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Occorre ricordare alla Corte costituzionale che il Parlamento è sovrano, anche quando “omette” di riconoscere presunti “diritti”

di Salvatore Sfrecola

Come è accaduto per i suoi predecessori, anche la relazione di Giancarlo Coraggio, Presidente della Corte costituzionale, sull’attività della Consulta nel 2020, non è stata esente da critiche. Per aver voluto, dinanzi alle massime cariche dello Stato, richiamare la politica, e per essa il Parlamento, all’esigenza di legiferare in materie che, a giudizio della Corte, sarebbero rimaste esenti da regolamentazione nei termini che la “sensibilità” dell’opinione pubblica richiederebbe.

È una evidente invasione di campo, assolutamente inammissibile che, pur essendo ricorrente da alcuni anni, sia pure con diversa accentuazione, dobbiamo contrastare in nome del principio, cardine della democrazia rappresentativa, secondo il quale spetta al Parlamento, espressione della sovranità popolare, disciplinare ciò che è giuridicamente rilevante nei termini che ritiene opportuni. Oppure omettere di intervenire. E non è consentito ai giudici, a nessun giudice, neppure al Giudice delle leggi, dare indicazioni al legislatore. Per Alfredo Mantovano, ad esempio, magistrato, già senatore e Sottosegretario di Stato al Ministero dell’interno, intervistato per La Verità da Alessandro Rico, è una anomalia che i Giudici della Corte costituzionale si ritengano “sensori della coscienza sociale” ed indichino quali siano i diritti “che meritano tutela”. Che sono tali, cioè diritti, solo quando la legge li identifica. Riassume: “il pensiero è il seguente: io, giudice, mi sono formato con precisi riferimenti ideali – non voglio dire ideologici – e, su questa base, ritengo che il corpo sociale abbia determinate esigenze. Solo che l’interprete di tali esigenze del corpo sociale è chi, dal corpo sociale stesso, riceve i voti per decidere. I giudici della Corte costituzionale, invece, non sono eletti dal popolo. Sta qui il cortocircuito: c’è un’autoinvestitura come sensori sociali, mentre la Costituzione delimita il perimetro dell’intervento della Corte”. Credo che anche il Barone di Montesquieu, l’autore della teoria della separazione dei poteri, fulcro dei moderni ordinamenti costituzionali, riterrebbe assolutamente impropria questa sollecitazione della Consulta nei confronti del Parlamento. Il quale, secondo Mantovano, dovrebbe reagire e dire alla Corte, senza mezzi termini, di mantenersi “nei limiti delle sue prerogative”. Perché tra le scelte che un Parlamento può compiere, come già detto, c’è anche quella di non legiferare. Giudicheranno, poi, gli elettori, nelle urne, se tale decisione merita il loro apprezzamento, cioè, per dirla con il linguaggio di Palazzo della Consulta, se gli eletti hanno condiviso la “sensibilità” popolare.

Stupisce, dunque, che i Presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati, presenti alla lettura della relazione del Presidente Coraggio, non abbiano garbatamente fatto osservare che spetta alle assemblee da essi presiedute decidere il da farsi, che l’ideologia politica non debba albergare nell’antico palazzo di piazza del Quirinale dove ha sede la Consulta. E che, se questo avviene, è effetto di una crescente immissione nel Collegio dei Giudici di personalità di spiccata formazione politica.

