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Dopo Pio XII … Livermore

Dopo Pio XII … Livermore
Tosca e Vespri siciliani inaugurano le stagioni operistiche di Milano e Roma
della Prof.ssa Dora Liguori

Non vorrei essere blasfema ma va detto che, dopo Pio XII, il quale, forte dell’infallibilità papale, ebbe a proclamare il dogma dell’assunzione in cielo della vergine Maria, dal lontano 1950 in poi, a nessun papa (né a chicchessia) pare sia più venuto in mente d’individuare altre personalità da, ugualmente, assurgere in così alto loco.

Il vuoto, però, l’8 dicembre è stato, finalmente, colmato alla Scala, non da un papa ma da un regista – Davide Livermore – che, forse ignorando l’illustre precedente, ha deciso di, piuttosto che farla gettare nel Tevere, far assurgere Tosca in cielo.

Detto questo, per onestà di pensiero, occorre riconoscere che anche Puccini ha barato… e come, nel momento che ha fatto morire la sua Tosca nelle acque del Tevere. Infatti la poveretta, a meno che non riuscisse a volare, gettandosi dalla fortezza papalina (situata a parecchi metri dal fiume), non avrebbe che potuto spiaccicarsi sul duro suolo. E può essere che questa immagine, essendo alquanto cruenta, abbia indotto, il sensibile Puccini, a far cadere, è il caso di dire con “ volo d’autore”, la protagonista in acqua.

A parte questa eclatante stranezza di stampo pseudo cattolico della regia, chiudendo gli occhi, il pubblico milanese ha potuto godere di un cast vocale, dalla Netrebko a Meli e Salsi, superlativo.

Tornando all’impagabile Livermore, non nuovo a queste “alzate di testa” (guai a criticarle ritenendosi anche lui infallibile come il papa), è possibile dire che, assunzione impropria di Tosca e trasposizione dell’opera all’oggi, dove un Cavaradossi esulta a Napoleone vincitore, la sua regia, trainata dalla bontà del cast (compreso il direttore d’orchestra Chailly) e meno assurda dell’usato, è riuscita a riscuotere numerosi applausi.

Fatta la doverosa premessa occorre, però, ricordare che, tanto per fare un esempio, sempre il Livermore, ci ha donato un “Attila” trasportato nella seconda guerra mondiale, la cui azione scenica aveva bisogno di una guida per riuscire a raccapezzarci qualcosa e un “Barbiere di Siviglia” che vedeva scorrazzare sulla scena un topo che, via, via, da piccolo diveniva sempre più gigante, senza che il pubblico riuscisse a comprendere l’attinenza fra il barbiere, il topo e Siviglia. Pubblico che, alla fine, seriamente incaz… etc, non ha risparmiato all’intoccabile Livermore un’ondata di fischi.

E ahime! Magari Livermore fosse il solo.

Purtroppo l’opera lirica, per alcuni registi, nonostante il dissenso del pubblico, pare sia divenuta un’occasione per descrivere turbe psico-analitiche di freudiana memoria. E pertanto, questo pubblico, negli anni, si è dovuto sorbire un Alfredo, in “Traviata”, che col matterello stende delle tagliatelle per una Violetta predestinata, più che alla tisi, all’obesità; una Giovanna  D’arco, schizofrenica e insidiata dal padre; una “Sonnambula”  che abortisce in scena, frutto di rapporti ravvicinati con il conte e non certo con quel tonto del suo fidanzato Elvino; e una Norma che, trasportata in Palestina e sedotta da quel mascalzone dell’israeliano Pollione, miete il sacro vischio (che come noto vi abbonda) nel deserto.

Ma si sa: più il pubblico protesta e più sovrintendenti e registi, per così dire, stravaganti, se la ridono… tanto, nessuno interviene e Pantalone (leggasi cittadini italiani) attraverso le tasse, comunque, paga. Insomma, la moda instauratasi è tale che ormai nessun teatro che si rispetti, infischiandosene del pensiero del pubblico, si nega un regista “trendy”  capace di  scodellare, quando va bene tutta una serie di illogicità manifeste e, quando va male… l’intero museo degli orrori.  Senza contare che queste illogicità diventano autentiche offese verso il povero compositore,  ritenuto dai citati illuminati registi, colpevole d’avere concepito la propria opera in forme e modi, assolutamente dissimili dal loro “genio” pensante.

Insomma la sfida è aperta: chi sente di, registicamente parlando, fare di peggio… avanzi pure.

E, senza por tempo in mezzo, ad avanzare, sono stati i “Vespri Siciliani”, opera che ha inaugurato la stagione 2019-20, del teatro della capitale.

Anche qui occorre dire subito come il cast vocale, soprattutto riferendoci al personaggio di Elena affidato al soprano Roberta Mantegna, fosse superlativo. Per il resto più che chiudere gli occhi, era meglio votarsi ad una cecità perenne. Infatti, il teatro capitolino, non contento degli stravaganti registi nostrani, sempre attingendo ai soldi dei cittadini italiani, è andato a cercarsi una regista in Argentina, tale Valentina Carrasco che, dobbiamo ammetterlo, ha superato in astrusità e, diciamo, anche in cattivo gusto, i registi maschietti. Le donne, notoriamente, se ci si mettono, non sono seconde a nessuno.

Passando allo spettacolo vero e proprio, è risaputo come i cosiddetti “Vespri Siciliani”, storicamente, ci raccontino di una sommossa popolare intervenuta a Palermo, nel 1282,  e causata dall’offesa che dei soldati francesi avrebbero arrecato a delle donne siciliane.

Ciò premesso: poteva mai la regista lasciare all’opera verdiana una simile antica data?

Operisticamente parlando…non fia mai!

Ed eccoti i “vespri” trasportati in improbabili anni ’50, con l’opera invasa da una serie di stupri e improbabili avvenimenti rappresentati, più che con sottigliezze psico-analitiche, all’interno di un  manicomio  squallido e totale. Ma il meglio di sé, la regista, ce lo ha consegnato quando, nel corso del quarto atto, dedicato interamente al balletto “Le quattro stagioni”,  ha costretto, in un impeto di pulizia reale e psicologica, le povere ballerine, invece che a danzare, a lavarsi, interamente, in scena, bidet compreso.

Ma, dico io: va bene che stiamo parlando di stupri però, determinate cose, molto più efficacemente non si potrebbero altrimenti raccontare, come ad esempio hanno già fatto Visconti, Zeffirelli o, parlando di registi più recenti, De Hana? Insomma dei fatti che, quand’anche scabrosi, portati in scena da chiunque goda di un minimo d’esperienza, rendano l’idea senza offendere il cosiddetto “buon gusto” (che mai dovrebbe mancare in ogni esperienza artistica) e che, soprattutto, non offendano l’opera d’ingegno del povero autore. Insomma che bisogno c’è di tanto “spoetizzare”?

Evidentemente si!

La sfida come sopra detto è aperta: a quando un Rigoletto che stupra la figlia o una Turandot che preferisce, a Calaf, Liù?

P.S Alla disperata, faccio un sentito appello a Sgarbi:

Gentile Onorevole, giustamente, Lei condanna le offese manuali arrecate, da parte di sciagurati individui, a determinate opere d’arte (pitture, sculture o monumenti che siano) chiedendo, per costoro, pene sempre più rigorose. Più che sensato! Ma non pensa che anche deturpare un’opera lirica sia passibile di reato? E non Le pare che il melodramma, gloria soprattutto italiana, rappresenti anch’esso un’ espressione del genio umano da rispettare?

Resto in attesa di una Sua autorevole pronuncia. D.L.

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