L’ascensore sociale è fermo? Perché il merito non è riconosciuto nell’unico modo possibile, con adeguata retribuzione
di Salvatore Sfrecola
L’ascensore sociale è fermo. Lo sappiamo dal Censis, ed a Tagadà Tiziana Panella insiste con Chiara Saraceno, sociologa, per cercare di chiarirne le ragioni. Né l’una né l’altra, tuttavia, va a fondo, anzi entrambe eludono il tema. Soprattutto la Panella, che non trascura occasione per demonizzare stipendi e pensioni elevati, facendo finta di non comprendere che quelle retribuzioni compensano impegni di studio e professionali e l’assunzione di responsabilità. Si chiama “meritocrazia” ed è quella che stimola la ricerca di migliori condizioni di impiego e di vita. Insomma, se l’impegno nello studio e nell’esperienza professionale produce vantaggi c’è interesse a formarsi in modo da competere nel mercato del lavoro pubblico e privato.
A volte di meritocrazia si parla, ma sempre con cautela, perché richiamare il merito significa evocare selezioni rigide, a seguito di sacrifici di anni passati sui libri, nelle aule universitarie per conseguire lauree, master, specializzazioni e dottorati di ricerca. Nel pubblico è il modo per conseguire posizioni dirigenziali, per entrare nelle magistrature o negli uffici parlamentari avendo superato selezioni rigide, concorsi difficili, spesso per titoli ed esami, nei quali i posti a disposizione sono in numero molto inferiore a quello dei candidati. Titoli, il che vuol dire che, assieme alle prove scritte ed orali, il candidato ha dovuto attestare di aver superato corsi, di aver partecipato a convegni e congressi in qualità di relatore, di aver scritto pubblicazioni, che devono essere anche di buona qualità ed a carattere innovativo. Non solo, perché, a seguito di quelle selezioni, la persona assume responsabilità rilevanti, gestisce il bilancio di istituzioni pubbliche, stipula contratti per cifre rilevanti che sono portati al vaglio degli organi di controllo e delle magistrature. Con rilevanti responsabilità, disciplinari, amministrative e penali.
Funziona più o meno così anche nel privato, dove la concorrenza è estremamente rigida, considerato che le imprese guardano anche all’estero per cercare amministratori e tecnici adatti alle loro esigenze.
Ecco, dunque, perché l’ascensore sociale si ferma. Se l’impegno di studio e l’esperienza non sempre vengono riconosciuti ed adeguatamente remunerati, è evidente che i nostri giovani più preparati ed i più intraprendenti vanno all’estero, dove le capacità professionali e l’impegno nel lavoro sono premiati nell’unico modo ovunque riconosciuto, con una adeguata retribuzione, il metro di quanto si vale.
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La controversia in oggetto è stata rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana con ordinanza collegiale n. 717 del 14 novembre 2018.
L’Adunanza plenaria ha, quindi, ritenuto che, in materia di nomina e di composizione della sottocommissione degli esami di abilitazione all’esercizio delle professioni forensi, si applica l’art. 47 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, non ricompreso nel differimento previsto dal successivo art. 49 della stessa legge. Infatti, detto articolo è immediatamente operativo e da ciò discende che questa è ratione temporis la disposizione applicabile.
Dalla immediata applicazione dell’art. 47 della legge n. 247/2012 consegue che è venuto meno il principio c.d. di fungibilità dei componenti delle commissioni giudicatrici degli esami di abilitazione all’esercizio delle professioni forensi, in passato applicabile ex art. 22, comma 5, r.d.l. n. 1578/1933.
Pertanto, è viziato l’operato delle sottocommissioni di esame che procedano alla elaborazione dei sub criteri, alla correzione degli elaborati scritti ed allo svolgimento dell’esame orale in assenza di commissari appartenenti a ciascuna delle categorie professionali indicate dall’art. 47 della legge n. 247/2012 (Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2018, n. 17 e n. 18, con nota di L. Grassucci, in www.italiappalti.it, 7 gennaio 2019).
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L’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di accesso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la portata e il contenuto della domanda (Cons. Stato, Sez. VI, 25 agosto 2017, n. 4074, in Guida dir., n. 38/2017, 73).
Ponti che crollano
“La sicurezza non dipende soltanto dalle caratteristiche di progettazione. Varia in funzione della corrosione dei cavi di precompressione all’interno delle travi di cemento armato. E anche dei processi di ‘carbonatazione’ del calcestruzzo: una rapida decomposizione chimica innescata dall’anidride carbonica che espone le armature di acciaio al gas e ai liquidi inquinanti composti da acqua piovana, sale antigelo e idrocarburi” (F. Gatti, Autostrade che tremano, L’Espresso, n. 41/2018, 53 s.).
Recentemente, è stata anche depositata la relazione degli esperti nominati dalla Procura di Genova, che merita attenta considerazione.
Ma i cedimenti dei nostri ponti sono sempre all’ordine del giorno.
Storia degli imperatori romani
Ai ritratti degli uomini che hanno fatto grande Roma è dedicato il volume di Massimo Blasi che racconta L’indimenticabile storia degli imperatori romani (Newton Compton Editori, Roma, 2018), da Augusto, padre dell’impero romano, fino a Costantino XI Paleologo, ultimo imperatore di Bisanzio, che hanno retto le sorti dell’impero per oltre mille anni.
L’autore, Dottore di ricerca in Filologia e storia del mondo antico, collaboratore dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, nella premessa del volume avverte che si è preferito narrare le vite degli imperatori “con uno sguardo più attento alle curiosità, agli aneddoti o ai pettegolezzi”, ottenendo così “uno spaccato estremamente ricco e variegato dell’animo dell’uomo, tanto della sua grandezza quanto della sua meschinità”.
Un ampliamento del quadro storico nel quale taluni imperatori operarono avrebbe forse giovato a una migliore completezza della ricerca.
30 gennaio 2019
1941 monta l’ostilità al Fascismo.
E la gente guarda alla Corona immaginando la sconfitta
di Salvatore Sfrecola
Siamo al 19 settembre 1941 ed il diario del Generale Paolo Puntoni, Aiutante di campo generale del Re Vittorio Emanuele III (Parla Vittorio Emanuele III, Il Mulino, 1993), si rivela sempre più una “fonte preziosa per la conoscenza e lo studio della vicenda della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale”, come scrive Renzo De Felice nell’introduzione. Annotazioni personali su fatti e persone, incontrate personalmente o in visita al Sovrano che spesso lo mette a parte di documenti o di riflessioni sui colloqui con alti esponenti dello Stato, a cominciare da Mussolini che al Re riferisce periodicamente sull’andamento della guerra e sui rapporti con Hitler, sempre manifestando quello che Vittorio Emanuele III ritiene un eccesso di ottimismo.
La data indicata rivela alcuni aspetti importanti dell’andamento delle operazioni militari, quando già si ha la sensazione che su vari fronti vi siano difficoltà gravi, non rimediabili. Perduta l’Abissinia ed il controllo di importanti aree della Libia “il traffico in Mediterraneo diventa ogni giorno più difficile. L’Inghilterra domina il mare”. Un dato che fa ricordare quanto aveva scritto in una famosa relazione il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla vigilia della prima guerra mondiale quando segnalava che un Paese che vive sul mare con colonie raggiungibili soltanto con unità navali, dalla Libia all’Eritrea, non possa prescindere dal controllo di quelle acque. Sicché egli invitava, nella valutazione delle scelte se entrare in guerra a favore degli Imperi Centrali o delle potenze dell’Intesa, a considerare che Francia e Inghilterra avevano il dominio del Mediterraneo.
