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Livermore, Macbeth…. e le “colpe” di padre Freud

di Dora Liguori

Prima di Freud i brutti sogni, frutto magari di una cattiva digestione, restavano tali e, per fortuna, svanivano con il giorno; il padre della psicanalisi, poi, ci ha convinto che i nostri sogni erano invece frutto di interiori malesseri, da scandagliare, volendo ritrovare un giusto equilibrio, con l’aiuto di uno psicologo. Infatti, per liberarsi dagli incubi occorreva che quest’ultimi fossero portati in superficie, e ciò avveniva solo condividendoli con l’analista. Il regista Livermore, invece, per rasserenare la sua psiche, da tempo ha deciso di condividere le sue visioni oniriche con un’intera platea di teatro.

Per lui, infine, un chiaro uso del cosiddetto “teatro terapeutico”, per tanti spettatori un poco meno. 

Questa, in fondo, la chiave di lettura che molto umilmente riesco a dare della regia del Macbeth propinataci dal Livermore alla Scala; altrimenti tornerebbe quasi impossibile dare una logica spiegazione all’orrido scenario, tipo fabbrica d’armi in disarmo, nella foresta nera, di hitleriana memoria o, se preferite, la città del futuro rappresentataci nel film “Blade Runner”. Insomma, questo l’orrido contesto nel quale il regista ha ritenuto di dover immergere il povero Macbeth che, già di suo, troppo bene non ci stava con la testa.

Ma, prima di proseguire con le già accennate oniriche rappresentazioni sceniche del Livermore, occorre riservare due parole sui siparietti illustrativi dello spettacolo fornitici dalla Rai a cura di Milly Carlucci e Bruno Vespa, ossia due persone che si presuppone dovessero possedere una sia pur minima competenza per illustrare al volgo (che saremmo noi) precise notizie sul dramma verdiano. A parte la Carlucci, che ti fa invece il Vespa nazionale? Con la maggior indifferenza possibile ci parla del protagonista- Macbeth- che diventa tenore al posto di baritono così tramutando Luca Salsi da baritono in tenore. Non contento prosegue confondendo gli avvenimenti del secondo atto con il primo. Ma si può? Nessuno che abbia fornito a Vespa, vista la sua poca cultura operistica, una velina di carta con qualche informazione? E che necessità c’era di chiamarlo alla Scala? Di critici musicali s’è persa la stirpe? 

Tornando, comunque, alla regia, l’opera si apre con un Macbeth che torna dalla guerra, insieme a Banco, su una macchina di media cilindrata e ci torna, non già fornito, vista la rappresentazione di un tempo più o meno attuale, di un Kalashnicov bensì di una bella spada. A questo punto, l’unica spiegazione logica da dare sulla presenza di detta alquanto anacronistica arma è quella di un Macbeth di ritorno, piuttosto che da una guerra, da una gara olimpionica, unico posto nel quale possiamo ritrovare, ancora oggi, l’uso della spada.

Ma, andando avanti, arriviamo al fatale incontro, sempre di Macbeth, con le famose streghe che, per l’occasione, sono state abbigliate anni 50-60, tipo “sciure” milanesi e che, anche agitandosi, più che riportarci alla stregoneria ci consegnano al ridicolo; niente però al confronto dei poveri ballerini costretti, dopo, a danzare (si fa per dire) con movimenti da cocainomani in crisi d’astinenza. Sempre andando avanti entra finalmente in scena una florida lady Macbeth- la bella Anna Netrebko- (genere Serena Grandi altro che la spiritata lady) infagottata in un orribile tailleur rosso, riecheggiante la foggia dei presentatori dei circhi equestri e che più brutto non poteva essere. 

Detto questo giungiamo alla trovata scenica più eclatante o meglio da incubo notturno: un claustrofobico ascensore che, nel contesto scenico di cui sopra, andava avanti e indietro, riteniamo nel tempo, e che all’interno del quale avveniva più o meno di tutto, compreso una specie di veloce amplesso tra i due indemoniati coniugi. Inutile dire che il vero incubo lo vivevano i cantanti quando dovevano cantare all’interno di tale aggeggio. Ma tant’è: chi osa parlare innanzi a un Livermore divenuto pare (e togliamo pure il pare) onnipotente signore della Scala. Pertanto, via con le sperticate lodi poiché se osi protestare… addio Scala! Per il qual motivo vediamo ancora la povera lady affrontare la sua micidiale ultima aria sospesa su un cornicione. 

Insomma, come nella favola, l’imperatore è nudo ma nessuno, tranne i fischianti loggionisti, hanno il coraggio di dirlo a Livermore, gli altri… lasciamo andare. Costoro, con ogni evidenza, sono tutti seguaci di quell’enrico Enrico IV di Navarra che, nato protestante, pur di diventare re di Francia, sentenziò: Parigi val bene una messa. In questo caso a valere è forse l’ingaggio alla Scala!

Ma qui, più che una “messa”, ad essere in ballo c’è la sopravvivenza della lirica che ormai, per “merito” di una congrega di registi, i cui reconditi motivi ci sfuggono, ha inteso programmare la distruzione del teatro d’opera. Né altro potrebbe avvenire se costoro continuano a propinare spettacoli tanto orripilanti da far, giustamente, disertare i teatri. Infatti, da abbonata al Teatro dell’opera, dopo l’ondata modernista voluta soprattutto dal già sovrintendente Fuortes, ho dovuto constatare, in quanto a pubblico, dei vuoti imbarazzanti. Se poi la Scala, per la prima, risultava al completo non c’è da meravigliarsi: dopo la carestia da Covid tutto va bene anche un Livermore.

Per concludere, vista anche l’ottima compagnia di canto, questo Macbeth era uno spettacolo da godere ad occhi chiusi. Infatti, tutti ottimi i cantanti anche se la Netrebko, dalla voce sin troppo bella, non avrebbe risposto alle richieste di Verdi che, per la sua lady, suggeriva una voce oscura e inquietante. Insomma una Callas ma… valla a trovare! E di certo, il grande soprano, con il carattere che si ritrovava non si sarebbe mai arresa a un Livermore.

In sintesi, uno spettacolo che può essere così riassunto: un insieme di brutte ferraglie e rappresentazioni di grattacieli anche a testa in giù, all’interno delle quali si agitavano dei signori che, pur cantando bene, poco ci rimandavano alla tragedia shakespeariana e molto ad un incubo notturno dal quale risvegliarsi il più presto possibile.

P.S. Pare che il baritono Luca Salsi, dopo i fischi a Livermore, abbia detto: chi non gradisce questo spettacolo può starsene a casa. A parte il poco rispetto per le idee di un pubblico pagante, ha pensato il buon Salsi che se il pubblico resta a casa lui sarebbe costretto a cambiare mestiere? Inoltre, dei fischi si è risentito anche Livermore dicendo: credono che non sappia mettere in scena un medioevo da cartapesta? Mbé, con il suo permesso, questo pensiero ci ha sfiorato, poiché rendere credibile la cartapesta è molto più difficile dal posizionare tubi e praticabili di ferro o proiettare grattacieli.

Per quanto, poi, mi riguarda rispetto il parere di tutti, soprattutto di quelli che apprezzano le innovazioni ma, vorrei rammentare che, se pur letti in chiave moderna, sono stati prodotti alcuni ottimi spettacoli lirici. Nulla a che vedere con questo Macbeth! 

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