di Salvatore Sfrecola
Sono mesi che i giornali dedicano pagine intere, spesso molte, all’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia sulla vicenda delle assegnazioni di posti di funzione apicali in importanti uffici giudiziari decise sulla base di consultazioni e trattative tra componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.), esponenti dell’Associazione Nazionale Magistrati (A.N.M.) e personaggi della politica.
L’aspetto considerato illecito è nelle motivazioni delle “raccomandazioni”, basate sull’appartenenza del candidato ad una determinata componente dell’A.N.M. o alla sua vicinanza ad una parte politica, attestato dall’interessamento di un esponente di partito.
Le notizie di stampa, provenienti dalle trascrizioni delle intercettazioni depositate all’esito dell’attività istruttoria della Procura perugina, dimostrano che non si è trattato di fenomeni isolati, ma di un “metodo” che durava da tempo.
Di più, La Verità ha rivelato oggi il testo di alcune intercettazioni nelle quali alcuni magistrati di primo piano, anche esponenti di spicco dell’A.N.M., commentavano iniziative dell’allora Ministro dell’interno, Sen. Salvini: “mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando”, dice un magistrato parlando dell’indagine della Procura di Agrigento sulla vicenda di nave DIciotti per concludere, “sbaglio? Gli viene risposto “No hai ragione… ma ora bisogna attaccarlo”. E poi, “indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili, Indifendibili”. Un esempio che rivela dei partecipanti a queste conversazioni una mentalità assolutamente incompatibile con quella presuppone l’indipendenza che si richiede a chi veste la toga di Giudice o di Pubblico Ministero ed è chiamato ad amministrare la Giustizia, cioè a fare applicazione delle regole del diritto al fine di garantire i diritti dei cittadini, l’espressione più alta della convivenza civile racchiusa in una norma fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, all’art. 101 per il quale “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (comma 2). È l’affermazione del principio di indipendenza dei giudici. Quel “soltanto” che scandice il senso dell’indipendenza attraverso la soggezione a null’altro che alla legge. Una disposizione che, ha chiarito la Corte costituzionale, “esprime l’esigenza che il giudice riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessuna altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto” (40/1964 e 234/1976). Una indipendenza che esprime un valore fondamentale in un ordinamento liberale caratterizzato dalla divisione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, perché solo questa distinzione garantisce il libero esercizio delle diverse attività, quella di formazione della legislazione, espressione della sovranità popolare (art. 1 Cost.), che la esercita appunto attraverso i propri rappresentanti nelle Camere del Parlamento, quella di applicazione delle leggi e quella di farle rispettare ove si instauri una controversia tra privati, tra i privati e lo Stato, ovvero sia applicata una pena per violazione di una legge penale o di altra che preveda una sanzione.
Questa assoluta indipendenza comporta per la persona una speciale responsabilità che impone sacrifici, nel senso che il magistrato deve non solo essere indipendente ma apparire tale, il che significa che, anche nella vita privata, debba osservare alcune regole di comportamento, ad esempio non frequentando persone di dubbia moralità ed onestà ad evitare che possa la sua immagine essere contaminata. Allo stesso tempo non deve assumere posizioni che siano identificabili come di una “parte politica” perché non si dica che sia vicino al potere o lo contesti. In un caso o nell’altro apparirebbe agli occhi del cittadino come un giudice “schierato”. È anche per questo motivo che le udienze nei tribunali e nelle corti sono pubbliche. Perché il cittadino ha il diritto di affacciarsi in un’aula di tribunale per constatare come i giudici, gli avvocati e le parti si comportano. In sostanza per verificare che effettivamente “la legge è uguale per tutti”, come si legge nelle aule di giustizia.
Quella della pubblicità è una regola che fa parte della nostra cultura giuridica, già sancita a livello costituzionale dall’art. 72 dello Statuto Albertino il quale stabiliva che “le udienze dei Tribunali in materia civile e i dibattimenti in materia criminale saranno pubblici conformemente alle leggi”.
Ebbene questa premessa sulla indipendenza dei magistrati, occasionata da fatti di cronaca giudiziaria, l’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia che ha svelato indebiti e spesso illeciti accordi per l’assegnazione di funzioni direttive importanti, dimostrano che alcuni magistrati non si comportano in modo da apparire indipendenti. Alcuni, senza dubbio pochi, ma capaci di gettare un’ombra sull’intero corpo della magistratura, come dimostrano le rilevazioni che delineano l’indice di fiducia dei cittadini neelle istituzioni.
Ne dà conto l’indagine annuale di EURISPES sulla fiducia degli italiani nelle istituzioni. Infatti, se in testa a questa graduatoria troviamo le Forze dell’Ordine con il 73%, la Magistratura si colloca al 7° posto con il 36% (42% nel 2018,37% nel 2017,41% nel 2009). Un dato che deve far riflettere perché Forze dell’Ordine e Magistratura idealmente concorrono ad assicurare il rispetto della legge a presidio della legalità.
È un dato che dimostra come gli italiani siano scontenti di come vanno le cose nei tribunali e nelle corti in ragione della lentezza della Giustizia civile e penale che, se originata certamente dalla farraginosità delle procedure, dalla quantità notevole delle cause, dalla assoluta inadeguatezza degli uffici giudiziari, dalla mancanza di personale, di magistratura e amministrativo (ad esempio il numero delle udienze è condizionato dal numero dei cancellieri; sembra ne manchino 10 mila) non c’è dubbio che influisca anche la diffusione di notizie relative all’attività di taluni magistrati. Perché se è vero, come risulta dalle statistiche europee, che i magistrati italiani hanno una “produttività” molto elevata, nondimeno sentire dire, come spesso si è letto sui giornali, di sentenze depositate dopo anni dall’udienza nella quale sono state decise, diffonde un’immagine di un’amministrazione della giustizia assolutamente inaffidabile per i cittadini ma anche per gli imprenditori, italiani e stranieri, i quali hanno necessità di certezze sui tempi delle decisioni che rappresentano un momento significativo dell’attività di impresa. Si è detto più volte, infatti, che la lentezza della giustizia civile costituisce una remora ad investire in Italia da parte di imprenditori stranieri.
Non potrei concludere queste riflessioni sul grado di fiducia degli italiani nella Magistratura senza fare qualche riferimento ad orientamenti interpretativi delle leggi che svincolano totalmente il giudice da parametri sempre considerati guida dell’interprete, come l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale laddove si legge che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore”, regoletta semplice che ad alcuni va stretta, in particolare a quanti seguono un orientamento che ha dato luogo a quella che è stata definita giurisprudenza “creativa”, alla ricerca del “sentire” della gente. Con quale conseguenza sulla certezza del diritto è facile comprendere e che probabilmente ha influito sull’indice di apprezzamento della magistratura. Infatti, la varietà delle interpretazioni può indurre il cittadino a ritenere che non si abbia certezza del diritto. È evidente che la sensibilità, la cultura e l’esperienza di ogni singolo magistrato possono determinare orientamenti giurisprudenziali non del tutto coincidenti ma dovrebbe ragionevolmente escludersi una differenza di interpretazione così marcata da indurre a ritenere che vi sia una libertà di interpretazione così ampia da non dare certezze al cittadino il quale ha ragionevolmente bisogno di sapere, di fronte a una determinata fattispecie, quale potrebbe essere la decisione del suo giudice.