è costituita dal risparmio postale che, come ha scritto recentemente Ferruccio de Bartoli, è “passione antica ed attuale degli italiani?perché rappresenta il polmone finanziario del paese”(L’Economia – Corsera- 28/7/2018). Ora anche il risparmio che affluisce mediante le Poste è storia antica che possiamo far risalire al 1876, quando le Regie Poste, che dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, avevano portato i 1632 sportelli esistenti, di cui solo 236 si trovavano nell’ex Regno delle Due Sicilie, a ben 2666 nel 1871, aumentati particolarmente nel Meridione, ampliando l’offerta di servizi a vaglia ed a pacchi, ritennero di aprire in 607 sportelli la raccolta di denaro, agendo come vere e proprie casse di risparmio. E questo particolarmente in zone sprovviste di sportelli bancari ad ulteriore testimonianza del progresso civile ed economico, che in mezzo a grandi difficoltà causate anche dall’atteggiamento aprioristicamente negativo nei confronti della raggiunta Unità, da parte di nostalgici dell’assolutismo e del temporalismo, il giovane Stato portava avanti.
Vitalizi
La retroattività è sempre un “modus operandi” contrario ai principi liberali, ed in Italia ne facemmo le prime esperienze negative nella legislazione ciellenistica del secondo dopoguerra, per cui anche la recente decisione del Presidente della Camera dei Deputati di decurtare quanto fino ad oggi erogato, secondo precedenti norme, agli ex parlamentari ha lasciato molti perplessi, ed allora cercando indietro nel tempo vi è stato un evento che sarebbe opportuno ricordare. Nel 1852, nel Parlamento Subalpino, sempre in quel Regno di Sardegna già citato, il Conte di Cavour, ancora non Presidente del Consiglio, ma solamente Ministro nel governo d’Azeglio, prendendo la parola nella seduta del 14 gennaio, per una legge sulle “Spese ecclesiastiche” così argomentava: “?le pensioni religiose, le quali sono un debito contratto dal governo francese (napoleonico) quando sopprimeva i conventi. Se non fosse questo un debito legale, sarebbe un debito di umanità?.debito questo che non sarà grave per lungo tempo, giacché ogni anno va decrescendo in una notevole proporzione?.( e),non è difficile prevedere il tempo in cui, senza misure violente, ?scomparirà interamente dal bilancio”. Parole nobilissime di un vero grande liberale.
Parlamento di ieri e di oggi
Questo ricordo di Cavour, oltre dimostrare il livello intellettuale e morale del Parlamento di allora, fa riflettere anche su una decadenza di quello odierno a cominciare dal doveroso abbigliamento che si usava e che si era mantenuto nelle epoche successive, mentre il presidente attuale, vedi fotografia pubblicata nel “Corriere della Sera” del 3 agosto alla pagina 8, presiede l’assemblea senza la cravatta, che ancor oggi viene richiesta per presenziare o partecipare a determinate cerimonie, cravatta regolarmente presente nell’abbigliamento del commesso !
5 agosto 2018
Paolo Mieli (RAI Storia) getta il sasso e nasconde la mano
(a proposito di una lettera dell’Ing. Domenico Giglio
su “i 40 vagoni del Re”)
di Salvatore Sfrecola
Paolo Mieli, giornalista con la passione per la storia, tanto che è gran parte delle trasmissioni televisive che se ne occupano, in particolare di “RAI Storia” nelle sue varie articolazioni, con riferimento ai più diversi periodi storici, in una trasmissione sull’8 settembre 1943 ha detto che il Re Vittorio Emanuele III, dopo quella data, avrebbe trasferito da Roma beni personali contenuti in 40 vagoni ferroviari.
La “notizia” altrimenti non disponibile, a quanto se ne sa, ha destato l’attenzione dell’Ing. Domenico Giglio, Presidente del Circolo REX e collaboratore di Un Sogno Italiano oltre che di varie riviste storiche, il quale ha scritto a Mieli in data 24 giugno una mail rimasta senza risposta, nonostante una successiva sollecitazione il 30 giugno, per chiedere chiarimenti su un fatto di cui prima non si era sentito parlare.
