A Roma la prima del Don Giovanni di Mozart, musica straordinaria, bel canto e sceneggiatura da dimenticare
di Dora Liguori
Nel lontano 1500, alcuni aristocratici signori, intrattenendosi fra loro, ebbero il genio di dar vita al melodramma, uno spettacolo che, almeno nelle loro intenzioni, doveva essere, per il fortunato fruitore, una specie di festa visiva ed uditiva. E tale, infatti, per lungo tempo è stato il cosiddetto, dramma in musica o dramma lirico finché, a cura di alcuni “illuminati” sovrintendenti non è invalso l’uso di portare in scena cosiddette sperimentazioni registiche che, a definirle sconcertanti, si fa loro un complimento. Pertanto, per i citati registi, è invalso l’uso di non tenere assolutamente conto delle indicazioni e del tempo storico stabilito dagli autori per procedere, invece, ad una aggiornata e “intelligente” rilettura del melodramma che, affidato alle loro cure, può, liberato da inopportune anticaglie, divenire una palestra per illustrare al volgo (lo sfortunato pubblico) probabilmente le loro turbe sessuali.
Con queste belle idee, negli ultimi tempi, abbiamo potuto assistere ad una Norma palestinese che miete il sacro vischio nel deserto; ad una Sonnambula che, con un trionfo assoluto di cattivo gusto, insanguinata, abortisce in scena, mentre canta la sublime “Ah non credea mirarti” (roba da spingere, se fosse vivo, il povero Bellini al suicidio); una “Giovanna d’Arco” insidiata dal proprio padre e, tanto per finire, un romantico Alfredo della “Traviata” che stende, con tanto di matterello, le tagliatelle per la sua Violetta.
A questi “illuminati” principi si è ispirata anche la regia di Graham Vick (italiani non ce n’erano), per il “Don Giovanni” andato in scena il 28 Settembre al Teatro dell’opera di Roma, una regia che, ad un certo punto, ha saputo convincere gli spettatori ad aspirare alla “fortuna” di non vedere, per affidarsi ad occhi chiusi, solo alla magia della musica di Mozart, resa in modo onesto dal direttore d’orchestra Jeremie Rhorer (ma quanta simpatia, pare disinteressata, sembrano avere i sovraintendenti e i direttori artistici italiani per gli stranieri) nonché la godibile compagnia di canto, ovviamente disturbata dalle genialate registiche.
Inutile dire che si sono ripetute, a fine spettacolo, le contestazioni, i fischi e la riprovazione del pubblico, avverso il teatro della capitale, che non riesce più, salvo alcune sparute eccezioni, a mandare in scena una spettacolo guardabile. Da qui la forte tentazione del pubblico di dotarsi di occhiali del tutto oscuri, tali da impedire, lasciando intatto il piacere uditivo della musica dal vivo, la visione sconcertante di determinati parti registici.
Infatti, cosa dire di un donna Elvira, gratuitamente divenuta una suora; di immagini fuori luogo della Sacra Sindone e di un elemento, quello del dito del Michelangiolesco “Giudizio Universale”, apparso, improvvisamente, a sovrastare la scena; di un’orgia fatta da poveri invasati che, piuttosto che suscitare immagini sensuali, sfiorando il ridicolo, dava ai presenti una forte propensione al voto di castità; inoltre, tanto per gradire, una Zerlina che, nel finale, sceglie di farsela con donna Elvira piuttosto che un Masetto e, buon ultimo, un redivivo don Giovanni che, bel bello, si ripresenta in scena, alla faccia di tutti, soprattutto del pubblico pagante. Pertanto uno spettacolo che ispira l’opportuna scelta di non vedere poiché, a dirla tutta, i primi che da anni sono ciechi e anche sordi sono proprio i nostri politici, responsabili, nonostante le proteste del pubblico (colui che, attraverso le tasse, consente gli spettacoli), di continuare a servirsi, in nome di non sappiamo cosa, di determinati soggetti che, assurti alla guida dei teatri, forse per una mancanza di estetica, ci propinano simili dissacranti e inguardabili spettacoli.