Passa qualche giorno e il 14 ottobre 1941 il diario del Generale Puntoni ci mette a parte di riflessioni importanti. Un colloquio del Re con Mussolini: “alla fine del colloquio Sua Maestà ha raccomandato al Duce di non fidarsi troppo degli amici alleati”. Frase non di circostanza se è vero che Puntoni riferisce di alcuni suoi colloqui con il generale Marras, Addetto militare a Berlino, e con il Colonnello Amè, capo del Servizio Informazioni Militari (S.I.M.), intorno all’invadenza dei tedeschi che hanno fatto entrare in Italia molti agenti di polizia. Ciò in quanto “sembra che in Germania si siano ormai convinti che l’Italia non è un alleato sicuro e che perciò bisogna sorvegliarne attentamente le mosse”. In particolare il generale Marras – riferisce Puntoni – “mi ha affermato che le alte gerarchie politiche e militari della Germania dubitano molto della nostra fedeltà all’alleanza e che si preoccupano all’idea che noi si possa fare addirittura una pace separata? e ci accusano di aver contribuito alla guerra in maniera non adeguata alle nostre possibilità”. O, forse, non avevano fiducia in quelle possibilità come potrebbe dedursi dal fatto che Hitler in un primo tempo declina l’offerta di partecipazione italiana alla campagna di Russia.
Altra preoccupazione muove i tedeschi inviati in Italia da Hitler. Essi “sono al corrente della propaganda antifascista che viene fatta nel nostro Paese”, scrive Puntoni, una situazione confermata anche dal Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale Hazon, che gli parla “a lungo della situazione interna che giudica molto grave dato che la massa non ha più fiducia in nessuno, neppure nel Duce. Tutti guardano alla Corona come a un’ancora di salvezza nel caso della guerra si risolva con una sconfitta”. Aggiunge, inoltre, “che tutti i carabinieri, dal più elevato iln grado al più umile, sono tendenzialmente antifascisti e che sono antifascisti anche i membri della polizia e il suo capo Senise”.
Siamo ad oltre due anni dalla fine della guerra e queste testimonianze sono significative del clima nel quale si va sviluppando l’alleanza italo-tedesca e che è da considerare alla base del diffuso malessere presente nell’alta dirigenza del partito fascista che porterà, nel corso della seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24-25 luglio 1943, all’approvazione dell’ordine del giorno Grandi che restituirà al Re i poteri di Comandante Generale delle Forze Armate, alle dimissioni di Mussolini ed all’armistizio con gli anglo-americani.
25 gennaio 2019
Ricordiamo con affetto profondo
ed infinita tristezza Marco Grandi
scomparso ieri in un tragico incidente stradale
di Salvatore Sfrecola
Un tragico incidente stradale ieri ha privato gli amici e la comunità dei monarchici di Marco Grandi, avvocato, docente di storia contemporanea, allievo di Francesco Perfetti a Genova, componente della Consulta dei Senatori del Regno. Viveva a Corinaldo, una ridente cittadina marchigiana dalla quale proveniva la sua famiglia di illustri servitori dello Stato. Il nonno, Domenico, Generale, era stato Ministro della guerra nel Governo di Antonio Salandra, nel 1914. Il papà, Mario, aveva svolto le funzioni di Aiutante di campo del Principe di Piemonte Umberto.
Marco era una persona garbata, un grandissimo signore, un uomo di cultura, idealista ma concreto nelle prospettazioni politiche e nelle iniziative che assumeva nella sua cittadina ed ovunque fosse chiamato a svolgere una attività di diffusione e approfondimento di fatti di interesse storico e politico. A Corinaldo aveva organizzato importanti convegni storici e concorsi con premi per i giovani studenti delle scuole ai quali si rivolgeva per invitarli a considerare l’importanza delle proprie radici civili e nazionali, per risvegliare in loro il senso della nostra storia contro la narrazione faziosa, distorta e disonesta, che si accompagna da sempre al referendum del 2 giugno 1946 ed al “gesto rivoluzionario” del successivo 12 giugno che Re Umberto subì perché l’Italia non cadesse nella guerra civile alla quale i comunisti erano pronti nel caso avesse prevalso la Monarchia. Il Re, appartenente alla Casata che aveva unificato l’Italia, non poteva accettare che gli italiani si battessero gli uni contro gli altri, anche se era consapevole dell’ingiustizia che aveva subito per le condizioni nelle quali il referendum istituzionale era stato organizzato e gestito, in dispregio di una verifica autentica della volontà popolare.
E qui vale la pena di ricordare quel che Indro Montanelli, nel febbraio 2001, disse a Re Simeone II di Bulgaria, che era andato a trovarlo nella sua casa di Milano, in viale Piave, accompagnato proprio da Marco e dal nostro caro amico Camillo Zuccoli, oggi Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Repubblica di Bulgaria: “Al mio amico Ciampi – affermò Montanelli – dico sempre che se alla catena della nostra Storia togli l’anello di Casa Savoia tutta la catena cade”. E lo ha ripetuto più volte anche nel suo “L’Italia della Repubblica” (Rizzoli 1985) quando afferma che “di coloro che avevano votato Repubblica? Pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una coscienza nazionale. Ma scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo”.
Scrive Giovanni Semerano in un commosso ricordo di Marco, dei suoi “tenerissimi affetti familiari, la sposa Paola e il figlio Domenico oggi increduli e disperati”, per la mancanza di questo uomo nobile e buono nel quale era “sempre presente, vivo e irriducibile l’amore per la Patria declinato nella fedeltà e nella devozione – non astratta perché più che meritata – al nostro grande e indimenticabile Re Umberto, che di Marco e di Paola fu testimone di nozze”.
Ricorda ancora che “in quel giorno felice, accanto al Re e agli sposi vi era anche un uomo al quale Marco, insieme al compianto Gian Nicola Amoretti, era legatissimo: Edgardo Sogno, l’eroe Medaglia d’oro della Guerra di Liberazione che, con il suo coraggio, ardimento, coerenza e fermezza, rappresentava un esempio e un simbolo altissimi di cosa significhi essere patrioti monarchici”.
Semerano nel suo ricordo non avrebbe potuto trascurare l’impegno politico di Marco Grandi nel Partito Liberale Italiano, insieme ad alcuni amici scomparsi e ricorda “tra i tanti valorosi parlamentari ed esponenti monarchici liberali: Augusto Premoli, Luigi Durand de la Penne, Roberto Cantalupo, Benedetto Cottone, Luigi Barzini jr., Umberto Bonaldi, Vittore Catella, Giuseppe Alpino, Emilio Pucci, Giuseppe Fassino, Vittorio Badini Confalonieri, Giorgio Bergamasco, Umberto e Vittorio Emanuele Marzotto, Enzo Fedeli, Sam Quilleri, Alberto Giomo, Aldo Frumento”.
Ho visto Marco l’ultima volta l’8 dicembre 2018 a Castiglion Fibocchi in occasione di un incontro con il principe Amedeo di Savoia, quando il Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Avv. Alessandro Sacchi, gli ha conferito la medaglia d’argento della fedeltà monarchica, un riconoscimento voluto dal re Umberto II che aveva attribuito al Presidente dell’U.M.I. il compito di individuare chi lo meritasse. L’aveva accolto con profonda commozione. Ero accanto a lui in quel momento e ricordo il suo sorriso timido, le brevi parole con le quali ha ringraziato per questo riconoscimento per attività lungo decenni che aveva svolto sempre convinto di fare solo il suo dovere di italiano e monarchico.
Poche ore prima della tragedia aveva parlato con il Principe Aimone, che aveva accompagnato il 3 novembre 2018 a Roma quando nella Sala Umberto è stato ricordato il centenario della Vittoria. C’erano quel giorno anche i giovanissimi principi Umberto e Amedeo.
Esterrefatti “increduli e disperati” i lettori di Un Sogno Italiano si uniscono alla moglie Paola e al figlio Domenico nel dolore e nel ricordo.
Ciao Marco.
