di Salvatore Sfrecola
Mentre impazza il “totopresidente” e i giornali si soffermano a considerare il cursus honorum dei possibili candidati, di quelli già noti e degli altri che al silenzio affidano le loro chance, nessuno si chiede quale potrà essere il rapporto del futuro Presidente con la maggioranza che lo avrà eletto o che sarà determinante nella sua elezione, ancorché decisa da un più ampio concorso di forze politiche. Perché il Presidente – Capo dello Stato non è, e non è mai stato nella realtà, estraneo alla sua provenienza politica. E non potrebbe esserlo, perché una personalità di una qualche caratura che ha militato per anni in una forza politica assumendo in essa anche significative responsabilità parlamentari o governative non può improvvisamente diventare quel personaggio neutro e neutrale di cui leggiamo sui libri di diritto costituzionale, che si limitano alle interpretazioni delle norme contenute nell’art. 87 della Costituzione, che delineano le attribuzioni del Capo dello Stato. A cominciare da quella di “rappresentante dell’unità nazionale” che parte della dottrina interpreta come rappresentante dell’opinione pubblica e dei suoi valori. Per parlare in nome del Paese e recepirne gli orientamenti o, piuttosto per influenzarli. Lo farà nella prospettiva della “sua” maggioranza o in contrapposizione ai partiti e alla maggioranza in carica.
Non bisogna trascurare, infatti, che già alcuni presidenti, da Pertini a Cossiga a Ciampi si sono fatti protagonisti di una volontà popolare interpretata o presunta che indubbiamente condiziona il ruolo della maggioranza di governo che potrebbe essere diversa, anche molto diversa da quella che lo ha eletto o che ha concorso ad eleggerlo, considerato che il settennato presidenziale attraversa ordinariamente almeno due legislature.
Questo il Presidente può fare il vario modo, non solo attraverso il potere di messaggio alle Camere, ma soprattutto in quell’attività quotidiana della quale la stampa dà conto spesso senza collocarla all’interno di un indirizzo presidenziale che non è un indirizzo politico, perché sappiamo che non è del Presidente della Repubblica che, infatti, non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (art. 90 Cost.), ma che identifica un indirizzo culturale che influisce sulla vita politica. Questo il Presidente fa in vario modo, intervenendo con messaggi ad iniziative culturali o rievocative di eventi storici, attraverso colloqui o visite che effettua o personaggi che riceve al palazzo del Quirinale. È evidente, per fare un esempio banale, che Sergio Mattarella è stato espressione di una cultura democratica cattolica che non ha mai sposato fino in fondo il liberalismo risorgimentale e nazionale. Basti pensare alle celebrazioni del centenario della fine della prima guerra mondiale che simbolicamente è stata tenuta a Trieste, città che ha costituito nell’immaginario di chi ha voluto e partecipato alla guerra, l’obiettivo, insieme a Trento, del completamento dell’unità nazionale. Ma è anche vero che il Presidente non ha evocato mai ad esempio, con la profondità che sarebbe stata necessaria, il completamento dell’unità nazionale che quella guerra che, costosa in termini di vite umane, mirava a perseguire. E allo stesso tempo costituiva anche una scelta di campo dell’Italia che aveva abbandonato la Triplice Alleanza, con gli imperi d’Austria e di Germania, per entrare nella Intesa alla quale partecipavano le potenze mediterranee. Un fatto che era stato indicato come necessario dal grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel per un Paese che vive sul mare e che aveva colonie come la Libia o l’Eritrea che dovevano essere alimentate via mare.
Quanta differenza fra la celebrazione italiana del centenario del 1918 e l’analoga cerimonia che a Parigi, per iniziativa del Presidente Macron, ha portato decine di Capi di Stato, anche di paesi che non avevano partecipato alla prima guerra mondiale.
Poi ci sono dei momenti essenziali del ruolo del Presidente che i giornali, pur segnalando questo o quel possibile eletto, non si chiedono come saranno gestiti. Ad esempio la Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura che da ultimo è stata interpretata, almeno così è parso a gran parte dell’opinione pubblica, come onorifica, sostanzialmente notarile, nonostante l’importanza del ruolo dell’organo che gestisce momenti fondamentali del funzionamento della magistratura, come quello dell’assegnazione dei candidati a funzioni di vertice degli uffici giudiziari spesso decisa sulla base di negoziati tra politici ed esponenti delle correnti della Magistratura, come abbiamo saputo dalla “vicenda Palamara”.
Perfino quando concede la grazia, commuta le pene o conferisce le onorificenze della Repubblica il Presidente fa politica. Eppure nessuno ne parla.