Paolo Mieli, giornalista di vaglia, due volte direttore de il Corriere della Sera e di RSC libri, è persona culturalmente schierata a sinistra, ma gli va dato atto di aver costantemente dimostrato nei dibattiti televisivi una non diffusa attenzione alla varietà delle idee che emergono nei confronti tra gli studiosi e gli esperti che partecipano alle varie trasmissioni. Ho dato sempre volentieri atto a Mieli di questo suo comportamento per cui molto mi stupisce questo suo silenzio, anche se fosse originato da imbarazzo per una notizia buttata lì sul finire della trasmissione, certamente stupefacente sulla quale dirò di seguito i miei dubbi.
Ecco la lettera dell’Ing. Giglio:
“Egregio dr. Mieli, nel finale della trasmissione storica dedicata all’8 settembre 1943 Lei ha detto che il Re Vittorio Emanuele III aveva inviato un carico di ……. con destinazione ….. contenuto in 40 vagoni merci . La notizia così generica mi ha stupefatto ! Un fatto simile non può essere avvenuto senza lasciare tracce. Ho pensato alla collezione di monete di oltre 100-000 (centomila) pezzi, quella che successivamente, all’atto della abdicazione, il Re avrebbe donato al popolo italiano, ma non credo che il suo trasporto necessitasse di 40 vagoni, quelli di “Cavalli 8 – uomini 40”! vorrei conoscere dove trovare traccia più completa.
Distinti saluti
dr. ing. Domenico Giglio”
È, quella di Giglio, una richiesta di chiarimenti, certamente legittima che richiede una risposta doverosa da parte del Direttore Mieli, considerata la rilevanza del fatto ed i dubbi che obiettivamente la “notizia” desta. 40 vagoni ferroviari costituiscono una spedizione straordinaria e quantitativamente di estremo rilievo. Non sono un esperto di trasporto merci ma immagino che in 40 vagoni entri un numero rilevante di beni, una quantità enorme. Forse che era stato svuotato il Quirinale? Non scherziamo! E, poi, come poteva rimanere riservata una operazione di queste dimensioni in un contesto territoriale nel quale l’occupazione tedesca la faceva da padrona, soprattutto se la destinazione del convoglio fosse stata l’Italia settentrionale.
In un contesto storico nel quale Re Vittorio Emanuele III costituisce da ottant’anni il bersaglio preferito di quanti vogliono dimostrare ogni estraneità al ventennio fascista, sia nella fase di avvento del Governo di Benito Mussolini sia in quella successiva aperta dall’Aventino dei partiti antifascisti il cui effetto è stato quello di togliere dalla mani del Re ogni strumento costituzionale di intervento, una notizia del genere sarebbe stata certamente enfatizzata. Non se ne è avuta traccia. E poi 40 vagoni, suvvia!
Insomma, prosegue la campagna di denigrazione del Re per evitare che gli italiani, rileggendo la storia sine ira ac studio, come dicevano i nostri progenitori, scoprano che di fronte all’inedia e alla incapacità dei partiti dal 1919 al 1922 di governare la crisi del dopoguerra e dopo di gestire l’opposizione costituzionale, solo la presenza del Re ha consentito, nonostante la continua erosione dei poteri statutari, di evitare che l’Italia facesse la fine della Germania, dove il potere assoluto del Partito Nazista e di Adolfo Hitler ha impedito la fine anticipata di una guerra inutile voluta dal Fascismo contro la storia e gli interessi del nostro Paese.
3 agosto 2018
Lo Stato nemico
Tra file e code per un balzello da 1,55 euro
Il fisco si accanisce sui cittadini obbligandoli a pagare in banca l’irrisorio tributo, necessario per fare ricorso alla Corte dei conti. Tutto questo mentre l’Agenzia delle entrate si dimostra distratta sull’evasione e copre le nomine dei dirigenti aggirando i concorsi
di Salvatore Sfrecola
Il fisco, lo sanno tutti, tranne gli evasori, è esoso, molto. Grava sui cittadini con imposte e tasse, alcune risalenti nel tempo, come l’addizionale alle accise sui carburanti introdotte per coprire le spese dell’impresa di Etiopia. Normalmente si pagano tutte insieme, con la conseguenza che il contribuente non riesce ad individuare le singole voci del tributo (nell’esempio, quando fa il pieno alla pompa). Ma c’è un caso, con il quale mi sono imbattuto nei giorni scorsi, che è un esempio di un’imposta che il fisco non sa riscuotere senza creare un disagio per il cittadino, tanto più grave in quanto trattasi di una somma modesta: 1,55 euro. Sì 1 euro e 55, che si deve corrispondere all’atto dell’iscrizione di un ricorso o un appello alla Corte dei conti (codice ente VAE, sub codice 04) a titolo d’imposta di bollo (codice tributo 456T). La somma è modesta, irrisoria, ma il fastidio che s’impone al contribuente è tanto. Infatti per 1 euro e 55 occorre utilizzare il modello F 23 che si paga in banca, direttamente non tramite la banca on-line, come ho potuto constatare presso Unicredit. Come, invece, può farsi per il modello F 24 per somme molto più rilevanti.