24 gennaio 2019
In Bulgaria si onora il passato
attraverso un francobollo
che ricorda Re Boris III
di Salvatore Sfrecola
L’ing. Domenico Giglio, Presidente del Circolo “Rex” e assiduo collaboratore della nostra testata, ha scritto un pezzo per http://monarchicinrete.blogspot.com/ per illustrare una iniziativa delle Poste bulgare che hanno ricordato Re Boris III.
“Le Poste Bulgare – scrive Giglio – hanno emesso nell’ ottobre 2018 un foglietto con lo sfondo del Palazzo Reale ed in primo piano un francobollo raffigurante il Re Boris III,(1894-1943), per il centenario della sua ascesa al trono, giovanissimo, dopo l’abdicazione del padre, il Re o meglio lo Zar Ferdinando I,(1861-1948), che con la sua scelta, nella Grande Guerra, 1914-1918 di allearsi con gli Imperi Germanico ed Austro-Ungarico, forse per la sua origine familiare tedesca, era stato trascinato nella loro sconfitta, chiedendo l’armistizio il 29 settembre 1918, ed abdicando, dopo 31 anni di regno, il 3 ottobre. Quindi il figlio primogenito, Boris, diveniva Re, il successivo 4 ottobre, in un momento non certo felice per la Bulgaria e per la Casa Reale (l’originaria Coburgo), tanto che vi era stata, sia pure per un giorno, una effimera proclamazione repubblicana, per cui dovette subito affrontare il terrorismo e l’attacco comunista, riuscendo a rimettere in piedi la stato e coronando il suo regno, nel 1930, con il matrimonio con una Principessa appartenente alla più antica dinastia europea, Giovanna di Savoia, da cui, nel 1937 ebbe l’erede Simeone.
Onorare perciò questo anniversario conferma una politica filatelica delle poste bulgare e quindi dello Stato, aperta e rispettosa nei confronti dei loro antichi regnanti, di cui aveva già dato prova nel 2008 celebrando, con uno splendido foglietto, contenente il francobollo con l’effigie di Ferdinando, il centenario della definitiva emancipazione della Bulgaria, avvenuta nel 1908, dal vassallaggio dell’Impero Ottomano, quando appunto, Ferdinando, che già regnava dal 1887, ne proclamò, nella città di Tarnovo, la definitiva e totale indipendenza. A questo era seguito nel 2017 un altro interessante francobollo dove al tempo stesso si ricordavano gli ottanta anni del Re Simeone II, felicemente vivente ed onorato nel suo paese, insieme con un ricordo del padre Boris.
Il rispetto della tradizione è fondamentale per la vita e la storia di un popolo e di questo avevano dato prova i reali della moderna Bulgaria, ricollegando i loro nomi a quelli degli antichi sovrani del grande impero bulgaro di mille anni prima che aveva avuto un Boris I dall’852 all’ 889 d.C., un Simeone I, detto “il Grande” dall’893 al 927 ed un Boris II, quest’ultimo all’epoca del secondo impero, dal 969 al 972, per cui si sono così avuti un Boris III ed un Simeone II.
Dalla Bulgaria e dalla Romania, che egualmente ha dedicato alla sua Casa Reale, numerosi francobolli commemorativi, viene perciò una lezione di storia, di rispetto e di comportamento civile che vorremmo fosse recepita”.
Fin qui l’artico dell’Ing. Giglio.
Aggiungo che ho ripreso la notizia su Facebook sottolineando come stati ex comunisti ricorrano a continue esaltazioni della loro storia all’evidente scopo di rafforzare nei cittadini il senso dell’appartenenza che si caratterizza per la consapevolezza della storia, delle tradizioni, della cultura, della religione, cioè di tutto quanto identifica un popolo e lo distingue dagli altri. Ciò che è necessario soprattutto nel mondo globalizzato nel quale si vorrebbe sparissero i confini per rendere indistinti i popoli e ridotta l’autonomia degli stati. È un piano che procede da esigenze di carattere economico e finanziario per diventare regola della politica alla quale è necessario replicare che nella realtà dell’economia globalizzata gli stati hanno comunque un loro ruolo, essenziale nella regolazione dei mercati nelle aree di competenza. Ugualmente sono essenziali le identità dei popoli che partecipano della più ampia realtà delle aggregazioni politiche internazionali, come nel caso dell’Unione Europea, mantenendo le caratteristiche che nel corso dei secoli ne hanno fatto una Nazione. Ricordando sempre che un popolo il quale non ha consapevolezza della propria storia non ha neanche un futuro.
A questo proposito ho ripetutamente ricordato in questi giorni, in concomitanza con le celebrazioni della vittoria del 4 novembre 1918, che l’Italia tra le altre potenze che hanno partecipato a quel conflitto è stata l’unica che lo ha ricordato in tono minore. E se a Parigi si sono incontrati tra squilli di trombe e rullar di tamburi vincitori e vinti di quella guerra a Trieste le celebrazioni sono state decisamente modeste, e la voce flebile del Presidente della Repubblica non ha avuto il coraggio di ricordare che quell’impegno degli italiani alla ricerca dell’unità nazionale e, quindi del completamento del Risorgimento, era stato guidato dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Paura di esaltare un Re in Repubblica, incapacità di interpretare la storia di un popolo? Non so e non voglio saperlo. Basta osservare. Anche il ricordo della Regina Elena, che aveva trasformato il Palazzo del Quirinale nell’ospedale da campo n. 1, è stato assolutamente inadeguato. Perché evidentemente “la Regina dell’epoca”, pur se Dama “della carità” disturba e forse turba i sogni di chi ha cercato di convincere gli italiani che lo Stato sia nato il 2 giugno 1946 e non il 17 marzo 1861, quando il Regno d’Italia concluse l’epopea risorgimentale (fatta salva la necessità di liberare Trento e Trieste) attraverso l’apporto di pensiero ed azione di uomini di tutti i ceti sociali uniti soltanto dal desiderio di dare una casa comune agli italiani, tutti disponibili ad accantonare ideali ed interessi personali purché si facesse l’Italia. Agli immemori voglio ricordare le parole di Giuseppe Mazzini indirizzate a Re Vittorio Emanuele II: “Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.
È questo il “miracolo del Risorgimento” del quale parla Domenico Fisichella. È triste che non si abbia il coraggio di ricordarlo.
23 gennaio 2019
Un segnale dalla Sardegna che non va trascurato
L’elezione del parlamentare del PD nelle suppletive
di Salvatore Sfrecola
Le elezioni suppletive di ieri in Sardegna hanno decretato la sostituzione del parlamentare del M5S Andrea Mura, espulso dal Movimento dopo un’aspra polemica sulle sue assenze alla Camera, e dimessosi da Montecitorio, con un esponente del Partito Democratico, Andrea Frailis, giornalista, storico anchorman della tv del Gruppo Unione Sarda. Questo risultato induce ad alcune riflessioni, quanto alla percentuale dei votanti, e alla vittoria di un esponente della sinistra. L’affluenza ai seggi è stata estremamente modesta (15,6), crollata di quasi 52 punti, e questo dimostra, considerato anche il periodo, che certamente non invogliava a correre sulla spiaggia, che c’è una grande disaffezione rispetto al voto, consueta nell’Italia meridionale e nelle isole i cui abitanti, sempre pronti a lamentarsi della politica, sono tuttavia restii ad impegnarsi anche al minimo livello, qual è il voto elettorale. Ma certamente il crollo delle presenze nelle dimensioni registrate è preoccupante.
