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Draghi a Tripoli per “ricostruire” un’antica amicizia e cementarla con comuni interessi

di Salvatore Sfrecola

Quando la politica estera si faceva con le cannoniere Camillo di Cavour non ebbe dubbi. Era il 3 febbraio 1855 e al Parlamento subalpino propose di entrare in guerra a fianco di Francia, Inghilterra e Impero Ottomano contro la Russia. Perché, spiegò “se la presente guerra avesse esito felice per la Russia, se avesse per conseguenza di condurre le aquile vittoriose dello czar in Costantinopoli, evidentemente la Russia acquisterebbe un predominio assoluto sul Mediterraneo ed una preponderanza irresistibile nei consigli dell’Europa. Ebbene, sia l’una che l’altra conseguenza non possono a meno che riputarsi altamente fatali agli interessi del Piemonte e dell’Italia. Infatti, quando la Russia fosse padrona di Costantinopoli, lo sarebbe altresì del Mediterraneo”. In contrasto, dunque, con la vocazione mediterranea dell’Italia, che, aveva scritto anni prima (1846), è naturale per “la sua posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa”. E il Regno di Sardegna partecipò alla Guerra di Crimea dove i bersaglieri di Alfonso Ferrero della Marmora si distinsero nella battaglia della Cernaia.

A oltre 160 anni di distanza da quegli avvenimenti la Russia è tornata da tempo ad affacciarsi sul Mediterraneo, come la Turchia il cui Presidente Erdogan sembra voler rinverdire i fasti dell’Impero Ottomano che, proprio nella fase di decadenza, il Regno d’Italia affrontò in Libia, nel 1911, per assumere una presenza sulla sponda africana dopo che la Francia si era annessa la Tunisia con la quale l’Italia intratteneva e intrattiene ancora intensi rapporti soprattutto nel settore della pesca e della trasformazione dei prodotto ittici.

Era il tempo della politica “di potenza”. Finito quel tempo, nel quale le relazioni internazionali erano governate dalla capacità militare dei contendenti, nondimeno assistiamo a battaglie economiche condotte attraverso la presenza di imprese che costruiscono infrastrutture, estraggono petrolio e gas, ancora all’ombra di presenze militari a fianco di qualcuna delle fazioni che vivacizzano la scena politica in quei paesi.

A questo sviluppo dei rapporti con i paesi rivieraschi l’Italia è rimasta assente, nonostante avesse l’occasione di avviare un proficuo scambio di utilità economiche, in particolare con la Libia, che, una volta cessato il regime coloniale, poteva rimanere legata da investimenti nel settore delle infrastrutture civili, anche i vista di utili partnership di carattere industriale, agricolo e turistico. Lo stesso avremmo potuto fare con la Somalia, anziché sovvenire uno dei tanti Signori della Guerra che hanno reso instabile un paese la cui economia, se ben guidata, potrebbe assicurare un diffuso benessere alle popolazioni, soprattutto della costa. Mi dicono, infatti, che le spiagge somale non hanno niente da invidiare a quelle delle Seychelles. Invece di favorire l’acquisto di armi per combattere le altre fazioni, i governi italiani avrebbero potuto favorire l’affermazione di una classe dirigente capace di sviluppare l’economia in sinergia con qualche tour operator per sviluppare una adeguata attività imprenditoriale, magari d’intesa con qualche compagnia di crociere.

Passato inutilmente il tempo di quelle occasioni, incapaci a lungo di entrare in sintonia con chi aveva preso il posto di Gheddafi in un contesto nel quale Russia e Turchia hanno cercato di ingraziarsi il capo tribù di Tripolitania e quello della Cirenaica, senza poter parlare a nome dell’Europa, nonostante le coste libiche siano la base di partenza di imponenti flussi migratori, adesso il Governo Draghi sembra intenzionato a recuperare una presenza in Libia, certamente per assicurare all’Italia gli approvvigionamenti energetici di cui ha bisogno. Ma, ci auguriamo, anche per avviare quella collaborazione economica, industriale, commerciale e turistica, che abbiamo prima delineato. Sarebbe in tal modo soddisfatta quella naturale vocazione mediterranea trascurata, che pure risale nel tempo e che oggi potrebbe essere sviluppata come espressione della presenza dell’Europa per il tramite dell’Italia secondo quell’indirizzo che, come abbiamo ricordato, era stato delineato già da Cavour, quel grande statista che “pensava italiano”, anche quando l’Italia a Metternich sembrava solo un’espressione geografica, e immaginava che lo stato unitario sarebbe stato un “grande Stato”, anche in ragione della capitale predestinata, quella Roma che “è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali”. Una Nazione ricca per le tante potenzialità, industriali, manifatturiere e commerciali che intravedeva nella multiforme realtà culturale e ambientale del “bel Paese”. Riuscirà Mario Draghi a riprendere il filo di un discorso mai definitivamente interrotto lungo i secoli, nonostante la fine dell’Impero romano e, soprattutto, l’espansione dell’Islam? È ragionevole nutrire un cauto ottimismo. L’uomo ha esperienza finanziaria, buone relazioni internazionali ed un notevole senso pratico. Quello che troppo spesso è mancato alla politica italiana.

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