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I buoni motivi per dire NO al taglio dei parlamentari

di Salvatore Sfrecola

Il 20 settembre, data fatidica nella storia d’Italia, il giorno in cui Roma è entrata a far parte del neonato Regno d’Italia, si terrà il referendum confermativo della riforma varata con Legge Costituzionale pubblicata in G.U n. 240 del 12/10/2019 che riduce il numero di deputati e senatori. Si dice “confermativo” ma molti di noi vorrebbero che prevalesse il NO, una scelta che giorno dopo giorno si alimenta di nuove adesioni anche all’interno dei partiti che hanno votato la riforma e che formalmente dicono di propendere per il SI, tutti sospettano per timore che gli italiani votino con la “pancia”, come si dice per indicare quel sentimento che accomuna spesso i cittadini nel rifiuto della “casta”, la classe politica che nel tempo si è allontanata del popolo.

La riforma l’ha voluta soprattutto il Movimento 5 Stelle, che ha fatto della lotta ai costi della politica le ragioni della sua battaglia politica. Per dare il buon esempio i parlamentari del Movimento restituiscono una parte della indennità. Non tutti, a quanto si legge delle polemiche e delle contestazioni di cui i giornali hanno dato conto, ma si giovano, a quanto pare, di cospicui rimborsi spese per viaggi, pranzi, cene e pernottamenti.

Luigi Di Maio, in occasione dell’ultima votazione alla Camera ed vista del referendum, si è chiesto come i contrari potranno giustificare il NO al risparmio e così hanno indotto la maggioranza a votare la riduzione dei parlamentari. Con varie argomentazioni: i nostri sono più di altri in Europa e nel mondo; con il taglio di senatori e deputati si risparmierebbero alcuni milioni. Ma intanto è stato aumentato il numero dei funzionari parlamentari, posti messi a concorso al quale in un primo tempo sembra che avessero in animo di partecipare anche alcuni deputati, evidentemente preoccupati per la loro rielezione. Per vari motivi, a cominciare da quelli eletti nel M5S che rispetto alle elezioni del 2018 hanno visto dimezzati i consensi nelle elezioni regionali e locali che si sono tenute nel frattempo. In queste condizioni, con meno posti a disposizione diventa più difficile essere eletti.

Prima di soffermarmi sui motivi politico istituzionali che sorreggono l’opposizione al taglio dei parlamentari va detto che non può essere indifferente la circostanza che l’iniziativa provenga da un movimento politico il quale si è fatto promotore fin da subito della cosiddetta “democrazia diretta”, quella che pratica, attraverso la valutazione sulla “Piattaforma Rousseau”, le idee e le proposte dell’azione politica. Per parte sua Davide Casaleggio, ideologo del Movimento, ha affermato in una intervista a Il Foglio che in futuro il Parlamento potrebbe avere un ruolo ridotto e potrebbe forse anche essere eliminato. È evidente come questa affermazione pesi nella valutazione della riforma perché proviene da chi immagina con la riduzione dei seggi una riduzione del ruolo delle Assemblee legislative. Ora la democrazia parlamentare, con buona pace del Movimento 5 Stelle e di Casaleggio si fonda sulla rappresentanza, cioè su assemblee le quali sono espressione della volontà popolare la quale si manifesta attraverso la scelta dei propri rappresentanti e dà ampio riconoscimento alle minoranze territoriali e linguistiche.

È evidente, dunque, che la riduzione dei parlamentari ha come effetto la limitazione della rappresentanza delle minoranze che, in democrazia, è questione meritevole di particolare attenzione perché proprio la tutela delle minoranze è un indice di democrazia. Di più, come effetto naturale della riduzione dei parlamentari i collegi elettorali dovranno essere territorialmente più vasti in modo da consentire l’elezione di un numero minore di deputati e senatori. E questo è un elemento che indica una falla del sistema. Molti oggi si lamentano del fatto che non conoscono i parlamentari ed è certo che in futuro sarà più difficile conoscere i candidati perché l’ampiezza del collegio allontana naturalmente l’elettore dall’eletto. Si aggiunga che il sistema elettorale non prevede ormai da tempo il voto di preferenza, demonizzato dalla polemica anticorruzione, sì che già oggi la libertà di scelta del cittadino si limita ad individuare una lista indicata da una ristretta oligarchia politica, le segreterie dei partiti, sicché la vita politica si basa essenzialmente su una forma di cooptazione che consente a coloro che detengono il potere nei partiti di scegliere chi, insieme a loro, continuerà a gestirlo. In sostanza noi siamo stati abituati, e questo è il motivo della disaffezione degli italiani per il voto, dimostrata dalla rilevante astensione, a scegliere chi ci viene imposto senza la possibilità di accesso diretto da parte di chi avesse la possibilità di presentare una candidatura, ad esempio proprio perché espressione di una minoranza territoriale o linguistica.

