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Le ragioni del bicameralismo mortificate dalla demagogia targata 5 Stelle nell’ignavia degli altri partiti

di Salvatore Sfrecola

Nell’idea del bicameralismo è insito l’intento di differenziare le due assemblee in ragione della rappresentanza dei diversi interessi che emergono nella società, che sono essenzialmente legati all’esperienza degli elettori ed alla loro collocazione territoriale, come sottolineato dalla “Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” (c.d. Commissione Forti, dall’eminente giurista che l’ha presieduta), nominata dal Ministro per la Costituente Nenni. E come messo in risalto dal relatore in Assemblea costituente (Costantino Mortati), con riferimento all’esigenza della tutela degli interessi concreti del Paese che dovrebbero avere tutti la loro rappresentanza.

Nel Regno d’Italia la Camera dei deputati era elettiva, dal 1912 a suffragio universale maschile, e, pertanto, il Governo riceveva la fiducia solamente da quella assemblea, mentre il Senato, di nomina regia (c.d. “Camera Alta”), era composto da personalità di elevata posizione istituzionale o che “con servizi o meriti eminenti” avevano “illustrato la patria” (art. 33, n. 20, dello Statuto Albertino), sicché la Camera rivestiva una netta prevalenza anche nella legislazione. Infatti, “ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato, sarà presentata prima alla Camera dei Deputati”, come si legge nell’art. 10 dello Statuto.

La Costituzione della Repubblica ha scelto un’altra strada. Ha previsto, in origine, una differente durata delle due assemblee (cinque anni la Camera, sei il Senato), l’elezione del Senato “su base regionale” (art. 57, comma 1) e che per questa assemblea gli elettori dovessero avere venticinque anni e gli eleggibili quaranta. 

Queste norme sono state poi cambiate. La prima riforma ha riguardato la durata delle due assemblee, unificata in cinque anni (art. 60 Cost.). Di recente (avrà effetto dalla prossima legislatura) è stato eliminato il riferimento, contenuto nell’articolo 58, agli “elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età, allargando in questo modo la platea dell’elettorato attivo del Senato. L’obiettivo è stato quello di “svecchiare” il Senato, garantendo diritto di voto a chi diventa maggiorenne, così uniformandosi all’elettorato attivo di Montecitorio. Rimane, invece, il limite dei quaranta anni per essere eletto senatore.

È stata, a nostro avviso, una iniziativa del tutto demagogica, del tipo “reddito di cittadinanza” concesso senza pretendere dai beneficiari della erogazione una minima prestazione di pubblica utilità (concetto che dovrebbe essere implicito nel concetto di “reddito”, un compenso), una riforma che non considera che il corpo elettorale è variegato, come variegati sono gli interessi che provengono dalle categorie che compongono la società e dalla appartenenza ai territori. Infatti, la differenza di età nell’elettorato attivo, seppure minima (sette anni), teneva conto dell’esperienza degli elettori, immaginando che in coloro che sono chiamati a votare per il Senato avrebbe influito la maggiore esperienza negli studi di carattere professionale e nel lavoro, mentre l’elezione su base regionale, avrebbe dato voce alle istanze dei territori, dall’ambiente alle diversità storiche e culturali, compresa la tutela delle minoranze linguistiche, e produttive proprie di questo nostro straordinario Paese. 

Un primo colpo a questa visione realistica delle diversità territoriali è venuto dalla riduzione del numero dei parlamentari che, come è stato oservato, limiterà la rappresentanza di alcuni territori e, conseguentemente, delle minoranze. Lo si è spiegato in ogni modo, ma lo slogan del risparmio dei “costi della politica” ha condizionato anche l’iniziativa di partiti nell’ambito dei quali ampio è stato il dissenso ma che non hanno avuto il coraggio di votare contro in Parlamento né di assumere, in occasione del referendum confermativo, un atteggiamento critico, anche in relazione alle iniziative assolutamente trasversali che puntavano al NO.

In tali condizioni trovano alimento le tradizionali critiche al bicameralismo perfetto, paritario, un duplicato periodicamente accusato di rallentare i tempi della legislazione. Cosa assolutamente non vera, come dimostra il fatto che, quando si è voluto, norme importanti sono state discusse ed approvate in pochi giorni. Perché i tempi dell’attività parlamentare sono dettati dalla politica, dall’intesa che si raccoglie intorno ad una iniziativa. Se c’è accordo, l’iter è veloce, se non c’è o è difficile ricercarlo i tempi sono lunghi.

In ogni caso la critica al bicameralismo trascura l’effetto della doppia lettura sulla qualità della legislazione, come aveva segnalato la Commissione Forti e come è nella consapevolezza di tutti coloro che si occupano di politica istituzionale. L’esperienza ci dice che spesso l’esame di un testo normativo già approvato da una Camera si svolge sulla base di qualche ulteriore riflessione emersa dalla più ampia conoscenza del testo da parte dell’opinione pubblica, dai commenti della stampa, dalle osservazioni delle categorie interessate e degli esperti. Con la finalità di integrare, modificare e correggere. Perché a volte si può sbagliare e allora nel tempo che passa tra la decisione della prima e l’esame della seconda Camera possono emergere errori od omissioni. Accadde, infatti, spesso che il testo varato dal governo o presentato dal singolo parlamentare non sia stato adeguatamente discusso e pertanto possa presentare criticità applicative. È accaduto spesso che la seconda Camera sia intervenuta a rimediare gli errori della prima. Ricordo che, nel corso della campagna referendaria sulla riforma costituzionale proposta dal governo Renzi, in un dibattito televisivo fu fatto notare ad un parlamentare ostile al bicameralismo che una norma, appena approvata, non andava bene. La sua risposta fu lapidaria: “convengo; nessun problema, la modifichiamo nell’altro ramo del Parlamento”.

