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Il Taccuino del Direttore

Costruttori, responsabili, volontari, voltagabbana, traditori, o come altro la fantasia degli italiani definisce quanti si aggregano ad una maggioranza diversa da quella nella quale sono stati eletti, per non perdere il seggio o per altri vantaggi. Loro dicono che lo fanno nell’interesse nazionale. Sarà. Per alcuni non c’è dubbio. Per alcuni.

Va detto tuttavia che è una consuetudine antica, che accompagna la storia parlamentare in Italia. Eppure tutte le volte ci indigniamo. Giustamente.

Anche Napoleone aveva fatto una dichiarazione dal predellino della sua carrozza appena rientrato in Francia dall’avventura in Egitto: “non dovranno più esistere fazioni, non ne tollererò nessuna. Viva la Nazione”. Ha appena trent’anni. Ha conosciuto soprattutto vittorie, in Italia e nella terra dei Faraoni.

Chissà se Berlusconi sapeva di Napoleone quando il 18 novembre 2007, domenica. Ore 18, a Milano, in pieno centro, in piazza San Babila, saliva sul predellino di un’automobile e arringa i presenti: “Oggi nasce ufficialmente un nuovo grande partito del popolo delle libertà: il partito del popolo italiano. Anche Forza Italia si scioglierà in questo movimento. Invitiamo tutti a venire con noi contro i parrucconi della politica (come se lui facesse altro, ndr) in un nuovo grande partito del popolo”.

Tempi lontani.

A tutela dei nonni è scesa in campo Natalia Aspesi. “I vostri nonni – ha scritto – perché li chiudete in quelle galere mostruose che sono le case di cura, anche quelle più ricche? Se amate vostro nonno tenetevelo in casa, fatelo vivere, dategli della gioia, invece di rinchiuderlo”.

Non fa una grinza. Lo direi anche se non fossi nonno. Tuttavia mi rendo anche conto che alle famiglie manca un supporto. Manca per le mamme. E manca anche per i nonni, soprattutto se non autosufficienti, la cui cura esige supporti personali non sempre compatibili con le finanze e l’organizzazione delle famiglie. Alle quali lo Stato potrebbe venire incontro. Ad esempio consentendo di dedurre dal reddito le spese per i badanti. Ne trarrebbero giovamento il fisco e l’INPS ai quali non giungono le imposte ed i contributi dei lavoratori in nero. E lo Stato, perché un badante regolarmente iscritto non potrebbe chiedere il “reddito di cittadinanza”.

Il diritto “è una forma inventata dai romani”. Riordinando uno degli scaffali della mia biblioteca, ritrovo un bel libro di Aldo Schiavone, IUS, l’invenzione del diritto in Occidente (Einaudi, Torino, 2005), ed a pagina 5 del primo capitolo rileggo quella definizione e aggiunge: “parliamo di ‘diritto’ mesopotamico, o egiziano, o greco, o anche (fuori del mondo antico) hawaiano o azteco, ma è solo il diritto romano che ci ha fornito il paradigma che consente di riconoscere come ‘giuridiche’ quelle pratiche prescrittive, originariamente integrate all’interno di contesti e sistemi ben diversi: apparati teologici più o meno connessi alla regalità, rapporti di parentela, istituzioni politiche”.

Il diritto che Roma ci ha lasciato è un patrimonio dell’umanità, un emblema della civiltà occidentale. Troppo spesso trascuriamo questi valori dei quali dovremmo essere orgogliosi, non solamente per ricordare ma per trarne insegnamento, per continuare ad ispirarsi alla saggezza dei nostri progenitori per continuare ad essere saggi. Ma siamo veramente i discendenti della saggezza di Roma? Mi viene spesso di dubitarne leggendo le nostre leggi e frequentando i nostri tribunali. Di una norma di quelle che leggiamo nel Corpus Iuris Civilis è difficile dubitare del senso. Le nostre spesso sono incomprensibili. E mi fermo qui per carità di Patria e per rispetto ai lettori.