Infatti, nei sistemi a collegio uninominale un cittadino che ritenga di avere un seguito capace di assicurargli l’elezione, ciò che tanto più possibile quanto meno ampi sono i collegi, può presentarsi anche senza l’avallo di un partito ed essere eletto. Qualche volta dovremmo considerare l’esperienza di paesi che hanno sperimentato forme di democrazia rappresentativa che hanno assicurato più ampia partecipazione al voto ed alla vita politica. Come il Regno Unito, anche per questo esempio di democrazia.

Per dire NO alla riforma sono nati comitati, anche a livello locale, mentre studiosi di diritto costituzionale e politologi intervengono quasi quotidianamente sulla stampa e sui social per manifestare il loro dissenso rispetto alla riforma. In particolare il Comitato per il NO promuove una scelta per la quale propone “3 MOTIVI per il NO” selezionati tra le tante buone ragioni per opporsi alla riforma, in quanto illustrano indubbi e clamorosi svantaggi derivanti dalla riduzione dei parlamentari assolutamente decisivi rispetto agli ipotetici (e invero inesistenti) vantaggi, ma che non possono assolutamente essere negati. 3 MOTIVI di agevole comprensione da parte di un elettorato che troverebbe arduo inerpicarsi sulla strada di teorie giuridiche e politologiche costellate da elementi di carattere tecnico il cui rilievo non è da tutti facilmente percepibile. È anche l’opinione del più recente “Appello peer il NO” animato da Mario Landolfi, Gennaro Malgieri e Alessandro Sacchi, Presidente dell’Unione Monarchica Italiana che si rifà alla esperienza dello Statuto Albertino.

Tutti coloro che si oppongono alla riforma hanno puntato, dunque sui elementi di grande rilievo e impatto emotivo  sicuramente utili a far comprendere le ragioni del NO.

Abbiamo già accennato alla limitazione della rappresentanza territoriale quale effetto della riduzione dei parlamentari.

Territori senza eletti

La riduzione dei parlamentari lascerà per sempre senza rappresentanza molti territori che oggi o eleggono (almeno) un parlamentare o hanno possibilità di eleggerlo: valli alpine, contrade collinari di borghi che non si raccolgono attorno ad una media città, ma al più a una piccola cittadina, isolate zone appenniniche, in generale province o parti di province non densamente popolate rispetto ad altre.

Questi territori tenderanno a divenire politicamente marginali: saranno colpiti dai tagli; e beneficeranno di minori risorse rispetto a territori vicini, che invece troveranno tutela nei loro rappresentanti. I cittadini che li abitano si sentiranno impotenti, abbandonati e, alla resa dei conti, emarginati nel dibattito politico e, conseguentemente, nelle scelte che possono interessare i territori.

Intere province con poca popolazione, anche se di grandi dimensioni, potrebbero non riuscire ad eleggere un senatore (è il caso di Rieti per esempio).

Un regalo alla “Casta”: i cittadini condannati a scegliere il “meno peggio”

Gli italiani, di “sinistra” o di “destra” o di “centro”, non stimano i partiti attuali: i cittadini votano i partiti turandosi il naso, come disse Indro Montanelli in un suo straordinario editoriale, considerandoli soltanto meno peggiori di altri partiti; i cittadini spesso votano contro partiti e contro leader politici, non per convinta adesione e stima dei partiti e dei politici che immeritatamente premiano con il voto.

Tutti attendono che la politica italiana sia sconvolta da qualcosa di nuovo, di valido, di storico. Tutti siamo convinti che il sistema di formazione e selezione della classe dirigente sia inadeguato ad una democrazia moderna e che la attuale classe dirigente sia di qualità estremamente modesta, quanto ad esperienza e professionalità, espressione di una vera e propria “Casta”, che nel corso degli ultimi decenni ha programmato e realizzato una serie di riforme destrutturatrici del nostro impianto costituzionale, rendendo sempre più difficoltosa la partecipazione dei cittadini all’attività politica.

La speranza che molti italiani hanno riposto nel M5S dimostra che il Paese ha bisogno di un rinnovamento autenticamente popolare, espressione delle istanze dei ceti più deboli che la politica da troppo tempo trascura.

Va detto, inoltre, che il taglio dei parlamentari, presentato come una misura “anti Casta” volta a colpire i privilegi di una classe dirigente elitaria, corrotta, incapace, responsabile dell’attuale degrado della politica e del Paese, finirebbe paradossalmente per blindare in Parlamento proprio la “Casta”, ovvero i responsabili di tale condizione. Ciò in quanto la riforma, in definitiva, agevolerebbe le formazioni politiche più potenti, che dispongono di ingenti risorse finanziarie, controllano i media, monopolizzano le campagne elettorali, rendendo estremamente più improbabile l’emersione e l’avvento in Parlamento di nuove formazioni politiche sinceramente ispirate ai valori costituzionali, espressione delle esigenze popolari, lontane da interessi lobbistici.

