Un Conte rancoroso chiude l’esperienza del governo giallo-verde
di Salvatore Sfrecola
“Grande, chiaro e responsabile discorso del Presidente Conte. Sta dimostrando di essere un uomo di Stato!” Così un mio amico che stimo molto, liberale doc. Tuttavia devo dissentire. Probabilmente spinto, come altri, da ostilità nei confronti della personalità politica di Matteo Salvini, ha trascurato di considerare che mai si era visto in un’aula parlamentare il Presidente del Consiglio attaccare a testa bassa un proprio ministro, anzi il vice presidente del Consiglio.
Mai si era visto perché, ai sensi dell’art. 95 della Costituzione “il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo… mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Pertanto dal 1861, dal Conte Camillo Benso di Cavour al Conte Paolo Gentiloni Silverj, le divergenze tra Presidente e ministro sono state sempre risolte in seno al Consiglio dei ministri. In mancanza il ministro si è dimesso o il partito del ministro ha tolto la fiducia al Governo.
Il contrasto tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte è evidentemente un fatto politico. Invece, con tono rancoroso il Prof. Giuseppe Conte, giunto a Palazzo Chigi senza esperienze politiche, scelto dal Movimento 5 Stelle per quel ruolo fondamentale di direzione e coordinamento della politica governativa, ha ritenuto di personalizzare un dissenso che non lo oppone evidentemente al ministro ma al partito del quale Matteo Salvini è Segretario, un partito che aveva manifestato negli ultimi mesi crescente insofferenza rispetto all’attività di altri ministri del M5S accusati di essere un freno alla realizzazione del programma di governo, definito “contratto”. Insofferenze che evidentemente il Presidente Conte aveva sottovalutato o non era riuscito a superare esercitando il suo ruolo di direzione e di coordinamento dei ministri.
È così che un fatto squisitamente politico ha assunto il carattere di una questione personale e pubblicamente, in Senato, Conte ha accusato il ministro per aver innescato la crisi di governo, una scelta politica della quale, per la verità, la Lega si è assunta pubblicamente la responsabilità presentando una mozione di sfiducia nei confronti del Governo. Mossa sbagliata, certamente, irrituale, Costituzione alla mano, ma da valutare sotto il profilo degli effetti politici voluti.
Ricorda Conte, in apertura delle sue “comunicazioni”, che il giorno 8 agosto il Ministro Salvini, dopo avergli anticipato la decisione “nel corso di un lungo colloquio, ha diramato una nota, con la quale ha dichiarato che la Lega non era più disponibile a proseguire questa esperienza di Governo e ha sollecitato l’immediato ritorno alle urne elettorali”.
Una scelta assolutamente lecita. È così che normalmente si aprono le crisi di governo. Conte, tuttavia, ha ritenuto la decisione “oggettivamente grave” per le “conseguenze molto rilevanti per la vita politica, economica e sociale del Paese”. Ed è giusto che ne abbia investito il Parlamento con le sue “comunicazioni” con le quali doveva limitarsi a dar conto della scelta di uno dei partiti di governo della quale poteva ben dire, come ha fatto, di reputarla “oggettivamente grave… perché… questa crisi interviene a interrompere prematuramente un’azione di Governo che procedeva operosamente e che, già nel primo anno, aveva realizzato molti risultati e ancora molti ne stava realizzando”.
È un fatto politico, materia di dissenso per approfondire il quale non si è mai scesi sul personale. Giusto, ancora, esporre considerazioni critiche sui tempi della crisi che, ha affermato, “espongono a gravi rischi il nostro Paese” per “il rischio di ritrovarsi in esercizio finanziario provvisorio”, con l’aggiunta di ipotetiche “difficoltà di contrastare l’aumento dell’IVA e con un sistema economico esposto a speculazioni finanziarie e agli sbalzi dello spread”.
Tutte valutazioni assolutamente legittime. Anche quella di ritenere la decisione di innescare la crisi di governo “come fortemente irresponsabile”. Non l’intento “di inseguire interessi personali e di partito”, certamente consentiti. È noto che nella culla della democrazia parlamentare, il Regno Unito, il Primo ministro chiede alla Regina lo scioglimento anticipato della Camera dei comuni quando ritiene favorevole al suo partito il contesto politico elettorale. Appare, pertanto, fuor di luogo il richiamo all’interesse nazionale che ogni partito è evidentemente libero di interpretare e perseguire nel modo che ritiene più opportuno per cui se finisse per comprometterlo ne subirebbe le conseguenze in termini di consenso elettorale.