È un fatto sotto gli occhi di tutti che i giudici eletti dal Parlamento e quelli nominati dal Presidente della Repubblica hanno sempre più spesso una pregressa, rilevante militanza partitica, capace di segnare la personalità di chiunque a lungo abbia soggiornato nei palazzi del potere. Per non fare torto a nessuno valga l’esempio del Giudice costituzionale Giuliano Amato, illustre costituzionalista, autore di pubblicazioni alle quali personalmente ricorro di frequente; è stato Presidente del Consiglio, Ministro del Tesoro, dell’interno e delle riforme istituzionali. Ed è stato vice segretario generale del Partito Socialista Italiano. E mi chiedo, ma credo se lo chieda qualunque cittadino, come possa un politico a tutto tondo non essere influenzato dalle idee e dagli ideali perseguiti per decenni con rilevante impegno politico e non senta imbarazzo nel giudicare della legittimità costituzionale di una normativa la quale potrebbe essere stata approvata da una maggioranza parlamentare diversa o, forse, opposta a quella nella quale ha militato, soprattutto quando sono in discussione valori costituzionalmente rilevanti. So che una persona perbene, intellettualmente onesta, tende a distaccarsi e, a volte, ci riesce. Ma se è relativamente facile nella interpretazione della legge, e non lo è neppure in quel caso, come vedremo, considerato l’indirizzo interpretativo che ha travolto i tradizionali canoni ermeneutici, il problema si pone soprattutto quando si fa riferimento, come ha scritto il Presidente Coraggio, alla “particolare rilevanza” che assumono “quei settori in cui i valori espressi dalle norme costituzionali sono più soggetti alla pressione dell’evolversi della realtà etico-sociale: non si deve infatti dimenticare che, nella maggior parte dei casi, nelle norme fondamentali dei primi dodici articoli della Costituzione, e in genere in quelle contenute nel Titolo I, sono appunto i “valori” che vengono in gioco; e si tratta, spesso, degli stessi valori che sono oggetto della normativa e della giurisprudenza sovranazionale: il lavoro e la sua tutela in caso di licenziamento (sentenza n. 150), la responsabilità genitoriale e la tutela dei minori (sentenze n. 102, n. 145, n. 127 e n. 230), i diritti e i doveri delle coppie omosessuali, la genitorialità biologica e legale, la procreazione medicalmente assistita; così come le situazioni soggettive che vengono in rilievo di fronte alla complessa, stratificata e a tratti disomogenea legislazione sull’esecuzione carceraria ed extra muraria delle pene, oggetto di una incessante attività della Corte di adeguamento ai precetti costituzionali e, in particolare, all’articolo 27 della Costituzione (sentenze n. 18, n. 32, n. 74, n. 97 e n. 113). È specialmente in questi àmbiti – è l’opinione del Presidente Coraggio – che viene in evidenza il problema del rapporto con il legislatore, problema che da sempre costituisce un aspetto delicato del sindacato di costituzionalità e che del resto era stato sottolineato da autorevoli esponenti dell’Assemblea costituente. La consapevolezza di questo limite è una stella polare nell’attività giurisdizionale della Corte, cui si impone il rispetto delle prerogative del Parlamento, quale «“interprete della volontà della collettività […] chiamato a tradurre […] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”» (sentenza n. 230 sul riconoscimento della omogenitorialità). È per questo che in passato la Corte è intervenuta sulla legislazione con sentenze additive – introducendo così una nuova norma – solo nei casi tradizionalmente qualificati a “rime obbligate”, in cui, cioè, vi era un’unica soluzione idonea a rimuovere gli accertati vulnera alla Costituzione. Al contrario, in presenza di una pluralità di opzioni normative, la Corte adottava pronunce di inammissibilità, limitandosi poi a formulare i cosiddetti moniti, in sostanza inviti o esortazioni all’intervento del legislatore”.

Moniti, inviti ed esortazioni che costituiscono una risalente invasione di campo nello spazio riservato alla discrezionalità del legislatore, come ha detto Mantovano. Per cui si confondono “desideri”, che è sempre legittimo esprimere, con “diritti” da riconoscere, come se esistessero in una sorta di diritto “naturale” in attesa di diventare vigenti, quando saranno previsti dal diritto “positivo”.

Sono, comunque temi per il legislatore ai quali il Giudice delle leggi si può avvicinare solamente con estrema prudenza, eventualmente per rilevare distonie nella regolamentazione, non per sollecitare una soluzione né tantomeno per dare un termine al legislatore per provvedere. Che è questione di merito, che spetta al Parlamento affrontare e definire, anche omettendo di legiferare. Mi ripeto ma è necessario.