Sotto altro aspetto, la vittoria di un esponente della sinistra, a prima lettura, dimostra che l’elettorato, il quale il 4 marzo 2017 aveva espresso una protesta diffusa nel centro-sud e nelle isole assicurando molti consensi al M5S ha una consistente componente di sinistra. Sicché quando qualcuno di noi ha osservato che la politica del governo, indotta dalla partecipazione dei 5 Stelle, non avendo perseguito effettivi obiettivi di crescita e di sviluppo dell’economia, anche locale, avrebbe contribuito a restituire fiato al partito di Renzi, nonostante versi in uno stato pressoché comatoso, aveva visto giusto.
Il risultato di ieri significa anche che la politica del Governo non riscuote, in quell’ambito territoriale, un significativo consenso perché, altrimenti, i pentastellati avrebbero mantenuto il seggio con un altro esponente, avendo puntato su Luca Castili, ingegnere, già assessore al Comune di Carbonia. Ne consegue che i partiti del Centrodestra, e soprattutto la Lega, che sta crescendo nei sondaggi, devono riflettere su questo segnale che proviene dalla Sardegna perché, ove il Partito Democratico ritrovasse una leadership credibile potrebbe erodere voti al M5S, recuperarne altri e contestualmente far emergere in alcuni ambienti di Forza Italia, che hanno dimostrato interesse per una alleanza con un PD rinnovato e tendente al centro, il desiderio di prendere le distanze dal partito di Matteo Salvini.
I sondaggi sono indicativi certamente dell’umore dell’elettorato in un determinato momento ma non sono stabili e non assicurano nel tempo il mantenimento del trend. È una riflessione che deve fare il leader della Lega il quale certamente guadagna di giorno in giorno consensi in un’Italia che per troppo tempo ha sofferto dello scarso rispetto delle regole e della insufficienza della sicurezza interna. Questa situazione dovrebbe consigliare Salvini ad accentuare la pressione sulla necessità di un grande investimento pubblico capace di assicurare crescita e occupazione in un contesto nel quale i segnali di una recessione che, è vero, riguarda l’intera Europa e forse anche gli Stati Uniti, è certamente più preoccupante per il nostro Paese che proviene da un lungo periodo di scarsa crescita del prodotto interno lordo. Dove “scarsa” è un eufemismo, considerato che siamo costantemente il fanalino di coda dell’Unione Europea. Il leader della Lega non può trascurare, infatti, che proprio nelle aree dove maggiormente riceve consensi ed in quelle del centro-sud dove sta dimostrando di saper recuperare adesioni, la necessità di una politica di sviluppo che assicuri una concreta e stabile occupazione deve essere perseguita con impegno e celerità perché quella è l’unica strada, già sperimentata altrove, che consenta a questo Paese di stare in pista. E siccome la Lega ha voluto intestarsi la responsabilità governativa del turismo, affidandola ad un parlamentare di esperienza e sicuramente di buona volontà, come il Ministro dell’agricoltura, Gianmarco Centinaio, la strada è tracciata e l’impegno deve essere forte. L’unione del turismo all’agricoltura è stata, del resto, una scelta intelligente, considerato che l’ambiente ha un ruolo fondamentale nell’attrattiva turistica italiana insieme allo straordinario patrimonio storico artistico. È un settore, quello del turismo, sul quale occorrerebbe investire di più, soprattutto nel meridione e nelle isole che, insieme all’arte e all’archeologia, presentano una natura particolarmente attraente non solo per i tour tradizionali ma anche per i soggiorni che già assicurano un rilevante concorso all’economia di quelle regioni dalle condizioni climatiche particolarmente favorevoli. Tuttavia è necessario migliorare le strutture ricettive alberghiere e della ristorazione che in molte realtà sono sicuramente meno appetibili di quelle che si riscontrano nei paesi nostri concorrenti, dalla Grecia alla Spagna. Da ultimo, questi riferimenti al turismo non possono non portare alla considerazione che questo è un settore dell’economia nel quale la presenza dell’uomo non può essere sostituita da sistemi informatici o robotici. Andrebbe tenuto conto anche questo aspetto se si vuole incentivare l’occupazione. E non solo al Sud, in un Paese per il quale il turismo è da sempre una componente essenziale dell’economia.
(da www.italianioggi.com del 21 gennaio 2019)
CIRCOLO DI CULTURA
E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
Inaugurazione Seconda Parte
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“L’ingresso dell’Italia nella guerra fu determinante per la vittoria?
Fu effettivamente una vittoria “mutilata”?
L’Italia divenne una Grande Potenza?
Su questi temi parlerà
Domenica 27 Gennaio, ore 10.30
IL PRESIDENTE DEL CIRCOLO REX
Dr. Ing. DOMENICO GIGLIO
“4 Novembre 1918 : LUCI ED OMBRE DELLA VITTORIA”
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Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldovrandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie 3 e 9 ed autobus, 910, 223,52 e 53
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Seguirà brindisi augurale di Buon Anno
Ingresso libero
L’Europa, un amore difficile, tra errori e speranze
di Salvatore Sfrecola
“Montesquieu non è mai passato da Bruxelles”. Con queste parole Giuliano Amato, nel discorso per l’insediamento della Convenzione europea (28 febbraio 2002), della quale assumeva la Vicepresidenza, ammoniva i commissari che avrebbero dovuto assolvere all’ambizioso compito di predisporre il testo del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, su uno dei punti critici dell’ordinamento dell’Unione, la mancanza di una netta distinzione dei poteri che l’autore de L’Esprit des Lois aveva immaginato essere necessaria al buon funzionamento di un ordinamento generale e quindi anche di un ente internazionale destinato a gestire quote di sovranità cedute dagli Stati membri.
L’ordinamento dell’Unione europea, infatti, prevede, tra le istituzioni, la Commissione, che non è un governo, incaricata di vigilare sull’applicazione dei trattati, e il Parlamento, che non esprime l’esecutivo e non ha poteri normativi autonomi. Infatti, secondo l’art. 14 del Trattato “Il Parlamento esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa”. Così risultando confermato il ruolo centrale del Consiglio dei Ministri, presieduto dal Capo del Governo del paese che ha la responsabilità del semestre. A fianco, il Consiglio europeo, il consesso dei Capi di Stato e di Governo, con un ruolo “propulsore” e di alta direzione politica dell’attività complessiva dell’Unione.
Evidente, dunque, quel deficit di democrazia sempre denunciato in ragione della limitazione dei poteri di un Parlamento pur eletto a suffragio universale. Confusione lessicale anche nei provvedimenti: i regolamenti che, in realtà, sono leggi e le direttive che sono leggi-quadro, le quali devono essere recepite dai singoli stati. Con un “quasi governo” e un “quasi Parlamento”, secondo una eloquente espressione di Riccardo Perissich, ce n’è abbastanza per giustificare quel diffuso senso di estraneità da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni comunitarie, segnalato dalle rilevazioni demoscopiche e confermato dallo scarso interesse per le elezioni europee.
Non era questa l’Europa che avrebbero voluto Luigi Einaudi e Winston Churchill che avevano immaginato gli Stati Uniti d’Europa anni prima che il “Manifesto di Ventotene”, redatto tra il 1941 e il 1942 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, delineasse, per il dopoguerra, i tratti fondamentali della politica e dei rapporti tra Stati, “quella che va alla radice della questione della pace e dell’ordine internazionale”, come ha scritto Tommaso Padoa-Schioppa. E come avevano propugnato De Gasperi, Adenauer e Schuman, il Ministro degli esteri francese autore della Dichiarazione del 9 maggio 1950 che delineava un “sogno europeo” mettendo insieme le produzioni di carbone e di acciaio, essenziali nella ricostruzione post bellica e per la ripresa dei rapporti economici tra Francia e Germania. E fu l’Autorità Europea del Carbone e dell’Acciaio (C.E.C.A.), la cui struttura in nuce faceva intravedere quella che sarebbe stata la Comunità Economica Europea (C.E.E.) istituita a Roma il 25 marzo nel 1957. L’Europa – si legge nella dichiarazione di Schuman – “non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Un concetto che riecheggia nelle parole di De Gasperi che il 21 aprile 1954 richiamava quel proficuo confronto tra europeisti che si andava sviluppando nei “colloqui tra le varie tendenze e le varie nazionalità, un foro nel quale possono confrontarsi pareri diversi, ma tutti ugualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra patria Europa”.