Un Parlamento sempre più scadente

L’analisi del quadro politico attuale è impietosa e sconfortante anche sotto un altro punto di vista: oggi non esistono veri e solidi partiti, con una lunga storia e idee ferme, con un collaudato sistema di formazione e selezione della classe dirigente. Non è che esistano e siano decadenti. No, proprio non esistono. I partiti attuali sono centri di potere nazionale che negoziano con centri di potere locale, disponibili a spostarsi da un partito all’altro. I centri di potere nazionale conferiscono i simboli ai centri di potere locale, più o meno vaste reti clientelari, gruppetti di persone, sprovvisti ormai anche di sedi, ma in grado di muoversi sul territorio, di ramificarsi nelle contrade e nei quartieri cittadini e di far apparire che sia presente ciò che in realtà non esiste.

Questa situazione, che si protrae ormai da lungo tempo, ha generato una classe politica parlamentare mediamente scadente: i parlamentari con esperienza e capacità professionali sono oggi pochissimi. Moltissimi sono, invece, i mediocri.

Orbene, una riduzione di un terzo dei parlamentari comporterebbe, al più, una proporzionale riduzione sia dei (già pochi) parlamentari bravi, che dei parlamentari inutili, cioè quelli tali ritenuti perché privi di laboriosità, capacità di studio e comprensione, o di particolari conoscenze tecniche. Ma ciò sarebbe già un grave danno. Dinanzi alla modesta soddisfazione di veder diminuire il numero di “fannulloni” e “buoni a nulla” che si fregiano del titolo di Onorevole o Senatore, starebbe l’oggettivo svantaggio di ridurre e indebolire il già esiguo numero dei parlamentari bravi. Dare preferenza alla soddisfazione di veder ridurre il numero degli onorevoli “cialtroni”, a costo di indebolire il Parlamento, è una scelta che, se fatta consapevolmente, sarebbe chiaramente meschina e masochistica.

Anche l’ANPI è per il NO

In un documento del 4 marzo 2020 la giudica “una legge improvvisata e opportunistica. L’ANPI non aderirà ai Comitati del NO e realizzerà iniziative in autonomia”. Essa non corrisponde, in realtà, ad alcuna necessità concreta e rappresenta semplicemente una manifestazione di quella antipolitica che si fa circolare nel Paese creando un grave discredito verso le istituzioni fondamentali della Repubblica. Questa riduzione del numero dei parlamentari – frutto di improvvisazione e opportunismo – investe negativamente il tema della rappresentanza, incidendo sulla stessa struttura istituzionale delineata nell’art. 1 della Costituzione, ponendo seri problemi per una composizione del Parlamento che sia veramente rappresentativa di tutte le esigenze e di tutte le realtà del Paese, e mettendo, insomma, a repentaglio, la funzionalità e la centralità del Parlamento stesso. Questa diminuzione del numero di parlamentari renderà precario e macchinoso il funzionamento delle Commissioni e degli altri organi delle Camere. Per di più occorrerà riscrivere immediatamente la legge elettorale al fine di garantire in Parlamento la presenza, a rischio con tale riforma, di tante forze politiche, e rivedere i criteri di partecipazione alla elezione del Presidente della Repubblica da parte dei grandi elettori delle Regioni. La stessa riduzione di spesa è ridicola, posta a fronte di tante altre spese che le istituzioni sopportano inutilmente e che da anni vengono segnalate con diversi progetti da esperti, le cui indicazioni non vengono mai raccolte. Insomma, una legge – quella sottoposta a referendum – che non riduce le spese se non in modo “simbolico” ed incide negativamente su un esercizio della sovranità popolare che sia davvero fondato sulla rappresentanza.

Il giudizio dell’ANCI, dunque, non può che essere assolutamente negativo sotto ogni profilo. Anche, e soprattutto perché peggiorerebbero i problemi reali delle istituzioni e in particolare del Parlamento, che dovrebbe essere organo centrale di tutta l’attività politica e istituzionale ed invece, di fatto, è esposto da anni ad una sostanziale emarginazione. Ciò che occorre, semmai, è ricondurre il Parlamento a quel ruolo centrale per le istituzioni e la politica che la Costituzione gli assegna, come luogo di confronto e di elaborazione, anziché ricorrere – come accade continuamente – all’abuso dei decreti legge e del voto di fiducia. La politica deve tornare ad essere quella pensata dall’art. 49 della Costituzione, che assegna ai partiti il compito di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un concorso che si realizza solo se avviene in Parlamento, attraverso la progettazione e l’elaborazione delle misure occorrenti per rafforzare la democrazia, non solo nelle sue forme esteriori, ma anche e soprattutto nei suoi contenuti. Per tutte queste ragioni, l’ANPI dà il NO come indicazione di voto e ritiene nel contempo che non basti l’espressione di un voto negativo, ma occorra promuovere nel Paese un’ampia riflessione sul ruolo del Parlamento e della politica, in stretta aderenza ai princìpi costituzionali. Realizzerà, dunque, in piena autonomia e senza aderire ad alcun Comitato esterno, iniziative culturali e politiche.

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