Naturalmente questo indirizzo è suggestivo. E se ne impadronisce la politica in contiguità ideologica con la tesi manifestata dalla Consulta. Il Presidente Coraggio, facendo riferimento alle questioni affrontate dalla Corte nel corso dell’anno passato, ha sostenuto che “Occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: “posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio” […]». Ne risulta il duplice impegno volto, da una parte, ad assicurare una pronta ed efficace tutela al diritto o al valore leso e, dall’altra, a trovare indicazioni nel quadro normativo vigente: la soluzione deve, cioè, potersi ricavare dal sistema e, se possibile, da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, in modo da assicurarne la coerenza con la logica seguita dal legislatore (sentenza n. 113). È proprio in relazione a questa ultima esigenza che, in mancanza di punti di riferimento normativi e in presenza di interventi complessi e articolati, la Corte si è sentita obbligata a privilegiare il naturale intervento del legislatore, ricorrendo alla tecnica processuale della incostituzionalità “prospettata”: all’accertamento della contrarietà a Costituzione della norma censurata fa seguito non già la contestuale declaratoria di illegittimità costituzionale ma il rinvio a una nuova udienza per l’esame del merito, dando tempo così al legislatore di disciplinare la materia”.

Immagino che il Barone di Montesquieu inorridisca ancora una volta. Come chi ritiene che la “certezza del diritto” e la conseguente regola che “la legge è uguale per tutti” sia un canone di civiltà giuridica da sempre negli ordinamenti liberali. Non è così per tutti, perché da tempo si è cominciato col contestare le tradizionali regole dell’interpretazione, come indicate dall’art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale” secondo il quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Macché, è il giudice che crea il diritto. Così per Paolo Grossi, storico del diritto e già Presidente della Corte costituzionale, “puntare sul diritto come ordinamento significa spostare l’asse portante dell’ordine giuridico fuori dalla testa di Giove, ossia del legislatore, sottrarla a un soggettivismo accanito fino a ricomprendere e valorizzare quella dimensione oggettiva, sociale economica culturale, che il diritto stesso è chiamato a ordinare e con cui si deve fare i conti se non vuole arrivare alle aberranti conclusioni di un nichilismo a-contenutistico”. E aggiunge: “fare i conti con la società significa fare i conti con la storia… Il diritto si legittima solo in quanto sia espressivo delle ideali fondazioni con cui una civiltà si è costruita storicamente”. Ed “ecco che l’ imputazione alla società e alla complessità delle forze sociali più che a un apparato di potere, crea la conseguenza immediata della riscoperta di un sostanziale pluralismo giuridico, perché si raggiunge lo svincolo da quella immedesimazione col potere politico ritenuta necessaria nell’ordine borghese”. E sostiene che “l’interprete che recupera il suo carattere attivo, specchio e coscienza di esigenze che possono non essere identiche a quelle pressanti al momento della produzione della norma. L’Interprete si trasforma nella garanzia della storicizzazione della norma”. Le conclusioni sono nel senso che “abbiamo il dovere di dubitare, fondatissimamente, di quel principio di gerarchia delle fonti che… ci veniva insegnato come un dogma., come non ha più rispondenza dell’articolo 12 delle preleggi rimasto all’interno del testo del Codice civile come reliquia di passate credenze lucidamente oggi considerate come mitologiche” (Storicità del diritto, Lezione magistrate tenuta all’Università degli studi di Napoli Federico II, Jovene editore, Napoli, 2006, 16-22).

Manifesto sconcerto grande. Ora non è dubbio che il legislatore possa, anzi debba, provvedere a modificare la norma in coerenza alla mutata sensibilità della società, ma non può essere il giudice o l’interprete colui che stabilisce la norma vigente, perché tante sarebbero le interpretazioni quanti sono i giudici e gli interpreti. E questo, con buona pace del Prof. Grossi, è sicuramente fonte di incertezza del diritto, di ingiustizia gravissima.

Per Grossi, infatti, “referente necessario del diritto è soltanto la società”. Spiega meglio: “il diritto nasce prima delle regole, il diritto è già nella società auto-ordinatesi”.(Prima lezione di diritto, Laterza, Bari, 2003, 24). La declinazione del diritto in termini casistici, sostiene Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano a Torino, “affidando la individuazione della norma alla sentenza del giudice, insieme con il tendenziale abbandono della generalità e astrattezza della regola, rischiano di riprodurre gli inconvenienti che proprio il Grossi addebita al “diritto comune”: la particolarizzazione, la frammentazione, l’incertezza della disciplina giuridica e dunque la diseguaglianza di trattamento, con una stratificazione enorme di pareri e decisioni spesso contrastanti” (Giudici e legge, Pagine editore, Roma, 2015, 129).

Argomenti per discutere di un tema fondamentale in una società democratica.

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