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L’IRREFRENABILE DERIVA POPULISTA SUL BICAMERALISMO PERFETTO.

                                “Les parlementaires procèdent de l’election, selon des modalités differenciées, afin de prendre  en compte la logique bicamerale. En effet une seconde chambre calquee sur la premeiere serait, a la limite, un double inutile ”   

        Jean GICQUEL, Professeur a Paris I, Panthèon-La Sorbonne (*)

di Jacopo Severo Bartolomei

Collaboratore Univ.tà Roma III – Cattedra Dir. Cost.le Prof. Alfonso Celotto

La legge Costituzionale 18.10.21 n. 1 “Modifica all’art. 58 Cost., in materia di elettorato per l’elezione del Senato della Repubblica è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, serie gen. n. 251 del 20.10.21.

E’ la seconda legge di revisione costituzionale approvata nel corso della XVIII legislatura, dopo quella n. 1 del 19.10.20 che modificando gli artt. 54, 57 e 59 ha ridotto il numero complessivo dei parlamentari elettivi di in terzo; la legge è stata confermata con referendum approvativo del 20-21 settembre 2020, tenutosi ai sensi dell’art. 138 Cost..

Sul sito ufficiale del governo, Dipartimento per le Riforme Costituzionali è testualmente scritto “FINALMENTE i giovani tra i 18 e 25 anni potranno votare per l’elezione del Senato; viene così abrogata la previsione che limitava l’elettorato attivo (per la Camera Alta). E’ una riforma che rafforza la partecipazione alla vita politica del paese (sic!) e conferma la bontà e l’efficacia delle riforme costituzionali di carattere puntuale (sic! sic!)”.

Tale legge costituzionale, composta da un articolo unico, mediante la modifica apportata all’art. 58, co I, Cost., dispone la riduzione del limite di età per l’esercizio dell’elettorato attivo per i membri di Palazzo Madama da 25 a 18 anni, con un processo di uniformazione all’identico elettorato previsto per i componenti della Camera dei Deputati (art. 56 Cost.).

Il comunicato del sito ufficiale riporta che “il tema dell’abbassamento dell’età dell’elettorato attivo era emerso in occasione del dibattito sulla riduzione del numero dei parlamentari; coerentemente con il metodo delle riforme puntuali si è provveduto con un autonomo disegno di legge”.

Orbene, se tali considerazioni non apparissero su sito ufficiale, una persona di media cultura giuridica dubiterebbe che possano essere congruenti ed adeguate al convulso contesto socio-politico, in continua instabile evoluzione, in cui il dibattito sulle riforme istituzionali si è dipanato, incentrandosi primariamente sui Grandi disegni revisionistici, Dibattito svoltosi nelle sedi parlamentari, ma trascinatosi senza costrutto, a partire dalla Commissione bicamerale A. Bozzi istituita nel  1983 all’ultimo referendum Boschi-Renzi del dicembre 2016, avente ad oggetto proprio il progetto generale di più ampia revisione costituzionale, sia per estensione che per contenuti, mai proposto dai tempi dell’ Assemblea costituente e dalla celebre commissione dei 75.

In esso,  si contemplava espressamente, tra le altre riforme, l’abolizione del CNEL e il superamento del bicameralismo paritario, con la trasformazione del Senato, in organo elettivo di secondo grado con rappresentanza degli enti territoriali, camera a competenza legislativa circoscritta a materie predeterminate, escludendola dal rapporto di fiducia con l’esecutivo. L’esito del voto è stato massicciamente reiettivo, anche se alcuni leader che si erano impegnati in prima persona (per tutti Massimo D’Alema) ad osteggiare la riforma Renzi, annuissero sulla necessità di un intervento revisionatore incisivo ancorché meno esteso sul testo costituzionale.

Infatti, a fronte del reiterato naufragio di qualsiasi tentativo di riforma organica della Costituzione –  se si esclude la riforma del Titolo V della Carta, introdotta con modalità spicciative e a maggioranza risicata, con legge cost. n. 3/2001 scevra dal conseguire quel più ampio consenso richiesto nella riscrittura delle regole del gioco – parlare di metodo “delle riforme puntuali” suscita ilarità primaché stupore ermeneutico.

