di Salvatore Sfrecola
Legge e rilegge Plutarco. La storia è la sua materia preferita, insieme alla matematica, nella quale eccelle. Allievo della Scuola reale militare di Brienne, Napoleone Bonaparte ha meno di dieci anni quando inizia un percorso di studio e disciplina ferrea, tra tanti disagi. Ne soffre, ma tiene duro. È un solitario. Le “Vite Parallele” del grande storico greco gli permettono “di evadere in una realtà diversa, non immaginaria, dal momento che è esistita, è storia, e dunque può rinascere”, come scrive il suo biografo Max Gallo. È un bambino, ma si sente un uomo e si identifica con gli eroi dei quale vuol seguire il destino, Catone, Bruto, Leonida.
La storia straordinaria di Roma lo affascina. Si sente sempre più romano e, divenuto imperatore, vuole la Roma dei Cesari e dei Papi, come seconda capitale dell’impero. Proclama questa sua decisione da Vienna, da Schönbrunn, la Versailles degli Asburgo. E, pertanto “Re di Roma” sarà il titolo del figlio, Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, che avrà da Maria Luisa d’Asburgo Lorena il 20 marzo 1811.
Si sente l’incarnazione di Carlo Magno, tanto che si propone di assumere il titolo di “Empereur d’Occident”, al posto di quello di “Empereur des Français”. Infatti, nel decreto 17 maggio 1809, di annessione di Roma e degli Stati della Chiesa all’Impero, Napoleone richiamava il carattere feudale della donazione di Carlo Magno, “Empereur des français et notre auguste prédécesseur”, ai vescovi di Roma, Papi della Chiesa universale. All’annessione, che avrebbe avuto decorrenza 1° giugno 1809, Pio VII, che pure si era dimostrato disponibile nei confronti dell’Imperatore andando a Parigi ad incoronarlo, si ribella e fa affiggere nella notte del 10 giugno 1809 la bolla pontificia di scomunica (Quum memoranda). E il Generale Radet lo fa arrestare. Napoleone non condivide l’iniziativa, ma i rapporti sono ormai alterati.
L’Imperatore vuole che la città si adatti al nuovo ruolo, con una rinnovata struttura urbanistica. Intanto l’arch. Raffaello Stern procede alla sistemazione dei nuovi appartamenti nel Palazzo del Quirinale. Ma Napoleone non abiterà nella dimora dei papi.
Da Roma, tuttavia, lascia ai posteri una intensa attività amministrativa. Regole per la nuova burocrazia, nei rapporti gerarchici tra uffici, nelle nomine e nelle promozioni, per le quali si richiede preparazione ed esperienza (Napoleone sarà sempre attento alla meritocrazia, e alla fortuna, per i suoi generali), tempo pieno. Promuove lavori pubblici e scavi. Ma passerà alla storia anche come colui che saccheggerà gli alloggi papali, le dimori dei nobili, i musei e le aree archeologiche per trasferire a Parigi tesori straordinari, la storia e l’arte di due millenni.
È senza dubbio il più grande ladro della storia. Esercita il “diritto di preda”, che legittima inserendo nei trattati di pace la clausola che, a titolo di riparazione, oltre a ingenti somme di danaro i governi vinti cedano un buon numero di opere d’arte.
Fa trasferire a Parigi non solo dipinti e sculture, ma anche patrimoni librari e oreficerie. Tutta la storia delle campagne militari napoleoniche, tra il 1796 e il 1814, è non solo abilità strategica e gloria di generali e soldati, ma una continua incetta di opere d’arte. Inizialmente su indicazione del Direttorio, che chiede una selezione di opere che avrebbero arricchito il museo enciclopedico francese. I furti iniziano a Milano e proseguono a Venezia, Mantova e Napoli.
Da Roma partono opere straordinarie, la Venere Capitolina, capolavori di Guido Reni, Tiziano, Guercino, Barocci, Veronese, Hayez, Canova e tanti altri. L’Apollo del Belvedere, che Johann Joachim Winckelmann, storico dell’arte ed archeologo, aveva fissato come canone della bellezza, e il Laocoonte, insieme a quasi tutta la produzione di Raffaello. Anche gli epigoni lontani dell’urbinate, come il Cavalier d’Arpino e la sua copia (bellissima) del Trasporto di Cristo al sepolcro. Furono portate via opere dei predecessori e maestri come Perugino, di grandi artisti del Cinquecento come Correggio col suo Compianto su Cristo morto, dei toscani Andrea del Sarto e di Lodovico Cardi detto il Cigoli con l’Ecce Homo, del 1607, conservato agli Uffizi.