Ed è qui che il tono del discorso del Presidente del Consiglio degrada ad una ripicca personale giacché riconosce che “ormai da molte settimane – certamente già all’esito delle elezioni europee – era chiara l’insofferenza per la prosecuzione di un’esperienza di Governo giudicata evidentemente ormai limitativa delle ambizioni politiche di chi ha chiaramente rivendicato pieni poteri per guidare il Paese”.
Comincia a questo punto contro la tesi della Lega, che il suo fosse il “Governo dei no, del non fare”, la difesa dell’attività di governo con una puntigliosa elencazione delle cose fatte nonostante le quali “all’indomani della competizione europea, il Ministro dell’interno e leader della Lega, forte del successo elettorale conseguito, ha posto in essere un’operazione di progressivo distacco dall’azione di Governo, un’operazione che ha finito per distrarlo dai suoi stessi compiti istituzionali e lo ha indotto alla costante ricerca di un pretesto, che potesse giustificare la crisi di Governo e il ritorno alle urne”.
Segue la contestazione personale, con riferimento alla richiesta di “pieni poteri per governare il Paese” e al preannunciato ricorso alle “piazze”, una concezione che “preoccupa” Conte. Giacché, aggiunge, “nel nostro ordinamento repubblicano le crisi di Governo non si affrontano né regolano nelle piazze, ma nel Parlamento”.
“Non abbiamo bisogno di uomini con pieni poteri, ma di persone che abbiano cultura istituzionale e senso di responsabilità. Se tu avessi mostrato cultura delle regole e sensibilità istituzionale, l’intera azione di Governo ne avrebbe tratto sicuramente giovamento”. L’accusa è pesante e personale. Quelle parole, certamente inopportune, come avrebbe detto il mio amico liberale, vanno contestualizzate e interpretate alla luce di una azione politica che utilizza slogan e che si svolge sulle piazze, non per evocare la rivoluzione, ma per dire che il consenso si misura da quel che pensano gli italiani nella vita di ogni giorno, nelle vie e nelle piazze dove chiedono alla politica di soddisfare le loro aspettativa.
Anche l’accusa di scarsa collaborazione è un po’ un boomerang per il Professore. Evidentemente non ha avuto capacità di direzione e coordinamento, specie quando accusa Salvini di invasione di competenze di altri Ministri.
“La cultura delle regole, il rispetto delle istituzioni certamente non si improvvisano”, richiama Conte, per il quale “chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi”. Si può convenire, ma è una scelta che valuteranno gli elettori al momento del voto.
Chiude con altri rimproveri a Salvini, come non aver partecipato alla seduta nella quale si è parlato della “vicenda russa”, ma dimentica di chiosare la vicenda della mozione sulla TAV, dopo la sua scelta di dare avvio all’opera. Che il leader della Lega ben avrebbe potuto prendere a pretesto per rompere.
Errori ne ha fatti Salvini. Nel linguaggio, nel rapporto con le istituzioni, a partire dalla Magistratura che un uomo di Stato deve sempre rispettare anche quando deve subire l’effetto di pronunce sgradite. Ha sbagliato soprattutto nella scelta del tempo della crisi, quando avrebbe avuto ben altre occasioni per dire che il governo era superato, soprattutto quando, sulla base di ripetuti successi elettorali, era evidente che nel Paese si era formata una maggioranza molto diversa da quella che aveva consentito la formazione dell’Esecutivo.
In chiusura ha stilato un nuovo programma di governo, delle cose da farsi in “un periodo di grandi trasformazioni”. Nella replica il richiamo al coraggio che Salvini non avrebbe avuto mentre lui si apprestava a dimostrarlo recandosi al Quirinale. Ancora un fuor d’opera che dimostra l’assoluta inadeguatezza del personaggio per quel ruolo al quale evidentemente si era comunque affezionato sicché, la prospettiva di perderlo ha scatenato in lui la rancorosa reazione che non è certo da “uomo di Stato”, come il mio amico liberale aveva ritenuto, avendo Salvini in gran dispitto.
21 agosto 2019