di Salvatore Sfrecola
Una cosa è certa, Mario Draghi non è Cincinnato e neppure Giuseppe Garibaldi. Il generale romano, risolti i problemi di sicurezza dell’Urbe che era stato chiamato a tutelare, tornava a coltivare i propri campi; Garibaldi, generoso combattente per la libertà dei popoli e l’unificazione d’Italia, riposta la spada dopo ogni missione, tornava a Caprera.
Mario Draghi di tornare a Città della Pieve, sulle rive del lago Trasimeno nell’amena verde Umbria, non ha nessuna intenzione. Ed è evidente che aspira al Quirinale e si attiva per ottenerlo. Ed allora la conclusione più plausibile è che qualcuno, nel consegnargli Palazzo Chigi, invitandolo ad assumere in un momento delicato e difficile la responsabilità del governo, deve avergli detto, per convincerlo, che, alla scadenza del mandato di Mattarella, avrebbe potuto prendere il suo posto.
Ed allora vanno ridimensionate le argomentazioni di quanti chiamano in causa la Costituzione ed i poteri del Presidente della Repubblica per dire che non si può, nel votare Draghi, chiedergli di dare assicurazioni ai “grandi elettori” o meglio ai partiti, sulla formazione del governo che verrà dopo di lui. Ipocrisie, perché dal suo odierno atteggiamento si deduce che gli è stato promesso o fatto intendere che “salvata l’Italia” da Palazzo Chigi sarebbe stato votato per il Quirinale. Sicché in un “patto tra gentiluomini” può promettere ai suoi elettori chi, da Presidente della Repubblica, designerebbe come suo successore.
In ogni caso, poiché il lavoro di Draghi non è finito a Palazzo Chigi, possiamo avere una ulteriore certezza, quella che non somiglia a Cincinnato né a Giuseppe Garibaldi. Né a quanti si sono impegnati per l’Italia in pace e in guerra senza nulla chiedere ritenendo che fosse sufficiente soddisfazione aver servito la Patria.