Buone le intenzioni, insufficienti le realizzazioni sul piano economico e commerciale e soprattutto della politica estera, a causa dell’atteggiamento di Francia e Regno Unito, che hanno “ricorrentemente osteggiato una politica di difesa comune europea”. Perché “le forze armate sono il cuore della sovranità, la sua modalità espressiva più alta”, come ha scritto Domenico Fisichella ne Il modello USA per l’unità d’Europa. E se la ricerca della pace esige la disponibilità di una forza armata europea, immaginata nei primi anni ’50 con la Comunità Europea di Difesa (CED), approvata il 27 maggio 1952 e rapidamente abbandonata, anche oggi un esercito europeo non c’è e neppure una politica estera comune, come dimostra l’assenza dell’Europa nelle iniziative dirette a superare i gravi conflitti che hanno insanguinato il Medio Oriente, uno scacchiere di confine interessato anche dal terrorismo islamico, dove dominano e si confrontano Federazione Russa e U.S.A..
Inesistente sul piano dei rapporti internazionali, l’Europa è debole anche sul piano economico e finanziario. Non ha saputo arginare efficacemente gli effetti della crisi del 2008, alimentata dall’eccesso di liquidità conseguente al boom del settore immobiliare U.S.A., non riesce a crescere nel complesso e nei singoli stati nonostante l’elevata tecnologia e la capacità industriale e manifatturiera di cui dispone.
Tuttora, dunque, l’Europa soffre per le difficoltà di funzionamento delle istituzioni evocate nel nome del Barone di Montesquieu perché è fallito il tentativo di passare da una Costituzione materiale, certamente inadeguata, ad un testo da scrivere ex novo, come ritenuto necessario nelle “dichiarazioni sul futuro dell’Unione”, a Nizza (2000), ed a Laeken (2001), un’opera di semplificazione e riordino dei trattati per giungere “all’adozione nell’Unione di un testo costituzionale”, fondamentale per passare dalla gestione dell’economia alla definizione di politiche comuni nei rapporti esteri e di difesa. Compito affidato alla Convenzione europea ricordata iniziando che ha redatto un testo corposo, costituito da un preambolo, che richiama le “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto”, da quattro distinte parti, 448 articoli, protocolli e dichiarazioni varie. Sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004 nella stessa sala, degli Orazi e dei Curiazi, dove erano stati firmati i trattati del 1957 che avevano dato avvio all’avventura dell’integrazione europea, quella Costituzione non ratificata da Francia e Olanda, è stata un’occasione mancata.
L’Unione europea, dunque, è ancora una incompiuta alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, previste per il prossimo maggio, che si presentano decisive per rifondare l’Europa delle nazioni. Perché, nonostante difetti istituzionali e pesantezza burocratica e tanti errori l’Europa è comunque un’esigenza ineludibile, una speranza per l’intero Continente, come dimostra l’esperienza della brexit, che molti inglesi si sono pentiti di aver votato sulla base degli umori del momento. Infatti “è un’illusione pensare che le sfide della globalizzazione possono essere affrontate meglio dai singoli paesi europei, ciascuno per conto proprio. La maggior parte di essi ha dimensioni inferiori a quelle di alcuni Stati americani o delle province – o città – cinesi. Ma l’idea che si possa fare meglio da soli è in parte figlia della lentezza con cui l’Europa agisce, della distanza che rimane tra i cittadini e le istituzioni europee, dei dettagli nei quali si perdono i processi burocratici”, come ha scritto Lorenzo Bini Smaghi.
Ed è scontato, nelle condizioni di diffuso disagio che conosciamo dal dibattito politico, che la polemica coinvolga anche l’euro, la moneta unica accusata di essere la ragione della crisi di alcune economie, evidentemente trascurando che non la moneta ma la gestione dell’economia e della finanza può essere buona o cattiva. E rivelare incongruenze gravi, come l’attenzione quasi ossessiva nei confronti della misura delle spese e non della loro qualità, al punto da privilegiare politiche di austerità che si sono dimostrare assolutamente inidonee ad assicurare crescita economica e occupazione, se non accompagnate da una parallela politica fiscale che oggi costringe le imprese a delocalizzare alla ricerca di condizioni tributarie più favorevoli e costi di lavoro più contenuti. Sempre tenendo a mente che il fallimento delle politiche dell’Unione è conseguenza delle scelte effettuate dai governi nazionali nel Consiglio dei ministri dell’Unione. L’auspicio è che cambino le istituzioni ma anche le scelte politiche dei singoli stati. Nella politica finanziaria e tributaria, e nella politica estera, perché non si noti più l’assenza della voce dell’Europa, che deve essere una e forte, come la storia del Continente impone e come è possibile se le ambizioni delle “patrie europee” sapranno essere compatibili con le esigenze della “patria Europa”, per dirla con De Gasperi. E l’Europa uscirà dalla crisi.
(Scritto per Opinioni Nuove)
Sovranismo, democrazia, populismo
di Salvatore Sfrecola
La riflessione più recente in tema di “sovranismo” è del 14 dicembre 2018 e si rinviene nei contributi al Convegno internazionale promosso dalla rivista on-line Logos su “Sovranità, democrazia e Libertà” di studiosi di economia e diritto provenienti da alcune tra le più prestigiose università del mondo, da Navarra a Torino, da Washington a Pisa, a Budapest, Cambridge, Oxford, Salisburgo, Stoccolma, Tel Aviv. Nelle loro relazioni è delineato una sorta di “Manifesto dei sovranisti” con l’ambizione di dare avvio ad una “internazionale sovranista” per ribadire le ragioni di quella reazione crescente che, in Europa e non solo, si oppone ad una visione del mondo che, globalizzato nell’economia, si vorrebbe anche avviato verso la perdita di ogni riferimento culturale, ideologico e identitario, tradizionalmente collegato al concetto di Nazione, espressione delle radici più profonde dei popoli, per sostituirla con una società “mondialista” senza valori, senza stati, senza confini, dove l’economia è destinata a prevalere sulla politica. L’Italia, nella quale il richiamo all’identità è stato uno dei fattori ideologici fondamentali che hanno accompagnato il processo risorgimentale e l’unificazione nazionale, si candida, dunque, alla guida del movimento sovranista, di una coalizione che comprenda i popoli e le forze politiche che oggi stanno lottando per un’Europa diversa, che sia patria dei diritti politici secondo l’insegnamento del Barone di Montesquieu che giustamente Giuliano Amato, in occasione del discorso di insediamento della Convenzione europea istituita per scrivere la Costituzione dell’Unione, aveva constatato non essere “mai passato da Bruxelles”, per segnalare quel deficit di democrazia e quella ambiguità nei rapporti tra le istituzioni che l’autore dell’Esprit des lois avrebbe severamente censurato, convito che la separazione dei poteri sia il cardine della democrazia parlamentare.
Nel 2003 l’Europa non volle riconoscere le proprie radici cristiane eppure evidenti nelle sagome delle cattedrali, che svettano da Nord a Sud del Continente, come soleva dire Robert Schuman, uno dei padri della Comunità della quale furono gettate le basi proprio in una sua Dichiarazione del 9 maggio 1950 che delineava l’avvio del “sogno europeo” mettendo insieme le produzioni di carbone e di acciaio, essenziali nella ricostruzione post bellica. L’Europa che – si legge – “non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme”. E sarà “l’unione delle nazioni”, della realtà viva delle singole comunità che si alimenta della vitalità dei corpi sociali intermedi, chiesa, associazioni, corporazioni, classi sociali con la loro “imprescindibile funzione di cuscinetto tra il potere individuale e quello dello Stato”, come ha scritto Robert Nisbet, tra i principali studiosi del conservatorismo. Quella realtà culturale che gli eredi della Rivoluzione Francese vorrebbero annullare nello stato centralizzato, che nega l’autonomia delle istituzioni territoriali e, dove le condizioni storiche lo richiedono, il federalismo.
