di Salvatore Sfrecola
Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, assumeva “per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia”. Con una formula, re “per grazia di Dio e per volontà della nazione” che ne fa un “re eletto”, come sottolinea Giovanni Spadolini, il quale ricorda come ambisse essere “soprattutto il re degli italiani, nel senso orleanista del termine, il risultato e quasi il simbolo dello sforzo congiunto dell’iniziativa diplomatica e dell’iniziativa rivoluzionaria”. Insomma, dell’opera di Camillo Benso di Cavour e di Giuseppe Garibaldi, uno straordinario statista e un condottiero capace, come nessun altro, di trascinare giovani e vecchi, nobili e borghesi, intellettuali e popolani, provenienti dalle città più importanti e dai borghi più sperduti d’Italia e di guidarli in battaglia.
Consapevole dei suoi doveri, assunse su di sé l’onere di procedere in equilibrio fra l’ordine, caro all’aristocrazia piemontese dominata da significative componenti reazionarie, e la rivoluzione nazionale dei giovani liberali che aveva convinto il padre Carlo Alberto a concedere lo Statuto, una costituzione liberale i cui principi fondamentali sono stati in gran parte recepiti dalla Costituzione della Repubblica.
A 29 anni si trovò improvvisamente ad ereditare il trono di un piccolo regno sconfitto dall’Armata del Maresciallo Joseph Radetzky. “Si affida all’istinto, scrive Franco Valsecchi, … E trova nell’intuito, nell’istintivo buon senso un suo scaltro acume che sorprende e sconcerta; sì che gli capita di infilar la via giusta, dove menti ben più acute si smarriscono nella complessità dei problemi”. Così a Vignale, dove incontra il capo dell’eserciti vincitore, “fiuta la situazione, e con innata scaltrezza ne cava tutto quello che può. Con Radetzky, egli mostra piena coscienza del valore delle carte che ha in mano, ed una indiscutibile abilità nel giocarle. Gioca sullo spauracchio della rivoluzione, sull’interesse austriaco a tenere in piedi la monarchia in Piemonte, sulle incognite e i pericoli di una soluzione di forza. La situazione del paese sconsiglia una aperta reazione; l’abolizione del regime costituzionale provocherebbe uno sconvolgimento. Nel bene inteso interesse della conservazione, conviene procedere con cautela: lo statuto può essere una valvola di sicurezza, può divenire, in chi lo sappia maneggiare, uno strumento d’ordine”. Con questi argomenti riesce a convincere l’anziano soldato, una leggenda nella storia militare austriaca. Ne dà conferma lo stesso Radetzky in un rapporto al suo governo del 26 marzo: “il re … dichiarò apertamente la sua ferma volontà di voler, da parte sua, dominare il partito democratico rivoluzionario… ; e che per far questo gli occorreva soltanto po’ di tempo, e specialmente di non venire screditato all’inizio del suo regno”. Radetzky sa del malessere che serpeggia all’interno del Regno. Genova insorge, i deputati delle sinistre invitano alla resistenza ad oltranza, all’insurrezione armata, alla guerra popolare.
La Camera si oppone alla ratifica dell’armistizio. Tanto che il Re deve scioglierla ed intervenire nella campagna elettorale con tutta la sua autorità. Lo fa con il “Proclama di Moncalieri” nel quale critica duramente le posizioni assunte dai parlamentari accusandoli di una sterile opposizione ad una politica “che era la sola possibile” e di aver voluto porre delle condizioni “che distruggevano la reciproca indipendenza dei tre poteri, e violavano così lo statuto del Regno”. Il re intendeva in tal modo “salvare la nazione dalla tirannia dei partiti”. Era l’unico modo possibile per avere la forza di conservare lo Statuto, per consentire al governo piemontese di “mantenersi rappresentante nella penisola della politica sinceramente liberale e costituzionale”, come si legge nella relazione al governo degli inviati sardi Dabormida e Boncompagni alla conferenza sulla pace. Fu l’unico dei sovrani a mantenere lo statuto fra quanti nel 1848 avevano ceduto alle pressioni dei liberali e concesso una costituzione che avrebbero revocato con la protezione delle baionette austriache.
Il suo intervento fu giudicato sulle prime una forzatura ma mantenne le garanzie costituzionali ed aprì alla trasformazione del regime in “parlamentare”. Vittorio Emanuele, re costituzionale, farà tuttavia valere spesso la sua autorità, a volte entrando in conflitto con Cavour. Non si ameranno mai, il sovrano ed il suo primo ministro, del quale pure riconosceva le grandi doti di amministratore e di diplomatico.
Sul ruolo del Re nelle vicende risorgimentali vale la pena di richiamare il giudizio di un testimone autorevole e disinteressato, il Conte Karl Friedrich Vitzthum von Eckstädt, Ministro plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele. Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così, personificando il principio nazionale, dominò la situazione… Sacrificò sua figlia e la culla della sua casa, ma tenne al battesimo per sé e per il figlio la nuova Italia, a dispetto del Papa e dell’imperatore”.
Meno popolare di Garibaldi, che, pur repubblicano, gli fu sempre fedele, riconoscendogli il ruolo di federatore dei patrioti, e per il quale conquistò il Regno dei Borbone al motto di “Italia e Vittorio Emanuele”, il re piaceva agli italiani, coraggioso, spavaldo, bravo cacciatore, ottimo cavallerizzo, un po’ donnaiolo, ma attento alla famiglia ed alla religione.
A lui scrive Giuseppe Mazzini che nel 1831 si era rivolto a Carlo Alberto invitandolo a porsi “alla testa della nazione” per liberare l’Italia “dai barbari” ed edificare l’“avvenire”. Adesso riconosce al figlio il ruolo che ha avuto tra quanti perseguivano l’unità d’Italia: “Io, repubblicano – scrive -, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.
Morì ancora giovane, il 9 gennaio 1878. Quel giorno Vittoria di Hannover, Regina d’Inghilterra, che lo aveva avuto ospite nel Castello di Windsor nel dicembre del 1855, lo ricorda con sincero affetto: “quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui”. È un simbolo di quel “miracolo del Risorgimento”, come titola un bel libro di Domenico Fisichella, che, senza enfasi ma con realismo, ha edificato lo stato nazionale “costruito – come scrive Spadolini – attraverso la libertà, non frutto di conquista, non opera di violenza, ma espressione di un grande moto popolare disciplinato dalla legalità e, diciamolo pure, dalla legalità democratica”. Dopo che eravamo “da secoli calpesti, derisi, perché.. divisi”, come recita il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli, oggi Inno nazionale.
In lui si sono identificati liberali e conservatori. Ed è giusto ricordarlo, ancora una volta, come primo Capo dello Stato a centosessant’anni dalla istituzione del Regno d’Italia. Primo Re e veramente Padre della Patria.