All’uopo rientra tra gli elementi rudimentali del diritto costituzionale, e segnatamente del diritto parlamentare, la conoscenza della differenza intercorrente tra il parlamentarismo bicamerale e quello monocamerale; ragione per cui ogni soggetto con minima dimestichezza giuspubblicistica riesce ad apprezzare che tra le funzioni principali devolute all’organo assembleare di rappresentanza politica (un tempo a fini generali, prima dell’insorgenza di lobbies e consorterie trasversali) deve annoverarsi – in forma di governo parlamentare a blanda razionalizzazione, quale emergente dalla sinergia tra gli attori costituzionali desumibile nel disegno della Carta Repubblicana 1948 – primaché della stessa funzione legislativa, la funzione di indirizzo e controllo politico del governo. Tratto indefettibile del bicameralismo paritario è che la Camera Alta svolga la medesima funzione di controllo e vigilanza del Governo, così chiamato a rispomdere del proprio operato di fronte ad entrambe le Camere.

Tale funzione, all’atto di insediamento di ogni nuova compagine dell’esecutivo, si esterna e cristalizza nel conferimento del voto di fiducia da parte di ciascuna camera; specularmente, per quanto attiene alla funzione legislativa, ogni disegno di legge deve essere approvato nello stesso identico testo sia dalla Camera dei Deputati che dal Senato. In ciò si concretizza il bicameralismo paritario ovvero perfetto o isomorfico, sotto il profilo funzionale.

Il bicameralismo, quindi, nello schema organizzatorio scrutinato nel diritto costituzionale comparato, si contrappone al monocameralismo, in cui la rappresentanza politica non si suddivide nelle due camere in cui si articola l’organo parlamentare; in tal senso il bicameralismo si giustappone al monocameralismo e particolare declinazione del primo è costituito dal sistema del bicameralismo perfetto, alla stregua del quale ciascuna camera ha gli stessi compiti dell’altra e partecipa tanto  al procedimento legislativo quanto alla funzione di controllo politico in posizione isomorfica (voto di fiducia e mozioni di sfiducia, atti di controllo quali interrogazioni, interpellanze, risoluzioni, etc; commissione di indagine e di inchiesta,  leggi direttamente attinenti all’indirizzo politico, quale la sessione di bilancio, la dichiarazione di guerra, etc)

Nel bicameralismo imperfetto o asimmetrico, invece, la prevalenza è generalmente conferita alla Camera bassa, espressione più compiuta e fedele degli interessi nazionali generali e la formula organizzatoria prescelta dall’ordinamento costituzionale è volta ad evitare inutili duplicazioni o sterili sovrapposizioni di decisioni.

A fronte delle critica routinaria al bicameralismo perfetto di rendere più arduo il processo decisionale, di essere un sistema sorpassato o peggio anacronistico i sostenitori, in verità assottigliatisi coltrascorrere dei decenni e affermarsi esigenza di decisioni più rapide, a volte recettive di decisa  presi ante et aliunde (ad es. la legge comunitaria, la ratifica di trattati internazionali, appprovazione di legge delegate, etc.) del metodo della “doppia lettura” sottolineano che essa è impeditiva dell’approvazione precipitosa di testi normativi; in tal senso la Camera Alta si pone come  “Chambre de reflexion” e il dilatarsi dei tempi di approvazione dei provvedimenti legislativi è imputabile esclusivamente ad altri fattori, come la carenza di maggioranza coesa o la non univocità della decisione inemendabile (all’uopo emblematica la bocciatura del ddl Zan ). Orbene, a prescindere dal possibile vaglio di quale sia l’opzione preferibile tra le due forme di bicameralismo, è indubbio che l’ordito ordinamentale dettato dai Padri costituenti in quel dato momento storico fosse tutt’altro che scevro di razionalità, mentre la circostanza che dopo un periodo ultratrentennale di attuazione della costituzione (Corte costituzionale, CSM, regionalismo. Etc.) la Carta abbia accusato segni di obsolescenza non depone assolutamente a sfavore del disegno originario. Basti considerare che Thomas Jefferson, Coautore della più longeva costituzione bicentenaria degli USA, soleva dire che il lascito da parte di Padri costituenti (legislatores conditores) preclusivo all’evoluzione della generazione dei propri figli, sarebbe rappresentato dall’immutabilità di ogni costituzione oltre il periodo di durata equivalente a quello della generazione l’ha scelta per sé.