A definire un’idea identitaria “forte”, che è al fondo della scelta sovranista, ci ha pensato, a conclusione del convegno milanese, Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano a Torino ed oggi Capo Dipartimento istruzione universitaria e ricerca del MIUR, autore di Sovranismo”, Una speranza per la democrazia”, convinto che “per sapere dove vogliamo andare, quale futuro dare alla nostra società, dobbiamo recuperare la consapevolezza dei nostri valori di riferimento”. Per dare una risposta a quanti negli anni hanno cavalcato la fine delle ideologie, ritenute fonte di tutti i mali del XX Secolo. Così facendo venir meno anche le idee che nel corso degli anni avevano delineato il pensiero, la filosofia dei movimenti e dei partiti che, divenuti via via avidi gestori del potere, la “partitocrazia” di Giuseppe Maranini, hanno sempre più screditato agli occhi dei cittadini e degli elettori le ragioni della politica, il valore delle tradizionali distinzioni, Destra e Sinistra, conservatorismo e progressismo, nell’illusione che pace e prosperità sarebbero state assicurate dalla globalizzazione dell’economia e da quella dimensione cosmopolita e internazionalista ostile a riconoscere il valore politico dei fenomeni identitari. Come quel nazionalismo liberal conservatore che, scrive Andrea Geniola nella prefazione a “Nazionalismo banale” di Michael Billig, è una identità che “sopravvive alla globalizzazione”, a quegli interessi finanziari internazionali che traggono vantaggi da una società senza frontiere. Secondo la logica “mercatista” denunciata da Giulio Tremonti che esige una immigrazione di massa incontrollata per assicurare ai produttori manodopera a basso costo e aumentare i profitti e condizionare i poteri degli Stati, ultimo vero ostacolo al dominio incontrastato dei mercati, all’omologazione dei popoli. Sovranismo, dunque, per andare oltre gli slogan dei movimenti sbrigativamente definiti “populisti”, quasi sempre privi di senso identitario, come il Movimento 5 Stelle, sicché la qualificazione ha assunto un significato a volte dispregiativo e comunque limitativo dell’offerta politica.
Giulio Andreotti e la sua capacità di mantenere i rapporti umani e istituzionali in una testimonianza
di Salvatore Sfrecola
Il 14 gennaio 2019 Giulio Andreotti avrebbe compiuto 100 anni. Lo ricordano giornalisti e scrittori per la sua esperienza politica, come ha scritto Marcello Veneziani per La Verità, e per le sue opere letterarie. Perché quel politico è autore non solo di articoli su giornali e riviste, come “Concretezza”, diretta per anni, ma anche di libri, alcuni veri e propri best sellers che hanno rivelato una notevole capacità di analisi politica e storica. Da “Ore 13 il ministro deve morire”, un vero giallo degno di Agatha Christie sulla preparazione e l’esecuzione dell’assassinio di Pellegrino Rossi, il famoso giurista Primo ministro di Papa Pio IX, a “La sciarada di Papa Mastai”, con la quale il papa cercava di rasserenare l’animo esacerbato mentre la “sua” Roma era sotto attacco da parte delle truppe italiane al comando del Generale Raffaele Cadorna il 20 settembre 1870. Ancora “Il potere logora… ma è meglio non perderlo”, divenuta frase celeberrima e titolo di un libro, per dire della sua nota ironia ma anche di una certa spregiudicatezza, come quando si diceva che, assistendo alla Messa con Alcide De Gasperi, mentre il Presidente del Consiglio parlava con Dio, Andreotti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, s’intratteneva con il prete, inteso come espressione del potere della Chiesa nella società italiana di quegli anni. E, poi, i diari nei quali, durante la sua lunga carriera politica, ha annotato con puntualità giudizi su uomini ed avvenimenti, in termini che gli storici non potranno trascurare.
Ed è proprio da uno dei suoi diari, quello del 2000, che traggo alcune considerazioni sulla capacità del politico Andreotti di tenere i rapporti con le persone con le quali entrava in contatto e, specialmente, con gli uomini dello Stato dei quali avrebbe sempre tenuto a mente virtù e capacità, per rivolgersi loro al momento opportuno. In quel diario, alla data del 5 gennaio, scrive di aver trovato, di ritorno dalle vacanze di fine anno, “tanta posta: quasi tutti auguri, ai quali rispondo personalmente. Gli auguri burocratici non mi piacciono”.
Lo ha sempre fatto, scrivendo di pugno suo perfino l’indirizzo del destinatario sulla busta, all’interno personalizzando l’augurio con l’aggiunta di un ricordo personale, di una collaborazione o di un rapporto pregresso. Che differenza dalla cafonata alla quale abbiamo assistito nelle recenti festività di fine anno, ricevendo biglietti con firma prestampata inviati dalle segreterie o e-mail tipo circolare! Neppure un’espressione personalizzata, neppure la firma autografa, anche da chi è abituato ad usare le iniziali del nome e del cognome. L’ho fatto notare ad un mio amico ministro al quale ho detto di mandare a casa questi suoi segretari che rispondono con il “lei” a chi dà del “tu”, senza valutare il rapporto esistente tra le persone, in un biglietto dalla firma che simula un tratto ad inchiostro. Si è giustificato dicendo “erano tanti. Più di mille” ha specificato. Mi chiedo quanto avrebbe impiegato a scrivere anche solo la firma!
Cattiva educazione e poca considerazione delle persone. Colpa delle segreterie, ma soprattutto dell’uomo politico che dà quelle direttive o subisce quelle iniziative. Il costume degrada e i rapporti umani s’ingessano. Giulio Andreotti ricordava anche a distanza di anni e sapeva a chi rivolgersi nelle amministrazioni e negli enti. E in quel ricordo stava anche un rapporto personale che metteva immediatamente il destinatario a disposizione del potente uomo politico. Più per il tratto umano che per l’autorevolezza istituzionale.
Ricordo un fatto personale. Avevo collaborato con lui a Palazzo Chigi nel 1979, poi i nostri rapporti si erano limitati agli scambi di auguri. Ma molto anni dopo, da Ministro degli esteri, un venerdì intorno alle 14, mentre mi apprestavo a lasciare l’ufficio, ero Vice Procuratore Generale della Corte dei conti, ricevetti una telefonata dal suo Vice capo di gabinetto, il Consigliere Giancarlo Leo. Il diplomatico, che sarebbe poi diventato ambasciatore a Varsavia, insistette per incontrami. “Sto per uscire”, feci presente. “Mi attenda – disse – prendo una macchina e arrivo subito. Vengo per incarico del Ministro”. Mi chiese di una vicenda conseguente ad un contenzioso tra il Ministero ed alcuni alberghi di Venezia che erano stati coinvolti nell’ospitalità di delegazioni straniere in occasione di un vertice internazionale. Era un’eredità non gradita del suo predecessore ma il Ministro era preoccupato per possibili responsabilità erariali a causa del ritardo di alcuni pagamenti. Spiegai che non me ne occupavo e non me ne sarei occupato anche se fosse sorto un problema con il mio ufficio. Il Consigliere Leo insistette per una mia valutazione e mi fece vedere un appunto dell’ufficio al ministro a margine del quale Andreotti aveva scritto “approfondire e prima di ripropormi la relazione chiedere al dottor Sfrecola alla Procura Generale della Corte dei conti”. Confesso che la frase mi inorgoglì. Il Presidente, così veniva chiamato anche da Ministro degli esteri, si era ricordato di me e sapeva perfino dove prestavo servizio in quel momento. Suggerii come definire la pratica rapidamente, nel rispetto della legge e nell’interesse pubblico. Il giorno dopo scrissi al Ministro un biglietto: “grato per il ricordo e per la stima”. Non ci sono oggi politici che sappiano appassionare uomini delle istituzioni nell’interesse dello Stato. Sono spesso arroganti, tanto più quanto minore è la loro cultura e la loro esperienza nelle istituzioni.