Diktat della Consulta al Parlamento su adozioni omosex e utero in affitto. È il titolo di un articolo di Francesco Borgonovo su La Verità del 30 gennaio sulla strada giudiziaria di coloro i quali, “visto che, passando dal Parlamento – cioè da rappresentanti dei cittadini regolarmente eletti – è difficile imporre i “diritti arcobaleno”, allora si tenta di aggirare le Camere e di prendere la via più breve: quella dei tribunali. Che siano i giudici a concretizzare ciò che le normali procedure democratiche tardano a concedere”. E così, giunto all’attenzione della Corte costituzionale, a seguito di ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, il caso di coppia omosessuale che aveva fatto ricorso alla tecnica della “maternità surrogata” avendo avuto figli e avendo chiesto il riconoscimento anche in Italia dello status di genitori ottenuto all’estero, la Corte costituzionale, si legge nel comunicato stampa, “fermo restando il divieto penalmente sanzionato di maternità surrogata, ha ritenuto che l’attuale quadro giuridico non assicuri piena tutela gli interessi del bambino nato con questa tecnica. Poiché, a questo fine, sono prospettabili differenti soluzioni, la Corte ha ritenuto, allo stato, di non poter intervenire, nel doveroso rispetto della discrezionalità legislativa, ma ha anche affermato la necessità di un intervento del legislatore”.

Ora è chiaro che questo invito al Parlamento, che non è nuovo nelle pronunce della Corte costituzionale, costituisce una gravissima intromissione nella sfera di autonomia riservata alle Camere del Parlamento che sono espressione della sovranità popolare e nelle quali viene definita la legislazione secondo gli intendimenti dei rappresentanti dell’elettorato, quindi dei cittadini. Il fatto che il Giudice delle leggi, in una materia così delicata, ma direi in qualunque altra materia, dica al legislatore quello che deve fare o quello che gli sembra opportuno faccia è l’effetto di uno stravolgimento dei ruoli e della forte ideologizzazione della Consulta. La Corte costituzionale deve limitarsi a dire se una situazione portata alla sua attenzione sulla base della normativa che la disciplina è meritevole o meno di una pronuncia che ne affermi la conformità o meno alla Costituzione. Ed anche se fosse convinta di un vuoto normativo dovrebbe segnalarlo senza invitare il Parlamento a provvedere in un senso anziché in un altro. Infatti, le Camere, che sono sovrane, decidono o non decidono come meglio credono. Il Parlamento, infatti, può ben decidere di “non decidere”, di non legiferare.

In proposito Nicolò Zanon, Giudice della Corte costituzionale dal 2014, e noto costituzionalista, autore di importanti sentenze, critica duramente – in un articolo su Federalismi.it – questa “deriva” ideologica che altera profondamente il ruolo della Corte in rapporto alla sovranità che il popolo esercita attraverso le Camere. E contesta che tra Corte e Parlamento debba esistere una “leale collaborazione” che, scrive Zanon, attua in realtà un “legislazione sotto minaccia”, quando i due diversi ruoli indicano l’esigenza di una separazione.

Non sarà semplice, ma quest’andazzo di una Corte loquace deve finire. Come quello di certi suoi Presidenti che non riescono a trattenersi dall’apparire in interviste giornalistiche o televisive senza preoccuparsi che i giudici della Consulta, come tutti gli altri giudici, devono parlare solamente attraverso le loro sentenze.

Ma la natura umana è debole e alla vanità non sanno rinunciare neppure giuristi raffinati e colti.

Ricaricava a spese del Comune la sua auto elettrica. Si sentiva certamente un benefattore della comunità l’uomo che, avendo acquistato un’auto elettrica, così contribuendo alla riduzione dell’inquinamento, deve aver ritenuto giusto ricaricare le batterie utilizzando un quadro elettrico predisposto dal Comune di Riccione per sovvenire alle esigenze di alimentazioni della illuminazione degli eventi estivi nella splendida cittadina balneare.

Scoperto, è stato multato per divieto di sosta e per aver invaso la ZTL. Molto giusto. Ma c’è anche da chiedersi come mai un quadro elettrico pubblico sia così facilmente accessibile. Anche per garantirne la sicurezza per la popolazione. Ma questo è un altro problema.

“Le leggi son ma chi por mano ad esse?” (Dante, Purgatorio Canto XVI, 97). E così anche le disposizioni anti assembramento, dettate per ostacolare la diffusione dell’epidemia di COVID-19, sembrano agli agenti della Polizia municipale di Roma di difficile applicazione tanto che, come riferisce Il Messaggero, il sindacato dei vigili, il Sulpl ha messo per iscritto che i suoi aderenti si rifiutano di fare multe anti assembramento alle fermate dei mezzi pubblici e alle stazioni della metropolitana dove il pigia pigia è ripreso massiccio con la riapertura delle scuole. Le norme, dicono, non sono chiare e non è facile “orientarsi al meglio in questo intricato labirinto di norme”.

Come dar loro torto se i decreti del Presidente del Consiglio sono stati criticati a fondo anche da illustri giuristi, come il Professor Cassese che ne ha scritto ripetutamente sul Corriere della Sera?.

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