di Salvatore Sfrecola
Il libro esce nel bel mezzo della polemica politica sul (mal)funzionamento delle istituzioni, mentre da più parti ci si interroga sulla revisione del Titolo V della Costituzione voluto nel 2001 dalle Sinistre nel tentativo di ostacolare la Lega, che comunque avrebbe partecipato della vittoria del Centrodestra nel maggio di quell’anno, una riforma che, abolendo la tradizionale prevalenza della legislazione statale, ha fatto delle regioni il legislatore generale (“Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, art. 117, comma 4). Attribuendo alle regioni nuove competenze, prevedendo materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3), ad esempio in materia di “tutela della salute”, che è cosa diversa dalla gestione delle strutture locali del servizio sanitario nazionale, come si può notare dal dibattito di questa stagione del Covid-19 nella quale Stato e Regioni contendono intorno alle scelte per limitare la diffusione del virus. E si confrontano sulle regole della circolazione delle persone, prima all’interno del comune, poi della regione (in origine era vietato recarsi nelle seconde case, nonostante fosse evidente che, in tal modo, si favoriva il distanziamento dei componenti delle famiglie), poi sugli esercizi commerciali da tenere aperti o da chiudere e sugli orari. No piscine e palestre, in assenza nonostante di evidenze che in quegli ambienti si fossero realizzati contagi significativi, no ai centri estetici, si ai parrucchieri, si ai tabaccai (evidentemente ritenuti essenziali, come gli alimentari!) e via discorrendo, in una elencazione che appare spesso non giustificata, in mancanza di chiarimenti. E poi il tripudio di una produzione mai vista prima, neppure in tempo di guerra, di atti normativi di diversa valenza, dai decreti legge ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri emanati a valanga, i d.P.C.M. dei quali il premier si riempie la bocca ad ogni comparsa televisiva, ai decreti del Ministro della salute ed alle ordinanze dei Presidenti delle regioni, pomposamente autoqualificatisi governatori, che ha reso palese agli occhi degli italiani quel che finora conoscevano bene solo gli avvocati patrocinanti dinanzi alla Corte costituzionale dove si consuma, ad ogni udienza, lo scempio della confusione politico-istituzionale provocata dalla riforma costituzionale del 2001, nonostante l’invocato principio di “leale collaborazione”. Una riforma frettolosa, approvata con un pugno di voti, che ha dato vita “all’Italia degli staterelli arlecchineschi, variamente colorati, istituzionalmente litigiosi per disposizione legislativa”, come scrive Gennaro Malgeri nella prefazione a questo libro di Mario Landolfi (La Repubblica di Arlecchino, Così il regionalismo ha infettato l’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020, pp 172,€ 15,00) di straordinario interesse per il politico e per il giurista in quanto mette in evidenza, con esempi concreti, ciò che non funziona della riforma in virtù della quale le regioni, precisa ancora Malgeri, “hanno sostanzialmente surrogato lo stato centrale facendone un loro pari grado, sia pur lasciandogli una parvenza di primazìa dal punto di vista della rappresentanza dell’unità politica nazionale e del coordinamento delle attività di rilevanti del Paese, come la Difesa e la Politica Estera, il Tesoro e il Fisco. Il resto, lo gestiscono gli Staterelli postunitari, vale a dire le Regioni, dotate di competenze assai importanti che spesso e volentieri impattano con le prerogative dell’altro soggetto”, lo Stato, il quale, “non godendo di una potestà riconosciuta è costretto (ogni giorno, in pratica) a ricorrere alla Corte costituzionale per dirimere controversie con i suoi pari-grado”. Sì, perché, come ha ricordato Landolfi intervenendo nella presentazione del libro organizzata via streamyard dall’Unione Monarchica Italiana (si trova anche su TouTube) secondo l’art. 114 della Costituzione “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, così alterando la tradizionale gerarchia che vedeva lo Stato in testa ad ogni elencazione degli enti pubblici territoriali.
Con stile discorsivo, garbato pur nella polemica, secondo lo stile dell’A., naturalmente portato all’ironia, il libro coinvolge il lettore guidandolo in una puntuale rassegna, con richiamo ad episodi della vita quotidiana spesso tratti dalla cronaca giornalistica e televisiva, di quello che appare al cittadino il derby infinito tra istituzioni politiche, entrambe rappresentative della realtà nazionale e locale che ci consegnano controversie di straordinaria gravità che spesso avrebbero del comico se non fossero la prova drammatica di ciò che non funziona.
