di Salvatore Sfrecola
“Roma o morte” avrebbe detto Giuseppe Garibaldi alle “camicie rosse” a Marsala, il 19 luglio del 1862, annunciando la partenza dei volontari alla conquista di Roma, designata capitale del Regno instaurato appena un anno prima, il 17 marzo 1861.
Frase guerresca, che va collocata nel contesto politico dell’epoca, ma che a me sembra si possa richiamare, con ben diverso significato, nel momento attuale nel quale la politica sbanda e non è chiaro dove e chi operi nell’interesse nazionale che ragionevolmente dovrebbe essere discusso e definito a Roma.
Capitale dello Stato fin dal 1870, di cui celebreremo a breve i 150 anni, Roma è il luogo della politica, anche quando le regioni, talune in particolare e non di rado a ragione, contestano le scelte del Governo nazionale. Infatti “Roma ladrona”, nel gergo grezzo del “Senatur” non era diretta agli incolpevoli abitanti della Città ma ai frequentatori dei palazzi della politica, qualunque fosse la loro provenienza, laddove si gestiva un potere contestato, non sempre a torto, dai “padani”.
Roma è naturalmente al centro della politica italiana. Qui ha sede il Capo dello Stato, qui sono i palazzi dove si riuniscono il Senato e la Camera dei deputati, a Palazzo Chigi è la Presidenza del Consiglio. In giro per la città, in sedi antiche e più recenti, sono i ministeri ed i grandi enti pubblici. È logico, dunque, che gli abitanti di questi palazzi siano, con ruoli diversi, i protagonisti della politica. I parlamentari innanzitutto. Perché in una democrazia rappresentativa al centro stanno le Camere che danno e tolgono la fiducia ai governi, che controllano con interpellanze interrogazioni, mozioni. Infatti, nel “peso” delle responsabilità politiche la Presidenza di una Commissione parlamentare assicura più visibilità e autorevolezza di un posto di ministro o di viceministro, come ha dimostrato, tra tutte, l’esperienza di Paolo Cirino Pomicino, a lungo Presidente della Commissione bilancio della Camera, quando nel suo studio si decidevano profili essenziali della legge finanziaria. Le commissioni parlamentari hanno un costante rapporto con le amministrazioni e con le categorie economiche e professionali interessate e condizionano la realizzazione del programma del Governo. Questo ruolo del Parlamento va salvaguardato a garanzia della democrazia. Purtroppo, una legge elettorale, fatta ad uso degli interessi dei partiti, anziché della valorizzazione del dibattito delle idee, da anni va riempiendo Camera e Senato di “nominati” anziché di “eletti”, sicché ne risulta gradualmente offuscato, anche agli occhi dei cittadini, il ruolo delle Camere, ben visibile in questa stagione nella quale i decreti suggeriti dalla lotta all’epidemia sono stati approvati senza discussione con un voto obbligato su una mozione di fiducia.
Questo mondo animato da politici vive isolato. Non dialoga, se non marginalmente, con l’alta dirigenza statale e con gli ambienti delle professioni e delle università. Oltre a “La Sapienza”, la più grande università d’Europa, Roma ha altre università, “Tor Vergata”, “Roma Tre”, altre importanti università telematiche. Qualcuno ne ha contate ventotto! A Roma siedono le magistrature superiori, la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Ma da questi ambiti praticamente nessuno è transitato nelle liste elettorali dei partiti e negli staff dei ministri.
Quando la Democrazia Cristiana era il partito di maggioranza relativa le liste dello scudo crociato erano piene di docenti universitari, professionisti, esponenti delle magistrature superiori e delle aziende pubbliche. Era l’apparato di potere che accompagnava l’azione parlamentare e di governo del più grande partito italiano, cattolico ma non strettamente confessionale, non estraneo a varie componenti laiche. Nella D.C. conviveva la sinistra popolare, l’ala moderata variamente articolata e quella più di destra che intratteneva rapporti con liberali, monarchici e anche missini, che “arruolava” all’occasione per formare una maggioranza di governo o per eleggere il Presidente della Repubblica.
Quell’esperienza, politica e culturale, alimentata dalla linfa vitale della società, sembra del tutto dimenticata. Così i partiti non guardano alla Pubblica Amministrazione come al corpo dei tecnici che assicurano la realizzazione dei programmi di governo ed hanno trascurato ogni riforma e, anziché valorizzare l’esistente, hanno fin qui immesso nei ministeri, in posizioni di responsabilità, una quantità sempre maggiore di soggetti estranei, spesso con scarsa professionalità e nessuna esperienza specifica. L’effetto è stato quello di mortificare i funzionari di carriera, che hanno visto sbarrata la strada ad una progressione nei ruoli alla quale legittimamente potevano ambire, e di mettere nelle mani di modesti, ma fedelissimi, le sorti degli apparati. Con quali effetti tutti possiamo constatare, la paralisi dell’Amministrazione che in una fase di emergenza, quando si deve supportare l’economia, assicurando risorse ai singoli e alle imprese, non riesce nell’intento.
Il Movimento 5 Stelle innanzitutto, entrato in campo come espressione della ribellione popolare alla “casta”, politica e amministrativa, ha messo in campo persone di nessuna esperienza politica le quali temono soggetti professionalmente dotati e si circondano di compagni di scuola, compaesani, attivisti della prima ora.