Dall’Emilia erano partiti per Parigi dipinti dei Carracci, di Guercino, Domenichino, Guido Reni, la scuola bolognese del primo Seicento. La splendida Fortuna con una corona di Reni, che si libra nuda nell’azzurro, ne è un esempio. Tornarono a Bologna nel dicembre del 1815, esposte nella chiesa di Santo Spirito. Accorsero, ci dicono le cronache, “dotti e imperiti, pittori ed artigiani, nobili e plebei, e donne e uomini tutti, e fino i fanciulli”.
Allo stesso modo tornarono i veneti, i lombardi, i piemontesi.
Non solo ruberie ma anche atti di vandalismo puro. Non diversamente si può dire della fusione del tesoro della Basilica di San Marco, dell’incendio appiccato al Bucintoro, la nave ammiraglia della flotta, per estrarre l’oro delle decorazioni. L’Arsenale di Venezia venne smantellato, i cannoni, le armature più belle e le armi da fuoco vennero spedite in Francia. Furono fusi oltre 5.000 cannoni facenti parte dell’armeria – museo, nonché le armi antiche, i cannoni e le pietraie in ferro e in rame che erano il vanto dell’Arsenale, cimeli delle conquiste e delle vittorie della Repubblica.
Non solo furti “ufficiali”. Ne commisero in proprio anche ufficiali e soldati. Come coloro che tagliarono a pezzi il più grande Rubens in Italia, la “Trinità Gonzaga”, per poterla vendere meglio sul mercato, mentre i due pannelli laterali vennero spediti a Nancy e ad Anversa, dove sono ancora oggi. Alla ricerca di oro, gli ufficiali francesi tentarono anche di fondere le opere di Benvenuto Cellini.
A Modena, i commissari di Napoleone setacciarono la galleria delle medaglie e quella del Palazzo Ducale, per prelevare la collezione di cammei e pietre dure incise. Piacquero anche all’Imperatrice. Giuseppina nel febbraio del 1797, quando alloggiava a Palazzo Ducale chiese di vedere la collezione di cammei e pietre preziose e sembra che ne prese circa duecento.
Dalle sedi degli ordini religiosi che erano stati abrogati furono trafugate circa 30.000 opere d’arte. 70 chiese furono abbattute con il loro patrimonio di statue e affreschi.
Le Nozze di Cana di Paolo Caliari, detto il Veronese, un tempo presso il refettorio benedettino dell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia vennero tagliate in due e spedite al Musée Napoléon, oggi del Louvre, dove si trovano ancora. La stessa fine ha fatto la Pala di San Zeno del Mantegna, in origine a Verona nella Basilica di San Zeno Maggiore.
Nell’aprile 1797, a Venezia, i francesi rimossero il leone e le famose statue in bronzo dei cavalli di San Marco, che la tradizione attribuisce a Lisippo, lo scultore di Alessandro Magno. Avrebbero ornato l’Arco di Trionfo costruito per commemorare le vittorie del 1805 e 1806. Gli austriaci ne pretesero la restituzione.
A Milano, all’Ambrosiana fu sottratto il disegno preparatorio di Raffaello per la Scuola di Atene, dodici disegni e il Codice Atlantico di Leonardo, il prezioso manoscritto delle Bucoliche di Virgilio con le miniature di Simone Martini. L’Incoronazione di spine di Tiziano.
Il Codice venne restituito ma non-integro. Infatti diversi fogli del Codex sono conservati a Nantes e a Basilea, mentre tutti gli altri quaderni e scritti autografi di Leonardo sono alla Bibliothèque National de France di Parigi.
Per Paul Wescher, storico dell’arte tedesco, una lunga esperienza in Europa e negli Stati Uniti terminata con la cura della collezione che ha dato vita al Getty Museum, “Il ritorno delle opere d’arte trafugate ebbe poi, di per sè stesso, un effetto notevole e inatteso…. Esso contribuì a creare la coscienza di un patrimonio artistico nazionale, coscienza che nel ‘700 non esisteva”.
E, infatti, già all’indomani della sconfitta di Napoleone a Waterloo (18 giugno 1815), i regni d’Europa rivendicarono la restituzione delle opere trafugate che affidarono alla cura di propri commissari artistici. Fra essi Antonio Canova in rappresentanza dello Stato della Chiesa. Nel corso del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815), Austria, Spagna, stati tedeschi e Inghilterra ordinarono l’immediata restituzione di tutte le opere sottratte “senza alcun negoziato diplomatico”, sostenendo come “la spoliazione sistematica di opere d’arte è contraria ai principi di giustizia e alle regole della guerra moderna”.
Tutti esultarono al rientro di libri, statue, dipinti. Nella consapevolezza che nel patrimonio storico artistico sono le radici della nostra civiltà. E Giacomo Leopardi nel 1818 esultava per le opere “ritornate alla patria”.
(articolo destinato a “Opinioni Nuove”, periodico bimestrale, edito a Padova)