di Rossella Pace
Impossibilitata dall’emergenza Covid19, l’Unione Monarchica Italiana ha deciso di rimandare ad ottobre le celebrazioni per il Bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele II ma non ha voluto rinunciare, lo scorso 8 maggio, a presentare, ad una folta platea virtuale, il volume pubblicato per l’occasione: L’Italia in eredità a cura di Alessandro Sacchi e Salvatore Sfrecola Historica, 125 pp.
Con i coautori del volume si è cercato di fare qualche passo per capire, per conoscere e per approfondire momenti poco noti o meglio non “noti abbastanza” della vita e dell’esperienza di Vittorio Emanuele II, primo Capo dello Stato unitario. Ridisegnando il ruolo del Sovrano e dello sviluppo del regime parlamentare e liberale in Italia. Egli non fu soltanto il fondatore del Regno d’Italia ma fu colui che consentì che le Istituzioni costituzionali nel nostro Paese si consolidassero, esercitando un’influenza determinante affinché queste Istituzioni prendessero una determinata forma.
Secondo Eugenio Capozzi si riconoscono tre momenti cruciali che costituiscono questa influenza esercitata dal Re: il primo momento è quello del 29 marzo 1848, il giorno del giuramento come Re d’Italia. Giurando sull’articolo 22 dello Statuto – dice Capozzi – di restare fedele allo Statuto stesso, egli consolidò la svolta costituzionale coprendo con la sua autorità l’inizio di un regime pluralistico in Italia. Un regime pluralistico che tenderà verso una forma di regime parlamentare ma su cui il Re vorrà sempre esercitare un influsso attivo, una funzione di equilibrio per evitare pericolose derive sia a destra che a sinistra.
Il secondo momento importante fu quello del proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849, quando, al secondo scioglimento delle Camere avvenuto nello stesso anno, prima delle elezioni il Re intervenne per ammonire gli elettori a votare in maniera responsabile al fine di evitare una guerra ma anche un’involuzione che avrebbe potuto portare allo stesso abbandono dello Statuto Albertino.
Terzo momento cruciale è quello del febbraio del 1852, quando venne varata la cosiddetta politica del “Connubio” che mise insieme la destra moderata di Cavour e la sinistra moderata di Rattazzi. Nonostante Vittorio Emanuele non amasse questa soluzione, non avendo simpatia per uno sviluppo del regime parlamentare troppo slegato dalla sua autorità, anche questa volta decise di dare credito al regime rappresentativo, rendendo concepibile all’interno delle istituzioni l’elasticità del regime parlamentare nella sperimentazione di diverse possibilità di coalizione.
A riscoprire il personaggio storico, talmente centrale che, il nuovo corso delle cose non può far sparire la sua persona importante e persuasiva, è stato Adriano Monti Buzzetti.
Monti Buzzetti ha insistito sulla politica di ridicolizzazione della figura del Re negli anni, una caricatura, non un Sovrano ma un “paracadutato eccellente” sul terreno della grande storia.
Già nel 150° dell’Unità – continua il giornalista – è stata rovesciata la piramide risorgimentale, si è parlato, infatti, della mente organizzativa: Cavour, del braccio armato: Garibaldi ma, pochissimo di Vittorio Emanuele II, che venne liquidato come una sorta di mero facilitatore degli eventi, favorito dalla sorte ma inadeguato.
Sono però il carattere del Re, il suo senso dello humor, quel tratto ironico intelligente nemico dei formalismi, che lo rese capace di entrare in sintonia con i diversi tipi umani, dal dignitario al popolano. Riuscendo a conseguire due grandi risultati: dare un volto umano alle Istituzioni e alla stessa casata Savoia. Un Sovrano che si fermava a discutere con i pastori, poco avvezzo di etichetta. Questo suo tratto umano lascia intravedere il senso del nuovo patto che “prima ancora che istituzionale fu d’amore tra la nuova Italia unita e Vittorio Emanuele II”.
Michele Ferraro si è soffermato sulla committenza artistica di Vittorio Emanuele II e sulla costruzione del mito del Padre della Patria mentre Rossella Pace ed Edoardo Mauri hanno affrontato il tema importantissimo del ruolo della corte e della “vocazione europea del Re”. Soltanto dopo l’Unità anche in Italia si iniziò ad avere una parvenza di vita di corte. Infatti, rispetto al passato cominciò ad essere molto più frequente incontrare al Palazzo Reale i membri dell’aristocrazia italiana, non soltanto piemontese e francese ma proveniente da tutta la penisola unificata sotto Casa Savoia.