Nella carta del 1948, è notorio, la centralità era conferita al Parlamento, organo cui dipendeva la nomina e la permanenza in carica dell’esecutivo, mercè la sussistenza di costante rapporto fiduciario tra Premier, mero primus inter pares, e compagine esecutiva da un lato e dall’altro maggioranza parlamentare, formata da coalizione di partiti strutturati; a fronte di tale bicameralismo isomorfico, si prevedeva una ragionevole differenziazione dell’elettorato attivo (e passivo) per l’elezione dei membri di ciascuna camera.  Perdipiù, sino al periodo della riforma del diritto di famiglia del 1975, la maggiore età (cfr. legge n.39 dell’8.3.75) si conseguiva al compimento del ventunesimo anno, soglia temporale richiesta per esercitare i diritti di cittadinanza attiva con il voto nelle consultazioni elettorali locali e dal 1970 regionali, nelle elezioni politiche e nei vari tipi di referendum da quello abrogativo all’approvativo, consultivo territoriale, etc.. Ora dopo che numerosi progetti organici di riforma costituzionale, elaborati sia da partiti che da maggioranze di diversi e a volte contrapposti orientamenti politici – tra cui l’ultimo in ordine cronologico, ma il più vasto per l’impatto revisionatore, quello del Premier Renzi sottoposto con esito reiettivo a referendum popolare nella consultazione elettorale del 4/5 dicembre 2016, come già accennato – hanno costantemente individuato nell’isomorfismo funzionale del parlamento bicamerale una fonte di criticità, tanto da prevedere l’abolizione tout court della Camera Alta ovvero la sua dequotazione con nuova fisionomia (cd. Camera delle Regioni), è francamente assurdo constatare come la preoccupazione del “legislatore costituente” della XVIII legislatura si sia indirizzata, di fronte a tale emendando isomorfismo funzionale, a rendere più penetrante quello strutturale, sotto il profilo della parificazione della soglia di elettorato attivo.

Non è vero, come risulta dai lavori parlamentare, che tale riforma puntuale – in realtà più “riformetta” di stampo velleitario, se non apertamente populista  -possa esser in qualche modo posta in correlazione con la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, disposta giusto un anno prima (legge cost. n. 1.2020) perché non si comprende il motivo per cui, se ogni camera avrà nell’immediato prosieguo una composizione più snella, essa debba essere eletta dagli stessi soggetti in entrambi i rami.

Non è plausibile la motivazione apoditticamente adottata che in tal modo si possa ottenere un maggior coinvolgimento della fascia più giovane (tra i 18 e 25 anni) nella vita politico-parlamentare, in quanto  le statistiche sul crescente astensionismo (vedi la partecipazione alle votazioni municipali capitoline del 3 ottobre, scesa sotto la soglia metà- 48,5%, con punta negativa al ballottaggio di oltre 10 punti percentuali rispetto a precedenti consultazioni locali) non depongono in favore di una possibile inversione di tendenza, laddove si ampli verso il basso il corrispondente elettorato attivo.

Infatti, è stato opinatamente rimarcato come “I risultati delle più recenti competizioni elettorali hanno visto crescere l’assenteismo, segno inequivocabile di una disaffezione per la politica e le vicende della società civile in cui viviamo, squassata dalle contraddizioni che hanno accompagnato la fine delle ideologie, scioccamente enfatizzata” (***) hanno evidenziato che è stato trascurato il fattore di quanto il venir meno delle idee a base della filosofia politica abbia comportato la regressione dell’impegno politico di ampi settori dell’elettorato, meno motivato e radicato, e concorso a determinare l’irrompere nella platea parlamentare di un populismo becero, eppur  suadente e ammaliante nei confronti dei soggetti desiderosi della rigenerazione del costume politico e tuttavia incapaci di “cantierizzazione” di un progetto radicato in ideali di riferimento e vasto respiro programmatico (Grillo, Padre-padrone-padrino del M5S aizzava la platea con il famigerato VAFFA, emblema non  già di prevalenza della pars destruens su quella costruens, giacchè qualsiasi movimento allo stato nascente deve differenziarsi con l’abbattimento dell’ancien regime, quanto di un’assenza strutturale e pervicace di programmazione generale).

Inoltre l’analisi demografica, sia della popolazione autoctona, che dopo appena 15/20 anni di stanziamento, pure di quella immigrata, della costante denatalità dimostra come “l’Italia non sia né un Paese per giovani, né di giovani.”, motivo per cui i ragazzi in età postscolastica od universitaria, che si affacciano o si apprestano ad affrontare gli scenari problematici del mondo del lavoro,  hanno ben altri pensieri ed aspirazioni, che estendere al Senato il proprio voto per sentirsi cittadini protagonisti; perdipiù l’inopinata approvazione è avvenuta in un contesto generale di valorizzazione degli strumenti di democrazia diretta e della possibile introduzione di un’iniziativa popolare di legge “rinforzata” con obbligo di calendarizzazione ed esame da parte del Parlamento. A riprova di ciò, sussiste il dato socio-economico di ingenti flussi migratori giovanili, pure ad alta scolarizzazione, verso paesi UE e non solo (Canada, Australia, Stati Uniti, etc.), che certo non si arresta col l’allargamento della base elettorale attiva per il Senato della Repubblica.