16 gennaio 2019
2019: LA MONARCHIA IN SPAGNA
di Domenico Giglio
È di grande interesse una recentissima indagine effettuata in Spagna, da NC Report, sull’orientamento istituzionale degli spagnoli e sui problemi relativi alla presenza dell’istituto monarchico e del suo nuovo rappresentante, il Re Filippo VI.
Alla domanda basilare sulla preferenza istituzionale la maggioranza per la monarchia è netta, il 58,3%, ma non plebiscitaria, distanziando la scelta repubblicana di un 31%, essendo la stessa ferma al 27,3%. Gli incerti sono il 14,4% per cui si può pensare che dividendosi fra le due scelte potrebbero portare la opzione monarchica intorno al 65%. Se questi sono i risultati complessivi, la suddivisione per fasce d’età è particolarmente interessante ed importante in vista del futuro. La maggiore percentuale per la monarchia si trova tra gli ultra cinquantacinquenni, con il 61,4, mentre per la repubblica la più alta è nella fascia d’età dai 18 ai 34 anni con il 38,1%, pur rimanendo la maggioranza monarchica al 52,4%. In questa fascia d’età è diminuito il numero degli incerti che è sceso al 9,5. Evidentemente i più giovani sono maggiormente decisi nelle loro scelte.
Se questa prima domanda ha un carattere al momento puramente teorico, le domande successive servono ad inquadrare maggiormente la valutazione che gli spagnoli hanno dell’istituto monarchico a cominciare da quella se la monarchia è il simbolo dell’unità della Spagna. Il “sì” in questo caso tocca il 73,1%, mentre il “no” rappresenta solo il 15,4, e la percentuale del “sì'” raggiunge il 59,5 nella fascia più giovane, con sette punti in più rispetto alla precedente scelta monarchica. I soliti incerti rappresentano solo l’11,5 che, sempre nella fascia giovanile sale al 16,7%, dimostrando in questo caso, una strana indecisione che potrebbe modificarsi nel prosieguo del regno di Filippo Vi, in quanto alla successiva domanda se i Reali sono dei buoni ambasciatori della Spagna nel Mondo la percentuale dei “sì” supera l’ottanta per cento! Come pure una larga maggioranza approva l’operato del Re nella crisi catalana. Quanto poi al Re Filippo ed alla Regina Madre Sofia va il più alto indice di gradimento personale, mentre è più basso, anche se positivo, quello per l’ex Re, Juan Carlos, al quale si riconosce il ruolo svolto per il consolidamento delle istituzioni democratiche, ma nuocciono quelle ultime vicende che portarono poi alla sua abdicazione.
Vi è infine un ultimo aspetto sul quale soffermarsi, in quanto riguarda il futuro della monarchia e la sua funzione ed è la domanda sulla eventuale modifica costituzionale che dia al Sovrano un ruolo più attivo. Qui i “sì” non superano il cinquanta per cento, attestandosi al 47,1, mentre i “no” sono a poca distanza con il 43,2 e gli incerti al 9,7. La formula attuale del Re che regna, ma non governa, come nelle altre monarchie costituzionali europee, rimane la preferita, ed in questo caso una proposta di modifica potrebbe spaccare gli spagnoli, dando argomenti ai fautori della scelta repubblicana, che accuserebbero la monarchia di tendenze autoritarie.
In conclusione si è trattato di una delle indagini più serie ed articolate sull’orientamento istituzionale di un popolo che ha attraversato vicende anche tragiche, ed ha trovato in una rinnovata monarchia il suo equilibrio, che oggi frange estreme, minoritarie, ma non trascurabili, come i “podemos” cercano di stravolgere.
(Da Tricolore, 15 dicembre 2018)
La Compagnia, più che “del cigno”? degli sfigati
Musicisti? forse un po’ matti ma isterici proprio no
di Dora Liguori
Un vecchio detto recita: “Di musica e di cuoco ognun pretende di saperne un poco”. E a questo detto non si sono sottratti gli autori della fiction, ambientata in Conservatorio, in onda su Rai 1; con l’aggravante che di musica, nel presente caso, costoro, ne sanno meno di zero. Infatti sarebbe davvero interessante sapere a quale consulente tecnico la produzione si sia rivolta per la realizzazione di detta fiction, sempre ammesso, visti gli strafalcioni (non solo musicali) inseriti, che costui l’abbiano consultato.
Con simili risultati, ritengo la cosa alquanto improbabile! E mi sia consentito dire come ciò sia altamente offensivo nei riguardi di un settore, quello dell’Arte italiana, degno di grande rispetto per la sua storia e per il nome che ha nel mondo e che, per questo, meritava una giusta attenzione. Tutto, poi, diviene addirittura offensivo se lo si vada a confrontare con l’attenzione che invece viene data, direi io, giustamente, a fiction che trattano argomenti e storie di medicina legale, polizia di Stato e quant’altro.
Fatte queste premesse, con molto sconcerto, è ora quasi obbligatorio entrare nel vivo della fiction, tentando di addurre, se possibile, qualche scusante agli autori della medesima.
Luogo comune e abusato è divenuto quello di considerare l’artista, in particolare il musicista, un soggetto un poco simpaticamente “matto”. E, in effetti, a così pensare non si ha tutti i torti, poiché del tutto “sano di mente” (detto in senso buono) non può essere chi, sin da giovanissimo, sente l’urgenza di costringersi a passare (premesso che il Padreterno gli abbia concesso le doti naturali), ore e ore di studio, per emettere suoni decenti da uno strumento, sia esso pianoforte, violino o altro. Questo atipico soggetto umano, dopo anni d’intenso studio e sacrifici, nonché il relativo conseguimento di un diploma accademico, si ritrova ad affrontare uno scenario che, a definirlo desolante, si potrebbe piccare di generosità. Infatti, oggi, svolgere la professione musicale, in Italia, dopo i tagli alle Associazioni musicali, effettuati dal già ministro del MIBACT, Franceschini, è divenuto un miraggio. Pertanto l’unica via che rimane al musicista nostrano è quella di emigrare all’estero.
Ordunque, se l’autore ci rappresenta un Conservatorio con musicisti alquanto folli (intendasi sana follia) ci potrebbe anche stare, ma, docenti isterici e al limite della paranoia? proprio no! Ma in quale Conservatorio sono andati costoro?
Peggio ancora la rappresentazione che, sempre gli autori, fanno degli studenti frequentanti il Conservatorio. I miserelli? o hanno alle spalle un terremoto, o vengono da famiglie ove abbondano le corna, o hanno la madre drogata o peggio sono in conflitto con se stessi o con il proprio corpo. Insomma, uno normale? no, e poi no!
Pertanto, stante la situazione, costoro, più che della “Compagnia del Cigno”, di diritto, dovrebbero chiamarsi: “La compagnia degli sfigati”.
Purtroppo, e in ciò consiste il danno, con questa “fauna” di studenti e docenti che ci rappresentano, tornafacile, dopo, far passare, presso il numeroso pubblico televisivo, un’immagine falsa e oltraggiosa del Conservatorio, ossia: da tempio dell’Alta Formazione musicale in quasi anticamera di manicomio.
Insomma, genitori d’Italia siete avvertiti? il luogo non è raccomandabile!