Questo cambiamento di atteggiamento di Vittorio Emanuele era andato modificandosi negli anni, proprio perché egli ebbe sempre ben presente il suo fine ultimo: quello di essere un Re costituzionale. Furono questi gli anni in cui il Sovrano si preparò a conoscere meglio le persone della corte e ad entrare nello spirito di corte. Fu, soprattutto, la fase della guerra di Crimea, conclusasi vittoriosamente, in cui l’attenzione di Inghilterra e Francia fu richiamata dal valorosissimo piccolo esercito piemontese.
Volendo fare un bilancio complessivo sul suo ruolo nel Vecchio Continente, sicuramente uno dei contributi effettivi di Vittorio Emanuele II al Risorgimento fu quello di rassicurare il «concerto delle potenze» europee sul fatto che la «rivoluzione nazionale» italiana non avrebbe provocato eccessive ricadute sull’equilibrio internazionale. Infatti, fu proprio durante quei mesi che il Re combatté e vinse la battaglia a favore dell’unità italiana, muovendosi agevolmente e allo stesso tempo su due fronti: da un lato coltivava l’amicizia con Francia e Inghilterra, dall’altro non disdegnava però anche quella con la Russia. Fu molto abile, infatti, nei riguardi dell’Imperatrice madre di Russia, venuta nel 1857 a soggiornare a Nizza. Fu l’improvvisa morte del Cavour che decretò l’ascesa di Vittorio Emanuele sulla scena ma, soprattutto la sua vocazione europea, a fare da ago della bilancia della politica estera di Vittorio Emanuele, tramandando ai posteri l’immagine di un Sovrano che, raccogliendone l’eredità, riuscì a completare l’opera iniziata dal padre Carlo Alberto e a realizzare l’unificazione spirituale e politica del Paese in un momento storico particolarmente delicato e turbolento.
Luca Piovano si è soffermato sul ruolo di padre di Vittorio Emanuele II, il quale prima di essere Padre della Patria fu padre di numerosi figli.
Salvatore Sfrecola ha analizzato, poi, i rapporti con la Regina Vittoria e la Visita di Stato a Londra, importantissima ai fini della politica estera italiana.
Due aspetti sono molto importanti in questa vicenda, il Re arriva a Londra con una fama poco lusinghiera, invece i rapporti con la Regina si rivelano ottimi, tanto che dalla descrizione che ne fa nel suo diario, si evince la grande ammirazione della Regina, superate le ritrosie iniziali: uomo leale, ha mantenuto lo Statuto, come evidenzia lo stesso Capozzi. È in questo momento che si forma un sentimento di attenzione per la questione italiana. Quella questione italiana che significa attenzione al sentimento unitario degli italiani e che Cavour porterà al congresso di Vienna dell’anno successivo al termine della Guerra di Crimea. Questa Visita di Stato porta alla creazione di un clima tale che gioverà alla diplomazia.
Andrea Ungari ritorna sulla questione del mantenimento dello Statuto e su quanto questa non fosse una cosa così scontata. L’ascesa al trono del Re avvenne in un momento molto drammatico, in cui ci furono molte pressioni da parte di Vienna, affinché egli rinnegasse lo Statuto, ma i discorsi che pronunciò quando tornò a Torino e il discorso successivo al Parlamento Subalpino mostrarono la volontà del Re di mantenere fede al giuramento prestato nelle mani del padre, e di mantenersi nel cammino costituzionale. “Un sovrano che nella decisione di mantenere lo Statuto rifulge nella sua volontà di legare una visione liberale al progetto nazionale, riuscendo, grazie anche a Cavour, a coniugare la vocazione nazionale della dinastia dei Savoia, mantenendo quest’ultima nell’alveo del pensiero e soprattutto della prassi liberale”.
Il conseguente appoggio dato alla spedizione dei Mille fonde insieme gli aspetti della guerra regia e popolare, coniugandoli nella nuova Nazione italiana.
La riflessione finale di Sacchi, fa emergere la vera eredità lasciataci dal Re che non è fatta solo da monumenti nelle varie città italiane, ma che trova il suo lascito più importante nello straordinario esempio di comprensione che la forza propulsiva del Risorgimento dovesse essere lo Statuto. Il capolavoro fu che questa forza arrivò nelle regioni e negli Stati preunitari non come un messaggio di conquista ma di liberazione, portando alla luce che il meccanismo della Monarchia era lo straordinario volano attorno al quale tutti i giunti delle istituzioni dovettero fare riferimento.
Sicuramente, aggiunge Sfrecola, tutti furono importanti nella storia del nostro Risorgimento ma se non ci fosse stato il Re, il genio di Cavour e lo spirito rivoluzionario e patriottico di Garibaldi non avrebbero ottenuto nessuno risultato. Fu Vittorio Emanuele II a fondere insieme gli interessi e le volontà dei due che, si concretizzarono nell’unificazione nazionale.