Non è vero, infine, che si possa continuare a procedere con il metodo delle riforme puntuali, quando l’ordinamento repubblicano accusa da decenni insostenibile obsolescenza e non solo nella parte dell’organizzazione dei poteri (Parte seconda dedicata all’Ordinamento della Repubblica, come riconosceva lo stesso Leopoldo Elia “custode della costituzione”), bensì pure  nella parte dei Diritti e Doveri dei Cittadini (come prospettava Franco Bartolomei, sulla scia dell’insegnamento del Maestro Massimo Severo Giannini, preoccupato da tempo dell’erosione e svuotamento di effettività di tutela delle libertà fondamentali dal meccanismo della riserva di legge in artt. 13/54), sino agli stessi principi fondamentali (ad es. basti citare la carenza di un’adeguata copertura alla sempre più invadente cessione di sovranità in favore dell’Unione Europea).

In definitiva il Parlamento della XVIII legislatura, che non a caso ha assistito al maggior numero di trasmigrazioni e “cambi di casacca” oltre alla lenta inesorabile implosione della forza di maggioranza relativa (M5S) ha perso un’ulteriore occasione per non legiferare in maniera schizofrenica, pletorica, incongrua e irragionevole, persino a livello primario di normazione costituzionale. Nell’intero sforzo a cui si sottopone il legislatore spesso “ciò che vi è di buono non è nuovo; ciò che vi è di nuovo non è buono” ed il caso della legge costituzionale n. 1/21 ne costituisce riprova lampante.

Quindi, la recentissima riforma è una torsione populista demagogica – ascrivibile alla degenerazione della democrazia, sotto forma di aristotelica Oclocrazia – della dinamica democratica parlamentare classica e costituirà non una occasione di ravvicinamento tra politici ed elettori giovani, bensì sancirà l’ormai incolmabile distacco tra i gruppi dirigenti, pretesi depositari esclusivi dei supremi interessi vitali del Paese, ed il popolo sovrano che si costituisce in corpo elettorale eligente per esprimere i massimi organi costituzionali, finendo paradossalmente per contribuire ad alimentare lo spirito antiestabilishment.

Come scrive il socio-politologo britannico Colin CROUCH, che denomina postdemocrazia la parabola discendente in cui mentre gli assetti democratici sopravvivono e sembrano prosperare nella forma “l’energia reale del sistema politico è sempre più nelle mani di un’elite ristretta di politici e rappresentanti del mondo imprenditoriale, che condiziona l’agenda degli organi decisionali

Soggiacendo a siffatta impostazione oligarchica, il regime politico – a prescindere dalla categorizzazione formale – imbocca una strada che inesorabilmente conduce all’ulteriore indebolimento della capacità critica di “cittadini e cittadine di influenzare le decisioni, minando l’uguaglianza e la sovranità popolare” (**)

Non saranno, purtroppo, i neomaggiorenni diventati per la prima volta dopo 73 anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionali, con la titolarità astratta del diritto di elettorato attivo per l’elezione della Camera Alta, a poter imprimere quel rinnovato slancio vitale ad asfittiche istituzioni semprepiù autoreferenziali e distanti dagli effettivi centri decisionali, nel panorama crescente di desertificazione di partiti e movimenti politici, attori protagonisti un tempo dello scenario della costituzione materiale.

Roma, 15.11.21 – S.A.M.

(*) Jean GICQUEL, Droit constitutionnel et institutions politiques – Paris 1991, pg. 722, “Section I. Le recrutement du Parlement; §1 – L’accession au mandate parlementaire”;

(**) Colin CROUCH, Postdemocrazia, Bari V. ed. 2005, di recente cit.pure da G. Serughetti, “Indebolire la democrazia non è il rimedio al populismo”, editoriale a firma Giorgia Serughetti, in Domani, editoriale 09.11.21;

(***) Così puntualmente Salvatore SFRECOLA, “Il Sagittario”, un Circolo culturale, un pezzo di storia della politica a Roma…, in Un sogno italiano, periodico on-line, 8.11.21.

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