di Emanuela Rotolo, Magistrato della Corte dei conti
Qualche settimana fa, ancora incredula e addolorata dalla notizia dell’improvvisa scomparsa del Prof. Pietrangelo Jaricci, appresa in una fredda sera di marzo dall’affezionato figlio Gian Nicola, ho letto il ricordo affettuoso del Presidente Sfrecola, l’inseparabile amico di una vita. Attraverso quelle parole ci viene restituito un lucido e fedele ritratto del Professore, in tutte le sue sfaccettature di uomo, avvocato, professore, amico. Eppure, nei giorni seguenti ho continuato ad avvertire il bisogno di dedicare un pensiero a quello che è stato il mio Maestro e più convinto sostenitore e di condividerlo con chi, come me, lo ha tanto amato.
Ho mosso i primi passi da praticante nel suo studio in via Cola di Rienzo, trascorrendo lunghi pomeriggi di lavoro tra insegnamenti, racconti e borbottii.
In effetti il Professore, come lo chiamavo io, sarebbe potuto sembrare, a prima vista, burbero e severo; tutt’altro. Aveva sempre un aneddoto divertente da raccontare, tra i numerosi episodi bizzarri nei quali era stato coinvolto durante la sua lunga vita professionale. Lo ascoltavo attenta e curiosa, perché quei racconti, oltre a essere occasione di risate, erano vere e proprie lezioni di vita.
Quando, però, si trattava di leggere una memoria o un ricorso che avevo preparato, tornava serio e con un tono quasi sacrale si sedeva alla scrivania, sempre ordinatissima (questo, purtroppo, non è riuscito a insegnarmelo, sebbene ci abbia provato), ed esaminava attentamente il testo, prestando attenzione a tutti i dettagli, compresa la punteggiatura. Quegli insegnamenti sono ancora impressi nella mia mente e messi in pratica tutti i giorni.
Non mi riferisco solo al diritto amministrativo, del quale era fine studioso e profondo conoscitore, ma anche allo stile di scrittura, al modo di parlare in udienza (“bisogna sempre iniziare con una frase a effetto, per stupire il collegio”, mi diceva, a proposito delle arringhe) e soprattutto al rigoroso metodo di studio.
Ma la mia più profonda gratitudine nei confronti del Professore deriva dal costante incoraggiamento a tentare il concorso in magistratura. Era fermamente convinto che ce l’avrei fatta e criticava tutte le esperienze lavorative dalle quali mi lasciavo coinvolgere e che mi avrebbero, a suo dire, potuto distrarre dall’obiettivo. Dal canto mio, anche se non ci credevo allo stesso modo, continuavo a studiare facendomi forte delle sue iniezioni di positività.
Quando ho vinto il concorso, ho colto nella sua commozione la gioia di chi vede realizzare un sogno che è anche il suo.
Da allora, tutte le volte in cui orgogliosamente indosso la toga del Pubblico Ministero e mi preparo per la requisitoria, scelgo una frase a effetto per sorprendere il collegio, cercando goffamente di imitare quella innata vena acuta e pungente che lo caratterizzava.
Anche adesso, mentre scrivo di getto questo breve ricordo, preferisco trattenere l’inevitabile commozione e pensare che da lassù, sorridendo, mi stia dicendo: “Emanuela, sei capace di tutto!”, come scherzosamente mi apostrofava nei lunghi pomeriggi in via Cola di Rienzo.