di Salvatore Sfrecola
Era domenica il 2 ottobre 1870, quando a Roma si tenne il Plebiscito per l’annessione della città al Regno d’Italia. Il risultato fu inequivoco: 133.681 SI e 1507 NO di cui 40.785 SI e 46 NO a Roma. Ma il risultato più significativo fu il voto degli abitanti di Borgo, cioè dell’area a ridosso della Città Leonina e, quindi, del Vaticano. Votarono tutti all’unanimità 1546 SI su altrettanti votanti.
Dicono le cronache, e ne scrive Ugo Pesci, fiorentino, giornalista che sul Fanfulla fa la cronaca di quei giorni, che i romani erano in festa e non si sa da dove uscirono le tante bande musicali che suonavano perfettamente la Marcia Reale, l’inno di Garibaldi, quello di Mameli, Addio mia bella addio e tante altre arie che avevano entusiasmato i patrioti nel corso del Risorgimento.
Dove le avevano imparate i romani che certo non potevano suonarle durante il governo pontificio? Rimane un mistero, ma sta di fatto che le avevano imparate e le tenevano in serbo per l’occasione, per festeggiare nelle strade di Roma la gioia dell’annessione della Città al Regno d’Italia della quale, inoltre, diveniva la capitale.
Ricorda ancora Pesci nella sua corrispondenza che tutti gli esercenti le professioni, le arti, i mestieri eransi dati convegno in diversi luoghi ed in diverse ore per recarsi, con le rispettive bandiere, a dare il loro SI al Campidoglio od altrove. Ed aggiunge che “queste corporazioni erano lungo il passaggio salutate d’applausi dalla gente che trovavasi affollata lungo la strada e dalle numerose signore che ornavano ogni balcone. E non era solo il caso che una brigata si incontrasse nella non larga via del Corso in un’altra dopo aver deposto il proprio voto s’incamminava in senso opposto, ed allora quasi militarmente una delle brigate fermatasi e facendo fronte all’altra che passava dinanzi si scambiavano applausi e calde strette di mano”.
Era un clima di grande gioia evidentemente, che dimostra come gli abitanti della città fossero ormai compresi nell’idea di essere parte dello Stato nato il 17 marzo 1861.
A fine giornata fu redatto il verbale con il quale i notari Camillo Vitti, Egidio Serafini e Filippo Delfini. Si legge: “Noi, ad istanza e vista della Giunta, presente Sua Eccellenza il Signor Generale Cadorna abbiamo proceduto all’operazione delle urne, presenti ancora tutti i Deputati, Commissioni e Popolo Romano, liberamente acceduto e sonosi rinvenuti i voti nel modo seguente”, con riguardo alle urne del Campidoglio, di Palazzo Odescalchi, di Piazza Colonna, di Piazza di Santa Maria in Trastevere, di Piazza del Biscione, di Palazzo Camerale a Ripetta, di piazza di Ponte Sant’Angelo, di Piazza Ricci, di Piazza Navona, di via dei Serpenti di Piazza Barberina, di Piazza di Spagna, concludendo che il totale “della votazione affermativa pel SÌ è risultato il numero di trentanovemiladuecentotrentanove, e per il NO, numero quarantasei e voti nulli numero sette. Quindi, essendosi presentata un’urna degli abitanti la Città Leonina, apertasi la medesima urna coll’assistenza del notaro Accindino Buratti, residente in detta Città, è risultata una votazione di numero milecinquecentoquarantasei voti per il SÌ e per il NO nessuno, che unita questa cifra alla precedente si ha un totale di voti per il SÌ quarantamilasettecentosettecentottantacinque.
Dopo di ciò il signor Presidente duca Caetani ha pubblicato un tale risultato, e si è svolta l’adunanza con immensi applausi di evviva al Re Vittorio Emanuele, all’Italia, a Roma.
Atto fatto in Campidoglio…”
Quel giorno inizia l’avventura della Città nella quale per Cavour, in un celebre discorso alla Camera il 25 marzo 1861, “concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma, aggiungeva, è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato”.
Lo ripete due volte Cavour, nello spazio di poche righe, Roma “capitale di un grande Stato”.
Purtroppo non è così. La Città è abbandonata da troppo tempo e il “grande Stato” la politica non ha saputo realizzarlo.