Anche la Lega ha scarso rapporto con questo variegato mondo romano. Per aver troppo a lungo, e in modo a volte volgare, contestato la politica romana, confondendo in qualche modo la sede del governo, del quale contestava la politica, con la Città, la sua storia trimillenaria, ed i suoi abitanti. Lo ha dimostrato l’esperienza del governo giallo-verde quando intorno ai ministri, Viceministri e Sottosegretari, in assoluta prevalenza nati al di sopra del fiume Po, i capi di gabinetto e i capi degli uffici legislativi sono stati tratti da precedenti esperienze. Ora è vero che un tecnico può collaborare con ministri di vari orientamenti politici, ma sfugge che questi Grand Commis, non occasionali ma di carriera, proprio perché sono o si sentono al servizio del governo non sposano mai fino in fondo la politica di un ministro, nel timore di non sopravvivere al cambio di governo. E questo li rende meno entusiasti di quanto dovrebbero essere a fianco di un ministro e di un governo che volesse in qualche modo innovare.
Non l’ha capito neppure Forza Italia che al Governo ha fatto largo uso dello spoil system e delle nomine di estranei con gli effetti di cui si è detto.
Questi partiti, inoltre, con esclusione di Forza Italia, che può far capo a Palazzo Grazioli, residenza romana di Silvio Berlusconi, non hanno a Roma una sede che possa assicurare una presenza di affiliati e simpatizzanti, per dibattere i temi dell’agenda politica e attuare una sinergia con l’ambiente romano.
È un tema che è gravissimo sia ignorato dalla Lega nel momento in cui abbandona il profilo secessionista e comunque padano per presentarsi all’elettorato come un partito nazionale. Un partito che necessariamente deve estendere la sua presenza nell’Italia meridionale e nelle isole, territori dai quali provengono molte delle personalità che a Roma rivestono posizioni di rilievo nelle professioni, nelle amministrazioni, nella direzione di importanti imprese pubbliche, nelle magistrature superiori. Ebbene, non è difficile immaginare che se la Lega intende estendere la sua presenza e consolidarla nelle regioni del Sud deve necessariamente valorizzare i meridionali romani perché, in questo modo, rassicurerebbe i meridionali che operano in quelle regioni che la vecchia ostilità nei confronti del Sud, tante volte manifestata nelle precedenti gestioni della Lega, sono state abbandonate dal nuovo segretario del partito, quel Matteo Salvini che ha portato il partito che fu di Bossi, dal 3% a superare in qualche momento il 30% con ambizioni di governo perseguite, per la verità in modo inadeguato. Proprio perché è mancata quella sinergia con il mondo romano che avrebbe potuto assicurare ai leghisti al governo conoscenze nelle amministrazioni, sicurezza nella gestione attraverso la competenza di giuristi, economisti e altri tecnici tratti dalle università e l’esperienza preziosa dei Grand Commis.
La nuova Lega non è stata capace di questo salto di qualità, in parte per ignoranza, in gran parte per presunzione perché qualcuno, che nel paese d’origine aveva svolto funzioni di sindaco o di assessore, ha ritenuto che avrebbe potuto fare, senza grosse difficoltà, il sottosegretario o il ministro, con ciò dimostrando di non aver compreso la differenza, di non avere studiato abbastanza i meccanismi del potere, nonostante il partito da anni sia presente in Parlamento.
Riusciranno, dopo il governo giallorosso, se in una competizione elettorale la Lega e il centrodestra vincessero le elezioni, a comprendere gli errori già fatti perché quella che è stata “un’occasione mancata” (consentitemi di rinviare al mio libro) non abbia a ripetersi? C’è molta delusione negli ambienti che avevano supportato la Lega alla vigilia delle elezioni del 2018, che già si erano impegnati nella battaglia referendaria del 2016 e nelle elezioni per il Comune di Roma. Personalità della cultura che avevano movimentato esponenti delle università e delle professioni ed avevano costituito una sorta di think tank del partito di Matteo Salvini (ne aveva intuito l’importanza Marco Damilano su L’Espresso), trascurati si sono allontanati ed hanno scelto la strada di un’autonoma riflessione sui temi della politica, in attesa di vedere che svolgimento avrà la legislatura.
In questo contesto anche Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno proceduto a ranghi ristretti, e se Giorgia Meloni ha dimostrato di saper riconquistare buona parte delle milizie disperse di Alleanza Nazionale, il partito di Silvio Berlusconi prosegue nel suo splendido isolamento avendo accettato l’idea di essere minoranza eppure di contare tra Lega e F.d.I. L’errore di Silvio Berlusconi è stato quello di scegliere personaggi che si distinguevano più per l’apparenza che per la sostanza la cui inadeguatezza, in qualche modo, occultata quando il partito è stato al governo e esplosa all’opposizione. Tranne alcuni di provenienza giornalistica, la maggioranza non ha doti carismatiche, capacità dialettiche sia in pubblico che nelle occasioni offerte dalle numerose trasmissioni di approfondimento presenti su tutte le reti.
Questa analisi, che naturalmente ha tutti i limiti di approfondimento dovuti allo spazio del giornale, credo possa far riflettere qualcuno (Giorgetti?) e favorire quel dibattito del quale la politica ha bisogno perché il centro destra ha certamente possibilità di vincere le prossime elezioni legislative, considerato lo sfacelo che ci ha consegnato il Governo giallo-rosso impietosamente abbattuto dall’epidemia da coronavirus, ma appare scarsamente idoneo a governare con efficacia un Paese che deve uscire da una crisi lunga e difficile, alimentata da una serie di gravi errori che risalgono nel tempo.