di Salvatore Sfrecola
Non so dire se è vero quel che scrive oggi su La Verità Marcello Veneziani secondo il quale, analizzando il panorama delle candidature a sindaco in molti “si insinua il dubbio che la destra preferisca perdere la guida di Roma, Napoli o di Comuni difficili da amministrare, avendo tutti contro: temendo che il sindaco di una metropoli attaccato da tutte le parti, boicottato dargli apparati comunali, posta danneggiare la battaglia per le elezioni politiche”.
È una tesi non isolata, che anche io a volte ho avanzato, e che trova conferma nell’esperienza. La destra, le destre, il centrodestra, per non fare un torto a nessuno, ha dimostrato spesso di sapere vincere le elezioni, avendo acquisito un consistente consenso popolare, ma di non saper governare. E se questo non è sempre stato vero a livello di enti locali, quando alcuni sindaci hanno saputo gestire la macchina amministrativa e, quindi, realizzare il programma condiviso nelle urne, è indubitabile a livello del governo centrale, a partire dall’esperienza dell’esecutivo Berlusconi – Fini (2001 – 2006), di cui ho scritto in “Un’occasione mancata” (Pagine Editore), questa capacità di governo non c’è stata. Per aver maturato una lunga esperienza “da fuori” quale magistrato della Corte dei conti, una posizione assolutamente privilegiata, integrata da quanto ho potuto imparare “da dentro”, nei lunghi anni nei quali, da consigliere giuridico di vari ministri in importanti dicasteri, ho verificato quanto siano rilevanti e paralizzanti le disfunzioni organizzative e procedimentali degli uffici.
Ebbene, gli apparati delle pubbliche amministrazioni sono in via permanente presidiati, per le funzioni più rilevanti, da persone lì collocate da ministri di sinistra. Si tratta di una rete alla quale quei partiti possono fare sempre riferimento, anche quando lontani dal governo. Gli altri dirigenti non apertamente schierati sono comunque a disposizione degli stessi ambienti. I primi, perché legati a chi li ha nominati, i secondi perché consapevoli del fatto che ministri di sinistra tornano in sella e, pertanto, è bene tenerseli buoni. È chiaro che nessuno dubita che, sul piano formale, i pubblici dipendenti sono “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98, comma 1, della Costituzione, ma è altrettanto vero che essi hanno un occhio di riguardo per chi li ha nominati, spesso eludendo la regola secondo la quale “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso” (art. 97, comma 4, Cost.). Ciò che accade da anni sulla base dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 165 del 2001, che consente di “nominare” dirigenti soggetti che non hanno vinto nessun concorso, provenienti dal privato o anche dalle stesse amministrazioni, nonostante la norma esplicitamente sia destinata alla scelta di specifiche professionalità non presenti dell’amministrazione.
Naturalmente quando è stato possibile, anche il Centrodestra ha fatto le sue nomine, poche e spesso avendo fatto ricadere la scelta su soggetti di scarsa esperienza e professionalità. Con questa realtà i partiti di Centrodestra, da ultimo la Lega, soprattutto nell’esperienza del governo giallo-verde, hanno spesso dimostrato di ritenere che sia sufficiente avere un posto di ministro per governare un apparato. Abbiamo dimostrato più volte che non è così, che un ministro con uno staff modesto e spesso arrogante non ottiene dall’apparato quelle collaborazioni che è possibile quando, ad esempio, il Capo di Gabinetto è riconosciuto dai funzionari per la sua indipendenza, per la padronanza degli ordinamenti e per essere realmente in sintonia con l’autorità politica. Ma se un Ministro porta con sé un Capo di Gabinetto che ha collaborato con i predecessori di altra area politica è evidente che questa situazione fa dubitare all’apparato l’esistenza di una effettiva consonanza con il Ministro. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, sottolineate dalla miserevole esperienza di questi governi. Infatti, è vero che i “gabinettisti” sono spesso magistrati amministrativi o contabili per definizione indipendenti, ma finiscono per essere identificati con l’area politica del ministro.
Qualcuno dei miei lettori sorriderà perché cito spesso Cavour, un grande amministratore che queste cose le aveva capite fin dal 1852, quando attuava una radicale riforma della pubblica amministrazione, ritenendola imprescindibile per l’attuazione dei suoi ambizioni ambiziosi programmi di governo.
Dovrebbero andare a lezione da Cavour gli improvvisati politici di casa nostra.