di Salvatore Sfrecola
Il lusinghiero esito della recente asta di titoli di Stato ha suscitato sulla stampa e negli ambienti politici commenti entusiastici, come se fosse una novità la disponibilità degli italiani a venire incontro alle esigenze del Tesoro. È accaduto sempre, anche in tempi nei quali la sottoscrizione non è stata particolarmente remunerativa e l’offerta di titoli è stata contenuta nella misura di una ordinaria emissione. Cioè senza che fosse accompagnata dalla indicazione di programmi di investimenti pubblici di interesse generale, come oggi sarebbe necessario. E come ha ripetutamente sostenuto in questi ultimi tempi, tra gli altri, l’economista Giulio Sapelli.
“In certi momenti, come ci insegnano biblioteche intere si storia, indebitarsi è l’unico modo per innescare il Pil per la crescita. La crisi dei consumi interni non colpisce gli ultimi, ma i penultimi”. Così su La Verità, partendo dall’errore dei tagli alla nostra sanità i cui effetti sono drammaticamente evidenti in questi giorni con l’accertata mancanza di posti letto nei reparti di terapia intensiva.
Ma come indebitarsi e come incidere sul PIL per farlo crescere? Nei mesi scorsi sono state molte e pesanti le critiche a Matteo Salvini che, nell’immaginare come recuperare le risorse necessarie per un grande piano di investimenti pubblici, sembrò suggerire alla politica di tassare in qualche modo le somme che gli italiani conservano nelle cassette di sicurezza, una ricchezza del Paese che, al momento, non produce sviluppo e lavoro e, pertanto, neppure considerata in sede di valutazione del peso dell’indebitamento pubblico sugli equilibri finanziari del Paese.
Quella ricchezza esubera rispetto all’ordinario risparmio con il quale gli italiani investono prevalentemente nel mattone, comprando case per sé e per i figli, prime case e case di vacanza. Come far emergere, dunque, senza ricorrere alle “maniere forti” (tassandole), le disponibilità conservate in contanti per farne la base di un grande investimento pubblico? In infrastrutture viarie e ferroviarie, delle quali alcune regioni meridionali e insulari sono estremamente carenti. Ma anche nella manutenzione degli acquedotti, delle reti fognarie, degli elettrodotti, per fare solo qualche esempio. O, ancora, nella tutela dell’assetto idrogeologico del territorio che, trascurato, richiede di anno in anno spese straordinarie per soccorrere in emergenza le persone e ripristinare le condizioni di fiumi e strade. O a tutela dell’immenso patrimonio boschivo, anche esso una risorsa per l’ambiente e l’economia, spesso devastato dalle fiamme quasi mai spontanee.
Sovviene, come ricordava Sapelli, la storia. L’Italia ha avuto bisogno in passato dell’apporto della ricchezza privata per sopperire ad esigenze di pubblico interesse. È accaduto nel corso della Grande Guerra, quando il governo chiese agli italiani di sottoscrivere prestiti per le esigenze delle forze armate. I nostri nonni non esitarono, già nel 1915 e poi nel 1916, 1917 e 1918. Lo ricorda bene Luigi Einaudi, sempre attento ai conti dello Stato, sottolineando sul Corriere della Sera del 12 gennaio 1915 come quei prestiti siano stati prontamente sottoscritti in misura di gran lunga maggiore rispetto ai titoli offerti. A dimostrazione, altresì, che nel Paese esistevano “ancora forti masse di risparmio disponibile, costituenti una riserva, la quale dovrà venir fuori in caso di bisogno”. “È stata la fiducia dei molti, della gente che ha fede nella parola dello stato, e che non teme di affidargli la propria piccola fortuna sudata a frusto a frusto, quella che ha creato il successo del prestito”. Naturalmente era assicurata “la convenienza dei risparmiatori italiani”. Einaudi ricorda che lo Stato si addossò l’onere della restituzione dilazionandola nel tempo in modo che l’equilibrio della finanza pubblica non fosse compromessa.
Si potrebbe oggi, in una fase difficile della nostra economia, ferma da anni e aggravata ulteriormente dalla crisi indotta dal Coronavirus, chiedere ai cittadini di sottoscrivere un prestito straordinario per un grande programma di investimenti pubblici per lo sviluppo economico di alcune aree del Paese? Ne risentirebbe positivamente l’industria delle costruzioni e sarebbero assicurati posti di lavoro in misura rilevante. Di nuove infrastrutture si gioverebbero le industrie e i commerci oltre che il turismo, perché sarebbero rese fruibili aree del Bel Paese meravigliose ma difficili da visitare e da offrire ai vacanzieri. Lo Stato avrebbe anche significativi ritorni di carattere tributario, per l’Iva sulle lavorazioni, per l’Irpef sui redditi dei nuovi lavoratori e sugli utili delle imprese.
Con un grande impegno nel settore delle infrastrutture l’Italia farebbe un passo avanti straordinario. Ed ancora una volta giova riandare alla storia, a quello straordinario articolo di Camillo Benso di Cavour, pubblicato sulla parigina Revue Nouvelle il 1° maggio 1846, nel quale auspicava che le ferrovie non solo unificassero l’Italia, allora divisa in sette piccoli stati, ma ne assicurassero lo sviluppo mediante la facilitazione dei commerci dal Sud al Nord e da qui in Europa e portassero ricchezza attraverso il turismo la cui importanza era già allora percepibile. Quel geniale uomo di governo aveva anche immaginato che l’Italia, in ragione della sua posizione geografica nel Mediterraneo, sarebbe stata la porta dell’Europa sul medio e l’estremo oriente. Aggiungendo che dai porti di Napoli e Palermo sarebbero transitate le merci europee per la Cina. Profetico e inascoltato!
Un grande prestito dunque. Ma il governo oggi gode di quella “fiducia” che i nostri nonni ebbero cento anni fa nello Stato e nel Governo di allora? Nei sondaggi sembra sia in netto calo, anche per il modo, a volte approssimativo e incerto, col quale viene gestita l’emergenza Coronavirus.