Insomma, si tratta di un tributo di importo irrisorio per il pagamento del quale è stata scelta una modalità assurda nell’anno di grazia 2018 che impone ad un avvocato o ad un collaboratore di studio di recarsi in banca dedicando a questa operazione non meno di due ore.
È un esempio di uno scollamento dell’amministrazione finanziaria dalla realtà, considerato che quell’euro e 55 potrebbe essere corrisposto con una marca da bollo o inserito nelle spese processuali. E questo mentre l’Agenzia delle entrate dimostra assoluta inadeguatezza rispetto all’esigenza dell’accertamento puntuale del debito d’imposta a carico dei contribuenti che in nessun paese civile e moderno denuncia un’evasione da capogiro per molte decine di migliaia di miliardi di euro annui, con la conseguenza di gravare sui cittadini onesti, quelli che regolarmente pagano le imposte, per somme che potrebbero essere agevolmente ridotte se l’evasione fiscale fosse contenuta nei limiti fisiologici che tutti gli stati occidentali conoscono. Invece le agenzie fiscali, tutte, vengono agli onori della cronaca, si fa per dire, perché da anni posti di responsabilità sono coperti in via provvisoria con nomine disposte dal vertice dell’Agenzia. Ciò che ha impegnato ed ancora impegna Tribunali Amministrativi Regionali, Consiglio di Stato e Corte costituzionale nel vano tentativo di richiamare il Ministero dell’economia e delle finanze al rispetto dell’art. 97, comma 3, della Costituzione secondo il quale “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”. Anche in caso di passaggio di livello. Norma sistematicamente aggirata, come ricordato dalla Consulta con la sentenza n. 37 del 2015, nonostante la quale non si cambia. Anzi si persevera nell’errore prevedendo una “procedura selettiva” riservata agli interni per conferire posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER), quelle che nel privato sono assegnate ai “quadri” (nel pubblico invano definita “vice dirigenza”). Una selezione costituita da una Prova scritta “di carattere pratico su aspetti collegati all’attività lavorativa” e in un “colloquio di approfondimento sulla motivazione, le competenze e la storia professionale del funzionario”. Insomma i candidati diranno di sé e perché vogliono fare carriera. E già partono i ricorsi ai TAR, che si aggiungono a quelli di cui dà conto il sito dell’Agenzia delle entrate, dove si contestano illegittimità varie, a cominciare dalla mancata utilizzazione di graduatorie di precedenti concorsi che sono state fatte scadere, ed alle posizioni organizzative (POS) conferite “per grazia del principe” ed attualmente all’attenzione della Corte costituzionale, la quale inevitabilmente tornerà a pronunciarsi per la illegittimità di procedure selettive che non sono concorsi.
Così, mentre l’Agenzia delle entrate, diretta dal renziano Ernesto Maria Ruffini, che tutti attendevano fosse sostituito dal nuovo governo, si diletta di selezioni “intra moenia” l’evasione fiscale la fa da padrona per l’assoluta inadeguatezza di una struttura che un tempo (quando non era agenzia) costituiva il fiore all’occhiello dell’Amministrazione delle finanze i cui funzionari venivano selezionati sulla base di tre prove scritte e di un colloquio. Agenzia che ovviamente non trova il tempo di regolare la riscossione di un minuscolo tributo di euro 1,55, da pagare direttamente in banca.
(da La Verità del 1° agosto 2018)