In ultimo, meglio stendere un velo pietoso sulle due figure di direttori d’orchestra che ci vengono consegnate: il primo, come sopra detto, è un isterico fuori dalla grazia di Dio e il secondo, una specie di metallaro con turbe sessuali che dirige con maglietta da culturista. Ma gli autori dove l’hanno vista gente simile?
Comunque, diceva Oscar Wilde: “Bene o male purché se ne parli”. E il successo che pare stia avendo la fiction dimostra, al di là delle considerazioni, una cosa precisa: la gente è stanca della musicaccia commerciale, pseudo-anglosassone che, da decenni, la televisione c’impone; per la qual cosa, persino un passaggio televisivo del genere può far scoprire e innamorare il pubblico della musica di Brahms o Chopin che sia. Potenza della vera Arte!
P.S Nonostante tutto, un plauso agli attori musicisti e al sempre bravo Alessio Boni, sacrificato nel ruolo del direttore isterico.
10 gennaio 2019
Pensioni d’oro e facce di bronzo
di Salvatore Sfrecola
Il taglio delle pensioni elevate, che la demagogia del Masaniello di Pomigliano d’Arco definisce “d’oro”, per dare in pasto a quanti vivono di invidia sociale una categoria di “privilegiati”, è una buccia di banana per il M5S e per il governo. Perché, ad onta dalla campagna mediatica, avallata dalle trasmissioni di approfondimento, in particolare da quelle de La7, che sembrano più desiderose di fare audience che di spiegare la realtà dei fatti, le pensioni elevate sono, in primo luogo, conseguenza di rilevanti contributi pagati per decenni, spesso al di là dei 40 anni utili ai fini della determinazione dell’assegno di pensione. Infatti, raggiunta quella soglia i dipendenti pubblici continuano a pagare contributi ancora per molti anni, spesso 10-15, in particolare nelle magistrature, in ragione dell’elevato limite età per il collocamento a riposo. Naturalmente gli interessati si sono più volte chiesti perché mai dovessero pagare contributi che non avrebbero influito sulla misura della pensione. Ad essi è stato risposto che queste somme contribuiscono alla “solidarietà sociale”, quella che oggi si invoca per giustificare il taglio.
Per completare l’analisi, cosa che mai si sente fare nei dibattiti televisivi, va detto che i destinatari di pensioni elevate sono persone che hanno raggiunto posizioni di responsabilità conquistate sulla base di studi rigorosi, corsi di laurea e di specializzazione, master, concorsi vinti, pubblicazioni scientifiche e con questo bagaglio culturale e professionale hanno partecipato a selezioni rigorose per pochi posti con centinaia o migliaia di concorrenti. Naturalmente la vittoria in un pubblico concorso non è altro che l’inizio di una carriera sempre impegnativa con l’assunzione di rilevanti responsabilità sul piano giuridico e morale e un impegno continuo anche di tempo, in quanto coloro i quali giungono a ricoprire elevati posti di funzione sono tenuti a prestazioni che vanno molto al di là del normale orario di servizio. I magistrati, ad esempio, lavorano spesso a casa, perché scrivere una sentenza o una richiesta di rinvio a giudizio impone un impegno in solitudine, con documenti e codici, senza distrazioni che non siano il richiamo alla propria scienza e coscienza, spesso nel fine settimana quando si è liberi dall’impegno quotidiano. Con mogli, mariti e figli che borbottano perché avrebbero desiderato, quanto meno, fare una gita fuori porta.
In queste posizioni di elevata responsabilità nell’amministrazione e nelle magistrature la carriera impone sempre trasferimenti fuori della città di residenza con la conseguenza che il destinatario di questi posti di funzione deve sopportare spese di viaggio e di alloggio che costituiscono un peso su stipendi, buoni ma non certamente ricchi. È come se lo Stato imponesse a questi suoi servitori una tassa aggiunta.
Appare evidente, dunque, che coloro i quali nel corso del tempo hanno dedicato un rilevante impegno ricevendo in cambio una buona remunerazione, sia pure decurtata pesantemente dalle imposte e dai contributi, hanno un diritto costituzionalmente garantito di vedersi attribuita una pensione corrispondente alla somma dei contributi versati secondo le regole che lo Stato ha stabilito. Da notare che se quei contributi fossero stati versati ad una compagnia di assicurazione per decine di anni ne sarebbe derivata una pensione ben più elevata di quella che ora il governo si appresta a ridurre.
Detto questo, il fatto che lo Stato non mantenga la parola nei confronti dei pensionati deve preoccupare, e di fatto preoccupa, anche i dipendenti in servizio. Inoltre va detto che uno Stato che non mantiene la parola non è affidabile per nessuno, non solo per i propri dipendenti, ma per tutti i cittadini ed anche per gli investitori internazionali. Con l’effetto di dissuadere giovani preparati e volonterosi dall’intraprendere studi severi e carriere impegnative sottostando a norme di comportamento rigide anche nella vita privata, come per i magistrati ai quali si richiede in maggiore misura che per gli altri dipendenti pubblici un contegno che sia coerente con la funzione di servire lo Stato “con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione.
Dunque il Movimento Cinque Stelle per seguire l’idea secondo la quale chi guadagna di più è un privilegiato fomenta l’invidia sociale, sentimento diffuso tra i frustrati, non fra quanti guardano avanti e si propongono un impegno per crescere, secondo le regole del cosiddetto “ascensore sociale”. Sicché erodere stipendi e pensioni ha come unico effetto quello di scoraggiare i migliori, i più preparati, i più volonterosi dal perseguire un impegno in una pubblica amministrazione, contrariamente a quanto accade in tutti i paesi occidentali nei quali i dipendenti pubblici sono rigidamente selezionati e ben retribuiti. È evidente che con questa mentalità non si va da nessuna parte. La politica deve darsi carico di questi problemi e non lamentarsi se in alcune strutture della pubblica amministrazione non si riesce a preparare i progetti destinatari di finanziamenti europei, se la scuola non è all’altezza della preparazione professionale che si richiede a chi opera nel mondo del lavoro pubblico e privato. E a proposito della scuola racconto ancora una volta il caso del mio professore di storia e filosofia al liceo “Torquato Tasso” di Roma il quale, laureato in giurisprudenza, aveva partecipato al concorso in magistratura ordinaria e l’aveva vinto, per poi rinunciare ad indossare la toga perché in quel momento i docenti ordinari di liceo avevano un trattamento economico superiore a quello dei magistrati. Ogni tanto ce lo ricordava sconsolato perché nel frattempo le posizioni si erano invertite e i magistrati guadagnavano molto più dei docenti, nonostante l’impegno che qualunque società civile riconosce nella formazione dei giovani, cioè nell’investimento per il futuro della società. Qualunque società civile, appunto.
Concludo con alcune considerazioni. Se Governo e Parlamento ritengono necessario, per ragioni di cassa, far affluire nuove entrate al bilancio dello Stato avrebbero potuto, sia pure in via transitoria e in attesa di un riordino generale delle imposte, elevare il prelievo fiscale sui redditi medio-alti. Con pochi spiccioli tratti dalle tasche di molti avrebbero potuto riscuotere di più rimanendo nel circuito della legalità. Si è voluto, invece, punire i pensionati con più alti assegni, incuranti degli effetti negativi che ho indicato. La mancanza di parola da parte dello Stato che d’ora in poi sarà considerato inaffidabile con tutte le conseguenze che ne derivano, anche a giustificazione dell’evasione fiscale, dimostra che se non è certo che alcune pensioni possono essere qualificate d’oro è indubitabile che in politica ci sono facce di bronzo, incuranti di non dire la verità. Arroganti ma soprattutto ignoranti questi governanti fanno male all’Italia e non meritano i voti ottenuti. Non sono degni di governare un grande Paese.
(da www.italianioggi.com del 3 gennaio 2019)