di Salvatore Sfrecola
Ho letto con crescente interesse questo libro di Daniele Capezzone (“Likecrazia”, Piemme, Milano, 2020, pp. 200, €16,50) che conduce il lettore, attraverso aneddoti e riflessioni, tra informazione e politica, a riflettere ed a capire dove va il mondo e dove dovrebbe andare in un’ottica di democrazia liberale. Opinionista brillante, firma de La Verità, apprezzato nei talk show nei quali si segnala per la straordinaria chiarezza espositiva e per la coraggiosa difesa delle sue idee, in un’Italia nella quale l’informazione è dominata dalla narrazione ufficiale, il “politicamente corretto”, questo libro è un saggio sull’informazione e sulla democrazia. Di questa, scrive proprio nella pagina conclusiva, “serve una manutenzione costante…, un suo continuo monitoraggio e aggiustamento”, perché, come sappiamo dalla storia, la democrazia non è per sempre. Perché una volta conquistata va conservata con cura e difesa con impegno. E poiché, come ha scritto Alexis de Tocqueville ne “La democrazia in America”, “la stampa è per eccellenza lo strumento democratico della libertà”, il libro ci guida in un’analisi critica dell’informazione giornalistica e televisiva attraverso esempi concreti di come il politicamente corretto distorce i fatti, presentati secondo la visione dell’ideologia politica del cronista o dell’opinionista in un circuito permanente di informazione e di intrattenimento, in una dimensione spettacolare nella quale è facile cadere nella superficialità e nel dilettantismo “e può stimolare nel pubblico una propensione a votare per la persona con cui si vorrebbe bere un caffè, anziché per l’opzione politica più razionale”.
Ne sono un esempio gli articoli dei massimi giornali ed i servizi delle più importanti televisioni che hanno platealmente dato dimostrazione di questo modo di informare, come nel caso delle elezioni americane e del Regno Unito. Da New York e da Washington corrispondenti e opinionisti si sforzavano a dare di Trump l’immagine da loro preferita e che ritenevano fosse degli elettori americani dando l’impressione di essersela formata sulla base della lettura dei giornali senza andare a fondo, senza viaggiare, senza ascoltare la gente che lavora nei borghi e nelle periferie delle grandi città ma anche nell’America profonda, quella che vota sulla base degli interessi locali e di categoria, poco ideologizzati. E così quei giornalisti continuavano ad esaltare i successi di Hillary Clinton fino al conteggio dell’ultimo voto in favore di Trump. Nel caso di Jhonson e degli inglesi hanno dimostrato di non capire il voto sulla brexit. Sicché, scrive Capezzone, dal 2016 ad oggi non ne hanno azzeccata una: non hanno capito l’America ed il Regno Unito. E non hanno capito l’ascesa di forze di destra in larga parte del mondo. È il vecchio mondo presuntuoso e spocchioso che nei confronti del popolo assume un atteggiamento didascalico anziché di ascolto, per capire e comprendere. Quasi in una sorta di disprezzo verso quel popolo del quale le sinistre si riempiono costantemente la bocca ma che tengono a debita distanza, essendone ricambiati, come dimostra il calo dei consensi nelle periferie romane rispetto ai quartieri borghesi.
Per capire come si comunica, come si parla “agli altri” che, specifica Capezzzone, è diverso da parlare “di te” e va fatto nella forma meglio comprensibile. “Basta un minimo di ragionevolezza” eppure prevalgono ovunque quelli che parlano “di sé” esibendosi. Per cui le ragioni di alcune regolette, il “protocollo Capezzone”, in primo luogo “per riconoscere tic e processi mentali di questi superprofessori. Ai quali però sfugge un punto di fondo, che ha a che fare con l’essenza della democrazia: premesso che ogni politico è, suo modo, un manipolatore, cosa c’è di male nel parlare dei problemi della gente con un linguaggio comprensibile alla gente? Per essere ancora più chiaro perché colpevolizzare i politici di una certa fazione se loro sono capaci di comunicare anziché prendersela con i politici dell’altra fazione, se non sanno farlo o hanno disimparato a farlo?”
Chiarezza è anche rispetto per l’interlocutore, come noi giuristi pretendiamo dalle leggi, come Pietro Calamandrei voleva per la Costituzione, la legge delle leggi, e lo diceva in Assemblea Costituente sottolineando, lui repubblicanissimo, come fosse “chiaro e sobrio” lo Statuto Albertino.
Il liberale Capezzone proseguendo nelle sue riflessioni sull’informazione giunge inevitabilmente a parlare di democrazia e, quindi, di ordinamenti. Ho richiamato de Toqueville, su libertà e democrazia, Capezzone che diffida “di uno stato impiccione e onnipresente” ricorda il Friedrich von Hayek, un gigante del pensiero liberale, il quale aveva spiegato che occorre opporsi ai pianificatori non solo in nome della libertà economica, ma proprio della libertà tout court, della libertà senza aggettivi, nel senso che la centralizzazione, il dirigismo, la pianificazione, lo statalismo si oppongono alla concezione liberale della vita come discovery procedure.
E così questo libro, che vuol parlare dello show della politica in tempo di pace e di coronavirus, diventa anche un manuale, della comunicazione e della politica osservata con l’occhio di chi è stato impegnato in Parlamento, come portavoce di partito e commentatore, opinionista che approfondisce le vicende del governo e il Parlamento con la penna e la parola.
È, dunque, un peana alla libertà politica e di informazione quello che ci propone Capezzone, l’esaltazione del metodo democratico le cui scelte maturano nell’agorà, laddove è possibile percepire le esigenze dell’opinione pubblica, la saggezza popolare, una riflessione che gli suggerisce di richiamare Edmund Burke, un colosso del pensiero conservatore britannico, un maestro per i liberali di tutto il mondo il quale ha insegnato che la società, la politica, la vita sono progetti multigenerazionali in un legame tra i morti, i viventi e i non ancora nati che dimostra nel politologo inglese la percezione del senso della storia nella continuità della società degli uomini.