di Salvatore Sfrecola
Non è un bello spettacolo, per quanti hanno a cuore le istituzioni parlamentari, quello, al quale assistiamo da tempo, delle assemblee di Camera e Senato chiamate a votare reiterate deliberazioni con le quali il Governo pone la “questione di fiducia” in sede di approvazione delle leggi, in particolare di quelle di conversione di decreti legge adottati dal Consiglio dei ministri, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione, “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”. Non è un bello spettacolo perché la votazione sulla deliberazione che pone la “questione di fiducia”, non prevista dalla Costituzione ma dall’art. 2, comma 1, lettera a) della legge 23 agosto 1988, n. 400, sulla Disciplina dell’attività di Governo e sull’Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fa decadere tutti gli emendamenti presentati in aula. E, pertanto, l’approvazione della legge avverrà senza discussione, senza approfondimento di eventuali proposte emendative da qualunque schieramento presentate.
Nata per superare l’ostruzionismo parlamentare, la “questione di fiducia” è stata ritenuta misura idonea a consentire al Governo di perseguire il proprio programma con l’approvazione di provvedimenti significativi per l’indirizzo politico programmatico dell’Esecutivo. Tuttavia, come è stato osservato, il rendimento dell’istituto è inversamente proporzionale alla frequenza del suo uso e l’infittirsi delle richieste che si registra, in particolare, in questa stagione della politica, è sintomatico delle difficoltà di una maggioranza poco coesa, composta da partiti ideologicamente incerti, composti da un personale politico parlamentare modesto, incapace di reggere l’impatto del confronto con l’opposizione. Questa, a sua volta, con la “questione di fiducia” è, di fatto, tagliata fuori dall’attività legislativa. Ed è un impoverimento del ruolo del Parlamento perché, contrariamente a quanto dimostrano di ritenere i partiti che oggi ci governano, l’opposizione non è un fastidioso intoppo parlamentare, ma l’espressione prima della democrazia con il ruolo di contribuire, attraverso il dibattito parlamentare sugli emendamenti al testo presentato dal governo, al miglioramento del documento secondo l’indirizzo dei partiti e le opinioni dei singoli parlamentari. Infatti, nell’ordinamento che è considerato espressione massima della democrazia rappresentativa, quello del Regno Unito, esiste uno “statuto” dell’opposizione, che interloquisce istituzionalmente con il governo, che la consulta, come fa la Regina che, in tal modo, ha diretta contezza degli orientamenti politici presenti alla Camera dei Comuni.
Accade, dunque, che la “questione di fiducia”, utilizzata per compattare la maggioranza , evidentemente incerta nella consistenza e nella fedeltà al programma governativo, quando riguarda decreti-legge, di fatto oscura la necessaria riflessione sui requisiti di costituzionalità dei provvedimenti dei quali si chiede la conversione, cioè sui requisiti di “necessità e d’urgenza” che sovente si ritiene siano labili a fronte di una normativa “con forza di legge” che entra in vigore con la pubblicazione del decreto, in attesa della sua conversione.
Il ricorso continuo, come si verifica in questo periodo, alla “questione di fiducia”, inoltre, di fatto sposta l’esercizio della sovranità popolare dalle Camere all’Esecutivo, in pratica dando vita ad un regime “direttoriale” che molto deve preoccupare, considerato che nel programma del partito di maggioranza relativa, il Movimento 5 Stelle, c’è una scelta in favore della “democrazia diretta”, che è tutto il contrario della democrazia rappresentativa. Qualcuno di loro ha anche detto che in prospettiva il ruolo del Parlamento è destinato a ridursi ulteriormente, forse a sparire. Appunto.
Questo squilibrio di poteri è stato possibile perché il Parlamento soffre, nella sua composizione, gli effetti di un sistema elettorale il quale si basa su una provvista di Deputati e Senatori desunti da liste predisposte dai partiti, più esattamente dalle segreterie dei partiti, con esclusione di un voto di preferenza. I nostri deputati e senatori, in sostanza, con esclusione di quelli che si presentano nei collegi uninominali, sono “nominati”, non “eletti”. E torna ancora una volta l’esempio della democrazia inglese, dove il parlamentare è scelto sulla base di un voto di preferenza in collegi uninominali, all’esito di un rapporto diretto con l’elettorato, che gli assicura autorevolezza all’interno del partito e del gruppo parlamentare, sicché non sarà chiamato a dare un voto per mera disciplina di partito, se non condiviso. Qui chi vota al di fuori delle indicazioni del partito spesso viene espulso.
Gli italiani devono essere molto attenti a questi segnali che provengono dalla politica perché la democrazia non è una ricchezza conquistata una volta per tutte ma uno straordinario valore di civiltà giuridica di una comunità organizzata a stato che va giorno dopo giorno coltivata e salvaguardata.
Di eccesso di fiducia, nel senso di eccesso del ricorso a deliberazioni che pongono “questioni di fiducia”, la democrazia parlamentare soffre gravemente e può morire. E noi vogliamo una democrazia parlamentare viva e vegeta secondo l’indirizzo delineato a partire dal 1848 dallo Statuto Albertino, carta costituzionale di un “Governo Monarchico Rappresentativo” (art. 1) autenticamente liberale, subito interpretata in senso parlamentare, sì che i governi da allora hanno chiesto la fiducia del Parlamento, proprio a dimostrazione che la democrazia si realizza essenzialmente nel funzionamento delle istituzioni elette dal popolo, come espressione della sua sovranità.