Tuttavia, pur favorevole al bicameralismo sono del parere che hanno ragione coloro i quali vorrebbero un bicameralismo significativamente differenziato, con accentuazione del riferimento territoriale del Senato quale espressione delle realtà locali, non quale “dopolavoro dei consiglieri regionali”, come qualcuno ha scritto a proposito della “riforma Renzi”. Così è stato proposto che talune funzioni possano essere prevalentemente esercitate da una delle Camere. In particolare, che la funzione di controllo politico sia concentrata prevalentemente nel Senato. Ripartizione non semplice, ovviamente, in quanto non si potrà escludere che un deputato possa interrogare il Governo su una questione di interesse politico o dei territori nei quali è eletto.

La politica deve darsi carico di questi problemi di funzionalità del Parlamento, pena la perdita del ruolo proprio della rappresentanza parlamentare. Come è accaduto per la legge di bilancio approvata alla vigilia del 31 dicembre. Legge approfondita solamente da una Camera che, peraltro, l’ha approvata sulla base di ripetuti voti di fiducia che hanno reso inemendabile il testo. È un problema grave, un virus della democrazia parlamentare in un tema, quello del più importante dei documenti politici, il bilancio dello Stato, il piano annuale di sviluppo delle politiche pubbliche, perché il documento che, in effetti, è del governo non viene che minimamente emendato ad iniziativa dei parlamentari. Il Prof. Michele Ainis, costituzionalista insigne, da sempre attento ai diritti ed ai doveri della politica e alla funzionalità delle istituzioni parlamentari ne ha scritto (“Il bicameralismo imperfetto”, La Repubblica del 31 dicembre) osservando come “per il terzo anno di fila, la legge di Bilancio ha sbilanciato il Parlamento. In teoria dovrebbe essere discussa (e poi emendata) da ambedue le Camere; in pratica, decide una Camera soltanto, mentre all’altra non resta che applaudire. Perché non c’è più tempo, a meno di precipitare nell’esercizio provvisorio del bilancio”. Ed ha suggerito l’esame congiunto delle Camere richiamando una proposta avanzata da Enzo Cheli. In questo modo si risolverebbe certamente un aspetto, quello dei tempi della discussione parlamentare, non quello degli emendamenti o di un eventuale errore sempre possibile in un documento complesso come il bilancio di previsione. Ad esempio, in materia tributaria discriminando o danneggiando ingiustamente categorie con effetti negativi sulla stessa gestione o sull’occupazione in settori vitali o sensibili: si pensi al turismo e all’indotto. Questo perché la legislazione di bilancio è particolarmente complessa, anche a seguito della soppressione della “legge di stabilità” (già “legge finanziaria”) alla quale era rimesso il compito di modificare la legislazione sostanziale presupposta dagli stanziamenti di spesa e di entrata indicati nel bilancio che era considerato una legge solamente “formale”, quindi non idonea a modificare le leggi di spesa e tributarie. 

Una alternativa si potrebbe rinvenire nella concezione del bilancio come atto del governo, che le Camere potrebbero esclusivamente approvare o respingere. In questo secondo caso si aprirebbe una crisi di governo, considerato che un voto negativo dovrebbe necessariamente coinvolgere anche la maggioranza che lo sorregge. Ipotesi del tutto teorica in quanto il Governo ricorrerebbe al voto “di fiducia”. Se, invece, il bilancio fosse approvato nel testo del Governo sarebbe escluso il concorso della minoranza, che tuttavia potrebbe anche giovarsene sul piano elettorale.

Il fatto è che la democrazia parlamentare non è facile. Esige una solida cultura di governo e una dialettica parlamentare improntata a responsabilità dei singoli e dei partiti. Secondo antiche tradizioni, del Regno Unito ad esempio, le cui cronache parlamentari non ci raccontano delle difficoltà del nostro bicameralismo. E sì che sulle rive del Tamigi la più antica democrazia parlamentare si basa su un bicameralismo differenziato, tra Camera dei Comuni e Camera del Lords. Non a caso il Conte di Cavour si soffermava sovente ad assistere alle sedute parlamentari, a Londra come a Parigi, affascinato dalla serietà dei dibattiti e dall’argomentare dei grandi oratori di quelle assemblee, dall’inglese Sir Robert Peel, esponente del torysmo, ai francesi Francois Guizot, l’autore “Della Sovranità” e Adolphe Thiers, il grande sostenitore della monarchia parlamentare all’inglese. Nomi molto probabilmente sconosciuti a gran parte degli inquilini di Palazzo Madama e di Palazzo Montecitorio.

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