Il quadro è desolante, perché questi enti, i quali hanno un bilancio che per oltre due terzi, circa l’80%, è destinato alle occorrenze della spesa sanitaria, tolte le spese di funzionamento (circa il 10%) comprese le spese per gli uffici di rappresentanza a Roma e le “ambasciate” a Bruxelles e in altri paesi esteri, hanno una autonomia di spesa estremamente modesta che non ne giustificherebbe l’esistenza. Eppure si atteggiano come piccoli e ridicoli reami ai quali la politica locale ha consentito di assumere atteggiamenti arroganti dando l’immagine di un caos istituzionale effetto di un regionalismo che dimostra di non essere idoneo a svilupparsi più profondamente nella pretesa autonomia, immagine debole di un federalismo indefinito che non riesce a dare corpo alla tipicità ed alla ricchezza delle varie aree del Paese in nome di una classe politica che non riesce a percepire che la storia, la cultura, l’arte delle singole regioni concorre inevitabilmente alla ricchezza dell’intera Nazione, l’Italia, come l’hanno concepita coloro che, nel corso del Risorgimento, guardarono all’unità senza rinnegare le proprie radici territoriali, l’amore per le bellissime valli, per i mari, i fiumi e i monti che disegnano e colorano il “bel Paese”, anzi considerandole parti necessarie della Nazione che finalmente si è formata dopo secoli nei quali gli italiani sono stati “calpesti derisi/ perché non siam popolo/ perché siam divisi”, come ci ricorda il Canto degli Italiani, l’Inno nazionale. Veniamo da un declino antico che possiamo rievocare con le parole di Dante alla vigilia dell’anno nel quale ricorderemo i 700 anni dalla sua morte. Definisce l’Italia “misera” e poi “miseranda”, in occasione della visita dell’Imperatore Enrico. “Del resto – scrive Aldo Cazzullo nel suo bel “A riveder le stelle”, dedicato al Sommo Poeta – si criticano le cose che si amano, e che si vorrebbero profondamente diverse. Non è lamento sterile, quello di Dante, è un’invettiva, una denuncia che ha in sè la speranza della rinascita”. In quegli anni e ancora dopo, per secoli, capitani del popolo, consoli e principi chiamavano in soccorso lo straniero pur di sconfiggere altri italiani, come ricorda Manzoni nel Conte di Carmagnola: Chi son essi? Alle belle contrade/qual ne venne straniero a far guerra?/Qual è quei che ha giurato la terra/ dove nacque far salva, o morir?/… Non la sanno: a dar morte, a morire/ qui senz’ira ognun d’essi è venuto; / e venduto ad un duce venduto,/con lui pugna, e non chiede il perché.
Un panorama di una indicibile tristezza perché l’Italia “che è stata una Nazione di riguardo e che ancora oggi, non certo per merito di chi ci governa, gode di un prestigio storico, culturale ed anche economico grazie a imprenditori che sanno fare il loro mestiere, a ricercatori che onorano la scienza e le lettere” non riesce ad esprimere in pieno le potenzialità del genio e della fantasia italiche.
La “Repubblica di Arlecchino, dunque, perché proprio nell’emergenza sanitaria lo Stato ha dimostrato di non saper assumere decisioni congrue per tutto il territorio nazionale, senza riuscire a coordinare a quelle sue proprie le scelte delle regioni. Ne indica tante Landolfi, con linguaggio piano e a tratti ironico, anche se la lettura che assicura un sicuro godimento al lettore lascia una tristezza profonda per la sostanziale impotenza dello Stato come appare agli occhi del cittadino che ne patisce l’inefficienza. Che per la verità è una costante antica dell’amministrazione della cosa pubblica anche se indubbiamente aggravata dalla confusione istituzionale.
Ne soffre Landolfi nel constatare questo degrado organizzativo e fattuale in assenza di una “nazione condivisa” in ragione di un sentimento patriottico, straordinario motore dello slancio ideale del Risorgimento, ecclissatosi nel dopoguerra a causa di una narrazione manipolata della storia degli italiani ai quali è stata preclusa la consapevolezza che in quella stagione della storia d’Italia fosse da identificare il mito fondativo della Nazione. In molti hanno concorso in questa distruzione dell’identità nazionale, i movimenti politici estranei al patos unitario, come certi cattolici o i comunisti che non sono riusciti ad amare la Patria, o la Lega delle origini che ha coltivato la suggestione delle piccole patrie.
Fatica, dunque la ripresa dello slancio identitario, patriottico, tra le forze politiche, anche in quelle che avevano coltivato l’effimera stagione del sovranismo.